Origini delle Religioni

GIULIO CAMILLO DELMINIO

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CAT_IMG Posted on 19/8/2012, 20:38
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Giorni fa , in un pub del bolognese , ero a un tavolo con circa 15 libri ,,, si avvicina una congrega
di dandy , pupe e pupi , che mi conoscono di fama e che mi giudicano da un punto di vista mediaset

" ma ora di cosa ti occupi ? "

" una setta di stregoni alchimisti del basso medioevo mi sta contattando attraverso lo spiritismo
perchè io ritrovi un testo di alchimia , testo che ha poi ispirato molti scrittori , in ultimo Lovecraft
con il Necronomicon .

testo che risulta importante anche per individuare l' ubicazione di un Mithreo in Bologna,
luogo legato ai tunnel segreti sotto Bologna che furono utilizzati da questa setta e da altre sette ,,,

tra cui , forse , gli Apofasimeni ,,,,, in ultimo
dai Massoni della Loggia Concordia nel 1848 , di cui abbiamo testimonianze documentali ,,,,
questo fa parte del mio compito Karmico , ovvero preparare la strada all' Anticristo . "


Poco dopo ho potuto continuare consumazione e studi in assoluta solitudine .







http://consulenzaebraica.forumfree.it/?t=51907412





Non so ancora quando , ma posterò degli aggiornamenti che ritengo a dir poco notevoli , riguardanti il soggiorno di Camillo e

Agrippa in Bologna e i presunti contatti che ebbero con i Ribelli.

Tutto gira intorno a una copia de " Il Libro del comando " , databile fine 600 , che ho a disposizione.

Il libro è sempre stato attribuito ad Agrippa e molti studiosi lo ritengono la base sulla quale

Lovecraft ha immaginato il Necronomicon.




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http://it.wikipedia.org/wiki/Giulio_Camillo_Delminio

http://venezia.myblog.it/archive/2010/04/1...-di-theatr.html



www.treccani.it/enciclopedia/camill...io-Biografico)/





CAMILLO, Giulio, detto Delminio


Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 17 (1974)


di Giorgio Stabile



ANNO DOMINI 1480





CAMILLO, Giulio, detto Delminio. - Nacque nel Friuli circa il 1480, sul luogo di nascita i biografi propendono per Portogruaro, ma va ricordata la testimonianza, circostanziata, di G. Cesarini (Dell'origine del castello di S. Vito, Venezia 1771, p. 66) che lo vuole nato nel castello di Zoppola, sito nel feudo degli omonimi nobili, "quattro miglia" da San Vito di Tagliamento (tra Pordenone e Portogruaro) dove il C. si sarebbe ben presto trasferito.

Secondo F. Patrizi il cognome Delminio deriva dall'origine dalmata (Delminium:antica città della Dalmazia) del padre. Quest'ultimo, trovatosi coerede d'una ricca ma troppo numerosa famiglia della Croazia, si sarebbe portato in Friuli, in qualità di "Pievano sostituito di Villa" (Castelvetro). Sembra che il nome imposto originalmente al C. fosse quello di Bernardino.

Mandato a Venezia, scarso di fortune e nella speranza d'una professione, il C. vi intraprese i primi studi di umanità, forse proseguiti con Nicolò Dolfin, che sappiamo conobbe in occasione del suo primo incontro con Girolamo Muzio. Passò in seguito - per la parsimonia paterna e l'aiuto d'un mercante fiorentino amico del padre - presso lo Studio di Padova ma forse senza ottenere la laurea. Tornato a Venezia (presumibilmente nei primi anni del '500) e a quanto pare già interessato agli studi di cabala e di filosofia ermetica, entrò nell'ambiente degli Asolani, se è vero che quella fu l'occasione in cui Erasmo, allora a Venezia per la stampa degli Adagia, divise col C. più d'una volta il letto ("cum Iulio Camillo me nonnumquam eadem iunxit culcitra", Opus epistolarum Des. Erasmi, XI, Oxonii 1947, p. 177).


Ma lo stesso Erasmo ricorderà il C. operante a Roma, in qualità di oratore, accanto a Tommaso Fedra Inghirami e di questo "aetate minor, sed eloquendi viribus maior". Tale presenza del C. andrà posta nel 1509 in concomitanza con Erasmo. A Roma il C. era sicuramente nel 1519, dove presenziò in Campidoglio all'orazione tenuta da Celso Mellini contro Christophe de Longueil (16 giugno), in compagnia - tra gli altri - di Egidio da Viterbo (Th. Simar, Ch. de Longueil, Louvain 1911, pp. 66-69).

In questi anni, inoltre, il C. era stato chiamato dalla comunità di San Vito come professore di eloquenza (o di logica) nella locale accademia e in seguito a Udine come maestro di umanità. Qui ebbe tra i suoi scolari Cornelio Frangipane e Cornelio Musso "che ebbero una sua Rettorica a penna". Tutto ciò avveniva prima del 1520, quando il C. aveva ormai stretto solidi legami con l'ambiente umanistico friulano e veneziano. È segnalata peraltro la sua partecipazione all'Accademia pordenonese di B. Viviani e a quella degli Apparenti di Carpi (ma quasi certamente in periodo più tardo).

In questi anni (e già - sembra - dal soggiorno a San Vito) matura, sulla spinta dei suoi interessi retorico-oratori, mnemotecnici ed ermetico-cabalistici, dapprima l'idea d'una enciclopedia delle scienze organizzata secondo l'armonia del corpo umano e, infine, l'idea di un teatro, di un vero teatro ligneo - in scala ridotta - di stile vitruviano, come proiezione reale dell'arca della memoria.

In esso il C. intendeva rappresentare, per "luoghi" materiali, una vera topica o alfabeto universale comprensivo di tutte le arti e le scienze, che, visualizzate per mezzo di simboli e memorizzate in cartigli distribuiti in sette ordini o gradi, avrebbero costituito una summa paradigmatica dello scibile e una via spedita a cogliere e impossessarsi di ogni più minuta nozione.

Questo "edificio della memoria" avrebbe dovuto rappresentare in una visione unitaria la serie organica e armonica dell'universo, cabalisticamente suddiviso in mondo sovraceleste, celeste e sublunare. Sefirot e idee platoniche avrebbero costituito i "luoghi eterni" della memoria, i veri modelli primordiali della retorica garantiti dalla ontologia misterica.

Come si vede, il C. inseguiva il sogno di unificare cose parole e arti in una enciclopedia del sapere, ch'egli intendeva proiettare ad extra in una memoria materializzata nelle forme d'una "fabrica" artificiale e organizzata in un sistema di luoghi rigorosamente ordinati. Questa sistemazione dello scibile, condotta secondo i principi della retorica classica e della memoria artificiale, doveva costituire per il C. la novità mirabile ed arcana, la chiave universale con cui attingere con somma facilità ogni linguaggio e ogni scienza. Alla costruzione e al perfezionamento, mai concluso, di tale "fabrica" il C. impegnerà tutta la vita, alla ricerca continua del concreto patrocinio di un mecenate.

Il patrimonio d'esperienze letterarie e retoriche che una tale impresa richiedeva gli procurò una lettura di umanità (o di retorica), come sembra, a Bologna, sebbene i Rotuli dello Studio non registrino il suo nome (si trattò forse di una lettura svolta privatamente o in uno degli Studi minori, come Reggio o Modena). A Bologna il C. è infatti nel 1521 dove chi intorno a sé il giovane Agostino Abbiosi e un "gentilhuomo et castellano del Friuli".

Qui è ancora nel 1522 e nel 1523 di dove spedisce al Bembo - che lo ringrazierà in una lettera del 16 novembre - una copia manoscritta del Novellino e di rime duecentesche (che il C. fece trascrivere una seconda volta per il furto subito della prima) e che finirà poi nella biblioteca di Fulvio Orsini e di lì alla Biblioteca Vaticana (cod. Vat. lat. 3214, ff. 1-87v: Cento novelle antiche; ff. 88v-170v: "Rime", poi edite in Rime antiche italiane, a cura di M. Pelaez, Bologna 1895, cfr. pp. VII-XIV). Nel sett. 1524 a Padova, dove si incontra con M.A. Flaminio e R. Amaseo, mentre ancora da Bologna scriveva al Bembo il 16 maggio 1525 d'essere in procinto di raggiungere Genova per i primi di giugno.

A Genova sappiamo che il C. fu, quell'estate, ospite di Stefano Sauli assieme al Flaminio e S. Delio. Anzi, a credere alla testimonianza di Sebastiano Fausto da Longiano (dedicatoria al Sauli, in Cicerone, Orationi, II, Venezia 1556) fu proprio nella casa del Sauli, posta "in quel piacevolissimo colle sopra il mare", che il C. "ritrovò, principiò, e terminò con la scorta del giudizio di V. S. la Fabrica... del suo Teatro".


Se è vero che il teatro fu segnalato nelle più diverse località, è ben probabile che il C. l'avesse più tardi trasferito a Genova, allorché iniziò i suoi viaggi alla corte di Francia dopo la parentesi bolognese.

È forse negli anni bolognesi che l'iniziale tirocinio stilistico su Cicerone, Virgilio e Petrarca, soprattutto, sera convertito definitivamente in un'opera assidua di scomposizione dei maggiori testi italiani e classici in "semplici et copulati si latini, come volgari", disposti poi "secondo l'ordine dell'Alfabeto". Sappiamo che il C. s'era dato a una minuziosa "anatomia" di Cicerone, e che intendeva compilare una sorta di dizionario analogico di tutto il sapere.

È questo il "libro" tante volte confuso con il teatro, e del quale doveva costituire la traccia. Il C. era, inoltre, alla ricerca del modello unificante di un tale lemmario universale, in grado di offrire, in osservanza alle regole mnemotecniche, una serie ordinata di luoghi per la memoria.

E quel modello, dapprima ricercato nelle categorie ciceroniane e poi nel sistema di Metrodoro di Scepsi (cioè nei "dodici segni del cielo" suddivisi in "trecento sessanta luoghi secondo il numero de' gradi"), fu in seguito da lui ritrovato (così almeno nel momento in cui ne scriveva in una lettera, databile in questi anni, a M. A. Flaminio) nel corpo umano, armonico "microcosmo", alla cui dissezione per mano d'un "anatomista" (Berengario da Carpi?) aveva per due volte attentamente assistito.

Ed è proprio a Bologna che certo lo stesso "eccellente anatomista" gli aveva suggerito il "modello della eloquenzia" allorché, immerso in un fiume un corpo chiuso in una cassa "tutta pertugiata", l'aveva estratto privo di carne quando ormai mostrava, nelle ossa e nei nervi, i "meravigliosi secreti della natura" ("Così fatto corpo, dalle ossa sostenuto, io assomiglio al modello della eloquenzia, dalla materia e dal disegno solo sostenuto").



Viaggiatore instancabile, il C. nell'aprile 1528 è sicuramente a Venezia prossimo a partire per Portogruaro. Nell'ottobre è a San Vito presso i "vecchi amici", ma già è pronto a ritornare a Portoguraro e di lì a Venezia. Questi continui spostamenti in territorio veneto sono forse da riferire a una fase di febbrile approntamento del suo teatro. Nell'aprile del 1529 è infatti occupato a San Vito negli studi e in "magre" fatiche ("non mi danno in punto, quello che io voglio") e in luglio è già a Venezia.

Di qui si riporta ancora in Friuli, a Gemona, dove il 25 ott. scrive una lettera all'Aretino. Nel febbraio 1530 lo troviamo a Bologna dove assiste alla duplice incoronazione di Carlo V (22 e 24 febbraio) e si tiene pronto a ritornare nel Friuli dove intende "mostrare ad alcuno che a torto mi fa ingiuria" (il suo teatro era ormai ben noto negli ambienti dotti, oggetto di feroci derisioni e di lodi incondizionate) per poi partire alla volta della Francia.

Questo viaggio segnò il momento di maggiori speranze per il C.; tutto preso dalle segrete macchinazioni del suo teatro e assillato dalle continue spese, egli è pronto a svelare al re di Francia ogni cosa e a trarne i tanto attesi compensi. Francesco I infatti era ormai al corrente del singolare progetto del Camillo. Un peso, in ciò, ebbero le informazioni del residente francese a Venezia Jean de Langeac e di quello successivo, Lazare de Baif che ne scrisse alla regina madre; né va dimenticata la presenza a corte di un vecchio amico del C., Benedetto Tagliacarne (il Theocrenus umanista), precettore dei figli del re. Approfittando d'un viaggio in Francia dell'amico Muzio al seguito del conte C. Rangoni, il C. si unì a loro, ch'erano a Modena, e partiva di lì il 18 maggio 1530.

Prima destinazione è Saint-Jean-de-Luz, ai piedi dei Pirenei, dove corte e nobili affluiscono nel giugno per accogliere i figli di Francesco I di ritorno dalla prigionia. Il C. e il Muzio sono costretti a un soggiorno in una casa di pastori che più tardi sarà rievocato nei toni d'un arcadico ozio letterario.

Trasferitisi a Parigi con la corte, rimangono in attesa tra i festeggiamenti per il matrimonio del re e un certame letterario con l'Alamanni. Infine, per i buoni uffici del card. Giovanni di Lorena e del Montrnorency, gran maestro di Francia, il C. ottiene udienza, presenti il gran maestro e il Muzio.

Se quest'ultimo ricorderà con ammirazione l'incontro, parlando del famoso "libro" ad apertura del quale il C. dette agio a Francesco di ritrovare i luoghi per parlare su argomenti e concetti i più peregrini, l'Alciati, allora in Francia, descrisse i contatti del C. (lettera al Calvo, Bourges, 3 sett. 1530, cfr. P. Burman, M. Gudii et C. Sarravii epistulae..., Lugd. Batavorum 1711, p. 109) come quelli di un millantatore un po' intrigante ("Vereor ne in fabulam res transeat", concludeva).

Il C. avrebbe promesso al re, a condizione del più stretto riserbo, di renderlo sia in greco sia in latino oratore e poeta pari ai più celebri antichi, impiegando una sola ora al giorno per brevissimo tempo, il tutto per 2.000 scudi d'oro annui. Di fatto, dopo due incontri, il C. ne ottenne 600 per ritornare in patria, con l'impegno di portare a termine il teatro ad esclusivo godimento del re. Il forzato silenzio a cui in seguito il C. si sentirà legato non si spiega se non con la precisa richiesta di prelazione sul "brevetto" da parte di Francesco I, a cui una questione di "scienza curiosa" dovette apparire del più grande interesse. Il C. parte subito per Venezia con l'impegno di far ritorno a Parigi.

Èin questi mesi - quasi certamente quando ancora è in Francia - che il C. interviene tra i primi nella polemica sollevata dal Ciceronianus di Erasmo (1528, il nome del C. ricorreva nell'opera accanto a quello di Tommaso Fedra Inghirami: cfr. Opera omnia, I, 2, Amsterdam 1971, p. 637). L'operetta è un Della Imitatione circolata manoscritta fino alla morte del C. (sarà edita, priva della parte iniziale, in Due trattati dell'eccellentissimo M. Iulio Camillo: l'uno delle Materie... l'altro della Imitatione, Venezia 1544, e, come tale, ristampata più volte) e nata non già come trattato, ma come un'orazione a Francesco I. Essa fu scritta in concomitanza con l'aspra Oratio di Giulio Cesare Scaligero contro Erasmo (pubblicata nel 1531 ma già circolante a Parigi dal 1529), il che creò equivoci sulla reale paternità di quest'ultima, che Erasmo continuerà a ritenere parto anche del Camillo.

Nel Della Imitatione ilC. rivendica "il secolo di Cicerone e di Cesare", quale culmine della maturità della lingua e dell'eloquenza latina, e valido modello di imitazione. Un'imitazione tesa essenzialmente ad esemplare la struttura "topica" dell'autore e non banalizzata a semplice "ladroneccio" di usi lessicali. Solo emicleando le "figure topiche", i "lochi" del modello, si potrà per il C. giungere alla corretta imitazione che è assunzione, anzitutto, dell'"artificio", dello schema compositivo e, in via subordinata, delle parole ("E se in alcun modo la imitazione si può trovar nelle parole, certo sarà in queste dell'ordine topico, nel quale potremo imitar l'auttor nell'artificio solamente").

Tanta attenzione all'ordine topico, alla "forma universal" espressa dal secolo d'oro, riportano a quella scomposizione dei modelli classici per figure, luoghi e parole, che il C. andava compiendo per la "gran fabrica" del suo teatro, al fine di "tener collocati e a ministrar tutti gli umani concetti, tutte le cose che sono in tutto il mondo". L'operetta, in tal modo, finisce per suonare apologia della sua contrastata impresa ("so ben io che mi beffano al presente, prima che non veggano altro che parole") che il C. celebra come via spedita all'acquisto delle "dotte lingue" e come fonte di "immortalità" per Francesco I.

Durante questo soggiorno italiano del C. va forse collocata la sua permanenza in casa del conte Rangoni, dove mostrò al Muzio una "apologia" che stava scrivendo "mosso dal bisbiglio che si faceva per Italia contra il suo Theatro". Si tratta con ogni evidenza del Discorso... in materia del suo theatro che il C. dedicò a Gabriele Trifone e "ad alcuni gentilhuomini" (anche questo pubblicato postumo a partire dal 1552 nelle Opere del C.) e dove tornava ancora una volta alla difesa del suo teatro e ai temi retorici ed ermeticocabalistici che ne costituivano la traina.

Nel 1531 Erasmo risponde con l'Opulentia sordida - feroce satira del soggiorno veneziano presso gli Asolani - ad accuse mossegli nell'Oratio dello Scaligero, dietro il cui nome egli crede di riconoscere Girolamo Aleandro e lo stesso Camillo. Per questo cerca informazioni e interpella amici. Nel febbraio 1532 Viglio Zuichem raccoglie notizie sul C. nell'ambiente dei ciceroniani di Venezia e il 28 marzo, da Padova, ne scrive ad Erasmo.

Effettivamente una "Apologia in Ciceronianum" del C. circolava manoscritta (ma si tratterà dell'Imitatione) e l'Egnazio gli ha dato notizie d'un "amphitheatrum" in via d'approntamento per il re di Francia e visibile a pochissimi. Giunto a Venezia il C., Viglio lo raggiunge in maggio e ha modo di visitare finalmente il teatro. Si tratta d'un piccolo teatro ligneo, praticabile da una o due persone, distribuito in vari gradi con simboli e cassettini destinati, evidentemente, a contenere suddivise per luoghi le varie materie dello scibile. Il C. chiama l'opera, tra l'altro, "mentem et animum fabrefactum" o "fenestratum", quanto dire una proiezione materiale dell'animo e uno spiraglio aperto su quanto la mente può concepire e la memoria contenere.

L'occhio dello spettatore coglierà così all'istante, per simboli corporei, il theatrum, lospettacolo celato nella profondità armonica della mente e del cosmo. Se la struttura lignea è pressocché pronta, manca ancora la completa scomposizione per luoghi e nozioni di Cicerone e dei classici. Il C. è sommerso dalle carte, il re preme per avere il teatro e la traduzione francese di tutto il materiale scritto. Allo scopo, in aggiunta al genero Giuseppe Maetano (non sappiamo se e quando il C. contrasse matrimonio) e a un Michelangelo Veneto - che lo aiutano da tempo - il C. ha preso con sé un traduttore e uno scrivano.

Ha già speso 1.500 ducati, ma spera di tornare in Francia con l'opera compiuta. Il ritratto che Viglio fa del C. non è lusinghiero: balbuziente, cattivo parlatore in latino, è dedito animo e corpo alla sua chimerica impresa. Quanto al Ciceronianus si mantiene evasivo: ha scritto molto ma ha dato in luce poche cose italiane per il re (lettere del Viglio a Erasmo del 28 marzo e 8giugno 1532 da Padova, in Opusepistularum, IX, Oxonii 1938, pp. 479 s.; X, ibid. 1941, pp. 29 s.).

Erasmo insiste ironico e indispettito sul C. e l'Aleandro (lett. a Viglio, Friburgo, 5 luglio 1532, ibid., X, pp. 54 s.) e Viglio, assieme a Giorgio Logo (Georg von Logau), torna a visitare il C., venuto da Venezia a Padova, tra la fine d'agosto e i primi di settembre. I due provocano il C. sull'affare dell'Oratio, ma invano; egli contempla il suo teatro, recita il carme latino su di esso da lui dedicato al Bembo e si mostra svagato. Ama semmai ricordare di un libro contabile del padre dove è segnata una cospicua ricompensa per Erasmo.

Sappiamo inoltre che a Venezia il C. era familiare dei Torresani e che s'era dato a dissipare il danaro nel gioco d'azzardo. L'Egnatio lo disprezzava e non mancava di ridere apertamente del suo teatro tra la nobiltà veneziana (lettera di Viglio a Erasmo, Padova, 8 sett. 1532, ibid., p. 98, e p. 125 dov'è la riposta di Erasmo da Friburgo, 5 novembre, che insiste nei sospetti sul Camillo).

Nel frattempo il C. ha contatti epistolari (10lug., 3 e 18 ag. 1532) con l'Aretino - in cerca di favori presso Francesco I - e a lui rivela d'essere "al presente" in Italia per il Tiziano "con gravissimo danno de le cose mie". Il 20 sett. 1532 il C. è di nuovo a Bologna, costretto in letto da un malanno contratto nel marzo precedente. Nel gennaio 1533 è già a Venezia dove ha modo di conoscere Giulio Pflug (lett. a Erasmo, Venezia, 5 maggio, ibid., p. 218). L'8 marzo viene concesso al C., dal governo veneziano, un privilegio decennale per la stampa di un "Petrarca novo con l'artificio [di] Julio Camillo" (M. Sanuto, Diarii, LVIII, Venezia 1901 col. 115). Di qui si porta a Padova e si prepara a raggiungere nuovamente la Francia.

Questa volta il C. parte per un soggiorno assai più lungo. Il 15 maggio è di passaggio a Piacenza per "entrare in cammino" verso Parigi.

La speranza del C. nella liberalità del re sembra a Erasmo vana (lett. a Viglio, 14 maggio 1533, ibid., p. 226)a causa d'una bancarotta che ha lasciato all'asciutto i professori del Collège du Roy. In ogni caso il C. il 23 giugno, a Lione, riceve per mano del re un mandato di 500 scudi d'oro (1.125 lire tornesi) "en don en faveur de plusieurs sciences utilles et prouffitables qu'il doibt faire entendre au Roy" (L. de Laborde, Les comptes des bâtiments du Roi [1528-1571], II, Paris 1880, p. 222;cfr. Catalogue des actes de François Ier, II, Paris 1888, p. 463, che dà la data 28 giugno).

A dispetto di ironie e inimicizie, il C. trova anch'egli, con la promessa di scienze che non si esita a definire utili e vantaggiose, un suo posto nel seguito reale. Il 13 agosto scrive ad A. Altan da Parigi, dov'è in attesa del ritorno di Francesco I da Nizza, per rassicurare i suoi "cari giovani" a Padova che manderà presto danaro. Altro danaro ricevette sicuramente il 18 marzo 1534, con un mandato di 675lire tornesi come sussidio per trattenersi "au service du Roy" e in attesa che quest'ultimo, abbia "ordonné de son estat et pension" (Laborde, II, p. 269, la data è in Catalogue des actes, II, p. 644).Altre 675 lire tornesi riceve, forse il 5 agosto, per soggiornare a Parigi dove il re "luy a ordonné faire residenee" perché avesse modo di "entendre à l'instruction et estude de plusieurs sciences esquelles il est très expert" (Laborde, II, p. 266, Catalogue des actes, VII, Paris 1896, p. 719).

Sono gli anni del nascente Collège du Roy, di stimolanti iniziative culturali, e il mecenatismo di Francesco I patrocina, nonché i castigati filologi, anche gli epigoni più ambigui dell'umanesimo dotto.

Anche in Francia il C. incontrò consensi e resistenze. Gli ambienti protestanti ne apprezzarono l'ispirato fervore e, sembra, la pietà. Giovanni Sturm lo ebbe tra i suoi amici e tradusse per lui, imperito di greco, l'orazione per Ctesifonte di Demostene, mostrandosi interessato ai suoi studi di retorica e mnemotecnica; nella Linguae latinae resolvendae ratio (Jena 1704, pp. 4 s.) accennerà, tra i pochissimi, all'itinerario del C. dal primitivo progetto d'una partizione secondo modelli anatomici della lingua latina, a quello finale - che lo Sturm ebbe modo di valutare da vicino - del teatro come immagine del cosmo (dell'insuccesso dell'impresa, dirà: "Credo causam fuisse quod non adhibuerit adiutores.


Celavit enim rationem suam tamquam mysterium quoddam"). Nel novembre 1533 lo Sturm scriveva al Bucer presentando il C. (in un postscriptum siglato da quest'ultimo) come "vir recondita eruditione, mirabili pietate", chiamato finalmente dal re "magnis promissis et praemiis", dopo un quarantennio vissuto nell'ombra (cfr. Ch. G. A. Schmidt, G.Roussel, Strasbourg 1845, pp. 219s.). Duro fu invece lo scontro con E. Dolet, che il C. già conosceva dagli anni patavini, come segretario di Jean de Langeac.

In uno scambio di lettere tra J. Bording e il Dolet (26gennaio e 22 apr. 1534)appare tutta l'irritazione di quest'ultimo per la ciarlataneria del C. e dei suoi barbari compatrioti, che irretivano il re con molte imposture, a dispetto dei non meno eccellenti dotti francesi. Il Dolet scrisse anche due rabbiose odi contro il C., una delle quali inviata al fratello di Jean de Langeac. A difesa del C. si schierò il segretario di Rodolfo Pio di Carpi, Francesco Florido Sabino (Apologia in M. A. Plauti..., Lugduni 1537) che forse del C. era stato alunno a Bologna.

L'incrociarsi di nuove polemiche spinse il C., agli inizi del 1534, a far circolare una sua manoscritta Pro suode eloquentia theatro ad Gallos oratio, apologia ampia e accurata contro i nuovi nemici parigini (sarà edita solo nel 1587, a Venezia, da G. B. Somaschi, preceduta dagli ottantun esametri dell'Ad Petrum Bembum carmen, che sappiamo che il C. aveva recitato nell'anno 1532 di fronte al Viglio).

Nell'oratio, che per ampiezza e linguaggio ha il tono di un trattato apologetico, il C. non solo ripercorre ampiamente e difende le ragioni dottrinali del suo mirabile progetto, ma offre un quadro amplificato eppure significativo dei suoi fitti rapporti con la società colta di Francia in cui si trovò a operare. Della lunga serie di personaggi da lui ricordati citeremo appena Jacques Colin e Benedetto Tagliacarne, con i quali strinse rapporti di singolare amicizia, e ancora Guillaume du Bellay, Gerard Roussel, Jean de Langeac, Lazare de Baïf, Guillaume Budé e Lefèvre d'Etaples.

Nelle vicende parigine il C. intervenne ancora, in questo periodo, con due Orationi indirizzate a Francesco I (furono edite, una prima volta, come Due orationi di G. C. al re christianissimo, Venezia senza ind. di ed. 1545, e Venezia, V. Vaugris, 1545): la prima scritta per la liberazione del "predicatore" Pallavicino, teologo carmelitano, imprigionato da un anno per "prediche volgari", e la seconda in ringraziamento della ottenuta liberazione (ambedue furono recitate dal fratello del Pallavicino).

Nel frattempo il suo teatro sembra progredisse. Da una testimonianza di B. Ricci - per il cui - Adparatuslatinae locutionis il C. stava interessandosi nel 1534 presso il tipografo Grifio - risulta che il C. aveva portato con sé il teatro alla corte di Francia ("ad Regem cum suo theatro profectus est", in B. Ricci, Epistularum, Bononiae 1560, p. 101). L'altra testimonianza, di J. Bording, secondo cui il C. stava costruendo il teatro in Francia, è difficile da accettare, viste le difficoltà e il tempo che una seconda costruzione avrebbe richiesto. In ogni caso, in una lettera del 1558, Gilbert Cousin parlerà ancora del teatro come cosa da lui vista, anche se la descrizione di esso è palesemente copiata dalle lettere già ricordate del Viglio (Opera, Basileae 1562, I, pp. 217 s., 302-04, 386).

A comprendere quale specie di fama godesse il C. in Francia rimane il memorabile episodio del leone, raccontato dal Betussi (IlRaverta [1544], a cura di G. Zonta, in Trattatid'onore del Cinquecento, Bari 1912, p. 133). Un giorno mentre il C., il Betussi, l'Alamanni, il cardinale di Lorena e altri gentiluomini erano, a Parigi, in visita ad un serraglio, improvvisamente scappò un leone. Tra la fuga generale il C., impossibilitato a fuggire, rimase solo e immobile, "non già per far prova di sé, ma per gravità del corpo, che lo rendeva un poco più tardo degli altri"; con meraviglia di tutti il leone "incominciò andargli d'intorno e fargli carezze, senza molestarlo altrimenti" finché fu catturato, mentre il C. "non per altro fu stimato che restasse sano, se non per esser sotto il pianeta del sole".

L'episodio sarà in seguito inserito nell'Idea del Theatro del C. dove - epurato dell'imbarazzante riferimento alla corpulenza del friulano - assurgerà a simbolo ermetico della mansuetudine dell'animale solare al cospetto del mago. In ogni caso la vicenda dovette far meditare non pochi sulle misteriose virtù di questo stravagante e imprevedibile personaggio.







ANNO DOMINI 1534





Verso la fine del 1534 il C. torna in Italia, al seguito del cardinale Giovanni di Lorena, in occasione del conclave per la morte di Clemente VII. A Roma infatti è in ottobre, dove assiste all'insediamento di Paolo III e sincontra con il Muzio e probabilmente con il Giovio. Riparte alla volta di Venezia preavvisando i vecchi amici friulani, tra cui A. Belloni e il Frangipane, perché corrano ad incontrarlo.

In questo periodo va posta, con ogni probabilità, la visita del cardinale Pole che, chiamato all'Accademia Gibertina di Verona dal Flaminio, si riprometteva di salutare il C. in itinere per presentargli l'ansiosissimo L. Priuli e averlo con loro (R. Pole, Epistularum...collectio, I, Brixiae 1744, p. 425). Nel 1535 il C. è di nuovo in Francia. Il 5 maggio, da Rouen, scrive a Lucrezia Martinenga ("divina donna" che è "nella cima della mia mente") una lunga lettera, che partendo dal tema cabalistico dell'anagramma finisce per diventare un vero "a solo" di erudizione ermetica; dopo alcuni giorni torna a scriverle una lettera ancora più vasta e dotta che sarà pubblicata postuma come Lettera del rivolgimento dell'Uomo a Dio tutta incentrata sul tema platonizzante ed ermetico della deificatio. Il 7 maggio scrive all'Aretino, salutando il Tiziano e nella speranza d'essere in giugno a Venezia.

Il 9 luglio lo Sturm riferisce a Melantone A.-L. Herminjard, Correspondance des réformateurs, III, Genève-Paris 1870, p. 312) le buone notizie su Paolo III avute dal C., mentre il 15 luglio, irritato di una mancata pensione da parte del re di Francia, il Giovio scrive da Roma al nunzio di Francia Pio di Carpi perché si faccia forte presso il C., il cardinale di Lorena e lo stesso re (già in una lettera del 15 febbraio, allo stesso, aveva sbeffeggiato Giovanni di Lorena come ammiratore del teatro del C.: v. P. Giovio, Lettere, a cura di G. G. Ferrero, I, Roma 1956, pp. 142, 160).

È a questo periodo che va riportata la stesura del Trattato delle materie che possono venire sotto lo stile dell'eloquente, concepito dopo il Della Imitatione, e certamente posteriore alla successione di Ercole II di Ferrara (31 ott. 1534). Se infatti l'Imitatione è ancora sotto il segno del re di Francia, il Trattato delle materie è tutta una captatio benevolentiae del duca estense, a cui poi verranno ambedue dedicati, e quando ancora il C. era "trattenuto" in Francia da Francesco I e Giovanni di Lorena, ma forse già desideroso di un nuovo mecenate.

Sulla base della distinzione ciceroniana resverba, ilC. suddivide l'eloquenza in materia, artificio e parole, in quanto materia e artificio rappresentano due aspetti della res: l'una (la materia propriamente detta) che proviene all'oratore dall'esterno, l'altra materia, invece, che sorge dall'"artificio" dell'oratore. Lasciando a "due altre fatiche che a questa... seguiranno" la trattazione di artificio e parole, il C. individua l'origine della materia nella natura, nel caso e nelle arti (sia liberali sia meccaniche).

Ancora una volta il C. si affretta a indicare nei "fonti topici" quegli schemi assoluti con cui l'oratore o il poeta apparecchiano gli elementi della materia ai loro fini, e ben presto la sua attenzione si volge ai vari tipi di luoghi argomentativi, ampiamente esemplificati su testi di Virgilio e Petrarca. Se nel C. poesia e retorica sono tutt'uno e se in lui "è assente ogni considerazione di forme architettoniche" (Weinberg) ciò avviene per il valore assoluto ed esemplare dei loci o modelli della topica, che presiedono indifferentemente alla costruzione d'un discorso tanto oratorio che poetico.

A tale proposito il C. introduceva, memore delle ruote lulliane, l'esempio di un suo "cerchio" o "gorgo" dal cui centro partivano 4 come ruscelli" due serie di sette raggi contenenti ognuna luoghi opposti all'altra. Ma i toni di più abile amplificazione il C. raggiungeva commentando un suo sonetto per la successione di Ercole II ("Sparse d'or l'arenose ambedue corna"), attingendo ai temi dell'aurea aetas e apollineo-solari, e alle suggestioni degli "antichi teologi simbolici".

Completamento del Trattato, e forse databile poco tempo dopo, è La topica, o vero della elocuzione, con cui il C componeva il quadro teorico della propria retorica (sarà stampata, per iniziativa di Francesco Patrizi, solo nel 1560 e, parzialmente, lo stesso anno da G. B. Verdezotto: Topica delle figurate locuzioni, Venezia, Rampazetto). Qui, con più rigore e stile più asciuttamente trattatistico, il C. riprende il tema dell'artificio e della lingua ed enumera le "bellezze dell'eloquenzia" ridotte, manco a dirlo, al "settenario numero" delle "norme" che già gli antichi avevano indicato come parti essenziali di ogni lingua.

Tali parti il C. individua in sette ordini ascendenti, che vanno dalle voces o "semplici" alle locuzioni figurate (voci semplici, voci congiunte senza verbo, locuzioni proprie, epiteti, perifrasi, locuzioni traslate, locuzioni figurate), capaci di sottostare alle "forme del dire osservate dagli antichi" e sempre valide nel loro valore universale. L'esemplarismo linguistico e retorico del C. ne esce ancora una volta confermato, e semmai suggerisce il modello di catalogazione settenaria a cui dovette egli stesso ispirarsi nell'ordinare "gli autori di più lingue" al fine di aver "luoghi certi dove andar a prendere" la proprietà della lingua (cioè le locuzioni) di ciascuno.

Da segnalare che l'edizione a stampa della Topica è incompleta, mancando nella trattazione finale (sulla Topica delle figurate locuzioni) l'ultima sezione riguardante le "locuzioni della comparazione". Una edizione moderna del Della Imitatione, del Trattato delle materie e della Topica ha dato B. Weinberg in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, I, Bari 1970, rispettivamente alle pp. 159-85, 318-56, 357-407 (cfr. anche pp. 599-601, 619-25).

Altre opere minori (anch'esse pubblicate postume e di difficile datazione) il C. dedicò alla retorica e all'insegnamento della lingua. Di rilievo il suo ritorno ad Ermogene (Discorso sopra Hermogene) dove è ancora una volta celebrata la "forma universale" come unico supporto dello stile, mentre brevi prontuari di scuola (forse databili ai primi anni d'insegnamento del C.) sono lo scritto De' verbi semplici e una Grammatica.

Un ritorno del C. in Italia al seguito di Giovanni di Lorena avvenne nel 1536. Nel gennaio èa Bologna mentre nell'ottobre è a Padova o, più esattamente, "in campagna" assieme a B. Varchi e al Molza "per andare a visitar monsig. Bembo" (lettera di Mattio Franceschi a B. Varchi, Roma 23 ott. 1536, in [C. R. Dati], Raccolta di prose fiorentine, V, Venezia 1735, III, 2, p. 86).

E forse durante tale viaggio (o nel 1534-35) che C. fece visita ad Ercole II di Ferrara (nella cui corte era il fedele amico Muzio), con l'evidente scopo di saggiarne le intenzioni mecenatizie. Per l'occasione il duca convocò a banchetto i dotti di Ferrara, lasciando che il C. esponesse il progetto e nella speranza di provocare un confronto, ma i presenti trattennero in cuor loro ogni commento. Lo stesso accadde quando, proseguendo per Roma, ilC. sostò a Bologna ed ebbe l'invito del vicelegato della città (di fronte al suo parlare "artificioso" tutti assentivano "quantunque in loro non capesse quello che egli diceva"). Da Roma tornò in Francia.

Prima della partenza ebbe forse modo di incontrare il Paleario; nel 1537, infatti, quest'ultimo descriverà al Lampridio con pesante ironia il teatro del C., da lui conosciuto a Padova. In questo periodo inizia peraltro l'amicizia con G. Ruscelli, allora "ancor quasi fanciullo" a cui rivelava "d'haver fatto lunghissimo studio sopra di quest'arte di Raimondo" Lullo (G. Ruscelli, Trattato del modo di comporre in versi nella lingua italiana, Venezia 1563, pp. 28 s.). Le segnalazioni per questi anni divengono comunque assai scarse.

La vicenda francese del C. volge al declino. Tormentato da un'impresa senza fine e da spese ininterrotte, deluso dall'ormai giustificata indifferenza del re di Francia e dall'insuccesso con Ercole II, torna in Italia. Il 7 maggio 1538, stanco e malato, scrive "dal letto" all'Aretino e saluta ancora Tiziano. Nel 1539 lo troviamo prima a Milano e poi a Pavia, dove il 1º ottobre scrive al Raverta d'esser pieno di debiti e in miseria, prossimo a partire per il Friuli (Gerardo, f. 85v). Spera, ma invano, nell'aiuto di Francesco Greco (che giace malato per un certo "oro potabile" propinatogli dal C. per ringiovanirlo!) per raggiungere la Croazia, dove l'attenderebbe, morti i fratelli e le sorelle, "l'amplissimo patrimonio a lui per eredità scaduto" (Castelvetro). Di questo nuovo sogno non conosciamo la fine.

Tre anni più tardi, inaspettatamente, lo troviamo a Ginevra. Il 25-28 ott. 1542 Calvino comunica a Viret la presenza prolungata e inquietante del C. ("Habemus hic Jullium Camillum cuius tam diuturna mora nobis nonnihil suspecta"). Egli teme che dietro l'ostentato evangelismo ("liberaliter ore iactat Evangelium") il C. celi "aliquid clandestini consilii", quello forse d'un segreto appoggio agli agenti italiani che braccano l'Ochino (cfr. A.-L. Herminjard, Correspondance..., VIII, Genève-Paris 1893, p. 165).

Che le opzioni cabalistiche, ermetiche e magico-astrologiche del C. lo trovassero attento alle attese nuove degli ambienti riformati non è neppure da escludere. Proprio in questi ultimi anni "s'era tutto dato allo studio de' secreti della natura, et de gli altri misteri della divinità" (Muzio), appuntando i propri interessi all'alchimia e ai temi religiosi.

A Pavia è tuttora un manoscritto alchimistico del C., un De transmutatione (ms. Ald. 59), nel quale si dice tra l'altro di una triplice trasmutazione: "la Divina, quella delle Parole et quella ch'è pertinente alli Metalli". Esso è preceduto da un manoscritto Della teologica disciplina, contenente una "interpretazione dell'Arca del Patto" (cfr. L. De Marchi-G. Bertolani, Inventario dei manoscritti della R. Biblioteca Universitaria di Pavia, I, Milano 1894, pp. 26 s., che segnalano nello stesso codice un altro scritto del C., un'Oratio ad Christum dominum).




Le prime due opere si trovano in altra copia tra i manoscritti della Biblioteca dei gerolamini di Napoli (cfr. E. Mandarini, Icodici manoscritti della Bibl. Oratoriana di Napoli, Napoli 1897, pp. 122 s., cod. cart. 16, e ora P. O. Kristeller, Iter, I, p. 396; II, p. 546; sul manoscritto attirò inutilmente l'attenzione E. Garin, che ne segnalava una copia ulteriore proveniente da casa Sanuto presso la biblioteca del Trinity College di Dublino, cod. Q 3 12, ff. 137-174v). Da una testimonianza di Federigo Altan sappiamo peraltro d'una inedita De l'humana deificazione (datagli in visione da Angelo Calogerà) dedicata dal C. a una sua "figlia" di nome Cornelia (forse fattasi suora in giovanissima età),

nella quale il C. afferma di voler scrivere su "due lunghissime materie di tale altezza" quali la "Cena del Signor nostro Gesù Christo" (il cui "mistero" del suo santissimo corpo a noi dato in cibo rimane aperto") e il "poter de' Santi in cielo" (a cui aveva iniziato a lavorare). Altra notizia dell'Altan è una inedita orazione, in cui il C. parlava di un piano di "sette difese" contro le "ingiurie" mossegli, cioè sette orazioni apologetiche per il suo teatro della memoria (tali mss. sono ora nella Bibl. Comunale di Udine V. Ioppi, Fondo Principale 420, 1423 e 2684; cfr. Mazzatinti, Inventari, III, p. 194; LXXVIII, 125; Kristeller, Iter, II, p. 204).

L'ultima fortuna del C. fu il marchese del Vasto, Alfonso d'Avalos, governatore di Milano. Il Muzio, l'amico inseparabile, ne fu il mediatore.

Egli stesso con arte inimitabile, rievocherà la vicenda: nell'ottobre 1543 durante un colloquio con il d'Avalos, a Mondovì, si viene a parlare del C. e il marchese svela d'essere anch'egli bramoso di apprendere "il secreto del suo teatro". È disposto a pagare, non certo quanto un re di Francia, ma il più che potrà. Il Muzio riceve una lettera da Milano in cui Vincenzo Fedele gli comunica il definitivo ritorno in Italia del C., e il Calvo gli comunica che sarebbe ritornato a Milano di lì a un mese. Passato a Vigevano assieme al marchese, il Muzio è a Milano e s'abbocca con il C., la cosa va in porto. Il marchese informato, e incoraggiato dal Giovio, manda da Vigevano un messo, ma il C. si fa riluttante; non intende spartire nulla con l'infido Giovio ("aveva la lingua sciolta, aveva detto quel che gli era piaciuto di lui").

La condizione è un colloquio col marchese, presente solo il Muzio. Quest'ultimo raggiunge Vigevano, parla con il marchese e il Giovio, combina l'incontro e torna a Milano. Il C., "uomo da villa" qual'era ("o piu tosto un ceppo"), "mal atto a comparire et in usare cirimonie", si presenta con il Muzio a Vigevano e ha i primi incontri col marchese (presumibilmente nel gennaio 1544). I monologhi del C. sul suo teatro sono quelli di un invasato e il Muzio confessa d'avervi assistito non "senza spavento" (il C. pare "rapito in Spirito", posseduto da "una specie di furore quale descrivono i Poeti della Sibilla, o della Profetessa de' tripodi d'Apolline").

La sera della quinta giornata di colloqui (se ne erano decise sette), dopo una trattativa sommessa e fitta tra il marchese e il Muzio, il C. ha partita vinta ("o vero, o non vero, io lo voglio" dirà il marchese). I 300 scudi preventivati diventano 400, con invidioso disappunto del Giovio. In più al C. vengono accordati 500 scudi per trasferirsi un mese a Venezia. Conclusa l'esposizione del teatro nelle due restanti mattine, per due ancora, alla presenza di Ettore di Carpegna, il C. commenterà il primo salmo con la "dottrina di David, Virgilio e Petrarca". Dopo alcuni giorni il C. e il Muzio partono per Milano.




ANNO DOMINI 1544






È a Milano, sulla fine del gennaio 1544, che il C. si decise di malavoglia a metter per iscritto (la richiesta era stata del marchese su istigazione del Muzio) quell'Idea del Theatro cherimarrà l'unica testimoniaza, e neppure di prima mano, sulla tessitura simbolica e sull'ordinamento strutturale della sua fabbrica. Al C. che si sentiva "grave" e "mal atto a scrivere" ne sapeva di chi fidarsi ("haveva seco il genero" cioè Giuseppe Maetano "che gli haveva rubate molte cose, et perciò di lui non si fidava"), il Muzio sofferse come scrivano. In tal modo dormendo in una medesima camera "in sette mattine avanti giorno", il C. "dettando" e il Muzio, "scrivendo", condussero l'opera a termine. In realtà il tòpos iniziatico dello scriba e dell'autore ispirato che detta, e così pure il ritmo settenario in cui anche tale evento viene scandito, gettano un'ombra sull'autenticità di quella dettatura.



Nell'Ideadel Theatro (doveambedue i termini sono nel valore pregnante di "modello esemplare" e di "spettacolo" del cosmo) il C. intende esporre, attraverso la prosa del Muzio, la complessa simbologia e la struttura del suo teatro. Esso doveva innalzarsi in sette ordini o gradi tagliati da sette corsie, ognuna delle quali metteva capo a uno dei sette pianeti, disposti lungo il primo grado. La fuga prospettica partiva (come nel caso del grande teatro di legno costruito dal conterraneo Serlio, nel 1539, a Vicenza) dall'occhio dell'attore posto sulla scena, e che il C. sostituisce con l'occhio del solitario spettatore, proiettato sull'insieme delle immagini disposte sulle gradinate.

L'intero sistema del C. poggia, cabalisticamente, sui sette pilastri della Casa dalla sapienza di Salomone, sette "misure" destinate a ripetersi nel mondo sopraceleste delle sette Sefirot, dei sette angeli e delle idee platoniche (poste idealmente dal C. alla base dei gradini), nel mondo celeste dei sette pianeti (posti al primo ordine dei gradi e ognuno in corrispondenza a una corsia) e nel mondo terrestre-elementare, che si svolgeva dal secondo al sesto grado. Tali gradi, in ordine ascendente, erano ognuno contrassegnato da un simbolo. Il secondo aveva come simbolo il Convivio che, come ricorda Omero, l'Oceano imbandì per gli dei e che per C. indica l'unione delle acque primigenie con le idee dell'archetipo divino. Da tale unione ha luogo la nascita degli elementi semplici (corrispondente al primo giorno della creazione).


Nel terzo troviamo l'omerico Antro delle ninfe, che nella loro industriosa attività simboleggiano la mistione degli elementi e la nascita degli elementata (quiil C. usa del commento cabalistico alla Genesi). Nel quarto abbiamo le tre Gorgoni esiodee, fornite di un solo occhio in tre. Qui l'immagine sta per la creazione dell'"huomo interiore" (dotato, secondo la dottrina cabalistica, di triplice anima) cioè della mens derivata immediatamente da Dio. Nel quinto, il simbolo di Pasifae e del toro richiama l'unione dell'anima con il corpo, e cioè la creazione dell'"huomo esteriore". Nel sesto i Talari di Mercurio simboleggiano "tutte le operationi che può far l'huomo... naturalmente et fuor d'ogni arte".


Nel settimo, infine, il simbolo di Prometeo richiama le operazioni e i commerci umani, oltre quelli naturali, come le scienze, le arti, la religione e la legge. Il C., in tal modo, intende rappresentare in ordine ascendente il procedere e l'espandersi della creazione dell'universo nei successivi stadi, dalle eterne idee primigenie al mutevole esplicarsi delle attività umane. La meditata disposizione della simbologia astrale (che procedeva verticalmente lungo le corsie) e della simbologia mitologica (che si estendeva orizzontalmente lungo i gradi) consentiva al C. il successivo incrociarsi di uno stesso tema astrologico con una serie di diverse figurazioni o emblemi, dando luogo a sempre nuove variazioni e a corrispondenti nuovi significati. Nell'elaborazione di una siffatta simbologia del cosmo, il C. usa ampiamente di temi ermetici, cabalistici e magici.


Egli più volte ricorre al Corpus hermeticum e al nome di Ermete Trismegisto. Dietro le sette "misure" agiscono chiaramente i sette governatori, le sette divinità astrali del Pimander. Così ancora al Pimander riporta la creazione, duplice e successiva, dell'uomo interiore (colmo dei poteri dei sette demoni stellari e derivato direttamente da Dio) e dell'uomo esteriore in cui la mens viene a calarsi. Tale origine consentirà all'uomo del C. di trascorrere lungo i gradi del triplice mondo, fino a profondarsi nell'insondabile "abisso" della sapienza divina.


Né va dimenticata l'adozione delle Sefirot ebraiche (ridotte da dieci a sette in omaggio al rigoroso ritmo settenario del C.), e di altri temi cabalistici (importante quello tratto dallo Zohar, sulla triplice anima umana, la più alta delle quali è dal C. identificata con l'intelletto agente di Aristotele). Se la magia astrale ficiniana è soprattutto presente nella serie centrale del Sole in cui i temi della magia solare trovano uno sviluppo capitale in tutta l'Idea (è in questa chiave che sarà richiamato, e abilmente trasposto, l'episodio parigino del leone), il complesso intreccio di riferimenti pagani, ebraici e cristiani hanno l'inconfondibile impronta di influenze pichiane.


L'arte classica della memoria, col C., entra così pienamente nel mondo dell'occultismo rinascimentale. Le immagini del teatro non sono più semplici ausili della memoria. Esse, sulla scia di Picatrix, dell'Asclepius e di Ficino, diventano veri "talismani interiori" (Yates), ricolmi del potere e dei contenuti astrali e divini che essi, in quanto armoniche contrazioni del cosmo, hanno attratto e carpito. Forse il "mago" C. sognò di assorbire nella simbologia del suo teatro tutto l'insieme dei poteri dell'universo e di reimprimerli, intatti, nell'immaginazione dello spettatore che avesse posto l'occhio alla mirabile fabbrica (la ricostruzione del teatro e dei presupposti dottrinari del C. sono nella fondamentale analisi della Yates; altri importanti chiarimenti forniscono il Secret, in particolare per l'aspetto cabalistico, e il Rossi).

Dopo la dettatura dell'Idea, il C. partì da Milano, alla fine del gennaio 1544, alla volta di Venezia e del Friuli. A Milano fece ritorno presumibilmente nel marzo, e comunque non oltre i primi di aprile. Nella città lombarda fu anche ospite di Domenico Sauli, ai cui figli si dette a insegnare retorica e umanità (uno di essi, Alessandro Sauli, diverrà barnabita e poi santo).



Morì improvvisamente a Milano il 15 maggio 1544.



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Alla morte del C. tutte le sue opere giacevano manoscritte. Lo stesso 1544 sipubblicano i suoi Due trattati, mentre nel 1550 sia a Venezia che a Firenze (ed. Torrentino) viene edita l'Idea del Theatro. Nell'edizione fiorentina il curatore L. Domenichi afferma di pubblicare l'opera "non potendosi anchora scoprire la macchina intera di sì superbo edificio" (il teatro rimarrà infatti introvabile nonostante le continue ricerche). Di alcuni anni più tardi è la testimonianza di B. Taegio (La villa, Milano 1559, p. 71)secondo cui tra le "mirabili pitture" della villa di Pomponio Cotta nei dintorni di Milano, si poteva vedere "l'alta et incomparabile fabbrica del meraviglioso theatro dell'eccellentissimo Giulio Camillo". Ma la descrizione che ne fa, ricalcando tali quali le parole dell'Idea, toglie credito alla testimonianza, o quanto meno sembra essere la traccia interpretativa di una raffigurazione pittorica del teatro, fatta fare dal Cotta.

Quanto agli altri manoscritti del C., pare che in gran parte fossero nelle mani di Giorgio Gradenigo. Essi, infatti, costituirono il nucleo principale per la pubblicazione delle Opere delfriulano. Oltre alla stampa di scritti separati, cui s'è fatto cenno, si dette mano ad una fortunata serie di edizioni veneziane pressoché complete. Nel 1552, Ludovico Dolce si fa editore (per i tipi di Gabriel Giolito de' Ferrari) di un volume di Tuttele opere del C. dedicate a G. Valvasone (in realtà comprendeva solo il Discorsoin materiadel suo theatro, la Lettera del rivolgimento dell'huomo a Dio, l'Idea, i Due trattati delle materie e della imitatione, le Dueorationi, e le Rime, assommanti a 21 sonetti e un'ode).

Due ristampe conformi saranno fatte nel 1554 e nel 1555.Nel 1560, Gabriele Giolito stampa una nuova edizione delle Opere del C. in due tomi. Il primo tomo è conforme all'edizione del 1552, ma con l'aggiunta (pp. 265-311)di 11 sonetti, un'ode a Tullia d'Aragona, il trattato De' verbi semplici e 7lettere. Il secondo tomo (dove l'autore è chiamato "Giulio Camillo Delminio") presenta per la prima volta, e con una entusiastica dedica al conte Sertorio di Collalto di Francesco Patrizi (egli celebra l'"altissimo intelletto" del C., facendosi editore, e pourcause, della sua "meravigliosa" Topica), altri trattati del C., e cioè: la Topica, il Discorsosopra Hermogene, l'Espositione sopra al primoet secondo sonetto del Petrarca, la Grammatica, e due lettere.

Nel 1566-67, Gabriel Giolito ripubblica i due tomi di Tutte l'opere del C., "ristampate et ricorrette" a cura di Tommaso Porcacchi che si sostituisce al Dolce con una dedica ad Erasmo Valvasone. L'edizione, tranne l'aggiunta di una "tavola di cose notabili" nel primo tomo (datato 1567)e di una lettera in calce del secondo (datato 1566), è conforme alla precedente. Ancora Gabriel Giolito, nel 1568, ripubblica una ristampa identica (il secondo tomo porta la data 1565). Nel 1579, accanto a una nuova edizione di Tuttel'opere pressoGiovanni e Giovan Paolo Gioliti de' Ferrari (ma il colophon ha ancora "appresso Gabriele Giolito de' Ferrari") conforme alle precedenti, compaiono anche L'opere di M. Giulio Camillo presso Domenico Farri (il primo tomo esemplato sull'ediz. 1560e il secondo sull'edizione dello stesso anno presso i Gioliti). Da segnalare, infine, l'edizione 1580di Tuttel'opere, pressoi Gioliti (identica a quella del 1579), e l'altra del 1584, presso Alessandro Griffio, identica alla edizione Farri (cfr. S. Bongi, Annali di Gabriel Giolitode' Ferrari, I, Roma 1890-93, pp. 362, 445; II, ibid. 1895-97, pp. 90 s., 235 s., 372 s.).

Dell'attività del C. come interprete del Petrarca va segnalata la copia aldina delle Rime petrarchesche (Le cose volgari di Messer Francesco Petrarcha "impresso in Vinegia nelle case d'Aldo Romano" 1501; cfr. A. A. Renouard, Annali delle edizioni aldine, Bologna 1953, pp. 28 s., n. 5)posseduta dalla Bibl. Ap. Vat., Aldine III, 2. Tale copia, preceduta dall'intestazione a penna Rime del Petrarcacon le annotazioni di Giulio Camillo, è interfogliata e presenta una serie di fitte e minute glosse in duplice grafia, almeno tardo cinquecentesca (dopo il componimento Che fai alma? divengono assai rade).

La vicinanza di tali postille con quelle bembesche all'aldina del 1521 sembra porre un serio problema di priorità tra il C. e il Bembo. Di fatto, alcune assai più brevi annotazioni del C. alle Rime del Petrarca furono edite da Gabriel Giolito, a Venezia, nel 1553 (Il Petrarca novissimamente revisto,e corretto da M. Ludovico Dolce. Con alcuni dottissimi avertimenti di M. Giulio Camillo), ma esse apparvero al Cian (1932)"derivazione parziale, grossolana, mutilata e scorretta" delle postille bembesche all'aldina del 1521. Il Giolito pubblicò ancora gli Avertimenti del C. in aggiunta alle edizioni del Petrarca del 1554, 1557, 1558, 1560, stampandoli anche a parte, e negli stessi anni, come Annotationi di M. Giulio Camillo sopra le Rime del Petrarca (in realtà il grosso dell'opuscolo era occupato dalle tavole e dagli indici del Dolce; cfr. S. Bongi, I, pp. 407 s.; II, pp. 45-47).

Le opere e le rime del C. ebbero inoltre una serie di nuove edizioni parziali e di ristampe in raccolte, mentre amplissima fu la fortuna del C. negli scrittori ermetici e cabalistici tra '500e '600e così pure nella trattatistica e nella cultura figurativa del manierismo.




Cospicuo è anche il numero dei manoscritti del C.; oltre i già ricordati segnaliamo: il poema Davalus scritto in onore del marchese del Vasto e già edito dall'Altan (Bergamo, Bibl. civica, Archivio Silvestri, n. 24); In Ciceronis orationes argumenta (Ferrara, Bibl. comunale Ariostea, II 357, fasc. 2; Milano, Bibl. nazion. Braidense, A C XIII 6); una copia dell'Oratione al Christianissimo Re Francesco (Firenze, Bibl. nazion. centrale, Filze Rinuccini, 17); Alcuni luoghi di G. Camillo in materia di medicina (Milano, Bibl. Ambrosiana, I 204 inf., f. 311, cfr. A. L. Gabriel, A Summary Catalogue of Microfilms of One Thousand Scientific Mss. in the Ambrosiana Library, Notre Dame, Ind., 1968, p. 178;

nella stessa biblioteca da segnalare I luoghi del cod. H 108 inf.); Del senso sottile e lettere (Roma, S. Gregorio Magno al Celio, cod. 844); Discursus circa eius theatrum (Biblioteca Apost. Vaticana, Barb. lat. 4084, ff. 184r-194r, che riporta la redazione italiana del Discorso in materia del suo theatro con, in calce, un lungo brano eliminato nell'edizione a stampa); De imitatione dicendi (Ibid., Vat. lat. 6565); notevole il caso del cod. Ottoboniano lat. 1777 della stessa Biblioteca, adespoto, che nel catalogo settecentesco è indicato come Teatro di G. Camillo (èdi mano secentesca e costituisce una interessantissima esemplificazione della struttura analogica del sapere secondo le regole del C.); Frammento di lezione sull'arte oratoria (Udine, Biblioteca comun., Fondo Princ., cod. 421); Sopra il poema di Francesco Zorze (ibid., cod. 422).

Una lettera di A. Belloni al C. è a Udine (ibid., cod. 565), alcune del Bembo al C. sono all'Arch. Segr. Vat. (Fondo Borghese, s. I, n. 175); documenti sul C. sono presso l'Archivio di Stato di Modena (Kristeller, Iter..., I, p. 366); una lettera "astrologica" del C. (Bologna, 11 genn. 1536) a L. Guicciardini è all'Arch. di Stato di Firenze (Le carte Strozziane del R. Arch. di Stato di Firenze, I, Firenze 1884, p. 580 n. CXXXVII). Per mano del Castelvetro sono le Considerazioni di G. C. Delminio degl'indovini virgiliani (Modena, Bibl. Estense, Est. ital. 284); una elegia di P. Valeriani per ilC. èa Belluno (Seminario Gregoriano, cod. 68); un De Julio Camillo di G. Giraldi è ancora a Udine (Bibl. comunale V. Joppi, Fondo Principale, cod. 102, ff. 441 s.).

Notevole èanche il numero di rime volgari e latine manoscritte del C.: Bassano del Grappa (Bibl. civica, cod. 38); Firenze (Bibl. naz. centrale, Magliab. 1403, Nuovi acquisti 473; Bibliot. Riccardiana, cod. 2835); Milano (Bibl. Ambrosiana, D 197 inf.); Modena (Bibl. Estense, Est. lat. 150); Padova (Bibl. Antoniana, cod. XXIII 671); Parma (Bibl. Palatina, Pal. 555, 557); Piacenza (Bibl. comunale Passerini-Landi, Mss. A. Genocchi, Pallastrelli 230); Treviso (Bibl. comunale, cod. 1404); Udine (Bibl. comunale, Fondo Joppi, 159 e 164); Venezia (Bibl. Marciana, Marc. lat. XII, 140, 176; XIV, 165; Marc. ital. IX, 144, 202, 248, 365); Bibl. Apostolica Vaticana (Vat. lat. 5227, v. II); un sonetto èancora segnalato da E. Narducci (Catalogo di mss. ora posseduti da B. Boncompagni, Roma 1892, p. 58, n. 99 [33]).

Fonti e Bibl.: Oltre le opere citate nel corso della voce sono da vedere: P. Gerardo, Novolibro di lettere, Venezia 1544, ff. 36v-42r, 50r, 74r, 85v; G. B. Doni, La Libreria, Venezia 1550, p. 64; P. Bembo, Lettere, III, Venezia 1560, p. 39; L. Contile, Lettere, Pavia 1564, f. 90v; G. M. Toscano, Peplus Italiae, Lutetiae 1578, pp. 85 s.; L. Giraldi, Opera, II, Basileae 1580, pp. 410 s.; B. Pino, Nuova scielta di lettere, Venezia 1582, I, pp. 318 s., 342; II, pp. 171-201; III, pp. 252-255; G. Muzio, Lettere, Firenze 1590, pp. 66-73, 168-172; F. Scotti, Itinerario d'Italia, Roma 1601, p. 101; B. Zucchi, L'idea del segretario, IV, Venezia 1614, pp. 475 s.; Cataloguscodicum mss. bibliothecae Regiae, III, 4, Parisiis 1744, p. 492, n. 8764, 6 (che segnala un Delocutione figurata del C.);

F. Cicereius, Epistolarum libri XII, a cura di P. Casati, I, Mediolani 1782, pp. 142 s., 167; Lettere scritte a P. Aretino, a cura di T. Landoni, I, 1, Bologna 1873, pp. 36-48; G. Morelli, Bibliotheca manuscripta graecaet latina, I, Bassani 1802, pp. 461 s., 477; G. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Venetiarum, I, Venetiis 1868, p. 153; Scrittid'arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, I, Milano-Napoli 1971, pp. 114 s., 124-32, 726, 979, 1072 s.; Biblioteca Apost. Vaticana, cod. Vat.lat. 9263: G. M. Mazzuchelli, Notizie relativeagli Scrittori d'Italia, ff. 339r-352v; G. Ghilini, Teatro d'huomini letterati, I, Venezia 1647, p. 130; G. M. Crescimbeni, Comentari intorno alla... volgar poesia, II, 2, Roma 1710, pp. 213 s.;III ibid. 1711, p. 240;N. C. Papadopoli, Hist. gymn.patavini, II, Venetiis 1726, p. 256;F. S. Quadrio, Della storia e della rag. d'ogni poesia, I, Bologna 1739,


pp. 61, 347, 412; II, Milano 1741, pp. 183, 237;G. Fontanini, Bibl. dell'eloq. italiana...con le annotaz. del sig. A. Zeno, I, Venezia 1753, pp. 38, 49 s., 97-99, 111; II, ibid. 1753, pp. 29, 119, 233, 318; Lettere di L. Castelvetro, in Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici, XLVII, Venezia 1752, pp. 425, 430-32;F. Altan, Memorieintorno alla vita, ed all'opere di G. C. Delminio, in Nuova raccolta d'opuscoli scientifici e filologici I, Venezia 1755, pp. 239-88;F. G. Freytag, Adparatus litterarius, III, Lipsiae 1755, pp. 128-133; G.-G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da'letterati del Friuli, III, Udine 1780, pp. 69-134; A. Zeno, Lettere, Venezia 1785, I, p. 87; IV, pp. 448-50, 456 s., 459-61; V, pp. 60, 155, 164-68, 179 s.;

G. Tiraboschi, Storia della letteraturaitaliana, IV, Milano 1833, pp. 286-90; P. Giaxich, Vita di G. Muzio, Trieste 1847, pp. 15 s., 19 s., 25, 30-32, 75, 120-22; S. Gliubich, Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia, Vienna-Zara 1856, p. 71; M. Young, The life and timerof A.Paleario, I, London 1860, pp. 163, 545 s.;R. C. Christic, E.Dolet, London 1880, pp. 33 s., 86, 142 s., 146 s., 151-54, 219, 272; A. Neri, Una lettera inedita di G. Muzio, in Giorn. stor.della letter. ital., IV (1884), pp. 229-40; V. Cian, Un decennio della vita di P. Bembo, Torino 1885, pp. 80 s.;P. de Nolhac, La bibliothèque de F.Orsini, Paris 1887, pp. 104, 126, 309, 326, 392;Id., Erasme et l'Italie, ibid. 1888, pp. 67, 77; A. Lefranc,

Histoire du Collège de France, Paris 1893, p. 116, F. Flamini, Studi di storia letteraria italiana e straniera, Livorno 1895, pp. 318-329; E. Cuccoli, M. A. Flaminio, Bologna 1897, pp. 51 s.; J. E. Spingarn, Ahistory of Literary Criticism in the Renaissance, New York-London 1899, pp. 32, 176; A. Luzio, Un pronostico satirico di P. Aretino, Bergamo 1900, pp. 73 ss.; A. Salza, L. Contile, Firenze 1903, pp. 39 s., 157, 284; C. Trabalza, Storia della grammatica ital., Milano 1908, pp. 47 s., 93, 124, 282, 318; A. Salza, D'una canzone pastorale, in Giorn. stor. d. lett. ital., LVI (1910), p. 347; G. Fatini, Su la fortuna... delle liriche di L. Ariosto, ibid. (Suppl. 22-23), 1924, p. 245; V. Cian, Le cosiddette "Annotazioni" di M. G. C. Delminio sopra le rime del Petrarca, ibid., C (1932), pp. 259-63, e cfr. anche XCIX, p. 228; L. Thorndike, A history of magic and experimental science, VI, New York 1941, p. 431; B. Croce, G. C. Delminio, in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, III, Bari 1952, pp. 111-20; E. Garin, in Testi umanistici su la retorica, Milano 1953, pp. 32-36; R. Bernheimer, Theatrum mundi, in Art Bulletin, XXXVIII (1956), pp. 225-47; J. Schlosser Magnino, La letteratura artistica, Firenze 1956, pp. 244 s., 248; D. P.

Walker, Spiritual and Demonic Magic from Ficino to Campanella, London 1958, pp. 98, 141 s.; F. Secret, Les cheminements de la kabbale à la Renaissance: le Théâtre du Monde de G. C. Delminio et son influence, in Riv. critica di storia della filos., XIV(1959), pp. 418-36; C. Vasoli, L'estetica dell'Umanesimo e del Rinascimento, in Momenti e problemi di storia dell'estetica, I, Milano 1959, pp. 427 ss.; P. Rossi, Studi sul lullismo e sull'arte della memoria nel Rinascimento. I teatri del mondo e il lullismo di Giordano Bruno, in Riv. crit. di storia della filos., XIV (1959), pp. 28-59; R. Klein, Le "sept gouverneurs de l'art" selon Lomazzo, in Arte lombarda, IV (1959), pp. 277 ss.; E. Garin, Di G. C. Delminio, in Giorn. crit. della filos. ital., XXXVIII (1959), p. 159; P. Rossi, Clavis universalis, Milano-Napoli 1960, pp. xx, 82 s., 96-101, 107, 112, 133, 184, 187, 295; E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze 1961, pp. 153 s., 452, 462; Id., Medioevo e Rinascimento, Bari 1961, pp. 144-49;

E. Cosenza, Biographical and bibliogr. dictionary of Ital. humanists, I, Boston 1962, pp. 802 s.; V, ibid. 1962, p. 385; G. M. Ackerman, The structure of Lomazzo's treatise on Painting, Michigan 1964, pp. 79 ss.; M. Costanzo, Il "gran theatro del mondo", Milano 1964, pp. 7, 9, 23; F. Secret, Les kabbalistes chrétiens de la Renaissance, Paris 1964, pp. 186, 291, 302, 310, 314, 318; E. Garin, Storia della filosofia italiana, II, Torino 1966, p. 615; G. M. Ackerman, Lomazzo's treatise on Painting, in Art Bulletin, XLIX (1967), p. 322; F A. Yates, L'arte della memoria, Torino 1972, pp. XIV, XVII-XX, 36 s., 121-159, 180 ss., 184, 186 s., 190 s., 211 ss., 221-24, 243-46, 282 s., 311, 314, 316, 339 s., 344 e ad Indicem;F. Secret, Un témoignage oublié de G. C. Delminio sur la Renaissance en France, in Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance, XXXIV (1972), pp. 275-78;

W. Moretti-R. Barilli, La letteratura e la lingua, le poetiche e la critica d'arte, in La letteratura italiana, Storia e testi, IV, 2, Il Cinquecento dal Rinasc. alla Controrif., Bari 1973, pp. 512-15; G. P. Lomazzo, Scritti sulle arti, I, Firenze 1973, a cura di R. P. Ciardi, pp. XLIII, LIX, LXIII s., 278; G. Mazzatinti, Inventari, XLVI, p. 195; L, p. 15; LXXVIII, p. 125; P. O. Kristeller, Iter italicum, I, pp. 16, 60, 66, 167, 174, 223, 293, 321, 351, 366, 378, 384, 396; II, 4, 36 s., 70, 111, 198, 204 s., 242, 247, 260, 272-74, 340, 374, 453, 497, 511, 546, 581








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Agrippa von Nettesheim


http://it.wikipedia.org/wiki/Agrippa_von_Nettesheim

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L'evoluzione della Simbologia degli Arcani Maggiori nei mazzi di Tarocchi delle Scuole Esoteriche Tradizionali del XIX – XX secolo, tra Ermetismo e Magia


www.riflessioni.it/alchimia/arcani-...smo-magia-1.htm


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il libro del comando

www.queendido.org/Arturo_Reghini.pdf

http://digidownload.libero.it/rivista.crim...ista/2_2010.pdf

http://it.wikipedia.org/wiki/Il_libro_del_comando

sui grimori

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locuzioni latine

http://it.wikipedia.org/wiki/Locuzioni_latine




LANDO, Ortensio


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SUL NECRONOMICON

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FUSCO

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Addirittura nell'introduzione al racconto "Storia del Necronomicon" (History of the Necronomicon, 1927) il curatore Giuseppe Lippi dice: "[...]Fanucci tradusse nel 1979 l'edizione inglese (del N.) a cura di George Hay, che si diceva tradotta con il computer dalle carte dell'astrologo John Dee. In quell'occasione si scoprì che del Necronomicon esisteva una traduzione italiana fatta nel Cinquecento dal letterato ed esoterista rinascimentale Giulio Camillo Delminio... Che a noi risulti, è l'unica traduzione in una lingua volgare a tutt'oggi accreditata..

DALLA RETE

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SULLA CERTOSA DI BOLOGNA


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PERCORSO ESOTERICO

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RAULE

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BYRON A BOLOGNA


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George Gordon lord Byron, Letters and Journals of Lord Byron with a Notice of his life, 1831

“I have been picture-gazing this morning at the famous Domenichino and Guido, both of which are superlative. I afterwards went to the beautiful cemetery of Bologna, beyond the walls ; and found, besides the superb burial-ground, an original of a custode, who reminded one of the grave-digger in Hamlet. He has a collection of capuchins' sculls, labelled on the forehead; and taking down one of them, said, This was Brother Desiderio Berro, who died at forty  one of my best friends. I begged his head of his brethren after his decease, and they gave it me. I put it in lime, and then boiled it. Here it is, teeth and all, in excellent preservation. He was the merriest, cleverest fellow I ever knew. Wherever he went, he brought joy; and whenever anyone was melancholy, the sight of him was enough to make him cheerful again. He walked so actively, you might have taken him for a dancer  he joked  he laughed  Oh! he was such a Frate as I never saw before, nor ever shall again! He told me that he had himself planted all the cypresses in the cemetery; that he had the greatest attachment to them and to his dead people; that since 1801 they had buried fifty-three thousand persons. In showing some older monuments, there was that of a Roman girl of twenty, with a bust by Bernini. She was a Princess Barlorini, dead two centuries ago: he said, that on opening her grave, they had found her hair complete, and as yellow as gold.”

[Mi sono dato alle pitture questa mattina, al famoso Domenichino e a Guido, entrambi superlativi. Poi mi sono recato nel bel cimitero di Bologna, oltre le mura, dove mi sono imbattuto, accanto al bel prato per le sepolture, in un becchino davvero originale che mi ha fatto venire in mente quello dell’Amleto. Ha una collezione di teschi di cappuccini con tanto di etichetta sulla fronte. Tiratone giù uno ha detto: «Questo era frate Desiderio Berro, morto a quarant’anni, il mio migliore amico. Dopo la sua morte, ne chiesi il teschio ai suoi confratelli che me lo dettero. Lo gettai nella calce viva, poi lo feci bollire. Eccolo, denti e tutto, in eccellente stato di conservazione. Era l’individuo più allegro e più bravo che abbia conosciuto. Ovunque andava era messaggero di gioia e bastava la sua presenza per rallegrare anche l’individuo più malinconico. Camminava con tale leggerezza che l’avresti preso per un ballerino, scherzava, rideva… era una tale sagoma di frate di cui non ho mai visto il simile prima, né vedrò di nuovo!». Mi disse che aveva piantato con le proprie mani tutti i cipressi del cimitero; che era profondamente attaccato ad essi e ai suoi morti; che dal 1801 avevano sepolto cinquantatre mila persone. Mostrandomi alcuni dei monumenti più antichi, mi indicò quello di una fanciulla romana di vent’anni, con un busto del Bernini. Era una principessa Barberini morta due secoli fa. Mi disse che, quando aprirono la sua tomba, trovarono che aveva ancora i capelli folti e gialli come l’oro.  traduzione tratta da A. Brilli, 2005]


DICKENS A BOLOGNA

www.magazine.unibo.it/Magazine/UniB..._la_Certosa.htm

su giorgio cospi

http://badigit.comune.bologna.it/mostre/biglietti/2_6.htm

su francesco santini

http://certosa.cineca.it/chiostro/persone.php?ID=481231

su carlo monari

http://certosa.cineca.it/chiostro/persone....gallery=&img=16


Appunti sull’attività di Luigi Marchesini alla Certosa di Bologna

www.aperto.gdspinacotecabo.it/?q=node/453

DISEGNI DI RAFFAELE TERRY

www.google.it/search?q=RAFFAELE+TER...MLo_otQa_roCoCQ

BIBLIOGRAFIA

www.aperto.gdspinacotecabo.it/?q=node/459


tour fotografico

https://digilander.libero.it/certosadibologna/gallery.htm

www.certosadibologna.info/galleria-...elle-tombe.html

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I QUADERNI NERI

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les livres du mois.




Les Cahiers noirs, Journal 1905-1922

les livres du mois - 01/12/2007 par Alexandre Sumpf dans Mensuel n°470 à la page 81 (510 mots) | Payant


Le télescopage ambiant des symboles politiques a propulsé sous les projecteurs de la scène mémorielle un jeune résistant communiste fusillé à 17 ans. Tout comme Guy Môquet, Marcel Sembat 1862-1922 a lui aussi laissé son nom à une station du métro parisien. Mais nationaliser à l'improviste cette figure du parti socialiste d'avant la Grande Guerre serait un véritable tour de force. Qui se souvient, en effet, du tribun grandi sous l'aile parfois distante de Jean Jaurès ? Du ministre de l'Union sacrée 1914-1916 qui finit par se désolidariser du jusqu'au-boutisme guerrier d'un Albert Thomas, [...]


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de turris e sebastiano fusco



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Il gioco degli inganni








Nell'introduzione, Wilson spiegava che il testo era basato su di un manoscritto in codice risalente al mago elisabettiano John Dee, il Liber Logaeth, in effetti, esistente e conservato al British Museum (fondo Sloane, mss 3189: ma la dizione esatta, in realtà, è "Loagaeth"). Esaminato al computer, questo si era rivelato nientemeno che l'originale, cifrato, della famosa traduzione in inglese del Necronomicon realizzata da Dee. Non solo: un esame comparato con un "manoscritto arabo" comprato da de Camp in Iraq, e già pubblicato in America in facsimile, aveva rivelato che si trattava della stessa opera! Nei riguardi del libro, era riprodotta una pagina di tale manoscritto.





Il tutto era condito da una serie di informazioni sulla magia antica e contemporanea, sulle religioni arcaiche, sul ruolo del padre di Lovecraft all'interno della "massoneria egizia" (rivelato dal misterioso "dottor Hinterstoisser"), sui rapporti fra i maghi di osservanza crowleyana e le tradizioni di Atlantide, sulla figura di Lovecraft stesso come "medium inconsapevole", e un'infinità di altre cose simili. Il materiale non era combinato in modo sommario e rudimentale, come nel testo di Simon, ma era letterariamente godibilissimo, preciso nei riferimenti fino allo scrupolo, ricco di inventiva, di allusioni, di collegamenti eruditi, di doppi sensi, di fascinosi accenni a "segreti insondabili", e così via. Insomma, una vera delizia per appassionati lovecraftiani.



Quando il libro pervenne a chi scrive queste righe, tramite un'agenzia letteraria, decidemmo immediatamente di farlo pubblicare presso le edizioni di Renato Fanucci, che all'epoca dirigevamo. Nel tradurre il libro, non resistemmo alla tentazione di partecipare anche noi a quel gioco intrigante e intelligente, e lo arricchimmo di un'introduzione firmata da un inesistente "professor Francesco Pincus" dell'altrettanto immateriale "Università Sulcitanea", in cui si discettava della Teoria Generale dell'Inesistenza Reale, postulante il fatto che quando si crede profondamente alla realtà di una certa cosa (per esempio uno pseudobiblium), questa inevitabilmente finisce per materializzarsi davvero...



Chiedemmo poi a un nostro bravo autore di narrativa fantastica, Gustavo Gasparini, di raccontare come avesse anche lui scoperto una copia del Necronomicon a Venezia, e i casi derivatigliene, nonché a Giuseppe Lippi, allora stimato saggista lovecraftiano e oggi curatore di Urania (nonché curatore di tutta la narrativa di HPL per gli Oscar Mondadori), di raccontare la storia di una perduta traduzione italiana dell'infame testo a opera di Camillo Delminio, l'esoterista bruniano inventore del "Teatro della Memoria" come supporto per la mnemotecnica.




Questo materiale fu pubblicato in un'apposita Appendice Italiana al volume di George Hay, insieme con un portfolio di disegni originali di nostri illustratori. Ovviamente, non credemmo neppure per un attimo che il testo fosse davvero quello che diceva di essere, cioè una decodificazione parziale della traduzione inglese del Necronomicon, trascritta in cifra da John Dee. Ma tutto faceva parte di un gioco letterario iniziato negli anni Venti e Trenta. Per chi avesse voluto capire, denunciavamo lo scherzo in tutta una serie di riferimenti, come il collegamento al libro "arabo" di De Camp, che sapevamo per certo essere fasullo (ce lo aveva detto lui), e varie altre notazioni, come il fatto che si dava per davvero esistente la Miskatonic University, che invece è una pura invenzione di Lovecraft. Comunque, per rendere ancor più palese il carattere pseudoreale dell'operazione, aggiungemmo alle due paginette introduttive alcuni riferimenti bibliografici in apparenza verosimili, ma in realtà assurdi, per esempio parlando di un congresso di "paraletteratura" iniziatosi il 29 febbraio di un anno non bisestile.



Non mancavano le citazioni di articoli di Eco e Sanguineti. In questo modo, volevamo render chiara la natura scherzosa del tutto, per non dare l'impressione di voler ingannare deliberatamente i lettori. Ciò anche a costo di ridurre le potenzialità commerciali del libro, che così (pensavamo) avrebbe finito per interessare soltanto, come curiosità, i lovecraftiani di stretta osservanza. In questo, ci accorgemmo presto di esserci sbagliati doppiamente. In primo luogo, tutti (sottolineiamo: tutti) coloro che acquistarono il "nostro" Necronomicon rimasero fermamente convinti di avere fra le mani un autentico frammento del fatale Al Azif. Inoltre, quel libro - pubblicato con molto timore per gli esiti delle vendite - è stato uno dei maggiori successi commerciali della casa editrice, è stato ripresentato in varie vesti anche da altri che hanno tentato (assai malamente) di darne un seguito, si trova citato (seriamente) in una infinità di bibliografie, ed è "autorevolmente" commentato dalle persone più insospettabili. C'è chi ha creduto alla reale esistenza del "professor Pincus", chi è andato (inutilmente) alla ricerca dei riferimenti bibliografici di Eco e Sanguineti e sta ancora cercandoli, e chi ha citato i Proceedings del convegno di paraletteratura in serissime bibliografie. C'è da esserne orgogliosi...




Anche questo Necronomicon di Colin Wilson, come quello di Simon, ha suscitato discussioni a non finire, ed è disponibile sul web con glosse e commenti. In tutto il mondo, è usato anch'esso come testo base di magia operativa da diversi adepti dell'occulto. In Italia, in particolare, ha avuto un impatto "magico" fortissimo (forse perché da noi non è mai uscita una traduzione del libro di Simon), ed esistono diverse congreghe di necromanti che ne hanno fatto il centro delle loro attività sul versante tenebroso dell'Essere.









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La chiave per comprendere l'importanza che i circoli esoterici contemporanei attribuiscono alla figura di Lovecraft e soprattutto al suo Necronomicon, scrive Stephen Sennitt (The Reluctant Prophet, nell'antologia The Starry Wisdom, Londra 1994), si trova stranamente nella stessa negazione da parte dello scrittore della titanica "realtà" che emerge dai suoi sogni, e nel suo atteggiamento di ripulsa nei confronti delle tradizioni che in quelle immagini oniriche vengono così chiaramente ed esplicitamente rappresentate. Secondo gli esoteristi, Lovecraft rimase inconsapevolmente terrorizzato dal significato profondo delle sue visioni, e risolse di esorcizzarle trasformando i suoi viaggi d'incubo in "innocue" narrazioni fantastiche, rifiutandosi di attribuire ad esse, razionalmente, alcun significato. Inoltre, respinse ogni legame della sua narrativa con un campo di ricerche - la cosiddetta "sapienza occulta" - che considerava, al meglio, nulla più che un coacervo di superstizioni, e al peggio un esempio di deliberata volontà di ingannare le persone credule (elucubrazioni «appartenenti alla categoria del falso proditorio», secondo una sua espressione).



Il suo rigido razionalismo conservatore - spiegano gli esoteristi - era in realtà un meccanismo di difesa che serviva a fargli prendere le distanze dall'inquietante consapevolezza che l'universo potrebbe essere un luogo molto più irrazionale di quanto non volesse ammettere la sua mente conscia. D'altra parte, in molti luoghi delle lettere di Lovecraft filtra l'idea - centrale nella sua narrativa - che alla radice del cosmo vi sia non ordine ma caos, e che ciò che muove le cose non siano le leggi che l'uomo, con la sua povera e debole ragione, riesce a decifrare, ma altre forze più oscure e possenti, inconoscibili ed estranee a qualsiasi sentimento o compassione. Ironicamente, dunque, il "dono" di Lovecraft di sognare la verità riposa su una singolare contraddizione: fu proprio il suo ripudio di tutto il bagaglio dell'Occultismo, la sua deliberata collocazione delle conoscenze estratte dalle sue visioni oniriche entro i confini della narrativa e della finzione letteraria (escludendo ogni legame contaminante con tradizioni espresse dalle scuole esoteriche dei suoi tempi, come la Teosofia, la magia della Golden Dawn e altre simili), a conferire ai suoi "miti" onirici la consistenza e la forza di una vera e propria corrente magica operativa.



Se Lovecraft fosse stato, per assurdo, l'adepto di una scuola di occultisti dalle tradizioni ancestrali, non avrebbe raggiunto, nelle sue visioni, un successo di pari dimensione. Di tale fatto gli esoteristi contemporanei sono acutamente consapevoli: l'importanza che essi attribuiscono al sistema magico tratto dalla narrativa di Lovecraft deriva proprio dalla percezione della purezza e dell'autonomia delle sue visioni, dimostrata dall'evidenza con la quale esse si sovrappongono, completandole, a conoscenze tradizionali autentiche, pur essendo state elaborate del tutto indipendentemente da queste. Di fronte a un discorso del genere, Lovecraft avrebbe reagito di certo con lo stesso sarcasmo che manifestava nei confronti di quei giovani corrispondenti che gli chiedevano dove procurarsi copie del Necronomicon, e se per caso Cthulhu esistesse davvero.



Ma non è questo il punto. Malgrado tutte le sue barriere mentali, Lovecraft era intimamente consapevole, nel profondo di se stesso, che oltre i confini dell'universo conosciuto esistono forze che agiscono al di fuori del controllo e della comprensione dell'uomo (lo ammette lui stesso). Ed è su queste forze, più che su tutti i castelli eretti dalla razionalità, che si misurano i nostri sentimenti, le nostre angosce, le nostre incertezze e le nostre passioni. La popolarità di Lovecraft e dell'inesistente Necronomicon si è dilatata a dismisura, e continua a crescere, perché questo modo dello scrittore di accostarsi alle radici dei nostri sentimenti dimostra la rilevanza delle sue visioni, e la loro centralità rispetto alla condizione umana. Il che non vuol dire che lo scrittore possa essere ritenuto - anche solo indirettamente - responsabile delle nefandezze che qualche paranoico può aver commesso in Italia e all'estero in nome delle divinità immaginarie che egli descrisse nel suo pseudobiblium che altri, con intenti ludici o macabri, ha riportato alla realtà cartacea.


Da Hera n° 86 (marzo 2007)







Edited by barionu - 23/5/2021, 15:47
 
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CAT_IMG Posted on 5/6/2013, 22:48
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Cronologia del NECRONOMICON



( SI TRATTA DI UNA RICOSTRUZIONE DEL TUTTO IPOTETICA , DIREI INVENTATA AL90% )



Tratta da Lovecraft, Basile, de Vero, Shea, R. Wilson, C. Wilson, Herber, Hallett, Isinwyll, Belknap Long, Pelton, Miller, Lumley, Derleth, Ross, Willis, Bergier, Sprague de Camp, Pizzari, Hamblin ...







1000 a.C. > 700 a.C. - Nella Mesopotamia (l'odierno Iraq sud-orientale), a Kutu, (l'odierna Kut al' -Amar) antica città sacra di origine sumera, consacrata alla divinità infera Nergal o Chutulusumgal, un gruppo di sacerdoti ribelli alla dominazione babilonese si oppone alla sostituzione delle antiche divinità con il pantheon dei nuovi dominatori. Costretti a celebrare, nei riti ufficiali, attraverso la lettura dell' Enuma Elish, il Poema della Creazione babilonese, la vittoria e il trionfo del dio Marduk sulle divinità sumere, i ribelli redigono, clandestinamente, una copia corrotta del poema, in cui viene celebrata la vittoria dei "Grandi (Dei) Antichi" (Azagga/Azagutukku ovvero Azathoth? Chutulusumgal ovvero Cthulhu? Nyurlnamtar/Nayarlanassar ovvero Nyarlatothep? Yuggsuduggu/Yugsuduk ovvero Yogsothoth?) e il declino di Marduk e di tutte le altre divinità dei nuovi dominatori.

689 a.C. - Il re assiro Sannacherib distrugge Kutu, e dopo aver fatto murare vivi i sacerdoti ribelli nel Sancta Sanctorum di uno ziggurat rovesciato, divenuto nel corso dei secoli il centro del culto sovversivo, trasporta copia degli scritti blasfemi (le cosiddette undici tavolette di Kutu, contenenti l'edizione corrotta dell' Enuma Elish), nella biblioteca reale di Ninive.

334-333 (?) a.C. - Alessandro Magno conquista la città di Ninive ed "acquisisce" la biblioteca reale di Assurbanipal nella quale era confluita quella di Sannacherib (suo nonno), costituita da circa 30.000 tavolette scritte in caratteri cuneiformi.

332 a.C. - Alessandro Magno fonda la biblioteca d'Alessandria, trasferendovi gran parte della biblioteca reale di Ninive.

284 (?) a.C. - Demetrio Falereo, plenipotenziario del re Tolomeo Soter per gli affari riguardanti la Biblioteca, ordina la traduzione in greco di tutti i libri presenti nella Biblioteca d'Alessandria e la trascrizione su rotoli di papiro dei testi redatti su altri supporti (tavolette fittili, lignee).

274 (?) a.C. - Il poeta Callimaco di Cirene redige i Cataloghi della Biblioteca di Alessandria. Al frammento 13 (dei venticinque pervenutici) cita un' oscuro poema babilonese intitolato La vittoria degli Antichi.

41 a.C. - Durante l'assedio di Alessandria, a cui partecipò Giulio Cesare, bruciano alcuni depositi della biblioteca e vanno in fumo circa 40.000 rotoli librari.

391 d.C. - Il vescovo Teofilo, venuto a conoscenza di una sezione segreta della Biblioteca di Alessandria, brulicante di libri di magia e contrari al credo cristiano, dà alle fiamme il Serapeo, sede della "biblioteca figlia", erroneamente considerandola la biblioteca principale.

640 d.C. - Gli Arabi conquistano Alessandria e bruciano la Biblioteca. Il generale Amb Ibn-al-As, il conquistatore della città, contravvenendo all'ordine del califfo Omar, su suggerimento dell'ultimo bibliotecario di Alessandria, Giovanni Filopono, salva dai roghi gran parte del materiale magico-esoterico della cosiddetta sezione segreta della Biblioteca e lo spedisce in Siria, a Damasco. Secondo il raccolto di Ibn-al Qifti nel suo libro Tàrik al Hu-kam, la carovana che trasportava i libri proibiti salvati dalle fiamme da Amr, tra cui l'edizione corrotta dell' Enuma Elish e il commento di formulari negromantici che con il tempo le si erano accumulati intorno, subisce un clamoroso furto da parte di ignoti (ladri o adepti alla Massoneria Egizia).

640 d.C. - La copia corrotta dell' Enuma Elish con tutte le sue terribili divinità (Azagga/Azagutukku ovvero Azathoth? Chutulusumgal ovvero Cthulhu? Nyurlnamtar/Nayarlanassar ovvero Nyarlatothep? Yuggsuduggu/Yugsuduk ovvero Yogsothoth?) e le sue proliferazioni negromantiche, viene tradotta da anonimi studiosi, dalla lingua greca all'arabo. La parte epico religiosa (quella ritrovata nel 1996 nelle tavolette del tempio di Kut Al'-Amara) viene espunta (se ne perde infatti, fino ad oggi, ogni traccia), mentre i formulari magici e le invocazioni delle entità infere, raccolte in un grimorio, cominciano a diffondersi e a essere conosciute tra gli operatori dell'occulto (maghi e sahir) del mondo arabo.

730 d.C. - Abdul Alhazred, sahir nato a San'a, nello Yemen, scrive il grimorio Kitab Al-Azif. Secondo recenti studi, il Kitab Al-Azif sarebbe una copia dei formulari magici proliferati intorno alla copia corrotta dell' Enuma Elish (conservata nella sezione segreta della Biblioteca d'Alessandria) e diffusi tra gli sahir nella penisola arabica dopo il 640 d.C.

738 d.C. - Secondo Ibn Khallikan, il famoso biografo arabo, Abdul Alhazred è sbranato da una belva invisibile nelle strade di Damasco. Nello stesso anno, probabilmente, uno sahir yemenita, figlio della strega AlZhrdua (Alhazred?), viene ucciso nei dintorni di Marib, Yemen.

950 d.C. - Teodoro Fileta, un erudito bizantino, traduce a Costantinopoli il Kitab Al-Azif dall'arabo al greco, ribattezzandolo Necronomicon.

1000 (circa) - L'astronomo Al Biruni nel suo Mujarrabat denuncia il fatto che da secoli le rovine della città-sacra di Kutu sono meta di ogni sorta di sharun (stregoni) frequentatori della cosiddetta "Via Biasimevole".

1050 - Il Patriarca Michele, avuto sentore degli esperimenti tentati grazie a questo libro, manda al rogo molte copie del Necronomicon. (L'introduzione di Olaus Wormius afferma che tutte le edizioni in arabo andarono distrutte in quell'occasione).

1228 - Olaus Wormius traduce in latino la versione greca del Necronomicon.

1232 - Sia l'edizione greca che quella latina sono poste all'Index Expurgatorius da papa Gregorio IX.

XV secolo - Stampa (tedesca?) in caratteri gotici della traduzione latina di Olaus Wormius.

1472 - Una traduzione di Olaus Wormius è pubblicata a Lione, in Francia.

1550 - Stampa italiana del testo greco. Possibile responsabile: Aldo Manunzio, fondatore dell'Aldina (?).

1580 - John Dee ed Edward Kelly scoprono (?) una copia del Necronomicon a Praga mentre erano in visita presso l'imperatore Rodolfo II. La traduzione in inglese non venne mai stampata, ed esiste solo in frammenti tratti dal manoscritto originale.

1586 - Secondo un'altra fonte, sarebbe questo l'anno in cui John Dee traduce il Necronomicon in inglese. Si sospetta che tale edizione contenga materiali dell'edizione latina di Olaus Wormius, un manoscritto in greco trovato in possesso di un nobile transilvano, più i commenti di Dee su alcuni argomenti.

1589 - Il barone Federico I del Sussex pubblica la propria versione inglese tratta dall'edizione latina di Wormius, intitolata Cultus Maleficarum. Questa edizione, meglio nota come Manoscritto del Sussex, è assai farraginosa e non viene considerata affidabile.

1622 - La traduzione di Wormius è di nuovo data alle stampe, questa volta in Spagna.

1641 - My Understanding of the Great Booke di Joachim Kindler è pubblicato nella città di Buda. In questo volume Kindler parla di una versione del Necronomicon in gotico. Secondo l'autore, questa traduzione "offre prove logiche et gloriose" dei "numeri stellari, oggetti potentiati, segni e passaggi, probatorie, filatteri ed arti arcane" richiesti per i rituali qui elucidati. Un Neronomicon, senza tante allegorie e oscurità. Per fortuna dell'umanità, Kindler è l'unica persona della storia che ci abbia segnalato questo volume, perciò è possibile che sia una sua invenzione (o forse questo Necronomicon non esiste più).

1692 - Un cittadino di Salem, possessore dell'edizione greca del Necronomicon viene condannato al rogo insieme ai suoi libri.

1722 - Nel Massachusets, a Kingport, viene sciolta una setta dedicata a culti infami. IlNecronomicon aveva ricoperto un ruolo molto importante nei riti di questo gruppo, anche se appare assai dubbio che gli assalitori ne abbiano mai trovato una copia.

1771 - Assalto ad una fattoria di Providence, nel Rhode Island, di proprietà di Joseph Curwen, un noto stregone che possedeva una copia latina del Necronomicon. Curwen dovrebbe essere rimasto ucciso, ma l'incursione fece pochi danni.

1811 - Uno straniero lascia una copia latina del Necronomicon alla Bibliothèque Nationale a Parigi, e viene ritrovato cadavere il giorno dopo in uno squallido appartamento, avvelenato da ignoti.

1848 - La traduzione tedesca del Necronomicon di Von Juntz, Das Verichteraraberbuch, è pubblicata a Inglostadt in Baviera, otto anni dopo la morte del traduttore.

1912 - Wilfred Voynich, libraio americano, scopre un manoscritto medioevale in un castello italiano. Assieme a questo documento, noto come Manoscritto Voynich, il libraio trova una lettera che asserisce che il libro è opera del famoso scienziato Ruggero Bacone.

1912 - Uno studente mentre consulta a Firenze nella Biblioteca Riccardiana un testo rinascimentale d'alchimia, scopre un frammento di papiro dove sono riportate alcune righe di testo in greco, il frammento (Cfr. anche il quotidiano La Nazione del 12/5/1912, che informa del ritrovameto) denominato Fragment Alchemicum Fiorentinum contiene un misterioso passaggio che farebbe riferimento alla città di R'lyeh ("dove il Grande Cthulhu dorme"). Il frammento fotografato nel 1965 sparì l'anno successivo a causa dell'alluvione che devastò i locali della Riccardiana.

1921 - Il professor W. Romaine Newblod annuncia di aver decifrato il Manoscritto Voynich, affermando inoltre che consisterebbe di un trattato scientifico, nel quale si dimostrerebbe che Ruggero Bacone avrebbe inventato il microscopio secoli prima di Leeuwenhoek. Purtroppo Newblod muore nel 1926 prima di completare la decifrazione.

1922 - H.P. Lovecraft cita per la prima volta il Necronomicon nel suo raccondo "The Hound".

1926 - Una copia del testo greco del Necronomicon stampato in Italia nel sedicesimo secolo, di proprietà della famiglia Pickman, di Salem, svanisce insieme al pittore R.U. Pickman.

1929 - Il Signor Beniamino Evangelista è trovato assassinato nella sua casa di Detroit assieme al resto della sua famiglia. Le indagini sugli omicidi appurano che Evangelista era sacerdote di una setta e che aveva scritto un libro di ispirazione divina intitolato The Oldest History of the World (La più antica storia del mondo); il libro è interessante perchè conteneva riferimenti ad un testo di magia intitolato Necremicon, Necromicon o Necronemicon ma anche Al Azif. Questi passi potrebbero essere stati scritti prima che Lovecraft utilizzasse il Necronomicon all'interno dei propri racconti.

1931 - Il professor Manly deduce, studiando le note di Newblod sulla decifrazione del Manoscritto Voynich, che il preteso cifrario sarebbe in realtà solo il risultato dello scolorimento dell'inchiostro. I risultati di Newblod sono screditati dalla comunità scientifica.

1934 - Muore Joachim Feery, autore poco prima della sua scomparsa delle Note sul Necronomicom, pubblicate sia in edizione completa che purgata. L'autenticità del volume è alquanto sospetta, sopratutto dal momento che Freery sosteneva di aver intercalato i suoi messaggi onirici ai vari passaggi del libro esecrato.

1936 - In una rivista amatoriale Donald Wolheim pubblica una recensione del Necronomicon a proposito di una versione in inglese moderno del famigerato volume. Il titolo dell'articolo è: "Il Necronomicon, secondo la Traduzione e Compendio dall'originale in lingua araba di Abdul Alhazred, di W.T Faraday. Stampato privatamente dall'autore."

1938 - L'abitazione del professor Laban Shrewsbury ad Arkham, nel Massachusets, è rasa al suolo da un incendio dopo che lo stimato studioso aveva inviato alle stampe il primo volume del suo Cthulhu in the Necronomicon. Anche se non si trovò alcuna traccia di Shrewsbury tra le rovine, si presume sia morto nel rogo.

1939 - Viene pubblicato Cthulhu in the Necronomicon del professor Laban Shrewsbury.

1941 (?) 1946 (?) - Il libraio Philip Duchesne di New York inserisce nel numero 78 del proprio catalogo il Necronomicon, al prezzo di 900 dollari.

1950 (?) - Henrietta Montague completa la traduzione in inglese del Necronomicon del British Museum su richiesta del direttore. Questa versione censurata sarà poi pubblicata in un'edizione pensata per l'esclusivo utilizzo degli studiosi. Purtroppo la Montague perì a causa di una malattia debilitante poco dopo il completamento del progetto.

1962 - L'Antiquarian Bookman (una delle più autorevoli riviste americane per bibliofili) pubblica nella sue rubrica di libri in vendita la seguente nota, " Alhazred, Abdul. Il Necronomicon. Spagna 1647. Rilegatura un pò logora in cuoio e con qualche macchia, anche se in perfetto stato. Numerose xilografie di simboli e segni iniziatici. Sembra essere un trattato di magia rituale in latino. L'ex libris a margine della pagina, indica che il libro proviene dalla biblioteca della Miskatonic University. Al miglior offerente."

1965 - Uno scienziato recatosi in visita presso l'Università di Buenos Aires per consultare la copia del Necronomicon custodita nella biblioteca, dimenticando ogni cautela, legge a voce alta alcuni passi del settimo capitolo. Alla lettura è seguita una serie di incidenti troppo orribili per essere riferiti. La sorveglianza al volume è stata raddoppiata, e alcune parti dell'edificio hanno richiesto la fumigazione. (Notizia diffusa da Paul J.Willis, direttore della casa editrice Golden Goblin Press)

Anni '60 (Prima metà) - Nel catalogo della biblioteca centrale dell' Università della California, il Necronomicon appare nella seguente scheda:

B1 430 A 47 Alhazred, Abdull

ca.x.738 Scaffale B

NECRONOMICON (AL AZIF), di Abdul Alhazred.

Tradotto dal greco da Olaus Wormius (Olao Wormio)

XIII, 760 p., incisioni sul legno, tavole

Sm. Fol. (62 cm)

Toledo 1647

1966 - Nella biblioteca Pio XII dell' Università di St. Louis, il microfilm della copia della Biblioteca Vaticana del Necronomicon viene tenuto in una cella sotterranea, con accesso controllato. (Notizia diffusa da Paul J.Willis, direttore della casa editrice Golden Goblin Press)

1966 - Il disegnatore Philippe Druillet annuncia di aver ritrovato e ricopiato accuratamente alcune pagine del Necronomicon. La paternità del documento è dubbia; si suppone essere una parte della traduzione di Dee. Druilett pubblica alcuni stralci sulla rivista Anubis. (Notizia diffusa da Paul J.Willis, direttore della casa editrice Golden Goblin Press)

1967 -Il professor Lang dell' Università della Virginia avvia lo studio del Manoscritto Voynich, sapendo che è già scritto in latino e greco, usando l'alfabeto arabo. La sua opera, proseguita da altri studiosi dopo la scomparsa di Lang nel 1969, dimostra che il Manoscritto Voynich è in realtà un commento a certi passi del Necronomicon scritto dal monaco Martino il Giardiniere.

1973 - La Oslwick Press di Philadelphia pubblica, con prefazione di Sprague de Camp, l'edizione dello stesso Al Azif, il cui testo in originale è reperibile presso la Brown University. L'esemplare è in duriaco, non in arabo.

1976 - Il professor Hinterstoisser, presidente dell'Istituto salisburghese per lo studio della magia, dichiara, in una lettera inviata allo studioso Colin Wilson di aver visto una copia del Necronomicon a Boston (città nella quale si era incentrata l'attività affaristica di Wilfield Lovecraft e sede di un importante tempio massonico). Secondo il professor Hinterstoisser, il Necronomicon costituirebbe parte di una più vasta compilazione magica araba, a suo giudizio, il Libro sull'essenza dell'anima dell'erudito arabo Al-Kindi, il quale avrebbe raccolto testi magici diffusi da secoli nella penisola arabica a uso di maghi e stregoni. Solo quella parte (il Necronomicon, appunto), sarebbe stata ricopiata da Dee e Kelly nel loro viaggio a Praga. A sostegno della sua tesi, Hinterstoisser riferisce che una copia della compilazione di Al-Kindi era stata catalogata a Praga dal bibliotecario di re Rodolfo II.

1976 - Colin Wilson sostiene che la copia del Necronomicon vista da Hinterstoisser a Boston, sarebbe stata trafugata dal tempio massonico (affinato alla Massoneria Egizia) della città, ad opera dell'adepto Winfield Lovecraft, padre di Howard. Secondo Colin Wilson il giovane Lovecraft, avrebbe quindi consultato il libro proibito nella biblioteca paterna e dichiarato, più tardi, di averlo inventato come supporto immaginario ai Miti di Cthulhu, per coprire le responsabilità paterne.

1977 - 10 Ottobre muore il professor Hinterstoisser.

1977 - Un certo Simon pubblica la propria versione del Necronomicon. Il traduttore afferma di aver ricavato il testo da un manoscritto greco, di cui nel libro sono contenute solo alcune parti.

1978 - The Necronomicon: The Book of Dead Names è pubblicato dalla Neville Spearman Press. Secondo Colin Wilson, il manoscritto originale era inserito in cifra (Liber Logaeth) tra le carte di John Dee, presso il British Museum. Il manoscritto cifrato è stato decriptato con l'ausilio del computer da David Langford.

1979 - Esce in Italia Necronomicon. Il libro segreto di H.P. Lovecraft.

1979 - Durante la visita a un libraio del Cairo, il professor Phileus Sadowsky dell' Università di Sofia scopre in un vecchio libro una pagina contenente il famoso distico arabo di Alhazred. Purtroppo questa pagina sparisce durante il controllo doganale.

1987 - Il Centro scavi di Torino per il Medio Oriente e l' Asia, comincia a effettuare degli scavi archeologici nei pressi di Kut al' -Amara, centro agricolo dell' Iraq sud-orientale, dove sorgeva l'antica Kutu.

1990 (Maggio) - La spedizione italiana scopre, a Kutu al' -Amara un tempio sotterraneo avente la forma di uno ziggurat rovesciato, di dimensioni in scala rispetto a quelli di superficie (Babilonia, Ur, Khorsabad), confitto nelle viscere della terra. Nel sancta sanctorum del tempio, dopo aver forzato la porta che ancora recava i sigilli del re Sannacherib, vengono ritrovate, oltre a undici mummie di sacerdoti avvolte in paramenti sacri quasi intatti, undici tavolette che a una prima analisi, da parte degli esperti, sembrano contenere il testo dell' Enuma Elish.

1990 (Agosto) - Invasione del Kuwait da parte dell' Iraq.

1990 (Agosto) - Il professor Caracciolo, membro della spedizione archeologica italiana, riesce a far pervenire, tramite i buoni uffici del console italiano a Bagdad, al professor Venustiano Carranza, docente di filologia paleosemitica all' Università di Città del Messico e assoluta autorità internazionale sulla storia dell' Antico Oriente, una trascrizione autografa dei contenuti delle undici Tavolette di Kutu.

1990 (Ottobre) - Gli scavi di Kut al' -Amara, per disposizione delle autorità irachene, vengono chiusi, e la spedizione italiana viene trasferita - sotto scorta - a Bagdad. Tutto il materiale ritrovato nello ziggurat rovesciato viene sequestrato e spedito nella capitale dove viene sigillato in casse e riposto nei sotterranei dell' Iraqi Museum.

1991 - Le autorità irachene, anche a causa della guerra, conclusasi disastrosamente per il paese nel Marzo del 1991, si rifiutano di far consultare agli archeologi di tutto il mondo le scoperte e i reperti di Kut al' -Amara. L'impossibilità di effettuare una comparazione documentale con gli originali confina l'indagine di Carranza nel limbo della fantarcheologia.

1993 - Viene pubblicato in Italia il libro Necronomicon, magia nera in un manoscritto della Biblioteca Vaticana, di Pietro Pizzari, ed. Atanor. L'autore, esaminando un manoscritto nella Biblioteca Vaticana, s'imbatte in una traduzione greca (quella di Teodoro Fileta, probabilmente) del libro proibito.

1994 (Giugno) - Il professor Venustiano Carranza traduce le Tavolette di Kutu nella copia clandestina fattagli recapitare dal professor Caracciolo - e di fronte all' incredulità e alla derisione del mondo accademico - le pubblica al di fuori dei circuiti scientifici tradizionali. Esce allora per l'editore Fanucci il volume Necronomicon - Nuova edizione con sconvolgenti rivelazioni e le Tavolette di Kutu - Il libro proibito di H.P. Lovecraft.

1997 - Il professor Carranza si reca in Iraq al seguito della delegazione italiana, in qualità di consulente del sindaco di Orvieto Stefano Cimicchi, partito per la capitale irachena al fine di organizzare in Italia una mostra sull' antica Nimrod. Alla domanda, rivolta al direttore dell' Iraqi Museum, dott. Youkhanna, di poter consultare le tavolette ritrovate a Kutu, gli viene risposto che quel materiale è disperso in numerosi bunker sotterranei della città e non è stato ancora, per carenza di personale e di fondi, inventariato.

1997 - In Yemen, nelle vicinanze della zona archeologica di Marib, durante alcuni lavori di trivellazione viene ritrovata una tomba nella quale è sepolto il corpo mummificato di uno sahir. La datazione al carbonio stabilisce che la morte dell' uomo, ucciso barbaramente, risale a un periodo di tempo che va approssimativamente dal 700 all' 800 d.C. durante la dinastia dei califfi Ommiadi. accanto al corpo mummificato dello stregone viene recuperata una bisaccia all' interno della quale, oltre vari talismani e amuleti, viene ritrovato un libro di pergamene, rozzamente rilegato, scritto in antica lingua sabea. A una più attenta analisi, condotta dal professor Al Nazari dell' Università del Cairo, il libro mostra essere un grimorio atto a evocare entità disincarnate. Alcuni nomi, scritti nell' antica lingua sabea, delle divinità evocate, risultano essere assai simili a quelle contenute nelle Tavolette di Kutu e citate da Lovecraft nei suoi racconti del Ciclo di Cthulhu: K-T-H-L-H (Cthulhu), S-H-B-H-K-R-N-H (Shub-Niggurath), H-S-T-R-H (Hastur). Il professor Gaetano Santanna, purtroppo scomparso misteriosamente dopo un breve periodo di permanenza a San'a dove si era recato per studiare la mummia dello sahir, ha lasciato scritto nei suoi diari che lo stregone sepolto a Marib, potrebbe essere l' Abdul Alhazred lovecraftiano e il grimorio ritrovato accanto a lui, una copia in lingua sabea del materiale magico-negromantico che corredava l'Enuma Elish nella sua edizione corrotta di Kutu, trafugato dalla carovana di libri inviata da Alessandria a Damasco dal generale Amr ibn al-As (Amb Ibn-al-As?), e che circolava nella penisola araba già alla fine del VII secolo d.C.

www.masa.altervista.org/alazif/necronomicon.htm







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Nel febbraio del 1818, mentre ancora si riprendeva dopo le sfrenatezze del suo secondo carnevale veneziano, Byron si dichiarò disposto a pagare per non essere tradotto in italiano: in Italia era venuto per godersi il clima e stare in pace, senza nessuna intenzione di partecipare alla vita della cultura locale.


Da polemico classicista qual era, nella letteratura italiana del tempo, soprattutto nella prosa, che trovava "pesantissima", non vedeva quasi niente di buono e con essa non voleva aver nulla da spartire. Ma, mentre interdiva la traduzione delle proprie opere, egli stesso volgeva in inglese il primo canto del "Morgante" del Pulci, insistendo per la pubblicazione con originale a fronte. Perché Byron non venne in Italia solo per il clima e la 'pace' (partecipò anche a un'insurrezione carbonara!), e per godersi un paese dove, a differenza che in Turchia, "la 'poligamia' è tutta per le femmine" così che si può star mesi "senza toccare una puttana", limitandosi "al più stretto adulterio"; allora non lo sapeva neppure lui, ma Byron era venuto in Italia soprattutto per abbandonare da poeta, la 'stanza spenseriana', con quel suo alessandrino finale d'inevitabile grandiloquenza, ed imparare i ritmi svelti della poesia giocosa cavalleresca e far seconda natura del distico baciato dell'ottava.



Quando, nel '16, attraversò le Alpi, Byron era ancora 'il giovane Aroldo', il solitario romantico per cui stravedevano le signore di tutti i salotti d'Europa; nel '23, quando salpò per la Grecia, era l'autore di "Don Juan*, il capolavoro che scandalizzò gli amici, fu la disperazione dell'editore, e ci mise quasi un secolo a fare 'innamorare' un'altra dama (ma questa volta davvero un'intenditrice: Virginia Woolf!). Indubbio dunque che alla vita e alla cultura italiana vada del merito per questo corso spettacolare; e non sarà un caso che proprio nella lettera in cui rivendica con più efficacia il valore e l'unicità di "Don Juan* ("avete tanti poemi 'divini', non è nulla averne composto uno 'umano'?"), Byron se ne esca anche con quella 'boutade', peregrina ma indicativa: "E poi intendo comporre la mia opera migliore in 'italiano'".
Byron non potrebbe che compiacersi che la sua prosa trovi un pubblico italiano proprio quando, sulle pagine letterarie, la parola d'ordine è 'leggerezza'.


Dei suoi "Diari" s'è già detto ("L'Indice", aprile 1989); ora tocca al più ambizioso, splendido volume dell'Einaudi. Delle oltre tremila lettere pervenuteci, Masolino d'Amico ne ha scelte circa trecentocinquanta, compilando "non una semplice antologia, ma un'autoritratto", una segreta autobiografia che inizia ad Harrow, dove un Byron sedicenne, tutt'altro che facoltoso e non ancora favorito dalla musa, annuncia alla madre che "comunque il cammino verso le Ricchezze e la Grandezza mi si pari davanti, mi aprirò una strada nel mondo o perirò nel tentativo", e si chiude sotto le piogge torrenziali di Missolungi, dove il 19 aprile 1824 il poeta trovò la morte. Le pagine che D'Amico intercala per integrare l'indiretta narrazione sono scritte con quello stile 'livellato' (fatti letterari e d'alcova, privati o politici, locali, mondiali, tutti sullo stesso piano) così caratteristico di Byron: complice dell''imparziale' concisione, il lettore sorride quasi ad ogni a capo (Es.: "per un momento [Teresa] ha preso in considerazione di entrare in un monastero a Nizza, ma ci ha ripensato avendo scoperto che non le sarebbe permesso prendere i bagni in mare": potrebbe, l'ultima amante del poeta che aveva ripetuto l'impresa di Leandro, uscir di scena più amabilmente?).



'Attraverso le lettere', seguiamo Byron dall'università di Cambridge (dove, dato ch'era vietato tener cani s'era portato un orso addomesticato), ai possedimenti in rovina di Newstead; poi in viaggio fra Portogallo, Grecia e Albania, fra pascià che lo importunano e donne d'ogni età e almeno un ragazzo da cui si lascia amare. Nel '12 è a Londra, dove "Childe Harold" e i 'racconti turchi' gli danno la celebrità istantanea, alla Camera dei Pari si fa portavoce degli 'Whig' più radicali (salvo subito inimicarseli con la sua ammirazione per Napoleone). Intanto ha relazioni con l'indiavolata Caroline Lamb, la matura Lady Oxford, la sorellastra Augusta (da cui forse ha una figlia), e impalma quasi per equivoco la gelida Annabella Milbanke: "ci credereste sposati da cinquant'anni", confida, la notte delle nozze, a Lady Melbourne, la sua più grande 'amica' ("quando dico 'amica' non voglio dire amante, che è agli antipodi"). Il matrimonio, da cui nasce Ada, non dura che un anno: il 25 aprile 1816, assediato dai debitori e perseguitato da suoceri assetati di scandalo, Byron lascia l'Inghilterra per sempre. Fa un tour delle Alpi (descritto nell'intensa lettera-diario ad Augusta); conosce Percy e Mary Shelley, e riprende la relazione con Claire Clairmont (cugina e occasionalmente amante di Percy), da cui avrà una figlia.


L'Italia la gira un po' tutta, risiedendo per lo più a Venezia, dove si divide fra Marianna Segati, la fornarina Margherita Cogni (di cui lascia un ritratto vivacissimo in una splendida lettera al Murray) e altre duecento donne che si contendono il Lord inglese "con gran confusione - e demolizione d'acconciature e fazzoletti". L'incontro con Teresa Guiccioli (aprile '19) segna la fine delle sue frenetiche avventure amatorie: dapprima con passione, poi quasi con rassegnazione, s'adatta al ruolo di cavalier servente. Nel '20 e nel '21 è a Ravenna, dove viene introdotto alla Carboneria dal fratello di Teresa; poi a Pisa, ancora dagli Shelley, a Livorno, in Liguria (1'8 luglio '22 Shelley annega al largo della Spezia). Infine è in Grecia, dove la guerra d'indipendenza contro la Turchia ristagna. Byron organizza un corpo di indisciplinati Sulioti e, nell'attesa dell'azione, scrive per il suo trentaseiesimo compleanno versi malinconici in cui s'augura di cadere in battaglia: morirà d'una febbre malcurata.



Con qualche eccezione (alcune lettere dalla Grecia, per esempio, o il resoconto dell'esecuzione di tre criminali, tanto più agghiacciante perché dopo l'orrore della prima decapitazione Byron s'accorge di "con quale tremenda rapidità le cose diventino indifferenti"), il libro è all'insegna della più sbrigliata e divertita ironia. Si direbbe che il vero Byron satirico nasca in prosa molto prima che in poesia: azzeccatissimi o scandalosamente mancati, certi suoi giudizi contemporanei sono indimenticabili ("Southey avrebbe dovuto fare l'addetto laico a una parrocchia, e Wordsworth la levatrice maschio"). Gli unici sentimentalismi si trovano nelle lettere alla Guiccioli, dove serve da schermo un italiano maldestro (con cui Byron, volendo, sa anche giocare: "addio mio 'tutto', ma 'non tutto' mio" scrive a una Teresa ancora maritata!).


Fra le lettere alla Melbourne, segnaliamo quella in cui le racconta i progressi nel corteggiamento di Frances Webster, continuando a scrivere anche quando il tronfio marito entra per proporgli "di scommettere 'che 'lui' per una certa somma conquista qualsiasi data donna - contro qualsiasi dato 'homme' compresi 'tutti gli amici' presenti'. Come in un romanzo ben strutturato, dieci anni (300 pagine) dopo, lo sciocco Webster, ormai piantato da Frances ma fiero di un titolo di Sir, rispunta a Genova all'assedio di tal Lady Hardy: quasi memore delle millanterie d'un tempo, Byron la mette subito sul chi va là.


Ma le opere 'ben strutturate' a Byron non interessano: "Mi chiedete i miei piani su Donny Jonny ["Don Juan*] - non 'ho' piani - non 'avevo' piani - ma avevo ed ho materiale [...] sarà osceno - ma non è buon inglese? - sarà corrotto - ma non è 'vita', non è 'la cosa'? - Potrebbe averlo scritto qualcuno - che non fosse vissuto nel mondo? - e se non si fosse trastullato in una portantina? in una vettura di piazza? in una gondola? contro un muro? in una carrozza di Corte? in un vis-à-vis? - sopra un tavolo? e sotto?". "Byron descrive quello che vede, io quello che immagino, e il mio è il compito più difficile" affermò Keats con secchezza; Byron non gli avrebbe dato torto, infischiandosene della difficoltà.


"Che cos'è la poesia se non il riflesso del mondo?": in queste lettere, il 'mondo' ha sempre la precedenza sulle creazioni dell'immaginazione e dell'arte. A volte Byron si sente sì come il personaggio di un dramma (e parla con le parole di Shakespeare); ma più tipico e affascinante è il suo stupore quando si scopre commosso a teatro, o quando "La Tempesta" del Giorgione (che in fondo è solo un'opera d'arte...), gli procura l'emozione delle cose reali. E la fedeltà al 'reale' è soprattutto una disponibilità alla contraddizione ("Ma se il poeta è davvero coerente / Come potrebbe mostrar l'esistente?" chiede in "Don Juan*): così, benché non sia impossibile rinvenire linee di continuità (il grande affetto per Augusta, ad esempio), l'epistolario è prezioso soprattutto per la storica accettazione della discontinuità, dell'inevitabile esilio, della separazione.




Gli amici, scrive a Mary Shelley, "sono come i compagni nel valzer di questo mondo - una volta finito il ballo non li si ricorda più tanto, per quanto piacevolissimi lì per lì": anche la danza non è più immagine di compiutezza, di ritorno. È soprattutto in questa consapevolezza che la devozione alla realtà del 'momento' implica rassegnazione alla sua inconclusa irripetibilità, che Byron è veramente 'moderno', e potrebbe far sue le parole recenti, scevre di nostalgia, di un altro grande poeta ed intellettuale cosmopolita: "per me la vita è un succedersi di distacchi. Ci si separa dalle proprie mogli, dai propri pensieri, dai propri legami, ci si allontana sempre di più, ogni giorno, a cominciare da noi stessi" (dall'intervista di Benedetta Craveri a Josif Brodskij, "La Repubblica", 20 dicembre 1989).


byron a roma

http://roma.repubblica.it/dettaglio/le-not...di-roma/1344525






Edited by barionu - 23/5/2021, 15:56
 
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Nome (tratto dal greco moderno

ἀποϕασισμένος


apofasimenos «condannato a morte»)

dei membri di una società segreta fondata (1830 circa) da F. Buonarroti per la realizzazione dell’indipendenza italiana e della repubblica unitaria. Trovò il maggior propagandista in Carlo Angelo Bianco di Saint-Jorioz e finì assorbita dalla Giovine Italia.





LA SETTA DEGLI APOFASIMENI A BOLOGNA




di GIOVANNI GRECO



Università di Bologna






La setta degli Apofasìmeni fu una società segreta fondata negli anni venti dell’Ottocento che partecipò anche ai moti del 1831. La setta fu guidata da Carlo Bianco di Saint-Jorioz che la organizzò in Francia e nelle colonie britanniche, e nel 1831 entrò a farvi parte anche Giuseppe Mazzini che successivamente, attraverso la Giovine Italia, l’assorbì (“una costola buonarrotiana inserita nella Giovine Italia”). Fra gli esponenti di rilievo Filippo Buonarroti, che contribuì peraltro, fra il 1831 e il 1834, a costituire una catena di società segrete. Gli Apofasimeni ebbero in Toscana, in Piemonte, a Bastia, a Napoli, a Parma e a Bologna le zone di più intensa diffusione, anche perché riuscirono a combinare elementi carbonari e patriottici dell’area romagnola e dell’area bolognese.

Il nome della setta derivava dal verbo apofasizo che in greco moderno significa sentenziare, e voleva equivalere a “uomini della sentenza già scritta”, persone disposte a tutto, disposte a rischiare sino alla morte, “condannate a morte”: d’altra parte, “è rischio di morte il nascimento” (G. Leopardi). L’etimologia è piuttosto ricca e variegata, tant’è che l’apofasimeno è ritenuto un “inguaribile malato”, ovverosia un uomo che, mentre da un lato coltiva i suoi ideali e una visione “romantica” della vita in generale, e della massoneria in particolare, dall’altro è profondamente teso alla realizzazione concreta dei suoi obiettivi culturali e umani. Senza dimenticare la definizione che Guerrazzi fornisce dell’apofasimeno: milite e cittadino ardito, deciso, costante, intraprendente, capace di servire in modo appassionato l’istituzione, ardente “amatore” del nostro paese. Secondo Napoleone de’ Masini, fu Filippo Buonarroti, cospiratore inesauribile, che, dopo il convegno massonico di Aarau del luglio 1823, al fine tra l’altro d’infondere nuovo vigore e linfa alla carboneria, creò la setta degli Apofasimeni, con un nome strano, “duro a pronunciare, difficile a ritenere, e fatto apposta per imbrogliare i delatori e spaventar le polizie”. In effetti, i giudici della Sacra Consulta, che a lungo indagarono le caratteristiche della setta, arrivarono alla conclusione che apofasimeno significava “dimostrante forza e furore”, mentre per Annibale Alberti gli apofasimeni erano “gli insoddisfatti”.

Carlo Bianco partecipò all’organizzazione della setta accentuandone il livello cospirativo e la struttura schiettamente militare. Essa era divisa in tende, centurie, castelli e campi, seguendo schemi derivati direttamente dalle strutture dell’esercito romano. Poteva diventare un apofasimeno ogni “cittadino italiano” capace di dimostrare di aver già arrecato danni “ai nemici della nostra auspicata patria”, per cui più “compromesso” era l’aderente, più possibilità aveva di essere accolto nelle file degli Apofasimeni. Ciascun profano veniva a lungo “tegolato” da un centurione, il quale doveva convincersi che non perseguisse fini individuali, ma esclusivamente patriottici. Ogni apofasimeno doveva essere all’ordine assoluto dei suoi superiori, doveva costantemente operare per la nascita della nostra patria e considerare tutti gli italiani fratelli alla stessa maniera. All’atto dell’iniziazione, dopo aver effettuato tutta una serie di giuramenti, fra cui il celebre giuramento dei supplizi, il neo-apofasimeno doveva appunto ripetere testualmente:



Ho prestato il presente giuramento perché sono convinto della bontà e santità della causa per la difesa della quale entrai in questa Società, e se mancassi ad una delle parti o a tutto quanto ho volontariamente giurato, voglio che mi sian levati gli occhi dalla testa, strappata la lingua dalla bocca, tagliato e scorticato il corpo, a poco a poco; che mi vengano stracciate le budella; che un veleno corrosivo mi corroda con dolore e spasimo i polmoni e lo stomaco con i più acerbi dolori; che il mio corpo venga squartato e che un cartello nel luogo del supplizio faccia vedere ai viaggiatori e passeggeri contemporanei e posteri la mia infamia; seguito dalla immediata punizione, portando scritte in lettere cubitali: qui fu giustamente punito N.N. infame, e così Dio protettore dei veri amanti della Patria mi protegga nell’adempimento dei miei doveri.



Tutti gli apofasimeni avevano un nome di battaglia e dovevano essere sempre pronti al combattimento con la baionetta, con sessanta cartucce e la coccarda rosso-verde-turchina ricevuta in consegna al momento dell’ingresso nella setta. Marco Bruto era il santo protettore degli Apofasimeni e il giorno della festa della società era l’anniversario della morte di Cesare.

Gli Apofasimeni erano considerati uomini pronti a tutto: si chiamavano militi e giuravano di prendere le armi al solo ordine del centurione “senza indagare le cause, né il perché”.

Una delle fonti maggiormente qualificate per comprendere l’essenza stessa della setta fu Mazzini, che entrò anche a farne parte (è conservata ancora la sua tessera firmata dal Gran Maestro): sosteneva, fra l’altro, che la setta era “diretta da ottimi capi, animati dagli stessi principii, cammina d’accordo colla nostra e saremo uniti al dì del pericolo”, e che gli Apofasimeni e la Giovine Italia erano ruote dello stesso carro e che lui, Mazzini, rappresentava l’anello di congiunzione fra i due gruppi: “Siamo già forti di due forze e spero che andremo raccogliendone altre con noi: abbiamo in Italia elementi sufficienti a rigenerarci, purché s’uniscano”.

La setta di Buonarroti e Bianco, per Mazzini, era costituita da “bassa gente”, montanari e marinai, artigiani e patrioti provenienti dalle professioni liberali, oltre a studenti e soldati. Bianco scrisse prima gli Statuti degli Apofasimeni e poi i “Nuovi statuti della società degli Apofasimeni in aggiunta e soppressione dei primi”[1]. Questi nuovi statuti furono redatti dal Bianco dopo l’ingresso nell’orbita del Mazzini e vennero riformulati in senso maggiormente egualitario, nel 1832, in concomitanza con l’accordo tra la buonarrotiana società dei “Veri italiani” e la Giovine Italia.

In particolare, nelle nuove istruzioni per gli Apofasimeni si leggeva:



Dalla rigenerazione che gli Apofasimeni preparano deve nascere per l’Italia un assetto uniforme alla giustizia, vale a dire a quell’uguaglianza che la natura ha posto fra gli uomini tutti. Quindi è che, mentre da noi si combatte per l’indipendenza, l’unità e la libertà della patria, dobbiamo studiare di svellere dal ruolo della medesima ogni seme di quei barbari istituti che tengono il popolo nel bisogno e nella dipendenza. Questi istituti soni i privilegi per mezzo dei quali le ricchezze trovansi ristrette in poche mani a danno della libertà e degli agi di tutti gli altri; finché tali vizi infesteranno l’Italia, imponibil cosa fia il renderla veramente indipendente e libera. Un grande incarico è questo che Dio c’impone.



Indubbiamente l’“Istruzione generale” ha un’impronta tipicamente giacobino-rivoluzionaria, attraverso la dichiarazione dei diritti e delle leggi naturali, l’abolizione dell’esistenza dei privilegi conseguenti, la sostituzione delle alte gerarchie ecclesiastiche con “un semplice sistema parrocchiale”.

Alla fine degli anni venti, inizio anni trenta, circolavano numerosi opuscoli di propaganda degli Apofasimeni che contribuirono a far registrare diverse adesioni grazie anche all’operato di Giuseppe Galletti, Giuseppe Petroni, Augusto Aglebert, Cesare Guidicini – ricordato anche nelle carte del Museo civico del Risorgimento di Bologna – ed altri.

Giuseppe Galletti (1798-1873), bolognese, si dedicò alla professione forense e alla vita politica. Dalla fine degli anni venti dell’Ottocento, si occupò alacremente della propaganda e dell’organizzazione all’interno della setta, riunita spesso nella sua stessa abitazione, punto di lavoro e di coagulo cospirativo, adoperandosi anche nei moti del 1831 e partecipando alla presa di Cento, che gli valse la nomina a rappresentante delle Province Unite. Venne costantemente posto sotto occhiuta vigilanza poliziesca, e il suo nominativo fu inserito nel Libro dei sospetti (1832). In questa fase, sostiene Marco Adorni, “risulta appartenente alla setta degli Apofasimeni di Bologna e mantiene contatti con gli esuli… [fra cui] l’avvocato romano Montecchi, ma l’intrapresa corrispondenza venne intercettata dalla polizia pontificia e gli costò arresto e processo insieme ai suoi complici”. Successivamente appartenne alla loggia “Galvani” e fu membro della Società di mutuo soccorso fondata dal fratello Livio Zambeccari.

Giuseppe Petroni (1812-1888), avvocato bolognese, si arruolò, nei moti del ’31, nella legione degli studenti universitari bolognesi; nel ’32, si iscrisse alla setta degli Apofasimeni col nome di battaglia di Marco Canonico, e venne arrestato nel ’34. Fondamentale fu l’incontro con l’avvocato Tognetti ai fini della sua decisione di sposare la causa liberale e cospirativa, e fortissimo il suo rapporto con Giuseppe Mazzini, di cui si conservano consistenti faldoni epistolari. Dell’avvocato Tognetti, che ricevette anche un elogio ad opera di Francesco de’ Marchi, pure Silvio Pellico aveva scritto: “Si è estinto ora in Bologna un giovine generoso, una delle speranze d’Italia, l’avvocato Tognetti”(12). Successivamente fu ministro di Grazia e Giustizia sotto la Repubblica Romana e Gran Maestro della massoneria italiana dal 1882 al 1885.

Augusto Aglebert (1810-1882), bolognese anch’egli, “partecipò ai moti del ’31 e come molti altri massoni venne schedato dalla polizia pontificia particolarmente puntuale nello specificare la qualificazione ‘massone’ a fianco dei compromessi”. Negli anni quaranta scrisse una commedia intitolata Di male in peggio e partecipò al moto insurrezionale di Savigno nell’agosto 1843. Fu prima nella loggia “Concordia”, poi partecipò ai lavori di fusione della loggia “Severa” con la “Concordia Umanitaria”, sorta sulle ceneri dell’antica “Concordia”, contribuendo alla nascita della loggia “Galvani” in cui operò in qualità di segretario, nella sede di via Santo Stefano 96. Ebbe un ruolo notevolissimo nella ricerca di una unità massonica nazionale. In una lettera al fratello Piancastelli ebbe a dire: “La massoneria ha principi che si elevano sopra le istituzioni sociali, sopra tutte le religioni, sopra ogni parola di morale. La massoneria riguardando governi e religioni come istituzioni, ne giudica l’andamento e le opere secondo i principi di libertà, eguaglianza, fraternità, che professa per dettato della Grande Madre della massoneria: la filosofia”.

Fra gli altri appartenenti alla setta si segnalano altresì il livornese Carlo Bini, il medico bolognese Gabriello Rossi, docente presso l’università di Urbino, il già menzionato De’ Masini, che inserì Petroni nella centuria bolognese, e Ignazio Ribotti.

In particolare, Gabriello Rossi veniva da Parigi, portatore delle idee e degli scritti di Saint-Simon, e fu precettore di Luigi Tanari (“in breve tempo si conquista la stima e la devozione del giovane allievo”); era membro della prestigiosa società medico-chirurgica di Bologna e professore di patologia e medicina legale. Socialista, scrisse alcune opere fra cui ricordiamo Sulla condizione economica e sociale dello stato pontificio confrontata specialmente con quella della Francia e dell’Inghilterra (Bologna 1848). Alla stessa stregua di Napoleone De’ Masini, ufficiale della Guardia civica, possidente, che secondo Bottrigari era il comandante della centuria bolognese, di Ignazio Ribotti, giunto dalla Spagna ufficiale, che comandò circa duecento uomini e che con chiari riferimenti agli Apofasimeni parla di “uomini disperati”, e di Federico Comandino, professore dell’Accademia di belle arti, che nel ’32 fu sotto il comando del De’ Masini.

Alla fine, dopo l’inglobamento degli Apofasimeni nella Giovine Italia, a Bologna trovò un certo spazio anche la Legione Italica, fondata a Malta nel 1837 dal modenese Nicola Fabrizi[2], così come la società dei Veri Italiani[3], società segreta vicina a Casa Savoia. Tutto ciò avveniva in un clima di estrema difficoltà data la presenza militare austriaca sino al 1838, con persecuzioni ed arresti all’ordine del giorno.

Nel 1840, proprio a Bologna si svolsero alcune riunioni di rilievo di cospiratori di ogni appartenenza, incontri che portarono anche al moto di Savigno del 1843, promosso da Nicola Fabrizi, ma osteggiato da Mazzini.







ORIENTAMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI



M. Adorni, Massoni bolognesi nelle vie di Bologna, in G. Greco (a cura di), Bologna massonica. Le radici, il consolidamento, la trasformazione, Bologna, 2007.

A. Alberti, Elenchi di compromessi o sospettati politici (1820-1822), Roma, 1936.

R. Barbiera, Passioni del Risorgimento, Milano, 1903.

P. Bertolazzi, Cronache risorgimentali. 1831-1849, a cura di G. Guidi, Bologna, 1999.

C. Bianco, Della guerra nazionale d’insurrezione per bande applicata all’Italia, Marsiglia, 1830.

F. Botti, Il pensiero militare e navale italiano dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale, Roma, 1995.

E. Bottrigari, Cronaca di Bologna, a cura di A. Berselli, Bologna, 1960-62.

A. D’Ancona, Memorie e documenti di storia italiana dei secoli XVIII e XIX, Firenze, 1914.

G. De Castro, Il mondo secreto, Milano, 1864, vol. VIII.

F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani, Milano, 1974.

A. M. Ghisalberti, Napoleone De’ Masini e gli Apofasimeni, in “Rassegna storica del Risorgimento”, 1934.

G. Mazzini, Carlo Bianco, in Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini, Imola, 1916.

E. Musiani, Circoli e salotti femminili nell’Ottocento. Le donne bolognesi tra politica e società, Bologna, 2003.

A. Occhi, Cenni sulla rivoluzione dell’anno 1831 a Bologna, Chiavari, 1900.

S. Pellico, Le mie prigioni (1832), a cura di A. Jacomuzzi, Milano, 1986.

F. Ragazzi, Napoleone de’ Masini, Bologna, 1962.

G. Rizzo Schettino, Terrorista per sistema, non per cuore. Vita e pensiero di Carlo Bianco, Roma, 2007.



[1] Lo Statuto e le norme della Società degli Apofasimeni sono conservati presso la Domus Mazziniana a Pisa.



[2] G. Greco, Nicola Fabrizi, teorico della guerra per bande, in AA. VV., Il pensiero di studiosi di cose militari meridionali in epoca risorgimentale. Atti, Roma, 1978. Fabrizi fu altresì al centro della cospirazione napoletana, con legami anche con Pisacane. Cfr. G. Greco, Le carte del Comitato segreto di Napoli, Napoli, 1979, e G. Greco, L’utopia di Pisacane attraverso le carte del Comitato, in Idealità politica e azione rivoluzionaria di Carlo Pisacane. Atti del Convegno nazionale di studi, Salerno, 1992.

[3] Oltre che a Bologna, i Veri italiani operavano pure a Vercelli, mentre a Livorno fra gli animatori vi furono anche due ebrei, Ottolenghi e Montefiore.


www.bibliomanie.it/setta_apofasimeni_bologna_greco.htm


Anche

http://bologna.repubblica.it/cronaca/2011/...rioti-13699086/


https://it.search.yahoo.com/yhs/search?hsp...e&p=apofasimeni

vedi filippo buonarroti

.com/yhs/search;_ylt=A7x9UnlO5idUdXEA3ypHDwx.?ei=UTF-8&hsimp=yhs-sweet_page&hspart=Elex&p=napoleone+de+masini+setta+degli+apofasimeni&SpellState=&fr2=sp-qrw-corr-top



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GHISILBERTI




www.risorgimento.it/rassegna/index....ricerca_libera=



Napoleone De' Masini e gli Apofasimeni

FONTI E DOCUMENTI

NAPOLEONE DE' MASINI E GLI APOFASIMENI





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Quando, dopo le molte vicende della sua vita avventurosa, Filippo Buonarroti si stabilì a Bruxelles, non rinunciò all'opera di organiz-zione e di riforma settaria. Fedele, sostanzialmente ai vecchi ideali carbonari, parzialmente modificati, come rammenta il Sòriga, dopo i gravi insuccessi del 1820-21, nel convegno massonico di Aarau del luglio 1823, si sforzava d'infondere nuovo vigore, di alimentare nuove linfe nelTormai esaurito organismo della Carboneria.

Tra le varie associazioni alle quali diede vita in questo periodo l'inesauribile cospiratore fu quella degli Apofasimeni dallo strano nome, ce duro a pronunziare, difficile a ritenere, e fatto apposta per imbrogliare i delatori e spaventar le polizie (1). Per mezzo del conte Carlo Bianco di Saint Jorioz la setta si diffuse dopo il 1830 in Italia, con qualche successo in Piemonte, in Toscana, nelle Romagne e in mezzo agli emigrati politici (2).


(1): A. D'ANCONA, Memorie e documenti di storia italiana dei secoli XYin e xix, Firenze, Sansoni, 1914, p. 202. Mentre l'estensore del ristretto processuale contro il De* Masini, di cui parleremo più avanti, interpreterà nel 1835 il nome nel significato forse di abnegazione ad ogni vincolo , i giudici della Sacra Conralla riterranno a. etimologia più probabile dimostrante forza, furore.


(2) R. SORICA, in Enciclopedia Italiana, v. DI, p. 665 ritiene il conte fondatore della setta, come già prima 6. LA CECILIA, Memorie storico-polìtiche dal 1820 al 1876, Roma, Aiterò, 1876-77, v. II, p. 45. Più recentemente la stessa idea ha accettato À. Luzro nel Corriere della Sera del 6 aprile 1932 (Il primo bio-grafp di G. Garibaldi). Ma è piuttosto da ritenere che il Bianco ne -Àa stato il diffonditore, cfr. G. ROMANO-CATANIA, Filippo Buonarroti, Palermo, Sandron. 1902, p. 182, in coi ai conferma quanto scriveva già il Mozzini: a capitanata da lui [Bianco] sotto l'alta direzione dì Buonarroti >->. V. anche sugli Apofasimeni G. DE CASTOO. Il mondo segreto Milano, Duelli, 1864, voi. Vili, p. 79; E. MICHEL in M. Rosi, Dizionario dei Risorgimento Nazionale, Milano, Vallardi, 1931, v. I, pagina 44.




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Gli Apofasimeni avevano un'organizzazione essenzialmente soldatesca: tende, centurie, castelli e campi sostituivano le baracche e le vendite carbonare; la gerarchia militare romana aveva fornito il modello, e cosi si avevano decurioni, capi manipoli, centurioni, capi coorte. Ogni gregario doveva essere cittadino italiano, ardito e deciso a tutto, capace di servire la patria, intraprendente, costante, ardente amatore d'Italia e disposto a sacrificare vita e averi per renderla una, indipendente e libera sotto forma repubblicana. Prima di essere ammessi nell'associazione, che aveva rispetto alle altre consimili un più accentuato carattere unitario, gli aspiranti dovevano provare di aver a portato danno copertamente e scopertamente ad un nemico d'Italia . Esaminato poi a lungo da un Centurione, il neofita doveva giurare solennemente che entrava nella società non per interesse particolare, ma per il fine sociale, ce essendo pienamente convinto che la sola unità, indipendenza e libertà possono rendere l'Italia florida e potente, senza di che non può esservi vera felicità per gli Italiani . E s'impegnava ad obbedire ciecamente agli ordini del proprio Centurione, a compiere lavoro assiduo per realizzare l'unità, l'indipendenza e la libertà della patria, a non riconoscere alcuna differenza tra gli Italiani delle varie provincie, a considerarli tutti fratelli, figli di una stessa madre e degni di una sorte migliore, a non rifuggire da alcun mezzo atto a raggiungere gli scopi della società. Un'invocazione teatralmente truculenta ammoniva sulla spaventosa sorte degli spergiuri: <c Ho ff prestato il presente giuramento perchè sono convinto della bontà a e santità della causa per la difesa della quale entrai in questa Società, <l e se mancassi ad una delle parti, o a tutto quanto ho volontariati mento giurato, voglio che mi sian levati gli occhi dalla testa, strap-a pata la lingua dalla bocca, tagliato e scorticato il mio corpo, a poco or a poco; che mi vengano stracciate le budella; che un veleno corro-<c sivo mi corroda con dolore e spasimo il petto, i polmoni e lo stomaco coi più acerbi dolori; che il mio corpo venga squartato e che un cartello sul luogo del supplizio faccia vedere ai viaggiatori e pas-a seggeri contemporanei e posteri la mia infamia, seguita dalla im- mediata punizione, portando scritto in lettere cubitali: Qui fu giu-a stamcnle punito N. N. infame; e così Dio protettore dei veri amanti 9. della Patria mi protegga nell'adempimento dei miei doveri ,
Ogni milite assumeva un nome di guerra romano dei tempi gloriosi della Repubblica e doveva tener pronto un fucile con baionetta, sessanta cartucce e una coccarda rosso-verde-turchina. L'anniversario della morte di Cesare era il giorno festivo dell'associazione, che vene-


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rava come suo santo protettore Marco Bruto. L'ordinamento della società appariva accentuatamente soldatesco e irrigidito nel forma* lismo di una disciplina esteriore che finiva per soffocare rentusiasmo e malamente teneva luogo di un principio morale predominante (3),
Il 19 febbraio 1831 nella Terra di San Casciano la polizia toscana perquisiva l'abitazione del piemontese Felice Ansaldi, cui Ira altre carte sequestrava gli statuti e varie istruzioni per gli Apófasimeni, Pochi mesi più tardi, in Marsiglia, anche il Mazzini aveva notizia della setta ed accettava di farne parte col nome di Trasea Peto, ritenendola utile come elemento materiale della sua federazione (4).
L'ingresso del Mazzini ebbe come conseguenza il versamento degli Apófasimeni nella Giovine Italia. Sia che comprendesse veramente <r l'efficacia e l'alto valore dell'apostolato mazziniano a risvegliare i popoli d'Italia, ad infondervi nuovi ardimenti, a rigenerarli , sia che sentisse come ormai fosse tramontata l'età d'oro della Carboneria, certo è che il Buonarroti permise al conte Bianco di fondere gli Apófasimeni nella Giovane Italia ed incaricò lo stesso Bianco di metter questa in contatto con la Giovine Carboneria dei Veri Italiani (5). Dal canto suo il Mazzini cercava di convincere i suoi amici che la società degli Apófasimeni era diretta da capi ottimi e animati dagli stessi principii e perfettamente d'accordo sulla via da seguire con la Giovine Italia: due ruote dello stesso carro . Le due associazioni sarebbero state unite nel giorno del pericolo. Da quanto afferma il Mazzini appare che gli Apófasimeni erano principalmente


(3) Le istruzioni dei militi apófasimeni stampò già E. MICHEL in F. D. Guerrazzi e le cospirazioni polìtiche in Toscana, Roma-Milano, Soc. ed. Dante Alighieri, 1904, pp. 165-177, e prima ancora, desumendole dalla copia che si conserva nel Museo del Risorgimento di Bologna' tra i documenti di Gerolamo Tipaldo de' Pretenderi (cfr. E. MASI in II segreto di re Carlo Alberto, Bologna, Zanichelli, 1890, p. 255 n.), A. OCCHJ nei Cenni sulla rivoluzione dell'anno 1831 a Bologna, Chiavari, Battilana, 1900, pp. 80-86. Un accenno anche in A. Luzio, op. cit. Attendiamo: là 'pubblicazione delle carte Cuneo per giudicare delle affermate modificazioni mazziniane agli statuti che negli esemplari finora noti appaiono impregnati dello spirito e infarciti dei luoghi comuni cari al vecchio carbonarismo, anche se la formula unità, indipendenza e liberta degli Apófasimeni rammenti quella mazziniana di libertà, indipendènza ed unione, della lettera a Carlo Alberto

(4) E. MICHEL, op. cit. p. 25; G. MAZZINI, Scritti editi ed inediti, ediz. naz., V, p. 50 n., xvm, p. 322 n., ov'è riprodotta la tessera di Apofasimcno del Mazzini.


(5) ROMANO-CATANIA, op. city * 21:0- Ved. la lettera di Mazzini a S. figlioli (Marsiglia, 9 agosto 1831) in SIX, V, pp. 49-50. Cfr. anche LA CECILIA, op. city, v. II, p. 45.




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sparsi ce tra la bassa gente, * montagnuoli,. marinai etc. , quasi a rappresentare principalmente l'elemento materiale. Con il giugno 1832 le due associazioni appaiono legate da un vero e proprio vincolo federale, /use, dirà il Mazzini, ma non così che non sorgessero dall'una parte e dall'altra diffidenze, riluttanze, opposizioni, come appare da più luoghi dell'epistolario mazziniano (6).
E l'innaturale accordo non poteva durare troppo a lungo. Il contrasto spirituale tra le due associazioni era stridente: gli Apofasimeni, anche se ritoccati e nobilitati dall'ardente spiro mazziniano, tradivano sempre l'angustia originaria delle formule carbonare e non potevano piacere al Mazzini, cui dorrà più tardi che la Legione Italica ne copiasse l'organizzazione complicata, minuta, e mancasse di un corpo di principii come già gli Apofasimeni. Son le solite cose ineseguibili, che tutti gli uomini della società siano soldati, che tutti vadano sui monti, etc. etc. . Il ricordo sfavorevole durò a lungo in Mazzini, anche dopo che la Giovine Italia ebbe praticamente tolti di mezzo gli Apofasimeni, assorbendone gli elementi migliori (7).
Nelle Romagne forse fu primo introduttore il greco Gerolamo Tipaldo de* Pretender!, aggregato alla Carboneria italiana, il quale ebbe qualche parte negli eventi bolognesi del 1831-32. Ma l'opera sua, che non dovette durare oltre il 1833, non pare abbia dato risultati efficaci (8). Ne maggior successo sembra riportasse Napoleone De' Ma-sini, che tra il 1833 e il 1834 tentò di far proseliti e di organizzare una centuria apofasimena. Ma poiché le notizie che si hanno sngli Apofasimeni sono per ora scarse, di lui e dell'opera sua si dà qui qualche cenno secondo i documenti dell'Archivio di Stato' di Roma (9).

(6) S.E.I., V, p. 98 (lettera a Elia Bensa); ivi, p. 101. Ved. anche ivi. p. 103 le istruzioni per le cose da intendersi ; ivi, p. 121, lettera del settembre 1832 al MelegariL

(7) S.E.I., XVI' p. 322, lettera al Melegari (30 dicembre 1839). Siiamo facendo (niello che rimprovera virino un tempo ai Veri Italiani, agli Apofasinumi, etc.* ivi, XIX, p. 363, lettere al Fabrizi (1 dicembre 18-10); ivi, XXH1, p. 29, lettera al Giannone (28 gennaio 1842). Ved. anche Protocollo della Giovine Italia, tÉC, p. 1(11, lettera del Lamberti al Mazzini (20 Hcttembrc 1844):

(8) E. MASI, op. cit., pp. 209 e 255-256.

(9) Per non citare continuamente le stesse fonti ricordo ohe questo stadio è condotto sulla base del ristretto processuale della causa Bologna di nuova società segreta contro Napoleone Marina, Enrico Curii, Giovanni Salvigni (Roma 1835) e eoi documenti del R. Archivio di Stato di Roma: Miscellanea politica 1835, B.* 96, num. 2948 e Processi politici della Sagra Consulta, 46 B nero e 28 nero B. Purtroppo, mancano i costituti originali




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Napoleone De' Masìni Pierattini (ma anche solamente Masini e più frequentemente Masina), nato sui primi dell'Ottocento a Bologna (all'atto dell'arresto aveva 34 anni) era, secondo appare dal ristretto processuale della causa politica che gli fu intentata, antico settario, noto per aver sempre manifestato massime contrarie alla religione e al governo pontificio e in modo particolare durante i turbinosi eventi del 1831-32. Nemico al governo s'era dimostrato <c sino dall'adolescenza e in tale atteggiamento aveva sempre persistito, unendosi alla gioventù più ardita e depravata . Nella notte del 4 febbraio 1831 era stato uno dei conduttori degli armati e più tardi aveva marciato agli ordini del Sercognani alla volta di Roma, giungendo fino a Otricoli e Amelia. Nelle agitazioni seguite al primo ritiro degli Austriaci dalle Legazioni, nel cosidetto periodo della Civica, aveva avuto nuova parte: si era segnalato come aiutante presso il Patuzzi con l'incarico particolare di provvedere all'abbigliamento dei Civici, aveva partecipato come tenente con la Civica bolognese al combattimento di Cesena del gennaio 1832. Frequentatore assiduo del famoso Caffè Spisani ce cognito ridotto de' Settari , soleva intrattenersi con individui notoriamente designati per liberali e vi teneva discorsi sediziosi, sparlando del governo e dei preti, spesso esprimendo l'augurio: a Venisse presto il momento di tornare a comandare! , come più tardi riferirà al processo qualche zelante testimone.
Né contegno più cauto pareva tenere quando andava alla Por-retta per ragione d'affari o per far visita alla propria sorella. Nel periodo febbraio-marzo 1833 vi si era recato per una settimana e anche questa volta non aveva cessato di farsi vedere colli cogniti nemici del governo , suscitando nuovi sospetti sulla sua condotta. Sospetti che si accrebbero in occasione di un suo successivo soggiorno dell'agosto, che provocò una maggiore sorveglianza della polizia nei suoi riguardi.


E si venne a conoscere prosegue il ristretto fiscale che il Masina praticava con tutte le persone sospette al governo perchè ritenute di mene perverse e contrarie al governo stesso ed alla religione t choj teneva si In casa di alcuni dì tali persone, e di una sorella di egnal carattere colà maritata, unioni scerete di notte con tutti i liberali del paese* pc? cui dall'autorità stessa si venne in qualche sospetto sulle medesime riunioni: che inoltre si risapesse doversi fare una cena da tali soggetti amici del Mattina dove doveva esservi in tavola una bandiera tricolore, qual ceno però fosse fatta invece in casa della sorella, in altro luogo, ed essendo sopraggiunta la vigilia, si mangiasse anche di carne... .



Tutte cose queste che Indussero il governatore di Porretta e sfrattare il De* Masini da questa località il 21 settembre 1833.



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Ora proprio in questo tempo il De' Masini aveva cominciato ad accogliere di notte in casa sua, in Via Cavaliera, presso la Chiesa di S. Niccolò degli Alberi, giovani per lo più baffuti e barbuti , come deporrà più tardi una cameriera, con i quali si chiudeva in una camera in misteriose confabulazioni. E durante il giorno continuava a fare insinuazioni alla gioventù di massime contrarie al governo, cercando di convincere i suoi interlocutori ad arruolarsi in una società o unione patriottica, pagando il socio qualche paolo al mese, società diretta alla libertà d'Italia , alla quale, egli assicurava, a molti bravi giovani già s'erano associati . Un altro testimone, cui qualche giorno di prigione rese meno incerta la memoria e meno reticente la lingua, si rammentò che il De' Masini, trovandosi a bere con Itti e con altri giovani all'osteria, aveva tenuto discorsi relativi alia libertà , sostenendo essère ormai tempo che tutti i giovani appartenessero al partito liberale, e a lui testimone aveva chiesto della sua passata attività politica e confidato che vi era persona che andava associando dei giovani per una certa unione in caso si rinnovasse un qualche imbroglio . E il testimone, decisamente indotto a più matura riflessione dopo essere stato et sperimentato col carcere , aveva ben compreso che l'arruolatore doveva essere lo stesso De* Masini (10).
Così, un po' troppo facile alle confidenze, il De* Masini andava facendo propaganda. Tra i primi a dargli ascolto fu il giovane chirurgo Giovanni Corazza, che assunse nella centuria apofasimena il nome di guerra di Catone (11). E il Corazza fu il tramite per le aggregazioni di altri giovani, tra i quali furono Luigi Bertoccbi, spedizioniere, di 26 anni (nome di guerra Virginio) e gli studenti Enrico Curii, diciannovenne (Euribiade), Giovanni Salvigni, ventiduenne (Aristide), Giuseppe Petrosi, ventenne (Tiberio Gracco), Federico Mazzoli, ventiduenne (Scipione), Cesare Guidicini, ventitreenne (Decio), Gaetano Colombarini (Camillo), ventunenne (12). Di altri associati il processo del 1835 non dà i nomi, ma un accenno delle memorie inedite di Augusto Aglebert, conservate nel Museo del Risorgimento di Bo-


(10) Sol De' Musini, v. per ora A. M. GHISALBERTI, in M. Rosi, Dizionàrio cit. v. Ili, pagina 519.


(11) Il Corazza aveva 23 anni Non potè essere arrestato perchè fin dal 10 agosto 1833 era partito con regolare passaporto per Algeri.


(12) Brevi cenni sulla parte presa noi moti del *31 da Pctroni, Corazza, Corti, Guidicini, Mazzoli, Salvigni sono in G. NATALI, Intorno ai moti del 1831 in Bologna, in li Comune di Bologna, 1921, pp. 29, 37, 38, 40, 41, 44 dell'estratto. Cesare Guidicini era fratello di un altro compromesso del 1831, Luigi, ivi, p. 26, e così pare Giovanni Salvigni (ivi, cenno su suo fratello Luigi, p. 45). Ignoro se




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logna, assegna agli Apofasimeni del De' Masini Felice Orsini, Giù-seppe Galletti e un Marzoli. La memoria, però, deve aver tradito l'antico patriota, che Felice Orsini non potè certo appartenere allora alla setta, essendo nato nel 1819 e la società disciolta nel 1834 (può forse trattarsi di suo padre, Giacomo Andrea), e il Marzoli non può già identificarsi nel Mazzoli compagno dei Bandiera e morto poi in Grecia* di cui parla l'Aglébert, perchè quello si chiamava Tommaso e non Federico. Così pure è errata la data del 1838 indicata dall'Aglehert per gli arresti.
I misteriosi convegni e gli imprudenti discorsi non dovevano restare a lungo nascosti alla polizia, che per mezzo di un segreto confidente ebbe presto notizia che il De' Masini oc potesse aver fondata in Bologna una nuova società segreta sotto la denominazione di Milizia Apofasimena e che ne fosse Centurione. Furono allora dati gli ordini per una perquisizione, che venne effettuata in casa di lui la notte dal 25 al 26 settembre 1834. E fu perquisizione fruttuosa, perchè si trovarono nascoste armi militari ed altri effetti non che le carte più interessanti relative alla società suddetta e queste occultate nel camerino della latrina, e murate nella celata superiore della medesima insieme con due stili, un coltello fermo al manico, una coccarda tricolore, una fascia di lana bianca, rossa e verde, cioè proprio il materiale, che secondo l'articolo 5 del Regolamento degli Apofasimeni ogni socio doveva tenere presso di se (13).



anche Cesare Salvigni, suicida a 30 anni, cugino di Felice Orsini, fosse parente di Giovanni e Luigi. Cfr. F. ORSINI, Memoirs and adventures, Edimburgo 1857, p. 24. Sul Petroni, più famoso di tutti, cfr. A. COMANDINI, Cospirazioni di Romagna e Bologna, Bologna, Zanichelli, 1899, pp. 509-513, G. MAIOLI, Giuseppe Petroni, in // Comune di Bologna, gennaio 1929. n. 1, S. GUCLIELMETTI, G. Mazzini e i suoi seguaci di Roma, in Rassegna storica del Risorgimento, XVI (1929), fase. I, id. in M. Rosi, Dizionario, cit., v. HI, pp. 862-863. Su lui v. pure MAZZINI, S.E.I. cit., voi. XLVHT, XL1X, L, passim. Gaetano Colomharìni prese poi parte con il fratello Raffaele al moto di Savigno.


(13) A p. 7 del Ristretto le armi sequestrate sono così specificate: ce Quattro fucili militari con sue baionette ben conservati, perchè involti con cimose di lana, e ben organizzali, cosi giudicati dal perito archibugiere; una spada con cintura di corame; una sciabola militare; un cappello appuntato alla militare; un giaccò di soldato d'infanteria ; un bonnet di panno verde filettato rosso con striscia bianca in argento; quattro giberne; un capotto di panno alla militare; una mun-tura di panno verde, con mostregialure rosse; un sottocorpetto di stessa uniforme; ottantatrè cartuccie formate di polvere sulfurea, a palle di piombo per uso di fucile; un fucile a due canne da caccia; e due pugnali triangolari della lunghezza fra manico e lama di nove onde, ed un quarto con manico di osso negro e tra-versetto di ottone; un coltello scrratore a molla a scrocco, lungo fra manico e lama 14 oncie, con punta accumulata , armi tutte proibite quoad omnia .




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Di notevole interesse apparvero subito i documenti sequestrati con le armi:
il catechismo della setta carbonica col tenore del giuramento che prestavano quei settori; una còpia di lettera, che sembra responsiva, che tratta dello scopo della società, cioè di render libera l'Italia... quale incomincia Fratello, salute ed amor di Patria Non è nostro intendimento di segregarci in alcun modo ...e termina colla sottoscrizione Il Direttore Aud.; tre scacchi di carta con indicazioni dei mesi con numero progressivo al nove per ciascun mese, ed in ogni numero con lettera alfabetica iniziale i cognomi dei socj sottoscritti con cifre di baj. e numeri di 10 o 30 o più ecc.; il regolamento dell'anione milizie Apofasi-mene...; il foglio contenente lo scritto del giuramento colle sottoscrizioni di otto socj ed una striscia di carta col nome; iteli nono socio relativamente alla detta unione; una stampa in forma di supplica di tenor sedizioso e ribelle sottoscritta da più avvocati e causidici bolognesi rigettando i Regolamenti giudiziari dei 5 ottobre e 5 novembre 1831; ed una copia di una lettera incendiaria e sediziosa scritta dal Piemonte in giugno 1832 da un Italiano, che incomincia Il Simulacro del Dispotismo sta per crollare... (14).
H regolamento, a giudicare dal rapido riassunto giudiziario, doveva essere uguale a quello già pubblicato dalla Occhi e dal Michel. Esso notava il processante:
istituisce in Italia una Società patriottica, sotto il titolo di Milizia Apofasimena nello scopo di procurare con ogni mezzo l'indipendenza, la libertà e l'unità d'Italia per rivendicargli l'antica potenza e splendore col mezzo del maggior numero possibile di Militi Apofasimeni in Città e sino ai più piccoli Villaggi. Il titolo del medesimo porta le parole odio ai tiranni indipendenza unità libertà * alla gloria dei grandi maestri di libertà Marco Giunto Bruto immortali italiani*
a Si compone il Regolamento di sette capitoli che all'iniquità dello scopo non aggiunge verun allettamento personale di vantaggio, e solo sembra istituita per fare mtt'il male possibile, nel solo amore del male.
Le qualità personali per essere ascritto milite (escludendosi chiunque non sia Italiano ed insieme domiciliato) consistono nel carattere ardito, deciso, intraprendente, costante, amatore della libertà, nemico del dispotismo, persuaso che l'Italia non può esser felice se non è unita in una sola Nazione, e libera nel suo interno politico governativo sistema; subordinato, segreto, disinteressato e pronto a sagrifìcare vita e sostanza. La forinola del giuramento si compone in sostanza dei medesimi elementi del regolamento .
Arrestato immediatamente il De' Maaini, si provvide anche all'arresto di quelli che apparivano firmatari della formula del giuramento sequestrato, ma il Corazza era partito fin dall'anno prima per l'Africa, il Mazzoli e il Colombari ni non furono trovati. Quest'ultimo, allora in campagna a Malalbergo, appena ebbe notizia dell'incarceramento


(14) Ristretto eie, pp. 8-9.





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del De' Masini, si recò nascostamente a Bologna il 25 settembre, e di qui, senza passaporto, fuggì in Toscana. Poco dopo potè imbarcarsi a Livorno per la Francia, ove, trovandosi privo di mezzi, si arruolò nella Legione Straniera la quale, dopo aver sostenute varie battaglie sulle coste dell'Africa, fu donata a Donna Cristina di Spagna , come è detto nel nuovo Ristretto contro il Colombarini.
Raggiunsero così il De1 Masini in carcere il Petroni, il Bertocchi, il Guidicini, il Curti e il Salvigni. I primi tre, a dispetto dei classici soprannomi, non ambirono affatto a crearsi una fama di eroi, che fin dal primo momento
a confessarono limpidamente di essere stati sedotti dal contumace Corazza lutti separatamente in novembre o decembre 1832 a recarsi in differenti sere e ciascuno isolatamente in casa del Masiua per far parte di una unione patriottica, e di essere stati costretti a firmare la formula del giuramento avanti un Crocifisso ed un pugnale senza essersi potuto ricusare di farlo, sebbene contro volontà dopo la prima giovanile imprudenza di aver ceduto all'invito benché non potessero immaginare che si volessero indurre a tanta enormità .
Il Curti e il Salvigni tentarono di difendersi negando tenacemente durante gli interrogatori di essere mai stati in casa De9 Masini, smentendo che le firme incriminate fossero le loro, pur ammettendo una certa somiglianza di scrittura. Ma anche questo loro contegno durò poco. Né più felici, anche se più recise, furono, come vedremo, le difese del De' Masini.
Sottoposte intanto le risultanze all'esame della Segreteria di Stato e fattasene relazione al Pontefice (23 gennaio 1835), questo si degnò di prendere in considerazione l'inesperienza dell'età dei tre confessi , le buone loro qualità precedenti, <c il pentimento dimostrato nell'aver ammesso il fallo , il fatto che quando firmarono non s'era ancora consolidato l'ordine pubblico, l'impossibilità di provare altro accesso dei medesimi in casa del Masina, o altra unione sediziosa con persone sospette e ordinò fossero messi in libertà a coi vincoli e comminatorie che il S. Padre rimise al prudente arbitrio dell'E.mo Commissario (15).
Quando il Curti e il Salvigni seppero della liberazione dei tre confessi Petroni, Bertocchi e Guidicini, decisero di mutar contegno e il 6 febbraio lo stesso giorno in cui elessero a proprio difensore pressò il Turno speciale della Sacra Consulta l'avv. Giuseppe Morandi chiesero di essere sottoposti a nuovo costituto. In mancanza degli atti


(15) Dispaccio 24 gennaio 1835, n. 25473. La liberazione avvenne il 31 gennaio.

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Alberto M. Gkisalberti
originali vediamo sulla fede del Ristretto che cosa asserirono in propria discolpa (16).

a II Corti per il primo disse che non per cattivo animo ma solo pél timore di non pregiudicarsi colla confessione di un fallo che conobbe aver commesso., ed anche per non far danno a chi lo aveva fatto incorrere nell'errore si era reso sino allora negativo del delitto, ma che si era quindi determinato a renderlo palese al Sovrano ed a qualunque altra autorità, e cosi passò anch'egli ad ammettere che cessata la Guardia Civica, nel gennajo 1832 ed avendo egli seguitato i suoi studi neU'univereità prese amicizia in novembre con Giovanni Corazza il quale secolui discorrendo delle passate rivoluzioni gli palesò che si stava istituendo un corpo di Milizia segreto per sostenere una nuova rivoluzione e gli fece conoscere che sarebbe stato bene se anche Egli vi si fosse unito come tanti altri, ed esserne allora indispensabile di parlarne con Napoleone Masina incaricato dell'arruolamento.

Che istigato più volte a risolversi facendogli conoscere che la cosa non si sarebbe scoperta se non nel caso di eseguirsi l'impresa fu condotto in una sera dal Corazza al Caffè Spisani ove fu presentato al Masina; e fu combinato di andare in casa di questo in un'altra sera ove realmente col Corazza si portò e dove sentì leggersi alcuni capitoli riguardanti il Corpo di Milizia Segreta ed il Masina gli fece prestare il giuramento ed apporre sul foglio la sua firma stando presso un Crocefisso ed un pugnale, e colla nuova assicurazione di non essere compromesso perchè quel foglio sarebbe stato spedito ai loro Superiori (17).
Che gli fu ordinato di provvedersi delle armi a tenore del disposto in imo degli articoli, armi che egli non mai provvidde tanto perchè dopo detto anno [sic per atto?] si penti di ciò che avea fatto quanto perchè passando il tempo ninno più gli parlò di' questa unione.

Disse di non aver mai conosciuto altri fuori che del Masina, e del Corazza e rinnovò infine del Costituto l'assicurazione del suo pentimento.
Non dissimile fu il contegno che nello stesso giorno dopo di esso tenne il Salvigni nelFaver richiesto di essere assoggettato a costituto. Sennonché soggiunse che nel sentir leggere il tenore di quel giuramento ne ebbe ribrezzo, ma il passo era fatto, e non gli faceva permettere di ricusare la firma: che per alcuni mesi sborsò baj dieci mensuali come gli era stato imposto, e che per compassione non del Masina, ma della famiglia si determinò a tacere il vero .
(16) Ristretto, pp. 21*23. Enrico Curii, figlio di Giuseppe e di Pietra Carondi era nato a Bologna nella Parròcchia di S. Maria Maddalena il 9 gennaio 1814. Rimasta vedova, la madre era passata a nuove nozze con il dott. Antonio Gibelli, di Francesco, possidente e architetto. Enrico si era laureato in chirurgia a a pienezza di suffragio il 12 giugno 1834. Sono nella memoria defensionale dell'avv. Mirandi attestati di antichi professori del Curii in suo favore. Giovanni Salvigni era figlio dell'avv. Andrea. Dell'uno e dell'altro il parroco di San Vitale e Agricola, Sante Turba, attestava il 5 settembre 1835 di non avere mai saputa cosa alcuna contro la loro condotta.

(17) Cfr. con E. MICHEL, p. 166 e 168. Evidentemente nella pratica si era piuttosto sbrigativi e lo Statuto non veniva rispettato alla lettera.

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La confessione giungeva tardiva e il Curii ed il Sai vigni non riuscirono a sottrarsi al giudizio della Consulta. Ma intanto avevano compromessa la posizione del De4 Masini, che veniva riconosciuto come reo principale e uno dei principali autori della suddetta riunione patriottica .

Le risultanze contro di lui erano gravi. Un preciso rapporto di polizia l1 aveva accusato come Centurione degli Apofasimeni; i suoi precedenti politici lo designavano come avversario accanito del governo pontifìcio e liberale influente (e anche dopo l'arresto a la fazione liberalesca di Bologna procurava ogni mezzo per sottrarre dalle conseguenze della processura il Mas ina ); il sequestro avvenuto in casa sua di armi, emblemi, ecc., Torniva indizi chiarissimi di reità; le relazioni con elementi sospetti e da ultimo le confessioni degli altri inquisiti erano altrettante prove di colpevolezza. Negare era difficile e il De' Masini non tentò neppure di dare una smentita recisa e categorica, limitandosi a cei'car di attenuare, di ridurre, di spiegare. Sue, quindi, in parte le armi, eredità del tempo della Civica, altre consegnate a lui da ex Civici al momento dell'ordinato loro ritiro (ma la sua pretesa di avere avuto incarico ufficiale di questa operazione hi smentita dai testimoni da lui addotti...); suoi anche i pugnali e il coltello e di sua mano le carte, ma quanto a queste poteva spiegarsi... O almeno, gli pareva, che la storiella tirata fuori per l'occasione non poteva convincere nessuno tanto appariva inverosimile a prima vista.

E rendendo ragione dell1 epoca come e perchè tali carte fossero in sno potere, si fece a narrare che tornato da Otricoli dopo la rivoluzione si portasse in Porretta per suoi interessi, ed essendo amico di un tal Giovanni Pasquini di colà, in un giorno segretamente gli facesse parola che voleva associarsi ad una unione diretta a rinnovare la ribellione, al che si ricusasse, ma che in altro giorno lo stesso Pasquini tornandogli a parlare della stessa cosa gli dicesse, che quantunque non avesse volnto appartenere all'indicata società sarebbe stato a parte dei secreti di quella, e così dicendo gli consegnasse alcune carte pregandolo a farne copia ed a restituirgli l'originale e la copia stessa.

Che incominciata in casa la copia, conoscesse dal contenuto che quei scritti erano l'istituzione della società ridetta, per cui non volendo porre di suo carattere cose contro il governo facesse la difficoltà al Pasquini, il quale gli ripromettesse che non sarebbe stato compromesso; motivo per cui ultimasse la copia e la consegnasse col ritorno dell'originale. Negando rammentarsi il tenore dei fogli scritti, né il titolo della società [sic!].
Prosegui la narrativa asserendo che nell'autunno del 1832 il detto Pasquini si conducesse in Bologna per farsi curaro da una malattia, che fu l'ultima del medesimo, e negli accessi che aveva ila esso segretamente gli riconsegnasse le copie di quel regolamento di società, avvertendolo di conservarle per restituirle o ad esso se fosse guarito o a chi glie ne avesse fatta regolare richiesta e che in tal circo-*


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Alberto M. Ghisalberti
stanza gli facesse porre di suo carattere alcune postille sopra a scritti di altro carattere che vide esservi nel mezzo foglio contenente il tenore del giuramento, senza neppure rammentarsi le dette parole, e sapere perchè quelle si facessero vergare dal Pasquini.

Che allora gli facesse prestare il Pasquini il giuramento di non palesare a chicchessia la cosa e li scritti di altro carattere, e che, morto il Pasquini, niuno più glie ne facesse ricerca, senza che esso dopo poste in nascondiglio tali carte ed oggetti più le vedesse, asserendo che niuno fosse stato di ciò informato; e che tenesse quelle conservate con tanta circospezione perchè trattavano di cose contro il governo ed erano di sno carattere e non poteva distruggerle per il prestato giuramento suddetto. Che egualmente il Pasquini le (sic) facesse in sua cosa copiare quella lettera che incomincia Italiani, il simulacro del dispotismo sta per crollare e gli ordinasse di custodirla... >) (18).

(Ma ahi, che in un altro costituto aveva già detto che quella lettera gli era stata consegnata, perchè ne facesse copia, dal Patrizzi, sebbene nel giugno 1832, data della lettera, il Patuzzi non fosse più a Bologna!) E cosi pure gli avrebbe ordinato di custodire
a l'altra lettera che principia: Fratello, salute ed amor di patria e termina colla sottoscrizione II direttore Aud., ed unitamente a queste carte le (sic) consegnasse anche li pugnali ed il coltello serratore detto alla lughese, quali armi dichiarò però non poter descrivere, né riconoscere perchè parimenti non aveva mai quelle più osservate e rimosse dall'involto come gli erano state consegnate.

Quindi relativamente alii stralcetti di conti egli disse che nei giorno dopo che il Pasquini erasi condotto in Bologna a sua dettatura gli facesse scrivere prima in lapis e quindi coli'inchiostro le indicazioni in detti pezzi di carta contenenti i mesi dell'anno, i nomi progressivi fino al nove, e nella decima finca un zero in ciascun mese con alcune lettere iniziali ed altri numeri, senza che esso conoscesse, il motivo... (19)

L'ingenuo romanzetto mal si reggeva, perchè le indicazioni di pagamento giungevano fino al maggio 1834 e il Pasquini... era morto fin dal 12 aprile 1833. Invano tentò il De* Masini di opporre alle contestazioni del processante che nel dettargli le medesime il Pasquini, esso le (sic) domandasse il motivo di portare tant'oltrc quelle indicazioni, egli rispondesse che lui non doveva indagarne il motivo e che avesse seguitato a scrivere....;:; i suoi loquaci correi avevano svesciato ogni cosa e c'era poco da fare contro cinque concordi testimonianze.

(18; Ristretto, pp. 9-12.

(19) Ivi, p. 13, I cinque confessi riconobbero infatti di essersi impegnati al versamento mensile di una piccola quota: Petroni 30 baiocchi, gli altri 10. Il Berlocchi aveva corrisposto fino lire mesi prima dell'arresto. E tutto questo era confermato dagli stralcetti d'incasso. Il Colorai)orini pagò solo 30 baiocchi il primo






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MUNDUS PATET


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MUNDUS CERERIS


http://it.wikipedia.org/wiki/Mundus_Cereris


FLAMINE

http://it.wikipedia.org/wiki/Flamine


Fondazione di Roma, vedi PLutarco , vita di Romolo

http://it.wikipedia.org/wiki/Fondazione_di_Roma






MUNDUS

LAPIS MANALIS



MANALE, PIETRA
Enciclopedia Italiana (1934)

di Gioacchino Mancini

MANALE, PIETRA. - Nella lingua latina l'aggettivo manalis è propriamente qualificativo di una fonte che getta acqua copiosa e perenne. Si adoperò anche per indicare vasi da versare acqua. Tuttavia per manalis lapis s'intende propriamente una pietra sacra che ha virtù di provocare la pioggia. Con tale denominazione fu anche designata la pietra che chiudeva la porta dell'Orco, nel mondo degl'Inferi, rimossa la quale le anime, ossia i Mani, potevano liberamente uscire dall'Ade, per risalire presso i viventi. Anche la pietra che chiudeva il mundus, ossia quella vasta fossa scavata al centro dell'abitato nei primitivi villaggi, aveva lo stesso epiteto di manalis. Da ciò si dovrebbe dedurre che tale voce derivi piuttosto dai Manes, che dalla voce verbale marare.

Nella disciplina augurale degli Etruschi, che i Romani seguirono in gran parte, vi era un rito consistente nel far ruzzolare (verrere) una o più pietre (petrae manales), in tempo di siccità, per ottenere la pioggia. Questa pratica, dapprima di carattere privato, entrò nella religione dello stato, sotto forma di una processione (pompa), presieduta dai pontefici. L'atto più importante di tale cerimonia, che si diceva aquaelicium, era il trasporto della pietra sacra, di forma cilindrica, ordinariamente deposta nel tempio di Marte, rappresentante le forze vegetative della terra. Nel giorno prefisso la pietra sacra veniva recata solennemente in città, fino al tempio di Giove Capitolino. La matronae, che prendevano parte alla pompa, giunte al clivo Capitolino, scioglievano le loro chiome e si denudavano i piedi (onde il nome della processione: nudipedalia) e così scalze ascendevano l'erta del colle, recitando preghiere a Giove, perché concedesse la pioggia. La cerimonia assumeva un carattere funebre; i magistrati che vi prendevavo parte deponevano la toga listata di porpora, e i littori portavano i fasci capovolti. Termine della cerimonia era l'immolazione cruenta di una vittima.

Bibl.: J. A. Hild, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, III, p. 1562 seg.; G. Wissowa, Religion u. Kultus d. Römer, 2ª ed., Monaco 1912, p. 368.


LE FESTE DI ROMA ANTICA



www.maat.it/livello2

/Dizionario%20d...tica%20Roma.htm





L'Umbilicus Urbis Romae


www.romasegreta.it/campitelli/foro-...icus-urbis.html




L'Umbilicus Urbis Romae è una costruzione conica in mattoni risalente all'epoca severiana, un tempo rivestita di marmi bianchi e colorati, situata tra i Rostra e l'Arco di Settimio Severo: come dice la parola stessa trattasi dell'ombelico di Roma, ovvero il centro della città, ad imitazione dell'omphalòs greco.


La costruzione, come possiamo notare nella foto sopra, è dotata di una porticina per consentire l'accesso alla cavità sotterranea. Il fatto di essere il centro della città e di avere una cavità sottostante riporta al racconto della fondazione di Roma fatto da Plutarco: questi infatti narrava che Romolo scavò una fossa circolare "nel luogo che ora è chiamato Comizio" e vi gettò dentro le primizie di ogni cosa. I seguaci di Romolo, a loro volta, vi gettarono un pugno della loro terra di origine. Questa fossa era chiamata dai Romani "mundus", con lo stesso vocabolo usato per indicare l'Olimpo.


Plutarco prosegue dicendo che la fossa chiamata "mundus" era considerata il centro del solco circolare tracciato intorno ad essa con un aratro, trainato da un bue e da una vacca che vi erano stati aggiogati: questo solco era il "pomerium" di Roma. Da qui la tradizione romana di scavare una fossa, il "mundus" appunto, prima di ogni altra opera nel luogo che sarebbe stato il centro della città, perché quella era il collegamento con il "mundus Cereris", ovvero il confine fra il mondo dei vivi ed il mondo dei morti. La fossa, di forma circolare a ricordare la volta celeste e l'universo tutto, era chiusa da una pietra e rimaneva chiusa per tutto l'anno ad eccezione di tre giorni, il 24 agosto, il 5 ottobre e l'8 novembre, durante i quali "mundus patet", ovvero il mondo è aperto, mettendo così in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti.



L'apertura del "mundus" stabiliva una comunicazione effettiva, visibile, tra i tre mondi (celeste, terreno ed infero), nel luogo stesso dove questi si congiungevano. La pietra che chiudeva l'accesso al mondo sotterraneo dei morti, regno di Plutone e Proserpina, era detta "lapis manalis" perché da lì passavano i Mani, ovvero le anime dei morti buoni, dei "parentes", delle persone di famiglia dalle quali ci si aspetta protezione e benevolenza anche dopo la morte. In quei 3 giorni in cui "mundus patet", giorni ritenuti solennemente religiosi ma durante i quali era più facile varcare la soglia perché la pietra era aperta, era proibito svolgere qualsiasi attività pubblica: pertanto era considerata cosa empia non solo dare battaglia o cominciare una guerra, ma anche arruolare soldati, salpare con le navi o unirsi alla moglie per avere figli.


Circa il primo interdetto, Varrone sottolinea e conferma come i Romani "ritenessero che era meglio andare a combattere quando fosse chiusa la bocca di Plutone", ovvero la bocca degli inferi.

BOCCA DELLA VERITA'

www.romanoimpero.com/2012/05/la-bocca-della-verita.html

GLI DEI MANI

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MISURE BOLOGNESI

https://it.wikipedia.org/wiki/Antiche_unit...ario_di_Bologna

Il braccio si ritiene di 20 once del piede, e si divide in metà, terzi, quarti, sosti, ed ottavi.

Il piede si divide in 12 once, l'oncia in 12 punti. 10 piedi fanno una pertica.


PERTICA : CM 380


PIEDE : CM 38

ONCIA : CM 3.16 ------ 666666667

BRACCIO : CM 63.3------- 333333333

PUNTO CM : 0.26 ------ 333333333


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BYRON A BOLOGNA


www.bibliotecasalaborsa.it/cronologia/bologna/1819/5244



Ritorno di Byron a Bologna


Lord Byron ritorna a Bologna il 10 agosto, preceduto di poco dalla contessa Guiccioli e consorte diretti a visitare alcune loro proprietà nel territorio di Molinella. I due alloggiano a palazzo Savioli in via Galliera. L'appartamento affittato poco lontano da Milord è occupato dalla servitù.

Il poeta vive di fatto a palazzo Savioli con i Guiccioli, sotto gli occhi della polizia pontificia, preoccupata per la presenza in città di un noto libertino e sospetto carbonaro. L'11 agosto assieme ai conti Guiccioli assiste all'Arena del Sole alla rappresentazione della "Mirra" di Alfieri, riportanto un "soffocante raccapriccio" per la prova dell'attrice protagonista Anna Maria Bazzi. Durante il suo soggiorno il “Lucifero inglese” incontra "il fiore della società intellettuale" bolognese.

Alcuni dei protagonisti frequentano il salotto letterario di Cornelia Rossi Martinetti, come il professore Paolo Costa, che in seguito darà ospitalità ai due amanti nel suo rifugio di Firenze e al quale Byron dedicherà il poemetto "The Bride of Abydos", Francesco Rosaspina e Antonio Basoli, apprezzati pittori e incisori, l'ingegnere Giambattista Giusti, il poeta Marchetti, il conte Francesco Benedetti, assiduo di Dante e assessore dell'Accademia Felsinea.

E' assente invece da Bologna il critico e letterato Pietro Giordani, caro amico della Martinetti e di Canova, conosciuto da Byron a Venezia. Tra gli incontri di Milord, molto apprezzato è quello con il cardinale Mezzofanti, definito un "portento glottologico". Il 15 settembre Byron e la Guiccioli lasciano Bologna e si separano dal conte Alessandro. Tornano verso Venezia, e lungo il percorso visitano Arquà e i colli Euganei. Milord sarà a Bologna un'ultima volta nell'ottobre 1821, di passaggio per Pisa. Nella "City of Sausages" farà ancora visita al cimitero della Certosa e al suo incredibile custode-cicerone Germano Sibaud, circondato di teschi.



Fonti della notizia:
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Approfondimenti:

Maria Teresa Chierici Stagni, Con Byron tra Bologna e Ravenna, Bologna, Pendragon, 2001, pp. 12-23

Silvia Benati, Un affresco politico-sociale: la Società del Casino (1809-1823), in: Negli anni della Restaurazione, a cura di Mirtide Gavelli e Fiorenza Tarozzi, Bologna, Museo del Risorgimento, 2000, pp. 85-86, nota 85

Loris Casadio Montanari, Cornelia Rossi Martinetti. Una gentildonna lughese tra l'età napoleonica e il Risorgimento, Ravenna, D. Montanari, 2002, pp. 43-44

Alessandro Cervellati, Certosa bianca e verde. Echi e aneddoti, Bologna, Tamari, 1967, pp. 22-23

Filippo Raffaelli, I segreti di Bologna, Bologna, Poligrafici, 1992, p. 75

Rita Severi, Dopo Byron. Viaggiatori inglesi e americani a Bologna e dintorni, in: “Il carrobbio”, 33 (2007), pp. 188-189



Bibliografia generale
Bologna online
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› scrivete alla redazione

Biblioteca Salaborsa inizio pagina 11.03.2017
 
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