Origini delle Religioni

(Prosper Alfaric) ORIGINI SOCIALI DEL CRISTIANESIMO

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CAT_IMG Posted on 30/5/2023, 05:59
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L'invisibile e l'inesistente si somigliano molto. (Delos B. McKown, The Mythmaker's Magic)

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CAT_IMG Posted on 31/5/2023, 04:47
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CAT_IMG Posted on 7/6/2023, 16:24
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(Questo è l'epilogo della traduzione italiana di un libro del miticista Prosper Alfaric, «Origines Sociales du Christianisme». Per leggere il testo precedente, segui questo link)


INDICE

PREFAZIONE

INTRODUZIONE

CAPITOLO PRIMO — Il cristianesimo nascente. Veduta generale.

PRIMA PARTE — ORIGINI PALESTINESI

CAPITOLO II. — L'ambiente palestinese

I. — La Palestina. Il suolo palestinese. Le strade palestinesi. «Nei giorni del re Erode»

II. — Transgiordania e Galilea. La Transgiordania del Nord. La Perea. La Galilea.

III. — Samaria e Giudea. La Samaria. La Giudea.

IV. — Gerusalemme. Il Tempio. I pellegrini.

CAPITOLO III. — I Palestinesi

I. — I Sadducei. Posizione sociale. Situazione economica. Orientamento politico. Dottrine religiose. Sadduceismo e cristianesimo.

II. — I Farisei. Posizione sociale. Situazione economica. Orientamento politico. Dottrine religiose. Farisaismo e cristianesimo. 

III. Gli Zeloti. Posizione sociale. Situazione economica. Orientamento politico. Dottrine religiose. Zeloti e cristiani.

IV. — Gli Esseni. La loro importanza. Posizione sociale. Situazione economica. Orientamento politico. Dottrine religiose. Essenismo e cristianesimo.

CAPITOLO IV. — I fattori del cristianesimo

I. — Fattori ebraici. Letteratura profetica. Profezia di Giacobbe. Isaia. Il secondo Isaia. Malachia. Libri sapienziali. L'ecclesiastico. I Proverbi. La Sapienza di Salomone. I Salmi. Salmi per l'intronizzazione del re. Salmo 2. Salmo 110. Salmi per il giusto in angoscia. Salmo 22. Salmo 69. 

II. — Fattori esseni. Il vero problema. Verso la soluzione. Il Cristo salvatore degli Esseni. Il giusto perseguitato degli Esseni. L'epistola agli Ebrei. L'Apocalisse. La nascita del cristianesimo.

IV. — Primi fattori cristiani. Il giusto sofferente della Bibbia ebraica. «Logia». Il Vangelo dei Nazareni. Il libro di Elcasai. 

SECONDA PARTE. — ORIGINI SIRIANE

CAPITOLO V. — Origini siriane

I. — La Siria nel primo secolo. Geografia. Gli ebrei siriani. Proseliti siriani. Gli dèi salvatori. Il cristianesimo in Siria. L'apostolo Paolo.

II. — Dal giudaismo al cristianesimo. Il cristianesimo e la legge mosaica. Missioni siriane. Verso l'autonomia: la guerra giudaica. Il Deutero-Paolo. La crocifissione e la resurrezione. La nuova Pasqua e il ritorno del Salvatore. Profeti e glossolali. La Pentecoste.

III. — Nuovi sacramenti, nuova morale. Il battesimo. L'Eucarestia. Ascetismo.

IV. — L'Epistola di Barnaba. Israele è riprovato. Simbolismo dell'Antico Testamento. Morale comune.

V. — I primi testi evangelici. Il Vangelo secondo Marco. La più antica vita di Gesù è giudaizzante. Lo spirito e la lettera. La parte dei Gentili. Il Paolinismo. Il Simonianesimo. Teologia nuova. Il Proto-Luca. Tendenza anti-giudaizzante. L'insegnamento di Gesù. Ripudio del giudaismo. Il Dio-Padre. La passione secondo Luca. Dottrina universale.

TERZA PARTE. — ORIGINI EGIZIANE

CAPITOLO VI. — Origini egiziane

Alessandria, capitale intellettuale. Gli ebrei in Egitto. I terapeuti. Penetrazione cristiana. Persecuzione degli ebrei. Cristiani anti-giudaici. Basilide. Carpocrate. Valentino. Ruolo delle donne.

QUARTA PARTE. — ORIGINI GRECHE

CAPITOLO VII. — La Grecia e l'Asia. San Paolo.

I. — La civiltà greca all'inizio dell'era cristiana. Geografia. Cultura. Una città ellenizzata: Antiochia. Religioni. Ebrei di Grecia.

II. — L'Asia Minore, seconda patria del cristianesimo. Geografia. Filosofie. Religioni. Ebrei d'Asia.

III. — Comunità paoline. I viaggi di Paolo. La predicazione di Paolo. Comunità paoline. Il Deutero-Paolo.

CAPITOLO VIII. — La Grecia e l'Asia. San Giovanni e la Gnosi. 

I. — Comunità giovannee. L'Apocalisse. Il quarto vangelo. Le epistole giovannee.

II. — Comunità gnostiche. La gnosi secondo Ireneo. Ofiti. Naasseni.

III. — La gnosi simoniana. I Simoniani. Simone e Paolo. Paolinismo e giudaismo. Tendenze giudaizzanti. Conclusione. 

QUINTA PARTE. — ORIGINI ROMANE

CAPITOLO IV. — Inizi del cristianesimo a Roma.

I. — Roma e i Romani. L'imperialismo romano. La filosofia romana. La religione romana. Le religioni orientali a Roma. Gli ebrei a Roma. I proseliti romani.

II. — Gli inizi della Chiesa romana. Il cristianesimo a Roma. Cristianesimo giudaizzante. Religione della plebe.  Le donne cristiane. Gli schiavi cristiani. Un profeta: Erma. Un chierico: Clemente di Roma.

III. — La crisi anti-giudaica. Prima della crisi. Le origini del conflitto. Un dottore: Marcione. La Chiesa marcionita.

IV. — Prime reazioni anti-marcionite. Emendamenti ai libri di Marcione. Il Vangelo secondo Luca. Atti degli Apostoli. L'edizione canonica di Paolo. Il correttore anonimo: Clemente di Roma.

V. — Nuove scritture. Prima epistola di Pietro. Tendenze opposte: l'epistola di Giacomo. Il Vangelo secondo Matteo.

CAPITOLO X. — La crisi gnostica.

I. — Gli ambienti sociali. La fede dei semplici. La gnosi dei letterati. Il conflitto dottrinale.

II. — Contro gli gnostici. L'opera anti-gnostica di Giustino. Le epistole pastorali di Paolo. Un profeta d'ancien régime: lo pseudo-Giuda. La seconda epistola di Pietro.

CAPITOLO XI. — Conclusione. Dal messianismo ebraico alla Chiesa cristiana.


CAPITOLO XI

CONCLUSIONE


DAL MESSIANISMO EBRAICO 

ALLA CHIESA CRISTIANA

Il cristianesimo deriva in linea retta dal giudaismo. Il suo nome stesso lo dice. Tutti sanno che la parola Cristo, che deriva dal greco Christos, non è che la traduzione dell'ebraico Massiah o Messia, che vuol dire «unto». Riflette un'idea fondamentalmente ebraica. I re di Giuda e di Israele erano consacrati per mezzo dell'unzione con un olio santo, che passava per comunicare loro lo Spirito di Jahvé. Quando il regno di Gerusalemme, dopo quello di Samaria, era caduto, i pii ebrei invocavano con le loro preghiere e non cessarono di sperare, con un ardore incessantemente accresciuto, l'avvento di un capo ideale che restaurasse l'antico regime e che governasse con altrettanta potenza e sapienza il popolo eletto. 

All'inizio della nostra era, quella aspettativa era più forte che mai. Aveva, al di fuori del mondo ebraico, cerchie di proseliti sempre più numerosi. Non solo in Palestina, ma anche in Siria, in Asia Minore, in Egitto, in Grecia e fino a Roma, dappertutto si ergevano sinagoghe, si trovavano gruppi compatti di circoncisi e non circoncisi che aspettavano la venuta prossima del Salvatore annunciato. Interpretavano in questo senso un gran numero di testi profetici, o presunti tali, da cui si delineava già una certa figura del Messia. Tutte queste persone erano cristiane, se così si può dire, per anticipazione. È nel loro ambiente che la Chiesa si è formata. È da loro che è emersa.

Come si è fatto il passaggio da quei circoli ebraici o «timorati di Dio», che credevano che il Cristo stesse presto per apparire, alle comunità indottrinate da Paolo, che lo consideravano già venuto, lì sta il problema delle origini del cristianesimo.

I

A dire il vero, questo problema non esiste agli occhi dei credenti. Per loro, invece, Gesù ha provato, con le sue parole e con le sue azioni, di essere proprio il Messia atteso. Questa è già la tesi dei vangeli. È per stabilirlo che tutti sono stati scritti. Di tutti si può dire ciò che si legge alla fine dell'ultimo: «Questo è stato scritto affinché crediate che egli è il Cristo». [1]

Ma uno studio attento del loro contenuto basta a far vedere quanto fragile sia la dimostrazione. Tra i numerosi racconti o discorsi che tendono a mettere in rilievo la messianicità di Gesù, non si trova uno che si possa tenere per storico. Tutti hanno un carattere fondamentalmente mitico. [2] Se li si scruta da vicino, ci si rende conto subito che non procedono affatto da ricordi di vita vissuta, o da testimonianze ben verificate, ma da testi molto disparati ispirati alla Bibbia ebraica e considerati annunci del Cristo. Essi danno come realizzato ciò che era predetto perché i loro autori non dubitano affatto che ogni predizione abbia dovuto verificarsi. Da qui il sollievo che offrono certe scene. Da qui anche l'incoerenza che si osserva in molte di esse. Gli evangelisti, trasponendo sul terreno dei fatti le visioni dei profeti, sono pittorici come loro, ma, come loro, sconclusionati. Le loro apparenti precisazioni dissimulano male sconcertanti lacune e la loro cronologia è tanto incoerente quanto la loro geografia. Tutti si muovono nell'irreale. 

Se i teologi si ostinano a negarlo, gli storici che non si lasciano condizionare dai pregiudizi confessionali si trovano sempre più d'accordo nell'affermarlo. Alcuni ne concludono che il Cristo è un puro mito. Altri persistono nel ritenere che egli deve essere esistito, malgrado l'oscurità che circonda la sua vita. Ma i secondi sono meno lontani dai primi di quanto si possa pensare e forse di quanto pensino essi stessi. Poco importa, dopotutto, che un ebreo sconosciuto, in un'epoca incerta, sia stato rivestito di una maschera di Messia e munito di una leggenda adeguata al suo ruolo fittizio. Per uno storico, egli conta veramente solo se la sua personalità emerge da quella leggenda stessa e traspare sotto questa maschera. Ma è invano che i ricercatori più sottili si sforzano di coglierla. Non appena si crede di averla raggiunta, essa svanisce. È come un miraggio che si dissolve non appena ci si avvicina.

Bisogna dunque decidersi a spiegare le origini del cristianesimo senza far intervenire la persona del Cristo. Cosa resta allora? L'idea stessa del Cristo, ereditata dagli antichi ebrei. La ritroviamo più attuale e più viva che mai attraverso i testi ecclesiastici più antichi. È sufficiente a farci comprendere la loro prima genesi. 

II

Già la convinzione della venuta recente del Messia doveva nascere da sé in ambienti pietistici abituati a leggere il suo annuncio attraverso la raccolta biblica.

In molte pagine dei profeti era detto infatti che il popolo eletto non sarebbe stato a lungo abbandonato a sé stesso. Troppo grande era la bontà di Jahvé perché lasciasse nell'angoscia i suoi fedeli sudditi. Il Salvatore si avvicinava. Ogni essere di carne lo avrebbe presto visto.

Come dubitare di oracoli così fermi e così precisi, nei quali si vedeva la parola di Dio? Ognuno li leggeva come se fossero stati scritti per sé e la sua generazione, senza tener conto delle delusioni accumulate dai suoi predecessori, perché la fede non si attarda affatto in discussioni critiche. Con un tale stato d'animo, era inevitabile che un giorno alcuni finissero per dirsi che i tempi erano compiuti, che il Messia annunciato era finalmente arrivato. Un nulla poteva bastare a farglielo credere. 

Una profezia in particolare doveva contribuire a questa cristallizzazione della fede. [3] Era quella delle settanta settimane di Daniele. Nessuno si diceva che fosse stata formulata per un'epoca ormai da tempo passata. Per un'illusione di prospettiva familiare ai credenti, ciascuno vi vedeva un'istruzione contemporanea. Ora l'angelo Gabriele vi diceva al profeta: «Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all'empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l'iniquità, portare una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi» (9:24). Come sembrava naturale vedere in questo «unto», in questo «Santo dei Santi» il Messia o il Cristo! Restava da sapere quando erano cominciate le settanta settimane. Il seguito del testo le faceva partire «dall'uscita della parola perché Gerusalemme sia ricostruita» (9:25). Con ciò si intendeva, secondo un fraintendimento del tutto comune, un editto che ordinava la ricostruzione della Città santa e del Tempio. Si poteva pensare a quello di Ciro che menziona la Bibbia (Esdra 1:2 seguenti), a quello di Dario, figlio di Istaspe, citato un po' più oltre (6:1 seguenti), a quello di Artaserse Longimano rivolto a Esdra (7:11 seguenti), a un altro dello stesso re in favore di Neemia (Neemia 2 e 6:15). Il punto di partenza oscillava così tra il 538 circa e il 460 circa prima della nostra era. Tutti erano d'accordo nel ritenere che le settimane profetiche non rappresentassero sette giorni ma sette anni, che costituissero quindi un totale di quattrocentonovanta anni. Anche adottando la data più bassa, si era indotti a pensare che il termine previsto arrivasse sotto Tiberio. 

Un altro oracolo ben noto suggeriva conclusioni simili e ancora più solide: si leggeva nella profezia di Giacobbe (Genesi 49:10): 

Lo scettro non sarà tolto da Giuda

né lo scettro tra i suoi piedi

finché non venga Sciloh.

Questo «Sciloh» ha lasciato sognare tutti gli esegeti. Non offre un significato accettabile. È senza dubbio perché il testo in cui si legge è stato alterato. Ma il mistero stesso che lo circonda ha fatto pensare di buon'ora ai messianisti che dovesse riferirsi al Cristo. Il verso successivo sembrava favorire quella interpretazione. Diceva infatti:

A lui tutte le Nazioni obbediranno,

o, secondo la traduzione dei Settanta:

E lui è l'attesa delle Nazioni.

Chi altri se non il Messia poteva essere così universalmente obbedito, o universalmente atteso? Ma allora bisognava ammettere che la sua apparizione doveva verificarsi prima che il potere si  fosse ritirato da Giuda. Ora l'ultimo principe propriamente giudeo era scomparso con l'avvento dell'Idumeo Erode, nell'anno 37 prima della nostra era. E la dinastia erodiana stessa, che manteneva malgrado tutto una certa autonomia ebraica, era stata rimossa, nell'anno 6 della nostra era, da Augusto, che aveva insediato al suo posto un procuratore romano. Da allora, i Messianisti ferventi potevano dirsi che il tempo era finito, che l'era di Sciloh cominciava. 

Quella persuasione occupava nella mente un così grande posto, svolgeva un ruolo così attivo, che Giuseppe, pur poco disposto a insistere su un tale argomento, va fino a dire che questa fu la ragione principale che sollevò i suoi compatrioti contro la dominazione romana: «Ciò che li eccitò di più alla guerra», dice, «fu un oracolo equivoco, trovato nelle loro Scritture, secondo il quale, intorno a questo tempo, qualcuno venuto dal loro paese avrebbe governato tutta la terra». [4] L'osservazione allude direttamente alla rivolta finale che portò, nel 70, alla rovina di Gerusalemme. Ma già prima altre sedizioni si erano verificate, che procedevano dallo stesso spirito e che miravano allo stesso risultato.

«Il paese», dice Giuseppe, «era pieno di briganti e di impostori che ingannavano il popolo». [5] «Bugiardi e ciarlatani, sotto pretesto di ispirazione divina,... spingevano il popolo al fanatismo religioso e lo conducevano nel deserto, come se Dio dovesse dargli lì i segni della libertà». [6

Le espressioni impiegate da Giuseppe attestano, a dispetto della loro discrezione voluta, che si trattò di un movimento religioso a base messianica. Alcuni dettagli mostrano addirittura che si tendeva a identificare il capo atteso con l'antico conquistatore della Palestina, Iehoshud o Ieshud, Giosuè o Gesù. Era già dal deserto che il successore di Mosè era venuto. Anche lui aveva fatto dividere le acque del Giordano per attraversarlo a piedi asciutti. Anche lui aveva sfondato le mura delle città fortificate. Era stato il grande liberatore. Il suo nome era stato dato da Dio stesso e voleva dire «Jahvé salva». Per questi motivi, il suo ricordo ossessionava l'immaginazione. Ci si aspettava quindi che venisse a riprendere e a completare la sua opera sotto i tratti del Messia.

È in mezzo a quel fervore mistico, non va dimenticato, che il cristianesimo è apparso. Come gli ebrei, i primi cristiani erano persuasi che il grande termine fosse finalmente giunto, che un'era nuova cominciasse: «Il tempo è compiuto». [7] Tali sono le prime parole che il più antico Vangelo mette in bocca al Cristo. Tale è, in altri termini, la ragione iniziale che esso dà alla propaganda cristiana. Un'affermazione simile si legge già in Paolo. Secondo l'Epistola ai Galati (4:4) Dio inviò suo Figlio «quando venne la pienezza del tempo». Quella osservazione è fatta incidentalmente, come se venisse da sé. Esprime non solo il pensiero intimo dell'autore, ma anche quello dei suoi lettori, quello della Chiesa primitiva.

In queste condizioni, per spiegare la Genesi della Comunità cristiana, non è affatto necessario ammettere a priori, malgrado la carenza dei testi, l'azione reale di un Gesù storico, che si sarebbe imposto all'attenzione poi alla venerazione del suo entourage interpretando il ruolo del Cristo. Dal momento in cui ci si era convinti, tramite la meditazione degli oracoli divini, che il tempo era compiuto in cui il Salvatore annunciato sarebbe venuto, quella sola convinzione, in un circolo ardentemente messianista, bastava ampiamente a far credere che fosse venuto, anche se nessuno si ricordava di averlo visto. In un tale ambiente la parola di Dio contava più, in effetti, di ogni attestazione umana. La fede portava con sé la sua giustificazione. 

Quella fede, d'altronde, non doveva tardare a crearsi le garanzie di un altro tipo. Per quanto i mistici si disinteressino di tutto ciò che si dice o si fa là fuori, anch'essi eccellono nel darsi uno spettacolo interiore. Vedono rapidamente dentro di sé tutto ciò che credono. I primi che si persuasero che il Cristo fosse già apparso, senza conoscere perciò nessuno con cui potessero identificarlo, arrivarono presto, in assenza di ogni ritratto reale, a farsi di lui un'immagine ideale. Lo contemplarono in sogno o in estasi. Poi si comunicarono gli uni agli altri il prodigio e ne affrettarono così il rinnovamento. Le loro visioni completavano l'elaborazione interiore della meditazione. Fornirono alla nuova fede la verifica di cui aveva bisogno per durare e prendere forma.

A questo proposito, l'apostolo Paolo fornisce nella sua persona un esempio tipico: [8] «Vi dichiaro, fratelli», dice, «che il Vangelo che è stato annunciato da me non è modellato sull'uomo. Infatti io non l'ho ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. Io ero più avanzato nel giudaismo della maggior parte di quelli della mia età e della mia nazione, essendo animato da uno zelo eccessivo per le tradizioni dei padri. Ma quando piacque a colui che mi aveva messo a parte fin dal seno di mia madre e che mi ha chiamato con la sua grazia, di rivelare in me suo Figlio... subito io non consultai né la carne, né il sangue». [9

Altrove, scrivendo ai Corinzi, di cui alcuni si volgono contro di lui per schierarsi dalla parte di Cefa o di Pietro, Paolo ritorna sullo stesso argomento, al fine di mostrare che non cede in nulla ad alcuna delle autorità che gli sono opposte: «Io penso», dichiara, «che io non sono stato inferiore in nulla a questi superapostoli». E dà quella prova: «Non ho visto anch'io Gesù, Nostro Signore?». [10] Ciò non vuol dire affatto che egli sia stato un testimone oculare della sua vita, ma piuttosto che è stato favorito da un'apparizione soprannaturale.

Un po' più oltre, egli parla espressamente «delle visioni e delle rivelazioni del Signore». E aggiunge: «Conosco un uomo in Cristo che fu rapito fino al terzo cielo (se con il corpo non lo so, se fuori del corpo non lo so)». [11] Il dettaglio è tipico. Mostra che ci si domandava tra cristiani se i visionari fossero trasportati in spirito fino a Dio o se fosse Dio a venire fino a loro. Una tale controversia attesta quale ruolo importante svolgevano allora i fenomeni misteriosi a cui questa gente si reclamava.

Paolo ne parla, lui stesso lo fa sottolineare, solo per togliere ai suoi avversari una delle loro argomentazioni. Il partito di Cefa rivendicava contro di lui alcune visioni. Egli risponde che lui stesso ne ha avuto altre che le eguagliano bene. A suo avviso, Pietro e i suoi sostenitori non conoscevano meglio di lui il Signore. È per mezzo di rivelazioni simili a quelle di cui lui stesso è stato privilegiato che la loro convinzione si è formata.

 III

Quell'origine della fede cristiana permette di comprendere meglio la rappresentazione iniziale che ci si è fatta del Cristo. Siccome le prime visioni dove la sua figura è apparsa erano state provocate dalla lettura meditata degli oracoli biblici, è dalla Bibbia che derivano le sue prime immagini. 

Le Epistole di Paolo sono lì a stabilirlo. Ed esse fanno intravvedere quali profezie sono state soprattutto utilizzate. 

In un testo particolarmente importante dell'Epistola ai Filippesi, [12] che costituisce un lontano abbozzo della cristologia, Gesù è presentato come un essere divino che ha assunto una forma umana e si è fatto un servo, che si è reso umile e obbediente fino a morire su una croce, e che è stato in seguito esaltato in proporzione ai suoi abbassamenti. 

Tutti i tratti di questa immagine si presentavano già in un passo famoso ma apocrifo della raccolta di Isaia. [13] Lì si trovava descritto un ebed Iahve, divenuto nella traduzione greca dei Settanta di cui si serve l'apostolo, un παῖς του Θεού, un figlio di Dio. E si leggeva di lui nella stessa versione:

Noi l'abbiamo visto, non aveva né apparenza né bellezza,

Il suo aspetto era miserabile ed evanescente davanti ai figli degli uomini...

Il Signore lo ha consegnato per le nostre trasgressioni.

E lui, attraverso la sua prova non ha aperto bocca.

Egli è stato condotto come una pecora per essere immolato

E come un agnello che tace davanti al tosatore

Egli non ha aperto bocca...

Così avrà numerose eredità, condividerà

Le ricchezze dei potenti.

Nulla manca a quello schizzo per corrispondere a quello di Paolo, se non la menzione della crocifissione. Ancora si può dire che essa vi si trova implicitamente, o almeno che si poteva dedurla. Bastava che un lettore minuzioso si chiedesse quale morte fosse riservata a questo servo anonimo. Per un ebreo all'inizio della nostra era, era quella della croce che si presentava più naturalmente in mente, perché era tra tutte la più crudele, la più ignominiosa e, sfortunatamente, anche la più comune. Sembra, quindi, che la visione paolina del Cristo sia stata suggerita soprattutto dall'immagine dello Pseudo-Isaia.

Questo non vuol dire affatto che Paolo l'abbia avuta per primo. Nulla nella sua esposizione permette di pensare che la presenti come una novità. Ne parla piuttosto come se i suoi lettori la conoscessero già, come se tutti la ammettessero senza discussione, secondo una tradizione ben stabilita. Senza dubbio occorre vedervi la più antica rappresentazione del Cristo che sia stata diffusa nella Chiesa. È tanto più significativo constatare che non vi si trova il minimo elemento che non si offra già come la realizzazione di un oracolo.  

Si può pertanto concepire abbastanza bene come, senza aver mai incontrato il Cristo né qualcuno che l'avesse visto con i propri occhi, i primi cristiani siano arrivati a farsi di lui una certa idea. Convinti, come i seguaci di Giuda il galileo, come quelli di Teuda e dell'Egiziano anonimo, che il tempo del Messia fosse venuto, non hanno potuto risolversi a identificarlo con nessuno di questi avventurieri. Erano sudditi leali dell'Impero che erano grati a Roma per aver fatto regnare l'ordine. Erano anche pacifisti, a cui ogni spargimento di sangue faceva orrore. Invece di concepire il Cristo Gesù come un guerriero trionfante che avrebbe spezzato le teste dei suoi nemici o che avrebbe fatto di loro lo sgabello dei suoi piedi, lo identificavano con il Servo di Jahvé, umile e disprezzato, percosso, sofferente e morente per espiare i peccati dei suoi fratelli. Ciò permetteva loro di spiegare perché il silenzio si era fatto su di lui, perché nessuno attorno a loro sapeva nulla della sua vita meritoria né della sua passione salvifica. Non era forse scritto che nulla in lui attirava lo sguardo, che la sua figura mancava di splendore, che era la feccia degli uomini e non contava per nulla?

Altri testi, peraltro, offrivano un ritratto simile. Nel libro della Sapienza (2:10-20), per esempio, vedevano un saggio ideale braccato dagli stolti che complottavano la sua perdita. 

In molti passi dei Salmi si parlava similmente di un innocente perseguitato che poneva la sua fiducia in Jahvé. 

Questi dettagli suggerivano, ancor più di quelli dello Pseudo-Isaia, l'immagine del crocifisso. Così i più antico degli evangelisti mette dunque in bocca al Cristo morente il primo verso del Salmo 22. [14] Giovanni ricorda espressamente la spartizione delle vesti e ha cura di aggiungere che «ciò avvenne perché si compisse la parola della Scrittura». [15]

Tali accostamenti sono rivelatori. Non si possono veramente spiegare per mezzo di coincidenze fortuite lo stretto accordo che si afferma tra gli oracoli presunti e i racconti cristiani.   A meno di ammettere, con i teologi, che gli oracoli sono stati concepiti in vista dei racconti, si deve quindi ammettere che i racconti sono stati modellati su questi pretesi oracoli. Le scene essenziali della Passione sono semplici trasposizioni di testi riguardanti i giusti perseguitati. La visione del crocifisso si è fatta, nella mente dei credenti, alla maniera di un ritratto composito i cui modelli si sono successivamente sovrapposti e più o meno fusi. Si può dire altrettanto di tutte le altre scene di cui si è nutrita la fede della Chiesa nascente e che hanno servito a formare il resto del Vangelo. 

I cristiani hanno dovuto costituire di buon'ora, per i bisogni della loro fede e della loro propaganda, una raccolta dei testi biblici che rispondevano meglio alla loro idea originaria del Messia. Vi vedevano tante profezie che non avevano potuto mancare di realizzarsi. Questa era una sorta di proto-vangelo molto semplice, che ciascuno poteva completare a suo piacimento. Gli evangelisti hanno dovuto solo trasporlo sul piano storico per ricavarne una Vita di Gesù

Dei fattori di altro ordine hanno dovuto intervenire nella formazione della nuova fede. Le religioni misteriche del mondo ellenistico, quelle soprattutto di Attis, di Osiride, di Mitra, hanno senza dubbio svolto, a questo riguardo, un certo ruolo. Anch'esse ponevano in rilievo un Dio Salvatore che soffre e muore per riprendere in seguito una nuova vita. Quella concezione era molto diffusa in tutto il mondo mediterraneo, particolarmente in Siria. Senza dubbio aiutò i primi cristiani a familiarizzarsi con l'idea, poco conforme all'ortodossia ebraica, di un Dio fatto uomo e messo in croce. D'altra parte, l'affinità delle credenze favoriva gli avvicinamenti cultuali. I discepoli di Gesù cercarono di unirsi, di identificarsi col loro Dio come facevano gli antichi miste. Praticarono riti simili. La loro Eucarestia, secondo la testimonianza di Giustino, rassomigliava molto a quella degli adepti di Mitra. [16] L'apologeta si guarda bene dal concludere che essa provenga da loro. Per lui, è il mitraismo ad aver copiato il cristianesimo. Ma la tesi è pochissimo plausibile e sembra molto più legittimo ammettere che è la religione più antica ad aver servito da modello. Del resto, già Paolo stesso presenta la nuova fede come un «mistero» [17] e certe espressioni di cui si serve per parlare dell'unione spirituale che il cristiano contrae con il suo Dio sono come un'eco di quelle che impiegavano gli adepti di Attis o di Osiride. 

Eppure le grandi religioni salvifiche hanno influenzato il pensiero cristiano meno delle sette gnostiche. Senza dubbio è anche è soprattutto per mezzo di questo intermediario che la loro azione si è esercitata. 

Esse erano troppo lontane dal cristianesimo per poterlo ben influenzare. Esso stesso si prestava poco a un accostamento. Teneva per la sua origine ebraica e il suo monoteismo fondamentale una intransigenza rigida che doveva costituire nel contempo la sua forza e la sua debolezza. Lo gnosticismo, al contrario, è stato, sin dall'inizio, molto sincretistico. Convinto che il bene si trovi, quaggiù, dappertutto mescolato al male, esso si sforzava di seguirlo in tutti i suoi avatar e di strapparlo alla sua morsa. Scopriva una parte di verità nei misteri greci, siriani ed egiziani, oltre che nella Bibbia ebraica, e si sforzava di raggrupparne gli elementi dispersi. L'atteggiamento adottato da esso nei confronti del giudaismo si accordava troppo con quello dei discepoli di Gesù per non attrarli e sedurli.

Vi erano gnostici prima che apparisse il cristianesimo. Ciò emerge dalla testimonianza degli autori ecclesiastici che ci hanno esposto le loro dottrine. Tutti le fanno venire da Simone, soprannominato da loro «il mago», che, secondo gli Atti degli Apostoli, era già oggetto di un culto, nella regione di Samaria, prima che il Vangelo vi fosse predicato. [18] Secondo Ireneo, che deve trarre le sue informazioni da Giustino, questo Simone era, per i suoi adepti, un Figlio di Dio, la sua «Grande Potenza». Aveva ricevuto da suo Padre la missione di venire quaggiù, sotto una forma umana, per risollevare la «Sapienza» decaduta, per strappare lo Spirito alle potenze malvagie che lo avevano attirato e avvinto in seno alla materia. Egli aveva assolto il suo compito ricordando alle anime peccatrici la loro parentela divina, mostrando loro la via del paradiso perduto, predicando loro la gnosi liberatrice. Grazie a lui l'antica schiavitù aveva avuto fine. Aveva reso loro la libertà dei figli di Dio. Quella teologia dogmatica e morale rassomiglia stranamente a quella che si trova abbozzata attraverso le grandi Epistole di Paolo. Ma è ad essa che appartiene la priorità, perché essa si mostra molto più coerente.

Altri gruppi gnostici, invece, per esempio gli Ofiti, i Naasseni, i Perati, gli adepti di Barbelo, apparvero egualmente arcaici. Hanno un'origine precristiana. Ora, si scopre che anche loro professavano una fede vicina a quella che espongono gli scritti paolini. Anch'essi invitavano i loro seguaci a fare penitenza, a lottare contro le loro passioni, a castigare i loro corpi e a ridurlo in servitù per liberare lo spirito. È da questo ambiente complesso e molto vivace che vengono le linee principali della teologia cristiana.

Paolo parla correntemente il linguaggio degli gnostici. Impiega le loro espressioni più tipiche e più misteriose, senza provare il minimo bisogno di definirle o di spiegarle. Questo evidentemente perché i suoi lettori le conoscono già e ne hanno una lunga abitudine. Di buonissima ora, senza dubbio persino dall'inizio, Il loro messianismo si è impregnato di gnosi.

IV

La forma primitiva del cristianesimo spiega il rapido successo della sua propaganda e anche l'opposizione violenta sollevata contro di esso.

L'idea di un Cristo venuto quaggiù al tempo predetto dai profeti, per realizzare ogni giustizia e per espiare con le sue sofferenze e con la sua morte i peccati dei suoi fratelli, doveva piacere ai pii ebrei di condizione modesta, innamorati soprattutto di perfezione morale e duramente trattati dai padroni del tempo. Si ritrovavano in lui. Lo vedevano come uno di loro.

Ma quella idea doveva avere ancora più successo presso i numerosi proseliti che la loro propaganda aveva saputo reclutare. Questi stranieri, venuti di loro piena volontà al giudaismo, erano stati attratti da esso per la sua fede monoteista e per la purezza della sua morale. Soltanto che la legge di Mosè li ripugnava, e la storia dei re di Giuda ed Israele restava per loro priva di attrazione. Il Messia bellicoso dei nazionalisti li preoccupava con la prospettiva delle guerre che avrebbe scatenato contro Roma e della posizione di inferiorità che sarebbe riservata da lui a tutti coloro che non erano affatto della sua razza. Al contrario, il Cristo Salvatore, sofferente e morente per l'espiazione dei peccati altrui, rispondeva alle loro aspirazioni intime, proprio perché non aveva carattere nazionale e non si rivolgeva ai soli figli di Abramo. I più colti tra loro erano felici di salutare in lui il giusto ideale di cui Platone aveva fatto nella sua Repubblica un ritratto famoso, o il saggio degli storici, che Seneca ci mostra «invincibile ai piaceri, beato nell'avversità, tranquillo in mezzo alla tempesta». La gente del popolo amava sentirlo del tutto vicino a loro, pietoso verso le loro miserie, devoto fino alla morte. Nessuna nazionalità appariva in lui. Con lui cadevano dunque tutte le barriere che separavano gli ebrei dalla Gentilità. Per coloro che volevano prendere esempio da lui, non c'era più da preoccuparsi della circoncisione né delle molteplici prescrizioni della legge mosaica. Bastava vivere secondo lo spirito, mortificando la carne, e servire Dio, amando il proprio prossimo come se stessi.

La grande originalità di Paolo è di aver visto ciò e di averlo esposto senza ambiguità a chiunque volesse ascoltarlo, di aver osato dire, lui fariseo di origine, che in Cristo Gesù, «non vi è più né Giudeo né Greco, né schiavo, né uomo libero, né uomo, né donna», ma che «tutti siete uno». [19] Con ciò, egli ha reso alla fede nascente un immenso servizio. Gli ha permesso di diffondersi. Ridotto a una clientela di israeliti dissidenti, il cristianesimo non sarebbe mai stato più di una setta mediocre. Reso assimilabile ai Gentili, vedeva aprirsi prospettive infinite. Era sulla via di diventare una religione universale.

Ma questo è proprio ciò che molti cristiani non volevano. 

Paolo rappresentava solo il punto di vista di coloro che erano radicati in seno alla Gentilità, di coloro soprattutto che vivevano in Siria. Secondo la sua stessa testimonianza, era a Damasco quando passò nel loro campo, dopo aver fatto propaganda contro di loro. Abbandonò quella città per passare in Arabia, poi vi ritornò. Dopodiché percorse il paese siriano e la Cilicia. A quell'epoca i suoi correligionari giudei non lo conoscevano nemmeno di vista. [20] Lo ritroviamo in seguito ad Antiochia, dove i loro rappresentanti avevano un conto in sospeso con lui. La città era molto cosmopolita. L'ellenismo vi si trovava in onore. La gnosi doveva già fiorirvi, perché i Simoniani raccontavano che il loro Maestro vi aveva reclutato numerosi adepti, ed è lì che, secondo Ireneo, predicò Saturnino, discepolo di Menandro. Non è sorprendente che in un tale ambiente la Chiesa nascente abbia rotto piuttosto rapidamente i legami che la legavano al mosaismo, che abbia detto che, per essere salvati, bastava credere in Cristo senza praticare le opere della Legge.

Ma in Giudea, e soprattutto a Gerusalemme, molti cristiani non la intendevano così. Vivendo, per così dire, in isolamento, in un'atmosfera di intenso nazionalismo, non potevano che ripudiare con orrore quelle dottrine nuove che minavano l'antica fede. E non era solo gente di bassa reputazione a parlare in questo senso, ma le «colonne» stesse della Chiesa, Giacomo, Pietro e Giovanni. Emissari furono inviati sulle orme di Paolo e dei suoi compagni, per mettere in guardia i loro adepti contro l'insegnamento di questa gente senza missione, di questi falsi apostoli, che seducevano gli ignoranti predicando loro una fede a buon mercato. Per non esporsi a correre invano, Paolo dovette recarsi a Gerusalemme, in compagnia di Barnaba, per prendere la difesa del suo operato.  Un accordo si stabilì, sulla promessa fatta da lui di organizzare collette nella Gentilità a favore delle Comunità giudee. [21] Ma dopo la sua partenza, le stesse critiche lo seguirono attraverso il paese che evangelizzava. Egli dovette difendersi davanti al suo gregge e reagire ai suoi avversari.

Abbiamo un'eco della sua polemica ancora chiaramente percepibile, malgrado le attenuazioni e correzioni postume, in parecchie delle sue Epistole. Egli rimprovera ai fedeli di lasciarsi distogliere nella loro fede da questi apostoli, giunti tardi tra loro, che si sforzavano solo di minare il suo stesso apostolato e di farne perdere il beneficio.

Si limita troppo il significato di queste parole quando si vuole vedervi, come si fa di solito, solo l'affermazione del disaccordo esistente sulla condotta da tenere verso i Gentili. I termini impiegati sono molto più pregnanti. Paolo dichiara chiaramente che i suoi avversari predicano un Vangelo «altro» rispetto al suo, un Gesù «altro» rispetto a quello di cui si è fatto l'apostolo. In cosa consiste dunque esattamente la sua propria dottrina? Lui stesso lo ha detto ai Corinzi: «I giudei domandano miracoli e i Greci cercano la sapienza. Noi invece predichiamo il Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e follia per i gentili». [22]

Lì è il nocciolo della questione. Gli avversari di Paolo giudicano scandalosa la sua dottrina. Essi si rendono, come lui stesso dice una volta tra le lacrime, «nemici della croce del Messia». [23] Senza dubbio sono cristiani. Ma il loro Cristo non è il giusto senza patria che soffre e muore per tutti i peccatori, chiunque essi siano. È l'eroe ebreo che deve riprendere l'opera guerriera di Giosuè e di Davide e restaurare il regno di Dio sulle rovine di tutti gli Imperi. Ecco perché non accoglie senza riserva tutti i non circoncisi. Accetta solo coloro che vogliono ben unirsi a lui nella pratica integrale della legge mosaica.

Quella interpretazione dei testi paolini, per quanto naturale sia, potrebbe sembrare audace se si trovasse isolata. Ma un altro scritto del Nuovo Testamento, l'Apocalisse, le apporta una conferma preziosa.

In quell'opera, più misteriosa in apparenza che in realtà, che sembra essere stata scritta poco prima dell'anno 70, quando il Tempio fu distrutto, Cristo svolge un ruolo di primo piano. Ma la sua crocifissione è menzionata solo molto incidentalmente, in un breve verso che si presenta da sé come una glossa apocrifa. [24] Dovunque appare come un Essere celeste che esisteva fin dall'inizio del mondo sotto forma di agnello immolato, e che si mostrerà sulla terra come figlio dell'uomo, per sterminare i suoi nemici e far trionfare i suoi eletti, allorché arriverà la fine dei tempi, considerata imminente. Quella concezione si avvicina singolarmente a quella dei nazionalisti ebrei contro i quali i procuratori romani dovevano infierire. È molto distante da quella degli scritti paolini.

Il gruppo al quale apparteneva l'apostolo dei gentili è peraltro espressamente preso di mira e condannato. 

Il tono della polemica mostra quanto violento fosse il disaccordo tra i cristiani ellenisti e i giudaizzanti. Ma i primi avevano dalla loro il numero e possibilità di crescita costante. I secondi potevano solo vegetare solo entro angusti limiti. La rovina di Gerusalemme fu fatale per loro. Oltre al fatto che molti dovettero perire nella tragedia, i sopravvissuti avevano visto le loro speranze troppo esplicitamente smentite per mantenere a lungo il loro atteggiamento intransigente, o almeno per farlo adottare a nuovi adepti. Essi scomparvero a poco a poco.

Il fallimento del messianismo nazionale portò a un abbandono generale dell'idea apocalittica. Nei primi tempi, pur ammettendo che il Cristo era già venuto sotto una forma modesta, le comunità paoline si dicevano che sarebbe ritornato senza tardare con tutta la pompa di un eroe trionfante. Condividevano su questo punto la speranza comune dei cristiani giudaizzanti. È per questo che, pur separandosi da loro sulla questione del Cristo crocifisso, restavano in comunione con loro. Le due Epistole ai Tessalonicesi attestano una convinzione della venuta prossima del Messia altrettanto salda di quella che si afferma nell'Apocalisse. Quella fede si presentava in una forma meno nazionale e meno bellicosa. Ma si mostrava egualmente viva. Così attraenti erano le sue promesse che dominavano tutto. Ci si preoccupava meno di sapere ciò che aveva fatto il Cristo nel suo ruolo modesto di vittima espiatoria che di prevedere ciò che avrebbe compiuto nel giorno imminente del suo avvento glorioso. Si immaginava che avrebbe riunito tutte le nazioni attorno a Gerusalemme, dove Dio avrebbe regnato con lui e per mezzo di lui sull'universo intero. Ma quando la Città santa, dove avrebbe fatto un ingresso trionfale, non fu più che un ammasso di rovine, quando il popolo ebraico, che aveva l'incarico di di restaurare, fu quasi annientato, la speranza si affievolì, senza però scomparire. Si continuò ad attendere il grande ritorno, ma senza considerarlo imminente. La sua prospettiva si allontanò in un futuro sempre più lontano.

Man mano che l'attenzione si allontanava dalla seconda venuta del Cristo, essa si concentrò sulla prima. Fin lì, ci si era fatta solo un'idea abbastanza vaga e fluttuante, come quella che vediamo affermarsi attraverso gli scritti di Paolo o l'Epistola agli Ebrei. Ci si immaginava bene o male ciò che aveva fatto o detto Gesù per mezzo dei testi dell'Antico Testamento in cui lo si vedeva annunciato. Ma, man mano che gli occhi della fede si fissarono su questo tema vitale, si provò il bisogno di vedere con maggiore precisione e continuità come si fossero realizzati gli antichi oracoli.

È per rispondere a quella preoccupazione che è stato scritto il nostro più antico Vangelo. La sua apparizione segna una svolta decisiva nell'evoluzione della comunità cristiana. Se l'immagine del Cristo fosse rimasta tanto nebulosa quanto lo è negli scritti di Paolo, avrebbe avuto solo un'influenza molto ristretta. Mai le masse si sarebbero appassionate per questo vago fantasma che non aveva né forma, né colore. Il piccolo libro che porta il nome di Marco gli diede la vita che gli mancava. Esso dipinse, con un rilievo impressionante, la dolce e attraente figura del Figlio dell'uomo modesto e soccorrevole, che seminava i benefici e raccoglieva l'ingratitudine, rendendo la vita ai morti e morendo lui stesso su una croce.

Gesù era ormai un personaggio in carne e ossa, più vicino a noi di tutti gli antichi Dèi. Tutti gli altri passavano per aver vissuto in tempi lontanissimi. Lui si presentava come un ospite recente. Nella sua intimità avevano vissuto, senza peraltro capirlo, Pietro, Giacomo e Giovanni, con cui Paolo si trattenne a Gerusalemme. Come loro, e molto più di loro, egli apparteneva alla Storia.

I cristiani potevano ormai fare a meno della Bibbia ebraica. Non avevano più bisogno di scrutare gli antichi oracoli per cercarvi la regola della loro fede. La figura di Mosè impallidiva di fronte a quella di Gesù. La Chiesa era sufficiente.


NOTE DEL CAPITOLO 11

[1] Giovanni 20:31.

[2] Cfr. Prosper ALFARIC, La plus ancienne vie de Jésus, opera citata.

[3] Cfr. volume 2, pag. 117 e seguenti, 131 e seguenti.

[4] Guerra Giudaica 6:5-4.

[5] Antichità Giudaiche 20:8-5.

[6] Guerra Giudaica 2:13, 4. Cfr. Antichità Giudaiche 20:8, 6.

[7] Marco 1:15.

[8] Cfr. volume 2, pag. 165 ss.

[9] Galati 1:11-16.

[10] 2 Corinzi 11:5; 9:1.

[11] Id. 12:2.

[12] Filippesi 2:5-11.

[13] Isaia 52:13; 53:12. Cfr. volume 2, pag. 140, e in questo volume, capitolo 4, pag. 84.

[14] Marco 15:24.

[15] Giovanni 11:19-24.

[16] Giustino, Apologia, 1:66, 4.

[17] 1 Corinzi 2:7; 4:1, ecc.

[18] Si veda volume 2, pag. 183, e in questo volume, capitolo 8, pag. 258 ss.

[19] Galati 3:28.

[20] Id. 1:17-21, 22-24.

[21] Id. 2:1-10.

[22] 1 Corinzi 22-23.

[23] Filippesi 3:18.

[24] Apocalisse 11:8.

 
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