Origini delle Religioni

TESI DI LAUREA DI NEGEV

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CAT_IMG Posted on 27/5/2016, 06:59
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[QUOTE=Abramo,25/5/2016, 09:41 ?t=72580268&st=0#entry592719726]


Buongiorno a tutti.
Volevo presentarvi questa eccellente tesi di laurea dell'utente Negev (Ariel, Dr. Ernesto Pintore) che ha guadagnato il massimo dei voti: 110 e lode!!!

Facciamo i migliori auguri a Negev per il conseguimento di questo livello e per l'assiduo impegno negli studi ebraici e ringraziamo l'UCEI (Unione delle comunità ebraiche italiane), per aver concesso questa pubblicazione.

Un particolare ringraziamento vanno al Rav Dr. Riccardo Di Segni, rabbino capo d'Italia e al Rav Dr. Umberto Piperno e un elogio per la loro eccellente preparazione in materie ebraiche.

Vi incollo la prima parte, la prefazione, poi proseguiremo con le altre parti.



Unione delle Comunità ebraiche italiane

Master in cultura ebraica e comunicazione
Diploma Universitario triennale in studi ebraici

״כי המשפט לאלהים הוא״
אלה ומוסר במשפט העברי

“Poiché il Giudizio appartiene a D-o”
Norma e Morale nel Diritto Ebraico



Candidato
Dr. Ernesto Pintore
Relatore
Rav Dr. Umberto Piperno
Correlatore
Rav Dr. Riccardo Di Segni

anno accademico 2015-2016

Indice







Nota: cliccare sui titoli per raggiungere i capitoli.


1) Prefazione pag. 3
2) Introduzione ai principi del diritto ebraico pag. 5
3) Moshèh e il significato del termine Elohim pag. 9
4) Etimologia e significato dei termini “אלהים” e “אלה” pag. 15
5) Il Re e il Gran Sinedrio pag. 20
6) Il Valore dell’essere umano pag. 25
7) Il concetto di eguaglianza pag. 28
8) Il principio di convivenza pag. 31
9) Gli impegni e i rapporti commerciali pag. 33
10) La coscienza legale del cittadino pag. 35
11) דינים Dinim pag. 36
12) La ricompensa e la punizione pag. 38
13) L’Uguaglianza degli esseri umani pag. 39
14) Il Diritto delle minoranze pag. 40
15) L’orfano e la vedova pag. 46
16) צדקה Tzedaqàh pag. 49
17) Ospitalità pag. 53
18) שבת Shabbath pag. 55
19) שנת השמטה Shannath hashemitàh L’anno sabbatico pag. 57
20) העבד Il Servo pag. 60
21) La condizione della donna pag. 62
22) Conclusioni pag. 64
23) Bibliografia pag. 67




Prefazione

Lo scopo di questo lavoro è di analizzare come alcuni principi, comunemente conosciuti nell’era moderna, accettati ed ormai integrati nelle legislazioni dei popoli, fossero rigorosamente presenti ed applicati nella società ebraica, già dal periodo biblico e come il Diritto ebraico derivi da una Norma Superiore.
Conquiste sociali: uguaglianza degli esseri umani, protezione delle minoranze, delle categorie socialmente deboli come l’indigente, l’orfano, la vedova e il residente straniero, diritto al riposo settimanale, tutela dei diritti dei lavoratori, garanzia delle relazioni commerciali, condizione della donna, sono concetti del tutto ignoti nel mondo antico nel quale imperavano oppressione, schiavitù e diritto del vincitore e del più forte, perfino in sistemi legislativi complessi quali il diritto romano, che è stato il corpus giuridico che ha informato molti degli ordinamenti giuridici moderni. Il mondo moderno ha riconosciuto queste istanze di uguaglianza degli esseri umani, solo in epoca relativamente recente, a partire dai movimenti socialisti del XIX secolo, al prezzo di cruenti conflitti sociali, molti dei quali non si sono esauriti, né sono stati risolti, nemmeno ai nostri giorni.
Espressioni come “stato sociale”, “welfare”, “diritto all’assistenza sanitaria”, “diritto all’istruzione”, “volontariato”, “protezione dei deboli”, “assistenza agli indigenti”, “istanze dei migranti”, sono entrati solo negli ultimi anni nel linguaggio, nelle aspettative e nella mentalità comuni.


Queste concezioni “sociali” erano radicate nel Popolo d’Israel ben prima che esso divenisse un Popolo a tutti gli effetti ed erano a fondamento della Legislazione biblica già durante la peregrinazione nel deserto del Sinai, informando successivamente tutta la tradizione scritta e orale che lo ha accompagnato, dall’epoca del Regno, durante la diaspora, fino alla costituzione dell’odierno Stato d’Israele.


Si tratta di concetti straordinari che possiamo certamente considerare rivoluzionari, di una modernità stupefacente, si si pensa all’era in cui essi furono concepiti e codificati in Legge di Nazione, quando il mondo circostante fondava le proprie relazioni sociali, interne e internazionali e la propria economia, su rapporti di subalternità, di differenze sociali, di ceto e di schiavitù.
In realtà, tutto il sistema economico produttivo e commerciale del mondo antico era basato sulla forza lavoro della schiavitù.



Per meglio comprendere quegli aspetti che tratteremo in questa relazione e cioè come il senso della Morale ed il Principio del Diritto si intreccino e si completino armoniosamente nel Diritto ebraico, è necessario trattare alcuni aspetti peculiari di questo.
Morale e Diritto sono due concetti che possono, non difficilmente, entrare in conflitto fra di loro.
La Norma scritta è qualcosa di fisso, definito, cristallizzato e non modificabile. Essa è Legge, non può tenere conto di fattori diversi, che non siano rigorosamente giuridici e deve essere applicata così come il Legislatore l’ha emanata. Non vi è spazio per altre considerazioni ed è inflessibile.



Ne consegue che la pena sarà inevitabile, indipendentemente da tutte quelle circostanze o da quei sentimenti che, caso per caso, possano mostrarla come esagerata, inadeguata, sproporzionata o addirittura ingiusta: “Dura Lex, sed Lex”.
La Morale è qualcosa che fa parte della natura umana, è dominio del “cuore” e non della ragione. E’ un “sentire” valori che possono non avere relazione alcuna con la Norma o essere, addirittura, agli antipodi di questa. Uccidere in battaglia o per legittima difesa, è lecito e necessario secondo la Norma, ma crea un malessere all’essere umano, dal punto di vista della morale e del sentimento.
Nel diritto dei popoli esiste quindi una separazione netta tra i due ambiti. Pietà e considerazioni etiche e morali possono avere scarsa influenza nell’ applicazione della Legge.



Non così nel Diritto ebraico il quale, come vedremo, riconosce un elevato valore ed un ruolo principe alla Morale, la quale è, e deve essere, anche al di sopra della Legge, affinché si possa giungere ad un verdetto e alla sua conseguente sanzione, nel modo più giusto possibile. Si può comprendere quindi che solo una Norma che sia molto al di sopra delle leggi umane possa dominarle, controllarle e modularle, intervenendo laddove il giudizio terreno possa diventare troppo inflessibile o inadeguato.
A tale scopo, procederemo seguendo un filo logico, partendo dai concetti principali del Diritto ebraico e, attraverso l’analisi dei termini אלהים (Elohim), אלה (Alàh), איש האלהים (Ish haElohim), delle prerogative del Re e del Gran Sinedrio, arriveremo alle applicazioni pratiche delle norme nei דינים (Dinim) e di tutta la Legislazione di Giustizia sociale che essi prevedono, essendo queste generate dalla Norma Suprema Divina, אלה “Alàh”, che è al di sopra delle leggi degli uomini.






Edited by barionu - 13/1/2022, 11:38
 
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[QUOTE=Abramo,25/5/2016, 18:48 ?t=72580268&st=0#entry592740674]

Introduzione ai principi del diritto ebraico



Il diritto ebraico risale a più di 3000 anni fa, ma esso fu applicato nella sua completezza solo nei periodi in cui il popolo di Israel ebbe uno Stato indipendente.
Tale diritto ha conosciuto lunghi periodi di lacune nel corso della storia del Popolo di Israel, durante le sue diaspore.
Gli altri popoli antichi, una volta sconfitti e soggiogati da altre nazioni, videro scomparire, a mano a mano, il loro diritto nazionale e di questo rimangono solo scarse testimonianze archeologiche.
Non così fu invece per il diritto ebraico che è sopravvissuto e restato in vigore fino ad oggi. Malgrado la lunga e drammatica dispersione fra altri popoli e l’assenza di uno Stato proprio, Israel si curò di conservare le sue Leggi con la speranza futura di una completa ricostituzione nazionale.
Il diritto ebraico, nei periodi della diaspora, ha sempre avuto una funzione al di fuori dello Stato ospite, perché esso non solo è un diritto statale in senso stretto, ma è soprattutto il diritto di una Nazione, di un Popolo, al quale questo ordinamento giuridico fu concesso, ancor prima di ottenere il territorio nazionale. Quindi, nel suo lungo esilio, il Popolo di Israel portò con sé la sua Legge ed i suoi Tribunali, come li aveva già portati con sé durante l’errare nel deserto, ben prima di costituire il proprio Stato nazionale.
La comunità ebraica ha sempre costituito una società autonoma anche nei paesi in cui è stata duramente perseguitata.
Il suo Diritto e la sua Toràh hanno conservato e preservato il Popolo di Israel, impedendone l’assimilazione (e di conseguenza la scomparsa, con la perdita della propria identità), cosa che immancabilmente avvenne invece per tutti gli altri popoli coevi.
La tradizione fa risalire il Diritto ebraico alla rivelazione del Sinai, ma esso si basa su un Diritto ancor più antico, che rinnova e completa. Tutte le sue norme prendono vigore in virtù della rivelazione del Sinai anche se esse sono, in realtà, molto più antiche.
Il Diritto ebraico è infatti una derivazione del diritto noachide e questo, a sua volta, proviene dal diritto antidiluviano.
Esso si basa interamente sulla tradizione orale giuridica che risale al sistema legale promulgato nel Sinai da Moshèh Rabbenu, con la costituzione di un’assemblea di 70 anziani che ottennero, in quell’occasione, il dono della profezia.
Nella Toràh scritta (תורה שבכתב), le norme sono riportate in forma poetica e solenne ma concisa e, per tale motivo, non possono avere una funzione normativa esaustiva. Esse sono poi sviluppate nella loro completezza nella Toràh Orale (תורה שבעלפה).
Altre norme della Toràh scritta contengono dei rinvii ad altre composizioni giuridiche in vigore a quell’epoca.
In tutti i periodi della storia del Diritto ebraico, la base è stata sempre la Toràh shebe’alpè.
La Toràh scritta ha rivestito principalmente il ruolo di insegnamento, di lettura esortativa, il cui scopo è quello di far ricordare le mizwot, l’identità di Popolo e la propria origine e quindi non ha avuto esclusivamente una funzione normativa.
Abbiamo quindi, da una parte la tradizione normativa orale, dalla cui abbondanza vengono tratte le norme giuridiche e dall’altra la Toràh scritta che, in modo conciso e nella sua solennità poetica, ci ricorda costantemente la loro origine divina, esorta a rimanere uniti ad esse e a metterle in pratica diligentemente.


Nel seguente brano talmudico, dopo aver precedentemente discusso e stabilito che la maggioranza della Toràh fu data in forma orale, si afferma che il Patto che D-o stabilì con il Popolo di Israel si basa su entrambi questi pilastri, Toràh scritta e Toràh Orale. Ma l’essenza del Brit è caratterizzata proprio dalla esistenza della Torah orale, senza la quale l’altra non sarebbe comprensibile, essendo la comprensione delle condizioni e degli impegni reciproci, condizione necessaria affinché un Patto abbia valore.


Di conseguenza, è proprio la Torah orale a identificare il vero Popolo di Israel, come illustreremo in seguito. Inoltre è evidente che, mentre una norma scritta può essere oggetto di discussione ed interpretazione, variabili da soggetto a soggetto e da epoca ad epoca, il tramandare oralmente e fedelmente, all’interno del Popolo, di generazione in generazione, da Maestro ad allievo e da Padre in figlio, costituisce la garanzia della veridicità di ciò che si tramanda. ( Rambam “Morèh hanevukim”; parte I, cap 71)


דרש רבי יהודה בר נחמני מתורגמניה דרבי שמעון בן לקיש, כתיב: "כתב לך את הדברים האלה", וכתיב: "כי על פי הדברים האלה", הא כיצד? דברים שבכתב אי אתה רשאי לאומרן על פה, דברים שבעל פה אי אתה רשאי לאומרן בכתב. דבי רבי ישמעאל תנא: אלה - אלה אתה כותב, ואי אתה כותב הלכות.
א"ר יוחנן: לא כרת הקב"ה ברית עם ישראל אלא בשביל דברים שבעל פה, שנאמר: "כי על פי הדברים האלה כרתי אתך ברית ואת ישראל".




Traduzione:
“Così commentava Rabi Yehudàh Bar Nachmani (il portavoce di Rabi Shim’on Ben Laqish): “E’ scritto: ”scriviti queste parole” ed è scritto: ”Perché sulla base di queste parole” (Shemot 34,27). In che senso? Parole in forma scritta non ti è permesso di trasmetterle oralmente, parole trasmesse in forma orale non ti è permesso trasmetterle per iscritto”.
Così si recitava nella scuola di Rabi Ishmael: “Queste: queste tu scrivi, ma non scrivi halachot”.
Così disse Rabi Yochanan: “Il Santo Benedetto Sia non ha stipulato un Patto con Israel se non per le parole in forma orale”, come fu detto: “perché sulla base di queste parole ho stipulato con te un patto e con Israel”.
(Talmud Babli, Ghittin 60b)

La Toràh Orale, essendo interna al Popolo, presenta la caratteristica di essere più protetta in confronto alla Toràh Scritta, perché è possibile che un popolo straniero se ne appropri, in quanto scritta, e che poi questi possa assumere la falsa identità di “Popolo di Israel”:


ויאמר ה' אל משה כתב לך את הדברים האלה זשה"כ אכתב לו רובי תורתי כמו זר נחשבו
א"ר יהודה בר שלום כשאמר הקב"ה למשה כתב לך ביקש משה שתהא המשנה בכתב ולפי שצפה הקב"ה שאומות העולם עתידין לתרגם את התורה ולהיות קוראין בה יוונית והם אומרים אנו ישראל ועד עכשיו המאזנים מעויין אמר להם הקב"ה לעכו"ם אתם אומרים שאתם בני איני יודע אלא מי שמסטורין שלי אצלו הם בני ואיזו היא זו המשנה שנתנה על פה והכל ממך לדרוש

Traduzione:
“Disse HaShem a Moshèh: “Scriviti queste parole”, ciò è quanto esprime lo scritto: “Se io avessi scritto la maggior parte della mia Toràh sarebbero stati considerati come [popolo] straniero”(Oshea 8,12).
Disse Rav Yehudàh bar Shalom: quando disse il Santo Benedetto Sia a Moshèh: “scriviti”, Moshèh gli chiese che la ripetizione orale venisse messa per iscritto. Ma siccome il Santo Benedetto sia aveva previsto che i popoli del mondo, nel futuro avrebbero tradotto la Toràh leggendola in greco e avrebbero detto: “ Siamo noi Israel e fino ad ora la bilancia è esattamente in equilibrio”. Disse loro il Santo Benedetto Sia: “Voi dite che siete miei discepoli, Io so solo che chi ha con se i miei arcani, essi sono miei discepoli”. E quale è? Questa, la Mishnàh, che fu data in forma orale e il tutto è da te commentare”.
(Midrash Tanchuma, Ki Tissà, 34).

L’espressione המאזנים מעויין (la bilancia è esattamente in equilibrio), pronunciata dai popoli in questo Midrash, ha il senso comune, nel linguaggio talmudico, di equilibrio fra le colpe e i meriti degli umani e quindi qui potrebbe significare che i popoli si considerano dei giusti perché osservano la Toràh scritta, considerata da loro l’unica esistente. Ma significa anche che gli stessi, in un futuro lontano, avrebbero considerato la Toràh Scritta come se appartenesse anche a loro. Come dire: “la bilancia è in esatto equilibrio, la Toràh fu data a loro Israeliti, come anche a noi allo stesso esatto modo”.
L’aggettivo מעויין deriva dall’espressione עין בעין (occhio per occhio) il cui senso è “in modo esatto”:
עין בעין שן בשן
“occhio per occhio, dente per dente”
(Devarim 19,21)

עין תחת עין שן תחת שן
“Occhio al posto di occhio, dente al posto di dente”
(Shemot 21,24)

“דמי עינא חולף עינא, דמי שינא חולף שינא”

Traduzione:
“il prezzo [stabilito] per l’occhio sostituisce l’occhio, il prezzo [stabilito] per il dente sostituisce il dente”.
(Targum pseudoYonathan, Devarim 19,21; Shemot 21,24)

Toràh Scritta (תורה שבכתב) e Toràh Orale (תורה שבעלפה) non somigliano dunque ad altri sistemi giuridici quali, ad esempio, il diritto romano dove si ritrovano lo “Jus scriptum” (legge scritta) e lo “Jus non scriptum” (legge non scritta).
In questo (il diritto romano), con “legge non scritta” si intende tutto ciò che va oltre la legge scritta. Nello specifico, in questo caso, si intendono tutte quelle usanze popolari che non sono state scritte nel codice delle leggi e in alcuni casi questa espressione veniva anche identificata con lo “Jus naturale”, ovvero con tutti quei comportamenti che emergono in modo spontaneo e naturale.
 
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Etimologia e significato dei termini אלהים e אלה

Il termine אלהים deriva dalla radice אלה, il cui senso base del verbo, è “giurare”.

L’atto del giurare biblico, da parte della Divinità, corrisponde al legiferare.
Egli, HaShem, emana le leggi e “giura” con la sua firma: “אני ה׳” “Ani HaShem”. Chi non rispetta le Sue leggi, anche se in segreto e quindi non condannabile da un tribunale umano, va incontro ad una punizione inflitta direttamente dalla Divinità.
Il sostantivo אָלָה, che deriva anch’esso dalla stessa radice e designa una norma superiore che contiene in sé la punizione come conseguenza della sua trasgressione, allarga così il campo semantico del verbo in “legiferare”.

Secondo Rav Shimshon Rafael Hirsch, “Elohim” deriva da אלה e significa governante, legislatore e giudice. Haelohim sono dunque i legislatori e i giudici della società umana, nel piccolo mondo dell’uomo. Egli fa notare che la stessa radice אלה è anche quella del pronome dimostrativo אֵלֶּה (elle=questi, queste), riferito a persone o cose, sia a nomi maschili che femminili. “Elle”, questi, in senso assoluto, è riferibile a tutte le cose, come se esse fossero riunite insieme in un solo termine. “Questi” rappresentano una società organizzata, fatta di ordinamenti giuridici che la regolano.
(Rashar Hirsch, commento alla Toràh, Genesi 1,1).

Il senso base del sostantivo אָלָה è “norma giuridica” ed esso si estende in un campo semantico più vasto acquistando, in base al contesto, il senso di Giuramento, Patto e “Maledizione”.

Secondo il Milon Ben Yehudàh
i seguenti termini, in diverse lingue, sono sinonimi ed il termine אָלָה è da intendersi con “serment”, “vertrag”, “schwur”, “pacte”, “oath”, “covenant”. In senso ristretto אָלָה è dunque la punizione, la conseguenza della violazione del patto.
(Milon Ben Yehudàh; אָלָה pag.228).

Varie definizioni sono state date al sostantivo אָלָה.
Riportiamo quella del dizionario Milon Ariel haMaqif:


אלה: שבועה שיש בה קללה נגד מישהו המפר אותה


Traduzione:
“Giuramento che ha in se una maledizione contro chi lo viola”.

I.L. Seeligmann nega il senso di “maledizione” al termine אָלָה ed anche altri studiosi hanno proposto interpretazioni diverse da quelle tradizionali.
(Seeligman, Mechkarim besifrut haMikrà, pag.150, nota 22 e pag.253, nota 29).

Noi invece riteniamo importanti le interpretazioni tradizionali e queste ci aiutano a comprendere il vero senso dei termini biblici; ma il senso di questo termine è perfettamente deducibile dal contesto di alcuni versi.

Come si evince dal seguente verso di Mishlè, אָלָה è la Legge, la cui conoscenza rende coscienti della trasgressione e della conseguente punizione:

חולק עם גנב שונא נפשו אלה ישמע ולא יגיד


Traduzione:

“Chi divide con il ladro odia se stesso e anche se fosse a conoscenza dell’alàh non la direbbe”.
(Mishlè 29,24).

Il termine אָלָה, in questo contesto, acquista il senso di “Legge” e, più propriamente, della punizione che questa prevede per i trasgressori: chi divide con il ladro diviene suo complice. Tale complicità consiste nel fatto che egli sa che l’azione che il ladro sta commettendo è punibile dalla Legge, ma non fa opera di persuasione per convincerlo a desistere, anzi si unisce a lui per dividere la refurtiva.
La Toràh condanna questo tipo di comportamento: il comportamento immorale di chi è a conoscenza di una “voce della legge” e della punizione da essa prevista:

ונפש כי תחטא ושמעה קול אלה והוא עד או ראה או ידע אם לוא יגיד ונשא עונו


Traduzione:
“Chi trasgredirà pur avendo sentito la voce dell’alàh ed egli è testimone o ha visto o ha saputo, se non lo dirà, diverrà colpevole della sua trasgressione”. (Waykrà 5,1)
La voce dell’alàh è la sua dichiarazione pubblica:


אתם נצבים היום כלכם לפני ה׳ אלהיכם … לעברך בברית ה׳ אלהיך ובאלתו אשר ה׳ אלהיך כרת עמך היום למען הקים אתך היום לו לעם והוא יהיה לך לאלהים כאשר דבר לך וכאשר נשבע לאבתיך לאברהם ליצחק וליעקב
ולא אתכם לבדכם אנכי כרת את הברית הזאת ואת האלה הזאת

Traduzione:
“Voi tutt’oggi siete presenti davanti ad HaShem vostro Legislatore… per entrare nel Patto di HaShem tuo Legislatore e nella sua alàh, che HaShem tuo Legislatore concluse con te oggi, affinché tu divenga Suo Popolo ed Egli sarà per te Legislatore, come ti ha detto e come ha giurato ai tuoi antenati, ad Avraham, a Itzchaq e a Ya’aqov.
Non con voi solamente Io concludo questo patto e questa alàh”.
(Devarim 29,9-13)

ובאלתו: זה שנאמר ואם באלה לא תשמעו לי אמר להן הברית הזאת כרותה היא עמכם מהר חורב שנאמר אשר כרת אתם בחורב

Traduzione:
“E nella sua alàh: è come fu detto: e se in queste non mi ascolterete, disse loro, questo patto è concluso con voi dal monte Horev, come fu detto: che concluse con loro in Horev”.
(Midrash haGadol, Nizavim, 29)

Secondo questo passaggio del Midrash haGadol, la alàh è la punizione, inflitta direttamente dalla Divinità, che fa parte dell’elenco delle punizioni descritte nella Parashàh Bechukkotai. Quando il tribunale degli umani perde la sua efficienza per eccessiva corruzione, HaShem stesso scende per educare il popolo, infliggendogli tutta una serie di punizioni che alla fine lo riporteranno sulla retta via. Tali punizioni sono impropriamente dette “maledizioni”.

La “maledizione” nell’ebraismo altro non è che la punizione che consegue alla trasgressione della Toràh. Essa è la conseguenza della violazione del Patto stipulato con HaShem.
Pare che il Midrash in questo caso, vocalizzi il termine אלה non come pronome dimostrativo (אֵלֶּה), ma come אָלָה. Non si dovrebbe leggere “beelle”, ma “baalàh”, come anche fa notare Rav Baruch Epstein, nel suo commento alla Toràh.
(Toràh Temima, Waykrà 26,23).

Pertanto “ואם באלה לא תשמעו לי” è anche da intendersi: “e se non mi presterete attenzione in base all’alàh”, ovvero alla “Legge” che, nella sostanza, altro non è che un giuramento solenne pronunciato da D-o, che prevede quelle punizioni in essa descritte in caso di violazione. Ma il testo della Toràh riporta così la suddetta citazione:

ואם עד אלה לא תשמעו לי


che i massoreti, concordemente al targum, vocalizzano:

וְאִם עַד אֵלֶּה לֹא תִשְׁמְעוּ לִי

Traduzione:
“E se fino a queste non mi ascolterete”
(Waykrà 26,18)

Il Midrash riporta altre due vocalizzazioni del termine עד di questo verso:
1)* עֵד=testimone, testimonianza (cfr. 1*)
2)** עֹד: ancòra (cfr. 2**)

רבי אליעזר אומר אין הקב״ה מביא פורעניות על ישראל עד שמעיד בהן תחילה הה״ד: ואם עד אלה

Traduzione:
1)* Rabbi Eli’ezer dice: Il Santo Benedetto Sia non manda disgrazie su Israel fino a che prima non testimonia contro di loro, come è scritto:

ואם עֵד אלה



רבי יהושע אומר שלא יהו ישראל אומרים כלו מכות עוד אין לו אחרות להביא עלינו ת״ל: ואם עד אלה, אם עוד אלה יש לו אחרות

Traduzione:
2)** Rabi Yehoshua dice: che non dicano Israel cessarono le punizioni, non ne ha più da portare a noi, cioè a dire: ואם עֹד אלה, se ancora queste, ne ha di altre.
(Echàh Rabbàh, Petichta deRabi Pinchas, 27)
Pertanto, in conformità anche con il senso espresso nel Midrash haGadol, l’espressione di questo verso, se vocalizzato come vuole il Midrash Rabbàh: עֵד אָלָה acquista il senso di: “Testimonianza di Legge”.

Midrash haGadol:
וְאִם בְּאָלָה לֹא תִשְׁמְעוּ לִי

Traduzione:
“E se, in base alla Legge, non mi presterete attenzione…”

Midrash Rabbàh:
וְאִם עֵד אָלָה לֹא תִשְׁמְעוּ לִי

Traduzione:
“E se, (nella maniera della) testimonianza di Legge,
non mi presterete attenzione…”

עֵד אָלָה è qui un espressione avverbiale come עֵד שֵׁקֶר:

לא תענה ברעך עד שקר
“Non testimonierai contro il tuo prossimo, falsa testimonianza”.
(Shemot 20,13).

in cui il termine עֵד è un sostantivo astratto con il senso di “testimonianza”.







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cip di richiamo

zio ot
 
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צדקה Tzedaqàh


Quella di donare ai poveri è una “mitzwàh deoraita”, come è scritto:

כי לא יחדל אביון מקרב הארץ על כן אנוכי מצווך לאמור פתוח תפתח את ידך לאחיך לענייך ולאביונך בארצך


Traduzione:
“Poiché non smetterà di esistere il nullatenente in seno alla terra, pertanto Io ti comando dicendo: apri generosamente la tua mano al tuo fratello, ai tuoi poveri e ai tuoi miseri nella tua terra”.
(Devarim 15,11)

Il comandamento consiste nel provvedere al povero per tutte le sue necessità, ovvero: vitto, alloggio e vestiario. Secondo l’halachàh, l’obbligo della tzedaqàh è rivolto a tutti i cittadini, anche al povero che viva egli stesso di tzedaqàh. Pur essendo esente da ma’asser (tassa della decima), egli è comunque obbligato ad offrire tzedaqàh ad altri poveri.

Rambam descrive la tzedqàh secondo una scala morale di otto gradi. Ogni ebreo è incoraggiato a conseguire il grado più alto:

1) Donare tzedaqàh, con lo scopo di risollevare chi è caduto economicamente, perché possa riacquisire la sua indipendenza economica. Fare società con lui, fargli un prestito (senza interesse) o donargli una considerevole somma di danaro per creargli un lavoro.

2) Donare la tzedaqàh ai poveri, senza conoscere l’identità di chi la riceve e chi la riceve non conosce l’identità di chi l’ha data.
Come dare la tzedaqàh ad un’associazione che distribuisce ai poveri (In questo caso Rambam avverte di accertarsi che l’amministratore sia onesto).

3) Chi dà la tzedaqàh conosce l’identità di chi la riceve, ma il povero non conosce l’identità di chi l’ha data.

4) Il povero sa chi è il benefattore, ma il donatore non sa chi è il beneficiario.

5) Donare alla mano del povero, ancor prima che egli sia costretto a chiedere.

6) Donare dopo che il povero ne abbia fatta espressa richiesta, conformemente ai suoi bisogni.

7) Donare con gentilezza, dopo che il bisognoso ne abbia fatta espressa richiesta, ma in misura inferiore ai suoi bisogni.

8) Donare tristemente e controvoglia.

(Rambam, Matanot ‘Aniim, 10, 7-14)

Il grado più alto di tzedaqàh è quello rivolto a chi è rimasto senza nulla, in seguito ad un fallimento economico.
E’ d’obbligo aiutarlo a risollevarsi dalla sua condizione, attraverso dei prestiti, oppure entrando in società con lui, in modo che non abbia il bisogno di vivere di tzedaqàh e possa così continuare a vivere del frutto del suo lavoro.

E’ di elevato grado morale dare tzedaqàh in modo anonimo, affinché chi la riceva non ne sia umiliato. Colui che dà non sa chi riceve e chi riceve non conosce la provenienza di chi ha donato. Ancora più meritevole è considerato colui che dà al povero che ne faccia espressa richiesta.
Non è visto di buon occhio invece, chi dà la tzedaqàh in misura insufficiente o di mala voglia.

I Saggi hanno posto una siepe intorno alla tzedaqàh, stabilendo un limite all’entità dell’elargizione, affinché non vi sia il rischio che il benefattore possa diventare egli stesso povero, dato che la tzedaqàh, in realtà, non ha una percentuale fissa e ciascuno può dare quanto ritenga opportuno. Il limite imposto dai Saggi è che ognuno non elargisca più di 1/5 del suo guadagno netto. Essi stabilirono anche chi ha la precedenza nel ricevere la tzedaqàh.
Ad esempio: in primo luogo vengono i componenti familiari, poi i vicini, i concittadini e così via dicendo.

La tzedaqàh è considerata come la più grande di tutte le mizwot della Toràh:

צדקה וגמילת חסדים שקולות כנגד כל מצותיה של תורה


Traduzione:
“Tzedaqàh e Beneficenza sono considerate le più grandi, tra tutte le mizwot della Torah” (Talmud Yerushalmi, Peà 3a)

A questo proposito, è bene precisare come il concetto esposto abbia una connotazione totalmente diversa da quello espresso dalla traduzione “carità”.
La carità è una sorta di benevolenza, di “concessione” al prossimo. Potremmo considerarla una “donazione amorevole e pietosa” che non è affatto obbligatoria, per quanto meritevole.

Tzedaqàh, dalla radice צדק (Tzedeq: Giustizia), ha in sé non solo il valore morale, ma anche il senso giuridico dell’obbligatorietà della giustizia sociale. La carità non è un diritto di chi la riceve e non è un obbligo per chi la “concede”.

All’opposto, la tzedaqàh è un obbligo per colui che deve elargirla ed un diritto di colui che ne beneficia.

La tzedaqàh esprime in sé, oltre che l’amore per il prossimo, anche un contributo alla società, con una tendenza, se non proprio ad eliminare, almeno ad attenuare le disuguaglianze e rende la compagine sociale più nobile ed economicamente più forte.

Secondo la letteratura talmudica essa è più grande dei qorbanot (Babli, Succàh 49b) e avvicina il tempo della גאולה (Gheulàh).

Come riporta la Masechet Sanhedrin, una città che non aveva una cassa per i poveri era considerata di un così basso livello morale che ad un talmid chacham era proibito risiedervi. (Sanhedrin 17b)
Anche i più malvagi ottengono dei meriti, donando la tzedaqàh e addirittura è detto che hanno la facoltà di riscattare se stessi per mezzo delle donazioni ai poveri:
אדם קונה את עצמו בממון מידי שמים


Traduzione:

“Un uomo compra se stesso con denaro, dal (giudizio del ) cielo
(Mechilta, Mishpatim, 109).

I Saggi vedono la povertà come una situazione che si ripete e che può far parte della vita di chiunque.
Pertanto, è necessario che ci sia costantemente il timore di HaShem, poiché la parnassàh ci è data da Lui e che si doni sempre all’indigente, con mano generosa, affinché Egli si ricordi di noi, nel momento in cui la ruota della vita non girerà più in nostro favore.

Anche il rapporto con la povertà è particolarmente diverso nella mentalità ebraica, rispetto a come è concepito in altre società ed altre religioni.
Alcune religioni esaltano la povertà come mezzo di salvezza ed esortano i loro fedeli a spogliarsi dei propri beni, allo scopo di guadagnare la vita eterna.

Nell’ebraismo si tratta esattamente del contrario: ricchezza e benessere sono considerati una benedizione di HaShem, al quale deve andare tutta la gratitudine per quanto ci è dato. La povertà e l’indigenza sono considerate una sventura, nulla affatto una gioia o una speranza, nell’ottica di una presunta salvezza futura.





 
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