Origini delle Religioni

LO SHAMYR

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CAT_IMG Posted on 13/5/2016, 16:51
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LO SHAMYR

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שָׁמִיר


shamyr

vale come pianta , cardo , rovo , finocchio ,

e come pietre . diamante , smeriglio , pietra focaia .

nel tanakh

http://search.freefind.com/find.html?id ... D7%A8&s=ft


ISAIA VII, 23 ROVO



כג וְהָיָה, בַּיּוֹם הַהוּא--יִהְיֶה כָל-מָקוֹם אֲשֶׁר יִהְיֶה-שָּׁם אֶלֶף גֶּפֶן, בְּאֶלֶף כָּסֶף: לַשָּׁמִיר וְלַשַּׁיִת, יִהְיֶה.




23 In quel giorno,ogni terreno contenente mille viti,del valore di mille sicli d'argento,

sarà abbandonato in balìa dei rovi e dei pruni.




ZACCARIA VII ,12 DIAMANTE



יב וְלִבָּם שָׂמוּ שָׁמִיר, מִשְּׁמוֹעַ אֶת-הַתּוֹרָה וְאֶת-הַדְּבָרִים אֲשֶׁר שָׁלַח יְהוָה צְבָאוֹת בְּרוּחוֹ, בְּיַד, הַנְּבִיאִים הָרִאשֹׁנִים; וַיְהִי קֶצֶף גָּדוֹל, מֵאֵת יְהוָה צְבָאוֹת.



12 Resero il loro cuore duro come il diamante, per non ascoltare la legge e le parole che il SIGNORE degli eserciti rivolgeva loro per mezzo del suo Spirito, per mezzo dei profeti del passato; perciò ci fu grande indignazione da parte del SIGNORE degli eserciti






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LO SHAMYR


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LO SHAMIR, IL LASER DI MOSÈ



di Mauro Paoletti

Molte opere architettoniche non possono essere state costruite solo con gli utensili dell’epoca e l’Antico Testamento è ricco di riferimenti a "divini attrezzi" da taglio, doni dei "Guardiani del Cielo".


Matest Agrest pubblicò nel 1995 un volumetto dal titolo "L’antico miracoloso meccanismo Shamir", indicando con tale nome uno strumento usato per tagliare e incidere pietre durissime. Lo Shamir viene descritto nel Talmud (Pesachim 54°) come un "verme tagliente" e nello Zoar (74 a,b) come un "tarlo metallico divisore".

Nel Talmud (Mischna Avot 5/9) si parla di una creatura di origine minerale che gli Ebrei indicano come un "verme", un "tarlo capace di forare i minerali più duri". Nella Bibbia, Geremia 17/1, viene descritto come un "diamante": "il peccato di Giuda è scritto con uno stilo (la penna usata all’epoca per incidere sulle tavolette di cera), e con una punta di diamante".

Quindi una penna di diamante; particolare importante poiché, come vedremo avanti, si prospetta l’uso di un raggio laser ricavato utilizzando proprio un diamante.

Questo "verme di diamante" veniva adoperato per tagliare e forare; considerato un "attrezzo divino" veniva affidato raramente agli umani. Se ne conoscevano diverse grandezze, Salomone ne aveva scoperto uno piccolo come un chicco di grano, tutti conosciuti con il nome di "Shamir". Come specificato da Agrest, può essere stato descritto come un insetto a causa dell’errata traduzione della parola latina "insectator": tagliatore. Scambiato quindi con un "tarlo", dal momento che praticava fori come il noto animaletto.



SPARÌ NEL TEMPIO DISTRUTTO


Leggendo i testi lo studioso realizzò che lo Shamir in pratica possedeva tutte le caratteristiche del laser. Il primo antenato del laser fu ideato da T.H. Maiman solo nel 1960. Chi costruì lo Shamir 3.000 anni fa? Da chi e dove Mosè ne entrò in possesso? Secondo le notizie storiche gli Israeliti si trovavano in Egitto dopo che le piramidi erano già state costruite. Agrest, in seguito agli studi condotti sulla Bibbia e su altri testi antichi, si è convinto che Mosè avesse uno strumento capace di generare raggi laser, andato distrutto insieme al secondo tempio di Gerusalemme. Come infatti testimonierebbe il capitolo 9 del trattato Mishnajot: "(...) quando il tempio fu distrutto, lo Shamir sparì".

Sull’origine non terrestre dello strumento vi sono riferimenti chiari. Nel capitolo 5 del trattato Abot, che fa parte del Talmud babilonese, è scritto che lo Shamir fu creato nei sei giorni della creazione del mondo. Sempre nel Talmud, sotah 486, si dice che Mosè portò lo Shamir nel deserto per costruire l’Efod, il pettorale destinato ad Aaron, come stabilito nel patto col Signore cui si fa riferimento nella Bibbia - Esodo 28,9: "prenderai due pietre di onice (durissime) e inciderai su di esse i nomi degli israeliti, seguendo l’arte dell’intagliatore di pietre per l’incisione di un sigillo". Occorre precisare che era proibito scrivere e conservare i nomi degli Israeliti con l’inchiostro, nonché usare qualsiasi attrezzo di ferro per eseguire tali lavori. Ecco spuntare quindi lo Shamir: "In un primo tempo i nomi erano stati scritti con l’inchiostro, allora fu mostrato loro lo Shamir e furono incisi sulla pietra al posto di quelli scritti con l’inchiostro". (Talmud babilonese Sotah 48,b). Mosè per far ciò istruì due tagliatori di pietra, Bezaleel della tribù di Giuda e Ooliab, figlio di Achisamach, della tribù di Dan. La conferma si trova anche nella Bibbia, Esodo 36,2.



USATO SOLO DAGLI SPECIALISTI


L’Efod continuò a esistere per più di mille anni dopo il tempo di Mosè, milioni di Ebrei ebbero modo di vederlo; come videro certamente i Templi di Gerusalemme costruiti senza usare utensili di ferro. "Per la costruzione del tempio si usarono pietre già squadrate altrove, così, durante i lavori, nel tempio non si udì rumore di martelli, scalpelli, picconi o di altri utensili metallici" (Bibbia I° Re 6/7 - Talmud babilonese). Come consigliarono i rabbini, Salomone certamente usò lo Shamir, che ottenne da un "guardiano del cielo", Ashmedai, al quale si attribuisce il titolo di "principe dei demoni"; indicato dal lessico giudaico, vol. IV, 1982, come Asmodai. Sappiamo anche che l’uso di tale attrezzo non era facile, perché i testi ci raccontano che fu necessario istruire i preposti al suo impiego, come si farebbe oggi nell’esecuzione di un lavoro specializzato. Difatti il Signore dovette trasmettere "saggezza e conoscenza" negli uomini "perché fossero in grado di eseguire i lavori". È facile dedurre che si trattava di una tecnologia avanzata sconosciuta in quell’epoca. Lo Zoar 74 a,b, ci mette al corrente che lo Shamir fu in grado di spaccare e tagliare ogni cosa, tanto che non fu necessario impiegare altri attrezzi di metallo per eseguire il lavoro.





TRAPANI DIAMANTATI


Tutto questo porterebbe una valida spiegazione ai misteri che circondano le pietre di Tiahuanaco, Puma Punku, Sacsayhuaman, Giza, ecc. Nei miti egiziani il Dio Seth tagliò le rocce ad Abuzir (casa di Osiride) con qualcosa di simile. Intorno al tempio di Sahura, ad Abuzir, vi sono infatti molte pietre di diorite che presentano fori di trivellazione spiegabili solo facendo riferimento a moderni trapani diamantati. A Tula vi sono alcune statue con arnesi chiamati "Xiuhcoatl", "serpenti di fuoco", simili a quelli che impugnano gli idoli di Kalasasaya a Tiahuanaco. Si racconta che fossero strumenti che emettevano "raggi infuocati" capaci di perforare corpi umani. "Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul Sinai, gli diede due tavole della Testimonianza, due tavole di pietra, scritte dal dito di Dio". (Esodo 31,18): lo Shamir? La Bibbia, citando Ooliab, lo indica come appartenente alla tribù di Dan. Dan è anche l’antico nome bretone del gaelico Dana e del gallese Don. Con Llys Don, la corte di Don, si usa indicare la costellazione Cassiopea. Quindi, menzionando la Corte di Don, Dan o Dana, si indica anche la costellazione e il suo maggior pianeta, appunto Dana, dal quale giunsero i Tuatha de Danann, 5.000 anni fa per rimettere ordine sulla Terra, come narrano le saghe irlandesi e celtiche. Il dottor John Kenny, del dipartimento di fisica e astronomia dell’università di Bradley (Peoria, U.S.A.), ha accertato che i Tuatha erano i figli di Anu, Dio sumero, assimilato al pianeta Nettuno, uno dei protagonisti principali dell’Epica della Creazione.




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La vera natura del "magico Shamìr"




A proposito di un'antichissima tecnologia
per la lavorazione della pietra senza l'uso di strumenti metallici


Lia Mangolini




Storia e leggenda


"Il quinto mese, il sette del mese, corrispondente al diciannovesimo anno di Nabuchadnèsar, re di Babilonia, giunse a Gerusalemme Nabuzardàn, comandante della guardia, subalterno del re di Babilonia" (2 Re 25, 8). La prima volta che casualmente mi imbattei nello Shamìr, si trattava solo di un fuggevole accenno contenuto in un articolo che parlava della Massoneria, e diceva pressappoco quel che segue.


Durante la seconda conquista di Gerusalemme da parte dei Babilonesi (che la Bibbia chiama "caldei") nel 587 a.C. - con susseguente saccheggio dell'intera città, messa a ferro e fuoco, e deportazione dei suoi abitanti - dal Tempio di Salomone fu portato via tutto quanto c'era ancora di prezioso. Ma quasi ogni arredo e oggetto in oro e in argento era già stato sottratto dieci anni addietro durante il primo episodio di questo genere, quello portato a termine nel 597 a.C. dallo stesso Nabuchadnèsar, o Nabucodonosor (1). La spoliazione compiuta dai caldei - benché definitiva e, questa volta, completa - fu quindi, per forza di cose, più modesta quanto a valore venale, ma non per importanza. Oltre all'asportazione di tutti gli oggetti mobili, furono demoliti e portati via tutti gli accessori in bronzo del Tempio, compresa la grande vasca per la purificazione dei sacerdoti (2) e le due colonne, poste all'esterno ai lati dell'ingresso: modello comune a tutti gli impianti templari di questo periodo e di questo àmbito geografico. Le due colonne, delle quali la Bibbia riporta minuziose descrizioni (3), e alle quali Salomone aveva dato i nomi di "Jachin", quella di destra, e "Boaz", quella di sinistra (cioè, forse, "Stabilità" e "Forza"), erano cave. Fin qui, per quanto attiene la testimonianza "storica" dell'Antico Testamento. La leggenda riportata dalla tradizione midràshica (4), tuttavia, fornisce ulteriori dettagli. Insieme alle colonne fu asportato il loro contenuto: nella loro cavità, infatti, veniva conservato l'intero archivio storico del popolo d'Israele, assieme ai documenti che riportavano la summa di tutto il sapere e tutti i segreti scientifici. Pare poi che in seguito, per vie misteriose, quei documenti siano entrati in possesso della Massoneria, che li deterrebbe tuttora. Fra essi, era custodito il segreto di "qualcosa" che nessuno più sa cosa sia: il "magico Shamìr" (5).


Il mio secondo incontro - anch'esso fortuito - con lo Shamìr avvenne leggendo un altro midràsh e fu molto più illuminante; ma non a sufficienza. Il racconto riporta che, per la costruzione del Tempio (6), Salomone aveva dato ordini molto precisi. Secondo la Legge mosaica, Legge divina, nessun materiale (pietra, legno, oro, avorio eccetera) doveva essere lavorato con attrezzi di ferro (7), il metallo di cui son fatte le armi che portano morte.
L'altare, soprattutto, non doveva essere profanato in nessun modo da quel contatto, e nel cantiere non doveva entrare nemmeno un chiodo; né tanto meno martelli, scalpelli, picconi o altro. Tanto è vero che il materiale da costruzione - o almeno, sicuramente, la pietra - era arrivato sul posto già squadrato, se non rifinito, di modo che durante i lavori "non si udì nel Tempio nessun rumore prodotto da utensili metallici". L'unica maniera alternativa di lavorare la pietra senza impiegare strumenti di ferro era quella di usare il "magico Shamìr"(8). Dio stesso l'aveva dato sul Sinai a Mosè, che se ne era servito per incidere i nomi delle dodici tribù sulle pietre incastonate nel pettorale e nell'"efòd" che facevano parte dei paramenti del Sommo Sacerdote.
Da allora però lo Shamìr era sparito e non si sapeva più che fine avesse fatto.


Ma la storia racconta poi di come Salomone (in modo a dire il vero non troppo onorevole) riuscì a procurarselo. Il dèmone Asmodeo (che sa dove si trovano tutti i tesori nascosti) fu costretto a rivelare al re che Dio aveva consegnato lo Shamìr a Rahav, l'Angelo (o il Principe) del Mare, il quale non lo affidava mai a nessuno se non, raramente e solo a fin di bene, al gallo selvatico (o gallo cedrone, o gallina di brughiera, o aquila di mare, a seconda delle versioni), che viveva lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall'uomo: questi se ne serviva per "forestare" intere colline nude e pietrose, producendovi - per mezzo dello Shamìr - innumerevoli forellini, nei quali poi piantava semi di varie piante e di alberi. Ciò veniva fatto nell'imminenza della migrazione di gruppi tribali divenuti troppo numerosi, che più tardi, arrivando sul posto, avrebbero trovato un ambiente vivibile. In quell'occasione, re Salomone riuscì con l'inganno a sottrarre il magico "tarlo" al gallo selvatico, che se lo era fatto prestare da Rahav per un caso di forza maggiore: il re infatti, proprio per costringere il pennuto a questo espediente estremo, aveva fatta porre sopra il suo nido una piccola cupola di vetro, separandolo così dai suoi piccoli. Volò verso occidente l'uccello disperato, in cerca di Rahav; quando tornò portava nel becco lo Shamìr, con il quale in pochi istanti riuscì a perforare o a disintegrare il vetro, lasciando poi cadere lo Shamìr, che Salomone lestamente raccolse. A lui che stupito chiedeva cosa mai fosse quella misteriosa e portentosa sostanza e da dove venisse, il gallo selvatico rispose che la si poteva trovare lontano, sulle Montagne dei Dormienti, e là lo condusse, dove il re ne fece scorta sufficiente a completare tutte le opere del Tempio che non potevano essere eseguite usando strumenti metallici. Particolare pietoso, si dice anche che il gallo selvatico, per la vergogna di aver perso lo Shamìr, si sia suicidato. Vedremo fra poco quante e quanto strette analogie (luoghi, personaggi, miracolose caratteristiche e modalità degli avvenimenti) questa leggenda mostri con le altre sparse in tutto il mondo. Il racconto dà inoltre una interessante precisazione: lo Shamìr - che, almeno in alcune versioni, a fine lavori venne restituito al suo custode - venne da Salomone riposto e in seguito conservato (era quello l'unico modo di trattarlo correttamente) in un cestino pieno di crusca d'orzo.


Ma che cos'era dunque lo Shamìr?



Particolari tecnici

Quella sopra riportata è solo una delle molte narrazioni relative allo Shamìr: segno che - malgrado l'incertezza dell'identificazione - a suo tempo era "qualcosa" di ben noto e diffuso. Infatti ho trovato più tardi numerosi altri dettagli. Provengono da almeno una quindicina di midrashìm diversi (alcuni dei quali molto antichi) ma sostanzialmente concordi sui punti principali, che figurano in svariate antologie, ma meglio accorpati o riassunti in quella che è la più completa e ponderosa raccolta moderna del genere, "Le leggende degli ebrei" di Louis Ginzberg. Rimandando ad uno studio più approfondito l'esame diretto delle fonti originali, i particolari che ne emergono sono i seguenti.

Lo Shamìr, con altre creature soprannaturali, venne creato al crepuscolo del sesto giorno della Creazione.

E' grande più o meno come un grano di frumento o d'orzo, e possiede la mirabile proprietà di tagliare qualsiasi materiale per quanto durissimo, anche il più duro dei diamanti.

Per questa ragione venne utilizzato da Mosè per lavorare le gemme poste sul "pettorale del giudizio" del Sommo Sacerdote. I nomi dei capi delle dodici tribù furono dapprima tracciati con l'inchiostro sulle pietre destinate a essere incastonate nel pettorale (e anche sulle due onici dei fermagli posti sulle spalline dell'"efòd" - N.d.A.) poi lo Shamìr venne passato sui tratti che rimasero così incisi (dalla letteratura rabbinica). Il fatto più straordinario fu che l'attrito (o l'azione) che segnò le gemme non produsse nessun residuo.

Lo Shamìr venne inoltre usato per tagliare le pietre con cui fu costruito il Tempio, perché la legge proibiva di usare per quest'opera strumenti di ferro (dal Talmud e dalla letteratura midràshica).

Lo Shamìr non può essere conservato in un recipiente chiuso di ferro o di qualunque altro metallo, poiché lo farebbe scoppiare. Esso va avvolto in un panno di lana e deposto in un cesto di piombo pieno di crusca d'orzo.

Lo Shamìr rimase in paradiso sinché Salomone non ne ebbe bisogno e mandò l'aquila (o un altro volatile) a prenderlo. Era il più meraviglioso possesso del re.

Con la fine dei lavori del Primo Tempio, o con la distruzione del Tempio stesso, lo Shamìr scomparve. (9)

Chiaramente, la leggenda su re Salomone e il gallo selvatico ha soprattutto le caratteristiche di un racconto immaginario. Contiene tuttavia un paio di indicazioni concrete, e inoltre alcune informazioni che potrebbero consentire un collegamento - lo vedremo più avanti - con miti consimili appartenenti ad altri àmbiti culturali, sia geograficamente vicini che inverosimilmente lontani. L'intero collage di citazioni midràshiche di Louis Ginzberg presenta da parte sua alcuni dati fantastici (la creazione dello Shamìr al crepuscolo del sesto giorno, insieme ad altre "creature soprannaturali"; il fatto che Salomone mandò l'"aquila" a prenderlo in paradiso), ma soprattutto vi dominano connotazioni e dettagli estremamente realistici, tali da suggerire fortemente l'impressione che la descrizione dello Shamìr che vi compare fosse frutto di osservazioni di prima mano, più che di pura fantasia. Un articolo di Phillip Clapham poi, citandone un altro pubblicato da Velikovsky sulla rivista "Kronos" (VI: 1) (torneremo più avanti su entrambi), aggiunge il particolare, tratto probabilmente da qualche altro midràsh, che anche le due Tavole della Legge, scritte da Mosè sotto dettatura divina, erano state incise usando lo Shamìr.

Nel semileggendario "Testamento di Salomone" (del III° secolo d.C.) si narra inoltre che, durante la costruzione del Tempio, gli operai addetti ai lavori soffrivano di un male misterioso che provocava grande spossatezza: ogni giorno più pallidi, con profonde occhiaie, deperivano, non riuscivano più a lavorare, e ogni notte erano visitati da vampiri e dèmoni che li affamavano rubando loro il cibo (il che, a parer mio, significa che rimettevano anche l'anima). Quando incominciarono a morire, il re salì sul monte Moria e pregò Dio, il quale gli mandò in dono - tramite l'arcangelo Michele - il famoso anello d'oro, con incisi la stella e il Suo ineffabile Nome, che dava poteri straordinari e immensa saggezza (in quell'anello fu più tardi incastonato lo Shamìr, che era una specie di rutilante "pietra verde", un "portentoso gioiello che irradiava luce"). Vampiri e dèmoni furono messi, al posto degli operai, a tagliar pietre giorno e notte. Questo è, più o meno, tutto quello che si sa sul "magico Shamìr". Complessivamente, dai brani citati si possono trarre le seguenti informazioni "tecniche":


1) lo Shamìr poteva essere usato per foggiare e per lavorare qualunque minerale, anche le pietre più dure - un midràsh dice "anche il legno duro come pietra" - diamante compreso (che, in alcune versioni, figura tra le gemme del pettorale); era in grado di intaccare anche il vetro; la sua azione non lasciava residui (10);

2) il suo aspetto era quello di un "qualcosa" delle dimensioni di un granello d'orzo, forse di colore verde;

3) non poteva essere conservato in un contenitore metallico chiuso, che sarebbe esploso (o si sarebbe fuso): liberava vapori? o che altro?

4) solo il piombo, anzi un recipiente non ermetico di piombo, se protetto da una adeguata coibentazione, poteva resistere alla corrosione (o comunque alla reazione chimica) da esso prodotta;

5) non danneggiava la lana né la crusca, e - con qualche problema - si poteva manipolarlo a mani nude (11);

6) non inibiva la crescita delle piante;

7) con l'andar del tempo (si parla di circa 400 anni, quelli intercorsi fra la costruzione e la distruzione del Tempio; ma forse ne occorsero molti meno) "scomparve", o meglio "divenne inattivo
" (12).

Appare piuttosto evidente che la descrizione di questo "qualcosa" fosse dovuta, in origine, all'esperienza diretta di chi con questo "qualcosa" aveva avuto a che fare, e che l'aveva usato. Ed appare ugualmente evidente - poiché all'epoca della stesura di questi testi, di cosa fosse di preciso lo Shamìr si era ormai persa la memoria - che le straordinarie caratteristiche di questo "oggetto misterioso" non sono riferibili ad alcuna delle più comuni interpretazioni che ne vengono date.

Il dizionario ebraico-italiano, alla voce "SHAMIR", elenca infatti diverse, mirabilmente eclettiche definizioni: 1) diamante (?) (sic); 2) verme leggendario che tagliava le pietre per il Santuario; 3) finocchio; 4) paliuro.

E questo è tutto.


L'unica indicazione aggiuntiva viene dal termine, subito sotto riportato, di "niàr shamìr" che in ebraico moderno a tutt'oggi, correntemente, indica la comune "carta vetrata", cioè qualcosa che consuma e corrode.

Qui ci troviamo evidentemente nel campo delle ipotesi. Dirò di più, siamo al livello degli indovinelli da bambini: minerale, animale o vegetale?
Ora, è chiaro che siamo costretti a considerare attendibili i dati forniti. D'altronde, non abbiamo alternative. Quindi, sulla base degli elementi descrittivi a nostra disposizione, e alla luce delle conoscenze scientifiche attuali, cercherò per prima cosa di escludere le interpretazioni "impossibili", e quindi (anche mettendo in atto i collegamenti cui prima accennavo) di identificare tentativamente il favoloso Shamìr. Ma che cos'era insomma?



Sette spiegazioni e mezza



MINERALE

E' doveroso oltreché pertinente, in questa sede, riportare le origini del termine e le sue successive modificazioni. "Shamìr" viene, pare, dall'antica parola indoeuropea "smer", che indica una "polvere minerale per levigare o segare"; e non si può negare che in effetti la funzione del "nostro" Shamìr sia quella, né che nei due vocaboli sia presente la medesima radice "SMR". In greco quel materiale venne chiamato "smeris" o "smiris", in latino "smericulum", in francese e in inglese moderni rispettivamente "émeri" ed "emery", in italiano infine "smeriglio".

In ebraico, come abbiamo visto, sono stati invece conservati sia il senso che, insieme, la forma della parola. Tutte queste versioni hanno sostanzialmente lo stesso significato: "smeriglio", per l'appunto. Solo che questa interpretazione non mi procura una particolare soddisfazione, poiché con quel termine si definiva (e si definisce tuttora) un notissimo abrasivo proveniente dall'isola di Naxos nelle Cicladi (che tuttora lo esporta), e ricavato polverizzando una locale varietà granulare compatta di corindone. Da nessuna parte sta scritto che fosse un dono divino gestito da un uccello, circondato da un alone di leggenda, né che avesse abitudini esplosive, o che facesse ammalare la gente, o che avesse l'aspetto di un granello d'orzo, o che si inattivasse dopo un certo tempo. Tutto ciò che questo materiale inerte sa fare è unicamente levigare e lucidare, più o meno come la normale pomice o la polvere di quarzo (c'è una bella differenza con quanto si legge a proposito dello Shamìr!). E a me questo non basta. Per cui, ritenendo valida soltanto - e soltanto in parte - l'affinità dell'uso, sarò costretta ad accantonare questa ipotesi. C'è una sola notazione interessante e curiosa da fare: "smeriglio" viene chiamata anche una specie di uccello predatore molto piccola appartenente alla famiglia dei Falconidi, ed è pure un altro nome con cui viene indicato lo sparviere. Ma vediamo ora cosa dice il dizionario.


"DIAMANTE" (?):


E' il dizionario stesso che, con quel punto interrogativo, manifesta nei riguardi di questa interpretazione la sua perplessità. Infatti (per quanto il termine "Shamìr" compaia diverse volte nei Libri di alcuni Profeti (13) a indicare qualcosa di più duro della roccia e del ferro), è chiaro che, accogliendo tale definizione, ciò che viene considerato, pure qui, è soltanto il possibile effetto, il risultato dell'azione svolta sul materiale lavorato. Anche questo punto di vista, in più, lascia aperti altri problemi, poiché un'incisione eseguita con una punta di diamante produce limatura o polvere, contrariamente a quanto veniva detto dello Shamìr (anzi era proprio questo, per gli autori dei midrashìm, uno dei suoi aspetti più straordinari). L'ipotesi, oltre tutto, diviene ancora più fragile se si considera che in teoria con quel "diamante" dovrebbero essere state tagliate in misura e rifinite le enormi pietre (14) messe in opera nella costruzione del Tempio. In ogni caso, l'impiego per quell'uso del diamante (pietra pure allora assai rara e preziosa, tanto da far parte forse del pettorale del Sommo Sacerdote) sarebbe stato insostenibilmente dispendioso. E, a parte questo, dove avrebbe potuto Salomone procurarsene i quantitativi necessari, visto che non risulta che in Israele né in Egitto o in altri paesi vicini esistano giacimenti diamantiferi? D'altronde, nemmeno tale lettura tiene in alcun conto le altre numerose indicazioni contrarie: né le dimensioni indicate, né il carattere "esplosivo" dello Shamìr, e neppure l'affermazione che col tempo esso divenisse "inattivo". Insomma, a parte l'effettiva "capacità" del diamante di tagliare qualunque pietra, non c'è nessun elemento che concordi. Cosa che, credo, ci autorizza a escludere questa identificazione.
E, poiché stiamo indagando sulla possibile natura minerale dello Shamìr, è in questa sede che devo inserire una ipotesi molto più originale ed interessante di quella dello smeriglio o del diamante, ma che gli antichi esegeti e autori di midrashìm non potevano certo prendere in considerazione, anzi non potevano neppure immaginare.
SOSTANZA RADIOATTIVA:
Sempre a partire dalla stessa (e unica) fonte di Ginzberg, altri ricercatori giungono a conclusioni completamente nuove e diverse che, sostanzialmente, vedono nello Shamìr una qualche - non ben precisata - forma di energia. Un articolo di David Salkeld (15) richiama ed approfondisce quello già citato di Velikovsky (16), il quale a lungo si occupò pure di questi problemi e le cui teorie "eretiche" sollevarono grande scalpore verso gli anni '50. Diversamente dagli esegeti biblici, sostenitori di più tradizionali interpretazioni (a giustificazione dei quali, comunque, è appena il caso di ricordare che non erano di certo scienziati dell'era nucleare), Velikovsky aveva invece preso in esame alcune altre caratteristiche dello Shamìr, da questi solitamente trascurate - immagino, per mancanza di spiegazioni sensate -: "colore verde" (forse), simile a quello di alcuni sali di elementi pesanti; corrosività nei confronti di tutti i minerali e metalli tranne il piombo; "inattivazione" nello spazio di 400 anni o meno. Era perciò giunto a identificare - per quanto non esplicitamente - lo Shamìr con qualche tipo di sostanza radioattiva. Poteva forse trattarsi del radium, o di un suo sale, o di qualche altro isotopo della serie dell'uranio, dell'attinio o del torio: purché avesse una "vita energetica" compatibile con la durata documentata dell'attività dello Shamìr (valutata in circa 900 anni, cioè dall'epoca dell'esodo a quella della distruzione del Primo Tempio; ammesso naturalmente, come ho rilevato alla nota 12, che si trattasse sempre dello stesso Shamìr). Se non è vera, è ben pensata, come diceva un mio vecchio maestro. Perché fin qui il discorso torna, o parrebbe tornare. Ma vedremo più avanti perché invece non sia così.
Salkeld cerca di avvalorare questa tesi con diverse argomentazioni.
E' un dato di fatto che oggi in natura i minerali radioattivi - per quanto forse più abbondanti in passato - sono rarissimi sulla superficie terrestre (3-4 grammi di radium dispersi in 2000 tonnellate di pechblenda), e possiamo supporre che, 3500 anni fa, chi non ne conoscesse le potenzialità ben difficilmente avrebbe investito il suo tempo e le sue energie per procurarseli con l'estrazione mineraria. E c'è inoltre il problema che, anche in questo caso, né in Israele né nei paesi limitrofi sono noti giacimenti di tali minerali. Tuttavia, poteva anche darsi che la miracolosa e inidentificata sostanza fosse stata trovata "concentrata" in superficie, cioè - per così dire - già pronta all'uso, e che, riconosciutene la natura "speciale" e le peculiari proprietà (ma come?), fosse stata conservata e quindi utilizzata nei modi già visti.
Per la supposta esistenza di questo elemento, Salkeld dà due possibili spiegazioni:
1) Precipitato con un bolide meteoritico. A sostegno di questa supposizione, vengono citati diversi elementi.
La presenza, nel racconto su re Salomone e il gallo selvatico, sia dell'Angelo del Mare che di un uccello: "segno" che lo Shamìr veniva dal cielo.
Una "pestilenza" verificatasi sotto il regno di Davide, durata tre giorni e che uccise 70.000 persone, portata a Gerusalemme da un "Angelo sterminatore che stava fra cielo e terra con la spada sguainata" (17): si trattava forse di "morte nucleare" da contaminazione radioattiva? Ma quale "peste", nucleare o biologica che sia, agisce solo per tre giorni?
Il "fatto" che, dopo quell'avvenimento, il re Davide - con grande costernazione di tutta la corte - divenne stranamente debole e impotente (ma aveva anche settant'anni!), e che pure Salomone più tardi fu ben poco prolifico. Secondo quanto Salkeld ipotizza, questi potrebbero essere indizi dei nefasti effetti delle radiazioni, prodotti dallo Shamìr sulla persona di chi, venutone in possesso, se lo fosse portato sempre addosso come un talismano celeste: l'uno e poi l'altro re, appunto.
Ora, a favore della tesi meteoritica, bisogna ammettere che è pur vero che molte leggende in tutto il mondo parlano di "pietre magiche" dai presunti straordinari poteri, di solito cadute dal cielo. E' parimenti vero che molti santuari e luoghi di culto divennero oggetto di particolare venerazione proprio per la presenza di un meteorite che, nell'anima popolare, avrebbe rappresentato il segno concreto di una particolare benevolenza divina verso quel sito: la Kaaba della Mecca e il Tempio di Diana ad Efeso, per non citarne che un paio. (Per converso, una credenza assai diffusa, e che si è in parte conservata anche fino ai giorni nostri, vuole che la caduta di pietre dal cielo e/o il passaggio ravvicinato di comete siano inesorabilmente portatori di guai, e strettamente connessi con pestilenze, carestie, guerre e catastrofi in genere.) Tuttavia, come lo stesso Salkeld riconosce, in nessun meteorite recuperato sono mai stati segnalati inconsueti valori di radioattività né, per altro, nessuno di essi è mai stato trovato dotato di particolari "poteri" (18).
I midrashìm affermano che lo Shamìr fu creato il sesto giorno: ciò, secondo Salkeld, sembra suggerire (oltre al fatto che forse era noto già in un lontano passato) che, in ogni caso, la sua origine sarebbe da collocarsi al tempo dei catastrofici sconvolgimenti della Creazione. La sua seconda apparizione - questa volta, "pubblica" -, nelle mani di Mosè, risalirebbe ai tempi dell'esodo: pure questo un evento collegato, secondo Velikovsky, ad altri disastri cosmici. E per concludere, anche la performance dello Shamìr che, come sopra detto, si sarebbe verificata durante il regno di Davide, avrebbe un'origine meteoritica. Comunque dopo la sua creazione, essa pure ovviamente "celeste", sia nell'uno che nell'altro caso (dell'uso che Salomone ne fece però non si parla) la presenza dello Shamìr sarebbe in relazione con la caduta di qualche bolide molto anomalo e strano. Ancora più strano, però, appare il fatto che questo tipo di detriti cosmici veramente "speciali" sarebbe caduto soltanto in quelle rare occasioni - sempre sul territorio di Israele - e poi mai più.
In alternativa, Salkeld propone una seconda, non meno immaginosa ipotesi.
2) Creato da scariche elettriche.
Sostiene Velikovsky che nel lontano passato elementi radioattivi, come quelli che oggi otteniamo artificialmente in laboratorio, potrebbero essersi formati "naturalmente" sulla superficie terrestre (a partire da altri elementi), nel corso di eventi eccezionali quali tremende scariche elettriche prodotte da un bombardamento cometario o meteoritico. Salkeld, cautamente, concorda, rammentando una delle geniali (e sconvolgenti per la scienza "ufficiale") previsioni azzeccate di Velikovsky: il quale era convinto che sulla Luna sarebbero stati trovati alti livelli di radioattività, e ne attribuiva la causa alle scariche elettriche interplanetarie di 2700 e 3500 anni fa, verificatesi nel corso delle presunte catastrofi cosmiche da lui teorizzate. Infatti l'esplorazione lunare gli ha dato ragione: che nel cratere Aristarco siano presenti emissioni di radon-222 di almeno quattro volte più alte della media lunare, è appunto per gli accademici un mistero senza spiegazione. Sfortunatamente, né Salkeld né - si pensa - nessun altro è attualmente in grado di calcolare di quale potenza, per "formare" sostanze radioattive da altre, inerti, dovrebbero essere le mostruose scariche elettriche intercorse, in ipotesi, fra la terra ed un altro corpo celeste, nel corso di un "incontro ravvicinato". Dipende, mi sembra, dalla differenza di potenziale fra i due oggetti. E nemmeno siamo al presente in grado di dire se quel fenomeno - non tanto le scariche, quanto le loro conseguenze - si sia effettivamente potuto verificare. Né, tanto meno, quando. O in concomitanza con cosa. Visto che di un simile evento non esiste alcuna memoria storica - e neppure, quanto a questo, leggendaria -, né testimonianza geologica o scientifica d'altro tipo, dovremo accontentarci di supporre che quanto affermato "potrebbe" - chissà quando - essere successo. Ma le prove sono un'altra cosa. Salkeld peraltro non insiste né sull'una né sull'altra teoria, consapevole del fatto che - se mai radioattività c'è stata - al giorno d'oggi non sarebbe ormai più rilevabile: in tutti i casi il normale decadimento avrebbe già da tempo reso qualunque materiale ("caduto" o "formatosi" in un passato così abissalmente lontano) nulla più che un innocuo pezzo di pietra (19).
Si limita a sottolineare, spezzando un'ultima lancia a favore dell'ipotesi nucleare in genere, che - come sembra accertato - in molti siti megalitici in Inghilterra (per la precisione, al centro di preistorici cerchi di "pietre erette") si registrano tuttora significative letture di radioattività - di origine ignota -, ovviamente residua rispetto ai valori presumibili all'epoca della costruzione. Indubbiamente erano luoghi sacri e speciali. Ma - e con Salkeld abbiamo finito - viene naturale chiedersi se questa "sacralità" fosse positiva o negativa. In altre parole (per quanto non sia chiaro come, all'epoca, fosse possibile misurare le radiazioni), se quei cerchi venissero eretti come strutture "off limits", segnali della pericolosità di un luogo cui non conveniva avvicinarsi, o per il motivo opposto (20), facendo salvo in tutti i casi il loro significato magico-astronomico.
Comunque, a puro titolo di curiosità, sarebbe interessante sapere cosa mai possa racchiudere - o racchiudesse - il sottosuolo del sito in cui fu eretto il Tempio: minerali radioattivi? metano? che altro?
A questo proposito è indispensabile un'osservazione.
Salomone era un pozzo di scienza, lo sanno tutti; era di una sapienza e di una saggezza strabilianti; da mezzo mondo tutti i più potenti re della terra venivano a Gerusalemme per consultarlo, per avere lumi. Se lo Shamìr era veramente radioattivo, e quindi gravemente deleterio per la salute, non è pensabile che, conoscendo tali proprietà negative o effetti collaterali indesiderati, fosse così incosciente da portarselo sempre addosso (meglio sorvolare sul fatto che obbligava i suoi dipendenti a maneggiarlo quotidianamente).
A quanto pare, invece, il "magico Shamìr" era qualcosa che si poteva - con molta precauzione, e probabilmente riportandone danni non indifferenti - manipolare ed utilizzare almeno per un certo tempo.
E allora non era radioattivo.
Infine, non concordano con questa sua presunta natura nemmeno altre affermazioni relative allo Shamìr, affermazioni in grado di invalidare anche altre tentate identificazioni: che non danneggiasse i materiali organici (la lana, la crusca), che non inibisse la crescita delle piante, che avesse la dimensione di "un granello di orzo".
Alla luce di quanto sopra esposto, mi sembra perciò inevitabile escludere anche l'identificazione "nucleare": con un certo disappunto, devo dire, poiché sembrava molto promettente, ed era sicuramente affascinante. D'altronde, i giochi sono aperti. Solo qualche tempo fa, un eminente studioso mi ha espresso molto seriamente la sua convinzione che il misterioso Shamìr altro non fosse che una specie di laser primitivo, in cui la luce coerente sarebbe stata prodotta (ma da quale fonte, non lo ha detto) facendola passare per un forellino, ottenuto dallo stampo (se di una certa dimensione) di un capello di un adulto, oppure da quello del capello di un bambino (se serviva un foro ancora più piccolo�) (21).
E ora, possiamo tornare alle interpretazioni "tradizionali".
ANIMALE
"VERME":
Per la verità il midràsh che ne parla, nella raccolta di Ginzberg, dice che "la salamandra e lo Shamìr sono i più mirabili tra i rettili"; ma diversi altri racconti, e anche il dizionario, lo definiscono senza incertezze come "verme". Non mi è chiaro il motivo della forte propensione che un buon numero di autorevoli rabbini ed esegeti biblici ha manifestato - e forse manifesta tuttora - ad accogliere questa versione. In ogni caso, trasformare in "rettile" il "verme", o in alternativa il "tarlo" (o altro insetto), sembra proprio l'interpretazione di una interpretazione.
(Il termine "insetto", fra l'altro, deriverebbe dall'erronea traduzione del latino "insectator", cioè "tagliatore"). A me pare invece che tale significato possa essere utile solo ad indicare - come nel caso del diamante e dello smeriglio - l'azione meccanica ed un effetto consimile che tali animali potrebbero avere prodotto, ma di sicuro non sugli stessi materiali. A voler essere generosi, tuttavia, è comprensibile anche questa identificazione, alla luce del fatto che quando questi testi vennero messi per iscritto, nessuno già più sapeva per certo in che cosa consistesse né come operasse lo Shamìr. Ho letto anche una cavillosa (ed anche un po' pretenziosa) ipotesi, secondo la quale il "verme" potrebbe essere assimilabile ad un "serpente", animale mitico di cui le tradizioni religiose e cosmiche traboccano, ma onestamente non mi sembra che possa essere presa in considerazione. E poi, che razza di verme era? Uno che dopo quattrocento anni "diventava inattivo"? Non mi stupisce. Era "esplosivo"? Era come un grano d'orzo? Non impediva la crescita delle piante? Lo si poteva manipolare? A difesa di questa teoria (che, peraltro, si basa principalmente sul fatto che si dovesse trattare comunque di un essere vivente), si può dire solamente che, per tradizione, tutta la storia letteraria dell'antico Vicino Oriente - compresa ovviamente quella ebraica - manifesta un forte interesse per il ruolo, spesso simbolico, svolto da molti animali nella vita degli uomini, soprattutto in senso didattico, moralistico e sapienziale. In fin dei conti, né Esopo, né Fedro, né La Fontaine hanno inventato niente di nuovo. Così, nessuno dei lettori cui erano destinate queste favole e queste leggende si sarebbe stupito di trovare perfino le creature più umili - come potrebbe essere appunto il verme - che parlano con Dio, interagiscono con gli esseri umani, svolgono compiti vari.
Nel caso in esame, si diceva che quel singolare animaletto sarebbe strisciato dentro o sul pezzo da lavorare riuscendo a intaccarlo o a fenderlo con un taglio perfetto. Si diceva pure che un suo semplice tocco potesse scindere la pietra, che si apriva "come le pagine di un libro". Certo che il supporre che il "verme" avrebbe volonterosamente tagliato le pietre del Santuario (per compiacere Salomone, naturalmente) denota una grande fiducia nella pazienza e nell'abilità di chi lo doveva addestrare: come riuscivano a convincerlo o a costringerlo a collaborare? Per non parlare dei tempi di lavorazione. E non voglio nemmeno pensare a come dovesse sentirsi il gallo selvatico, mentre volava trasportandolo nel becco.
Insomma, oltre all'ovvia constatazione che il verme è "capace" di scavare (mele, di solito), non abbiamo nessun altro elemento che concordi. A riscattare, almeno in parte, la dignità del povero verme, c'è però una notazione bizzarra e anche un po' inquietante: si diceva che il suo sguardo facesse morire, così come quello di Medusa faceva impietrire. Ma, a parte il fatto che mi sembra piuttosto problematico riuscire a capire se il verme ti sta fissando o meno, francamente non so che cosa pensarne.
E' stato anche proposto che non propriamente di un "verme" si trattasse, ma di sue ipotetiche e particolari secrezioni corrosive. E questo potrebbe anche avere un senso, volendo sorvolare sulla proclamata natura di "essere vivente" dello Shamìr oltre che sull'indubbia difficoltà di procurarsi - forse strizzando gli sventurati anellidi - adeguati quantitativi di quella prodigiosa sostanza, a condizione però di mettere su un allevamento. Chi prende in considerazione una soluzione del genere non dovrebbe tuttavia dimenticare che il re Salomone (al quale l'anello fatato consentiva di parlare con tutti gli animali del buon Dio, con i quali aveva un ottimo rapporto) mai e poi mai avrebbe fatto una cosa simile. E' vero che già con il povero gallo selvatico non si era comportato troppo bene, ma strizzare i vermi, insomma...
Anche con il verme, comunque, abbiamo chiuso.
VEGETALE
"FINOCCHIO":
Per quanto riguarda questa modesta pianta mangereccia, non saprei davvero che proprietà possa avere nel campo che ci interessa, e mi spiace dover ammettere che non mi viene in mente niente. Ma, pur riconoscendo di non aver fatto approfondite ricerche sull'argomento, oserei dire che - probabilmente - il fatto che porti lo stesso nome sia sostanzialmente una coincidenza, e che l'umile finocchio non abbia proprio niente da spartire con il "magico Shamìr". Quindi, con rincrescimento, manderò anche il finocchio dove sono finite tutte le altre proposte.
Così, per risolvere il mistero di cosa potesse essere lo Shamìr, una volta eliminate tutte le interpretazioni a parer mio impossibili, esaurite tutte le altre eventuali identificazioni connesse ai regni minerale, animale e vegetale, non ci resta ormai più che il "paliuro". Ma chi, o per meglio dire "cosa" era costui?
"PALIURO" (Paliurus) - botanica:
Va sotto questo nome una pianta della famiglia delle Ramnacee, che ne comprende sei specie, cinque delle quali però (presenti in Cina e Giappone) non si trovano nei nostri climi. Quello che a noi interessa, poiché cresce in Africa e nell'Europa mediterranea, è il Paliurus spina-Christi, detto anche Paliurus aculeatus Lamarck, o più popolarmente "marruca", che è il nostro biancospino.
Viene descritto come un arbusto (ma può raggiungere anche i sei metri di altezza) molto ramoso e spinoso dal legno duro e resistente, con foglie alterne ovate, dotate di due stipole spinose disuguali. Porta fiori piccoli raccolti in cime, e frutti (drupe) con margine alato largo fino a tre centimetri. Il nome "spina di Cristo" deriva dalla credenza che dei suoi rami fosse fatta la "corona" con la quale Gesù fu proclamato "re dei Giudei". E' citato da Teocrito, Strabone, Euripide e Teofrasto, il quale nel IV° libro dell'"Historia plantarum" ne dà una descrizione un po' diversa; ma in sostanza, almeno apparentemente, è una pianta che non ha proprio niente di misterioso né tanto meno di portentoso. Sembrerebbe, purtroppo, che siamo arrivati a un punto morto. Ma, attenzione! Perché il profeta Isaia (a differenza di Geremia, Ezechiele e Zaccaria - citati alla nota 13 - i quali quando si riferiscono allo Shamìr intendono sempre qualcosa di "più duro del diamante"), tutte le volte che nomina quello stesso Shamìr, ne parla come di "spini e pruni" o di "rovi e pruni"? E' chiaro che per Isaia non si trattava di un minerale né tanto meno di un animale, ma di una pungentissima pianta, che di sicuro non era il finocchio, ma che - forse - poteva essere più o meno propriamente indicata con il nome - tradotto - di Paliurus. E allora - poiché non ci sono alternative - continuiamo su questa strada, per quanto cosparsa ed irta appunto di spine e triboli, e tentiamo di scoprire se ci sono altri elementi che stiano ad indicare che lo Shamìr fosse davvero un rappresentante (per ora in incognito) del regno vegetale. La nostra ricerca ci porterà, questa volta, fuori dai confini d'Israele, in luoghi anche molto lontani, impensati. Avrete parecchie sorprese.
Lo Shamìr e i suoi parenti
Oltre agli animali fantastici, dei quali le antiche tradizioni abbondano, tutti i miti parlano spesso e volentieri di varie piante dalle magiche proprietà, purtroppo di difficile identificazione perché citate con nomi diversi e descritte in modo ambiguo. Il motivo è semplice: a differenza dagli animali favolosi, che compaiono sulla scena autonomamente, dotati come sono di esistenza e volontà proprie, le piante "prodigiose" si possono cercare, raccogliere ed utilizzare per gli scopi ai quali si crede siano adatte, e chiunque lo può fare. Tutta l'antica farmacopea è basata su questo. Ma è ovvio che, se l'"iniziato" intende conservare il potere che gli deriva dai suoi speciali "filtri" o "pozioni" (d'amore, di morte, di forza o d'immortalità), deve mantenerne segreti non solo i procedimenti di preparazione, ma innanzitutto gli ingredienti, e nella fattispecie le piante che li compongono. Troviamo quindi una quantità di vegetali capaci di prestazioni eccezionali in ogni campo, ma sfortunatamente non riconoscibili, o per via di informazioni scarse e/o fuorvianti, o perché realmente ormai estinti e introvabili. Tale era per esempio la misteriosa pianta subacquea che "ha spine come il rovo, come la rosa", trovata da Gilgamesh in fondo all'Abzu (ma in seguito perduta), e che avrebbe dovuto restituirgli la svanita giovinezza. Oppure l'altrettanto enigmatica "pianta del parto" o "della nascita", che avrebbe consentito ad Etana (secondo la "Lista reale Sumerica", tredicesimo re di Kish dopo il Diluvio) di avere finalmente dalla sua sposa un erede, e per cogliere la quale - primo essere umano nella storia - quel sovrano volò fino in cielo sulle ali dell'aquila. Ma moltissime altre sono, nelle leggende, le piante miracolose (22). E vedremo poi che con impressionante frequenza ad esse è associato un qualche volatile, dotato anch'esso di inusuali caratteristiche e spesso di grandi dimensioni. Nel sud dell'Iraq e nell'Iran occidentale, le tradizioni dell'antichissima religione dei mandei, o sabei, parlano appunto del grande uccello Simurgh, che ha profonde conoscenze di saggezza segreta e che possiede un elisir che guarisce tutte le ferite, purifica ogni sostanza, ringiovanisce il corpo, prolunga la vita e rende invulnerabili. Nei miti iraniani quell'elisir viene chiamato col termine avestico di "haoma" ed è prodotto anche qui da una pianta, forse da una liana rampicante della famiglia delle Gnetacee, l'Ephedra, che cresce in cima ai monti o nelle valli più nascoste; ma potrebbe essere stato estratto anche dal fungo Fly-Agarico, allucinogeno usato dagli sciamani da 10.000 anni e letteralmente adorato come un dio (o era, magari più verosimilmente, alcool?). L'"haoma", che fortifica e dà poteri soprannaturali ma ha anche effetti intossicanti, viene custodito, in questa versione, dall'uccello Saena, che lo concede agli dei ed in qualche caso anche agli uomini, ma solo a quelli particolarmente meritevoli.
Per gli indù è invece il mitico Garuda, mezzo gigante e mezzo aquila, che gestisce l'Ambrosia o Amrita, nettare inebriante o "soma" (in sanscrito; corrisponde all'"haoma") importantissimo nei riti della religione vedica, che dà poteri superiori agli dei "asura" e li rende immortali. Pure in questo caso, il "soma" è tratto da una pianta - generalmente identificata con una liana rampicante della famiglia delle Asclepiadacee - che cresce su di un albero, vicino al Monte Elburz dove vivevano gli uomini-uccello, noto solo a questi. E' probabile che alla base di questo mito ci sia una antica origine comune con l'"albero della vita" della Genesi, che avrebbe reso gli uomini onniscienti, immortali e simili agli dèi.
Come si vede, l'àmbito geografico di diffusione di questa leggenda (o meglio corpus di leggende, che vede protagonista di un qualche "portento" un pennuto cui è affidata la custodia di una pianta prodigiosa) è assai vasto, spaziando dalle rive del Mediterraneo (attraverso l'Asia Minore, l'Anatolia e la Mesopotamia, fino alla valle dell'Indo) a quelle dell'Oceano Indiano. E non solo, poiché la ritroviamo perfino nelle lontane Americhe. Quanto poi alla sua antichità, si perde nella notte dei tempi.
Ma ciò di cui più in particolare volevo parlarvi sono i "parenti" dello Shamìr, anch'essi sparpagliati un po' in ogni dove; e non solo nel Vecchio Mondo, giungendo fino al Giappone, bensì - inaspettatamente - pure nel Nuovo, in Perù, Guatemala, Messico, Bolivia, per non citare che gli esempi che ho potuto vedere con i miei occhi. E ora la cosa si fa ben più interessante, e dobbiamo dire che siamo molto fortunati, perché infatti abbiamo il vantaggio di poter disporre non solo dei documenti scritti che riportano favole e leggende, ma di antichissimi manufatti realizzati con tecniche riconducibili soltanto alle affermate proprietà dello Shamìr. Tutti li conoscete.
Mura megalitiche fatte con blocchi di dimensioni mostruose messi in opera con precisione millimetrica, inumana.
Minute, delicatissime incisioni su pietre di estrema durezza. Oggetti, in pietra altrettanto dura, lavorati come fossero modellati in creta. Senza attrezzi metallici, come voleva Salomone, poiché metalli adatti non ce n'erano. Ma andiamo con ordine.
Una leggenda iraniana senza tempo narra, tra le altre cose, che il re Zal appena nato fu "esposto" dal padre ed allevato - guarda caso - dal "nobile avvoltoio" Simurgh, il quale in questo racconto ricopre anche (in occasione della difficile nascita del figlio di Zal: si parla nientemeno che del primo taglio cesareo della storia) il ruolo di ostetrico, chirurgo e perfino anestesista. Ma ciò che qui più importa è che tanto Zal, una volta salito al trono, che la sua sposa "splendevano" per la presenza di un'"essenza divina", chiamata "farr" o "khvarnah" ("Fortuna del Re" e "Gloria di Dio"), la quale permetteva di scavare le sostanze più dure, forgiare metalli e addirittura conoscere la natura di Dio. Senza di essa, tangibile simbolo dell'investitura celeste, un re non poteva regnare. Sull'altopiano anatolico, a Catal Huyuk (la cui età di almeno 8500 anni è documentata, oltre che dalla datazione al carbonio 14, da un "murale" che rappresenta l'eruzione - avvenuta nel 6200 a.C. - su quella città del vulcano dalle due cime Hasan Dag), una cultura molto progredita, la quale già praticava la metallurgia del rame e del piombo, comparve all'improvviso: sorprendentemente, il minerale più usato, e trattato con notevole perizia tecnologica, era l'ossidiana, che nella "scala delle durezze" di Mohs occupa il settimo posto. Vi pare normale? Ma quel materiale, importato dalle stesse zone, veniva lavorato circa a quell'epoca anche a Gerico dai natufiani proto-neolitici, e ancor prima (fin dal 10.000 a.C.) sui Monti Zagros, a Nimrud Dag, in Armenia, sul Lago Van. La finissima esecuzione di lavori in ossidiana è anche una delle più salienti caratteristiche della cultura che in Cappadocia, a partire dal 9500 a.C., costruì qualcosa come 36 città sotterranee articolate su 18-20 livelli e in grado di ospitare una popolazione da 100.000 a 200.000 anime. Scavate nella viva roccia, le abitazioni (che i locali chiamano "camini delle fate", poiché le credono opera degli "angeli caduti" e tuttora abitate dagli Jinn o dalle Peri ) sono collegate fra loro da una rete di tunnel alti anche più di due metri, e oltre a ciò sono aerate da numerosi condotti di ventilazione, lunghi molti metri e con un diametro medio di 4 centimetri. Scavati come? Ma è soltanto qualche millennio più tardi, quando improvvisa poco dopo il 4000 a.C. esplose la grande civiltà del "Paese fra i due fiumi", seguìta dappresso da quella egizia, che ebbe inizio in questa parte del mondo allora conosciuto quella straordinaria produzione di oggetti d'uso ma più che altro di opere d'arte in pietra, che ci lascia tuttora ammirati, ma anche perplessi e sconcertati per la sua incredibile accuratezza in rapporto agli utensili (o almeno a quelli a noi noti) di cui si presume l'impiego.
Perché qui, signori miei, si sta parlando di incisioni - figure e scritte - delle dimensioni massime di un paio di centimetri, eseguite sul quarzo (durezza 7), sul diaspro (idem), sull'onice di pietre da sigillo o da ornamento, in gran parte riportate alla luce dagli scavi in Mesopotamia e in Egitto (23): iscrizioni il cui spessore a volte non supera 0,16 millimetri. Mentre ci è difficile persino raffigurarci la misura e l'aspetto del morsetto che necessariamente doveva tenerle ferme durante il lavoro del bulino, è stato calcolato che quelle pietre debbono essere state lavorate con punte resistentissime da mm 0,12. Di che materiale?
E di che materiale erano fatti gli strumenti con i quali venne scolpita la statua in diorite di Gudea di Lagash, che ha più di 4000 anni? O la stele famosa del Codice di Hammurabi, di poco posteriore, dove il basalto nero è tutto coperto da una minutissima e nettissima scrittura cuneiforme che pare impressa nell'argilla o nella cera? Tutti questi manufatti e infiniti altri - meravigliosi nell'aspetto e di fattura perfetta - sembrano eseguiti con la massima facilità, come se la solida pietra fosse stata semplicemente plasmata, e non violentemente colpita con rozzi attrezzi primitivi, tenacemente scavata, levigata e lucidata per un tempo interminabile. Parrebbe che quei materiali avessero subìto una lenta, silenziosa dissoluzione chimica, piuttosto che l'aggressione di un impatto meccanico. Un testo specifico ("Le pietre magiche", di Santini De Riols) ci dice che per lavorare queste pietre destinate al culto veniva usato un "punteruolo consacrato"; ma non riesco davvero a immaginare di che tipo di attrezzo si trattasse. L'unico modo conosciuto per intervenire su materie di quella durezza è quello di scalfirle - con santa pazienza oppure, al giorno d'oggi, utilizzando altissime velocità di rotazione - con un arnese di forma adatta, fatto di qualcosa di ancora più duro. Ma non esistono molte sostanze più dure di quelle sopra citate, anzi non ne esiste alcuna tranne il diamante che le vince tutte, ma che però a quel tempo non veniva ancora normalmente impiegato. La Bibbia in alcune delle diverse versioni che riportano l'elenco delle gemme del pettorale di Aronne cita, è vero, anche il "diamante", ma la cosa è fortemente improbabile per vari motivi: benché ritenuta anch'essa carica di energie misteriose, questa pietra non era usata innanzi tutto perché la tecnica non aveva fino ad allora raggiunto (e non l'avrebbe fatto per un lunghissimo tempo ancora) il livello indispensabile per saperla tagliare; in secondo luogo, le pietre colorate piacevano molto di più del cristallino e incolore diamante, che dà ben poca soddisfazione all'occhio a meno che non sia adeguatamente sfaccettato. E comunque, stiamo parlando del diamante non in quanto pietra ornamentale, bensì di un suo eventuale uso come strumento di lavoro: per cui, anche in questo caso, valgono le considerazioni di alto costo e di difficile reperibilità già sopra esposte. Tanto più se l'oggetto da lavorare era di grandi o magari grandissime dimensioni.
L'ingegner Pincherle, che di queste cose se ne intende, afferma invece che su quelle opere sono visibili i segni dello scalpello, che doveva essere di ottimo acciaio (strumenti in rame oppure in bronzo, qualora non si fossero sbriciolati sotto la pressione e l'attrito, avrebbero immediatamente "perso il taglio", e avrebbero dovuto essere continuamente riparati ed affilati) (24). Abbiamo, però, un piccolo problema.
Allo stato attuale delle nostre conoscenze, al tempo di cui si parla non solamente non esisteva ancora niente di paragonabile a "un ottimo acciaio", ma il ferro stesso (per quanto riguarda attrezzi ed utensili) era ben di là da venire. Gli unici metalli a quell'epoca disponibili, per quel che troviamo scritto e per quanto l'archeologia ci ha restituito, erano tutti metalli teneri (rame, argento, oro, piombo, stagno, o - nella migliore delle ipotesi - rame martellato e leghe di bronzo), inadatti alle lavorazioni richieste. Ergo, a questo interrogativo tecnico non c'è risposta. E anzi, dobbiamo per di più retrodatare questo mistero ad epoche anche più remote, dato che a quanto pare le prime statue in diorite, eseguite da quelli che erano i migliori tagliatori di quei tempi, cioè gli ioni e i sardiani, risalgono all'epoca di Sargon il Grande di Accad, attorno al 2350 a.C. Che è poi, almeno secondo la cronologia ufficiale, più o meno il periodo in cui in Egitto furono erette le piramidi.
Ma qui la datazione d'inizio di questo tipo di lavorazione sprofonda ancor più nel passato. Perché le cose più mirabolanti le troviamo, fin dai primordi stessi di quella civiltà, proprio nell'antico paese del Nilo: una terra dove, a differenza di Sumer o Babilonia, abbondano sia le pietre preziose che, precipuamente, quelle da opera. "Civiltà della pietra", la chiamano anche infatti.
Dai siti di "Naqada" dell'oscuro e lontanissimo periodo predinastico (cultura gerzeana, 3500-3100 a.C.), dalle principesche tombe protodinastiche di Abidos, dai sotterranei della piramide di Zoser a Saqqara sono tornati alla luce quantitativi incredibili (più di 30.000 esemplari solo in quest'ultimo sito) di stupendo vasellame - integro o in pezzi - di svariatissimo disegno, e innumerevoli altri articoli, in ogni sorta di materiale litico. Non solo i più trattabili alabastro, ardesia, scisto o calcare, ma diorite, quarzite, granito (minerale anche in seguito molto amato in Egitto), basalto e loro varietà. I vasi, le coppe e tutti gli altri recipienti rinvenuti, pezzi di grande raffinatezza, con pareti dallo spessore minimo, simmetrici, rifiniti e levigati in maniera ineccepibile, sembrano lavorati al tornio: cosa che si ritiene decisamente impossibile. Molte delle anfore - scavate ed a volte perfino incise all'interno non si capisce come - hanno un collo sottilissimo, elegantemente allungato, e un'imboccatura così stretta che non ci passa nemmeno un dito. Fra i reperti datati al periodo più antico c'è anche una lente di cristallo, talmente perfetta che sembra molata meccanicamente. Il più antico nome di un sovrano ritrovato a Saqqara è quello di Narmer, che fu forse Menes, il leggendario unificatore dei due regni del Basso e dell'Alto Egitto: è inciso su di una coppa di porfido (avete presente il porfido? ci si fanno le pavimentazioni stradali). E di lì in poi - sparse ovunque - decine di migliaia di oggetti piccoli e grandi di tutte le specie, di statue, obelischi (alti fino a 73 metri, dice Plinio), stele, e centinaia di migliaia, anzi milioni di blocchi da costruzione e di rocchi di colonne, e chilometri quadrati di bassorilievi incisi, scolpiti, di geroglifici iscritti su quelle durissime rocce (25). Ora, secondo voi, gli egiziani amavano soffrire e rendersi la vita difficile? Non avrebbero potuto scegliersi, per fare le loro opere d'arte, qualche altro sasso meno ostico? O forse usavano quei materiali perché in realtà non erano poi tanto impegnativi da lavorare - per loro, allora - quanto sembrano a noi oggi? In altre parole, può essere che conoscessero un altro metodo per tagliare, squadrare, dar forma alla pietra, un sistema diciamo così di pretrattamento che si avvaleva di un principio corrosivo, chimico, più che della forza bruta o dell'insistenza? (a me, per la verità, il discorso che "ma avevano tanto tempo a disposizione" è sempre sembrato una grossa sciocchezza). La cosa, date le loro profonde e vastissime conoscenze in ogni campo dell'alchimia, non dovrebbe stupire e non è nemmeno impossibile, come cercherò di dimostrarvi.
La tradizione, in effetti, afferma che i "sapienti" egiziani avevano messa a punto (a meno che non l'avessero ereditata o importata da qualche altra zona geografica) una speciale "mistura vegetale" in grado di disgregare superficialmente qualunque - sia pur durissima - roccia o pietra e di trasformarla in una sorta di malleabile pasta (quella sì, lavorabile con i normali strumenti in rame o in bronzo) la quale, una volta evaporato quella specie di "solvente", si sarebbe ricompattata rendendo all'oggetto l'aspetto e la consistenza originari.
Ad appoggiare questa tesi potrebbe esserci più di una prova. Guardate, ad esempio, la precisione di ogni amorevole dettaglio delle sculture a tutto tondo in granito o in basalto, e ditemi se non sembra anche a voi che quei minuziosi particolari siano stati modellati con la stecca piuttosto che scavati a colpi di scalpello. Lo stesso si può dire per la tecnica con la quale nei rilievi di Saqqara il fondo è stato mantenuto perfettamente piano (il che, lasciatelo dire a me, è una delle cose più difficili da fare), dove l'asportazione di tutto il materiale superfluo pare ottenuta livellando o spianando una sostanza cedevole anziché scheggiando con la sgorbia la dura pietra. Parlo però in prevalenza delle opere più antiche, e comunque di quelle più accurate, e presumibilmente più costose. Infatti io penso che più tardi quell'arte andò perduta, o perché l'applicazione di quel metodo era divenuta eccessivamente onerosa, o per la cessata disponibilità di quella materia prima, o per un qualche altro motivo. Tanto è vero che - come si può vedere - mentre agli inizi i simboli geroglifici aggettavano sui pannelli, in seguito verranno più semplicemente scavati nel loro spessore. E che molti dei rilievi successivi, rinunciando a qualsiasi pretesa di profondità, mostrano soltanto una grossolana incisione tutto attorno alle figure le quali, appena vagamente arrotondate ai margini, non emergono per niente dal fondo del quale sono allo stesso livello, per cui tecnicamente non si potrebbero nemmeno più chiamare bassorilievi (26). Ma c'è dell'altro.
Tutti sanno che la Grande Piramide, per citare solo quella, è stata costruita a secco, e che i blocchi che la compongono non sono legati con malta. E' stato trovato però, fra un corso e l'altro dei blocchi e pure tra le giunzioni verticali, un sottilissimo strato di materiale inidentificato, del quale si sa tuttavia che contiene residui vegetali. Era forse quel misterioso "solvente" che, consumando e livellando la superficie irregolare delle pietre, ne consentiva la perfetta sovrapposizione, agendo inoltre quasi come un collante? Possiamo escluderlo?
Se fosse vero ciò che vi suggerisco, si potrebbe anche fare l'interessante osservazione che, in tal caso, quanto maggiore era il peso delle pietre sovrapposte, tanto più coerente e solida sarebbe riuscita la costruzione, per via della pressione esercitata che - con l'aiuto della reazione chimica - avrebbe fatto combaciare e, per così dire, cementato assieme quei massi semplicemente appoggiati l'uno sull'altro (come si sa, il peso medio dei blocchi di calcare della Grande Piramide è di circa 2,5 tonnellate, per non parlare di quelli granitici - il cui peso arriva forse a 200 tonnellate - della struttura interna, per la quale rimando agli studi di Pincherle) (27). Usando quel materiale, inoltre, sarebbero stati ben più agevoli di quanto si pensi l'estrazione ed il taglio dei blocchi in cava: un problema al quale tuttora non abbiamo saputo dare spiegazioni davvero esaurienti.
Certo che quell'arte - come anche quella di movimentare e sovrapporre massi di peso ed ingombro immani -andò perduta, o venne comunque abbandonata quella tecnica. E come si spiegherebbe se no il fatto che, dopo il periodo di splendore della costruzione delle grandi piramidi in pietra, tutto quel che di "piramidale" ci rimane delle epoche più tarde sono soltanto dei miserabili e informi mucchi di mattoni semicrudi, che piano piano finiscono di disfarsi in polvere sotto lo spietato sole del deserto? Come a Nippur, come a Ur, regni di argilla. Ma torniamo a noi, perché vorrei parlarvi ancora un momento di un solo ultimo esempio di ciò che, a parer mio, può essere stato realizzato unicamente con "qualcosa" che sembra essere fratello gemello del mio Shamìr. Abbiamo già parlato (nota 25) del cosiddetto "sarcofago" posto nella cosiddetta "camera del re" nel cuore della Grande Piramide (cosiddetta "di Cheope", o Khufu) sulla piana di Giza, perciò del suo aspetto sapete già ogni cosa. Il problema che a me interessa però è solamente quello della realizzazione tecnica di questo oggetto. Per la precisione, della realizzazione del suo interno, poiché di quel sarcofago, o vasca, o cassa che sia (e può aver contenuto, per quel che ne sappiamo, qualunque cosa: oggetti o spoglie mortali), ciò che è più incomprensibile è il come sia stato svuotato. A meno di non accogliere l'ipotesi di Flinders Petrie, il quale in questo caso suggerisce l'utilizzo di seghe tubolari, sempre in bronzo, in cui erano incastonati diamanti, e che avrebbero dovuto estrarre da quel masso "carote" di granito fino a creare lo spazio interno. Purtroppo però Petrie suppone anche che quelle seghe o quei trapani (manuali, s'intende), per poter penetrare la pietra, avrebbero dovuto ruotare o ad una velocità assolutamente impossibile da raggiungere con i mezzi (noti) dell'epoca, applicando inoltre all'attrezzo una pressione o carico di una o anche due tonnellate. Lascio a voi giudicare.
Tra le sabbie della piana di Giza sono stati trovati sia fori cilindrici in blocchi di granito che "carote" della stessa pietra (ma non sappiamo se corrispondente a quella del "sarcofago"), che sono state analizzate dal tecnico utensilista Christopher Dunn (28): all'indagine microscopica questi pezzi mostrano un doppio solco elicoidale eseguito con un trapano - o sega tubolare - che procedeva nella roccia con una velocità di penetrazione media di 2,5 millimetri ad ogni rotazione. Si tenga presente che un trapano moderno, che utilizza le tecnologie ed i materiali più avanzati, compie 900 giri al minuto e penetra nel granito ad una velocità di mm 0,05 per ogni giro. Il che vorrebbe dire che i trapani egizi di 4500 anni fa lavoravano a velocità qualche centinaio di volte superiori rispetto a quelle dei trapani attuali. Mossi da quale energia? Dunn è convinto che la risposta si trovi nell'uso di sconosciuti (e perduti) strumenti a ultrasuoni, che utilizzavano vibrazioni ad alta frequenza: ma non vorrei prender posizione a questo proposito, poiché non ho difficoltà ad ammettere la mia ignoranza su tali argomenti.
Quello che invece mi ha colpito di più è un dettaglio degli esami condotti da Dunn, dal quale risulta che l'antico trapano a mano tagliò il quarzo che costituisce il granito più velocemente del feldspato, più tenero, che ne è un'altra componente. E vedrete fra poco che, ai fini dell'individuazione di questo "gemello" dello Shamìr, questo è il particolare più importante. Da tutto quanto sopra detto risulta chiara la convinzione sia di Flinders Petrie che di Dunn che siano stati usati particolari macchinari, ma di ciò non ci sono prove. Io penso invece che non di velocità e pressione si trattasse, né di ultrasuoni: il trapano avanzava veloce perché la pietra non opponeva resistenza; e mi pare più che evidente, in ogni caso, che quel tipo di lavorazioni in generale venisse effettuato trattando la pietra secondo le modalità della plastica anziché secondo quelle della scultura propriamente detta. Ci troviamo di fronte, a quanto pare, a un bell'esempio di applicazione del "rasoio di Occam": ma io credo che la soluzione più semplice - e quindi la più probabile - sia proprio quella che vi propongo.
Ma non pensiate - già ve lo avevo anticipato - che quel particolare procedimento fosse prerogativa ed esclusivo monopolio delle culture del Vecchio Mondo quale noi lo conosciamo. Tutt'altro. Dallo Yucatan a Tula, dall'Ecuador al Titicaca, molte culture precolombiane forniscono spettacolari esempi di scultura ed architettura nei quali sono presenti le stesse caratteristiche: produzione di manufatti realizzati, in pietra, senza nessun uso di strumenti metallici, quasi fossero stati plasmati nell'argilla. Piuttosto che di oggetti di dimensioni contenute - ma pure le statue e gli splendidi rilievi maya, olmechi, toltechi, aztechi, preincaici e inca, come le enigmatiche andesiti incise, le cosiddette "pietre di Ica", fanno parte dello stesso mistero - si tratta qui però prevalentemente (sto parlando, nella fattispecie, degli impressionanti monumenti del Perù) di costruzioni megalitiche, edificate con blocchi di granito che - a mio avviso - sarebbe stato impossibile assemblare con qualunque altro metodo. E non voglio qui entrare nel merito di come diavolo facessero ad estrarre, trasportare e sollevare massi del peso di varie decine e in qualche caso persino di alcune centinaia di tonnellate (problema posto ugualmente dalle consimili strutture egizie, siriane ed altre), limitandomi ad arrendermi di fronte all'evidenza che - in qualche modo - ci riuscivano: l'ipotesi meno sballata che mi viene in mente è forse proprio quella, già citata, dell'uso - anche qui - di frequenze ultrasoniche, ma l'argomento esula sia dal tema che stiamo trattando che, come ho detto in precedenza, dalle mie competenze. Per cui lascerò che se ne occupi qualcuno più autorevole di me.
Ma sovrapporre e incastrare a secco l'uno con l'altro quei massi incredibili è altrettanto arduo da comprendere. La mente si smarrisce nell'osservare i macigni ciclopici, con un numero terrificante di angoli (fino a quaranta) della più varia apertura, che compongono le stupende, perfette mura di Sacsayhuaman, di Ollantaytambo, di Cuzco, di Machu Picchu, collimando in maniera così perfetta che, come si sa, nelle commessure non c'è spazio "nemmeno per un foglio di carta". Un lavoro del genere in teoria richiederebbe infinite misurazioni, tentativi, prove: cosa impensabile considerandone il peso e il fatto che furono messi in opera senza l'uso di animali da lavoro, né di ruote per argani (29). Sembrano invece, quelle pietre (la cui forma non squadrata è la migliore dimostrazione della grande padronanza delle tecniche antisismiche usate), fuse insieme da una qualche forza misteriosa, schiacciate e compattate dal loro stesso peso l'una contro e sull'altra a mo'di enormi cuscini fino a riempire ogni spazio e interstizio fra loro, come se invece che dure rocce fossero ammassi di morbida mota. O trattate, appunto, con una sostanza corrosiva che ne "condizionò" le superfici di contatto, se non la struttura stessa. Impressione che deriva pure dalla loro faccia esterna, sempre come leggermente "gonfia", arrotondata, liscia come se fosse stata rifinita semplicemente raschiando via tutte le asperità insieme al materiale in eccesso. D'altronde, questa non è affatto una mia fantasia. In parallelo con i miti e le leggende di àmbito eurasiatico e mediterraneo sopra riportati, anche qui viene fatto riferimento a una non meglio identificata sostanza in grado di ammorbidire la pietra e renderla lavorabile. Ma non sono le sole tradizioni popolari a parlarne, bensì anche autori nostri contemporanei. L'esploratore Percy Fawcett, ad esempio, in un passo di "Operazione Fawcett" dice infatti che gli inca, ereditando le fortezze e le città edificate dalla razza che li aveva preceduti, le restaurarono servendosi delle medesime tecniche costruttive (e cioè di quel "solvente"). E racconta poi un episodio in cui un esperto minerario statunitense, che lavorava nelle Ande del Perù centrale a 4.500 metri di altezza, trovò in una tomba preincaica una giara di terracotta ancora piena di liquido. Quel liquido, versato incidentalmente su di una roccia, dopo circa dieci minuti ne era stato assorbito, "e la roccia era diventata molle come cemento bagnato, come se la pietra si fosse sciolta a guisa di cera sotto l'effetto del caldo". L'archeologa Mirella Rostaing, dal canto suo, ne "I misteri dei mondi" riporta una conversazione da lei avuta con uno sciamano nei pressi del lago Titicaca a proposito di un tipico cespuglio locale detto "ghacre ". La pianta, che somigliava ad un "rampicante orizzontale" e che manipolata diveniva molliccia e appiccicosa, aveva corroso come un acido buona parte degli stivali dell'archeologa, che ci aveva camminato in mezzo (e la stessa cosa viene riferita a proposito degli speroni di un caballero che ne aveva attraversato un prato). Nelle parole del vecchio sciamano, il suo uso era ancestrale, precedente addirittura agli abitatori preincaici, poiché "i grandi architetti delle costruzioni ciclopiche usavano quella pappetta per la congiunzione delle grossissime muraglie difensive andine".
Ma non è tutto, perché con mia grande sorpresa anche qui ho ritrovato nei miti locali il concetto di un uccello associato ad una pianta capace di intaccare la pietra. In questa parte del mondo quel volatile (chiamato in alcune versioni "pichin-goto", che proprio non so cosa sia, in altre identificato con un'improbabile "golondrina ", che sarebbe la comune rondine) si servirebbe delle proprietà di un vegetale non meglio precisato, infilandone i semi nelle fessure delle pareti rocciose a grande altezza allo scopo di utilizzare in seguito la cavità creatasi (una volta che quei semi corrosivi, o le radici, abbiano compiuto il loro lavoro di sgretolare il minerale) per costruirvi il nido (30). O, in alternativa, per nutrirsi della pianta stessa che lì avrebbe attecchito: cosa che, almeno nel caso dell'insettivora golondrina, sarebbe per lo meno strana. Non più strana comunque della strettissima analogia, anzi parentela, con la leggenda del gallo selvatico e dello Shamìr riportata all'inizio. Io, quando sento storie come queste, drizzo subito le orecchie e comincio a guardarmi attorno. Ed è per l'appunto guardandomi attorno là, sul posto, che ho visto qualcosa che mi ha dato da pensare. Se state, con l'abitato di Machu Picchu alle spalle, proprio sull'orlo del precipizio in fondo al quale, a picco oltre cinquecento metri più sotto, scorre luccicando l'esiguo corso del fiume Uru (Uru Bamba - cioè "pampa" - vuol dire "pianura", o "valle", dell'Uru), subito al di là di quell'angusta voragine vedrete di fronte a voi innalzarsi sulla destra una altissima parete di roccia. Liscia come il vetro, perfettamente verticale e tutta quanta cosparsa di piante pioniere tenacemente abbarbicate negli interstizi della pietra. E viene naturale allora chiedersi (dato che avete ancora negli occhi quel miracolo di precisione che sono le mura granitiche della cosiddetta Tomba Reale, e il morbido modellato dell'Inti Huatana: nota 31) se non siano proprio quelle piante a produrre il succo corrosivo che potrebbe avere levigato a quel modo la parete rocciosa e "addomesticato" le pietre da opera, e che specie esse rappresentino. A me, da quella distanza, sono sembrate bromeliacee, che da quelle parti sono diffusissime e crescono su muri, alberi, montagne; ma purtroppo non sono riuscita ad avere maggiori informazioni e ad andare più in là di così. Ragion per cui rimango, per ora, con i miei interrogativi.
E per finire, vi segnalerò che il muro di cinta del palazzo imperiale di Tokio riprodotto in un'antica stampa giapponese, come altre muraglie ancora più antiche, è costruito esattamente con la stessa coesione e le stesse tecniche applicate in Perù. E questo non può certo essere casuale, o almeno non può esserlo per me (32) che credo fermamente all'esistenza di contatti e di una vasta diffusione culturale tra i continenti in tempi ben più che soltanto "preistorici". In conclusione, spero di avere sufficientemente dimostrato lo stretto rapporto fra quella "sostanza" e qualche specie botanica, in ogni cultura; in nessuna delle quali, mai, si parla di qualche genere di strumento, di diamanti o di vermi o d'altro. Tutte le indicazioni e le testimonianze - sia letterarie che archeologiche - raccolte in diverse parti del mondo mi hanno confermato al di là di ogni dubbio nell'idea che il mio Shamìr (o come altro venisse chiamato localmente nei diversi paesi) fosse "qualcosa" di vegetale. Ma cosa?
Considerazioni aggiuntive
Dunque si direbbe proprio che non poche fra le più grandi - e tuttora per molti versi enigmatiche - civiltà del passato, e noi con loro, siano debitrici alla grande tribù dei parenti ed affini dello Shamìr della possibilità di lavorare facilmente, impiegando un principio chimico, pietre di ogni qualità: opportunità in assenza della quale, io credo, mai avrebbero potuto essere create - in tempi in cui il ferro era ancora del tutto sconosciuto - tante e tanto splendide opere d'arte. E quanto di più mi piace, concettualmente, l'ipotesi di questo tipo di approccio gentile, soft, alla materia nella quale si manifesterà la creazione artistica, in confronto alla consueta immagine della pietra aggredita, spezzata, brutalizzata da un traumatico, violento, polveroso e fragoroso martellamento! E' qualcosa che cambierebbe perfino, se fosse come io penso, la nostra comprensione dell'idea stessa che quegli antichi e sconosciuti artisti dovevano avere del loro lavoro.
Non a caso ho detto "parenti ed affini" dello Shamìr. Perché le umili e misconosciute pianticelle cui ciò si deve non appartenevano sicuramente ad un'unica specie, famiglia o genere, originarie come erano di àmbiti climatici e fitogeografici assai diversi (benché stiamo parlando di famiglie comuni e diffuse in molti continenti). Sono però convinta che identico fosse il principio applicato, ancorché utilizzando piante, o parti di piante, differenti: una materia fortemente corrosiva, contenuta in certe piante colonizzatrici, specie pioniere (e non può essere altrimenti), della quale parleremo fra poco. Potrei citare, ad esempio, una nota del testo di Ginzberg nella quale si dice che "l'Euforbia, cui le fonti non ebraiche del Medioevo attribuiscono lo stesso potere dello Shamìr, è ricordata anch'essa nei testi ebraici�., ma non va identificata con esso�.infatti lo Shamìr fu dato all'uomo solo durante la costruzione del Tempio, mentre l'Euforbia rimase reperibile anche in seguito" (e qui si cade nel dottrinario) (33). C'è oltre tutto la possibilità, o piuttosto la probabilità, che la versione più veritiera sia quella egizia, ossia che la sostanza caustica di cui si tratta fosse in effetti una "mistura vegetale" ricavata da piante diverse, dove però una era dominante. Ma purtroppo, in questa direzione, il buio è totale.
Quanto al mio Shamìr, una volta superati la delusione e il disappunto di dover purtroppo constatare che l'unica indicazione fornita è fuorviante, cioè che non è possibile identificarlo con il Paliurus - botanicamente inteso - poiché del nostro familiare biancospino, a quanto mi risulta, non è nota nessuna particolare proprietà corrosiva, tutto quel che pensavo di poter fare era tentare di trovargli una collocazione più ampia nel regno vegetale: ovverosia cercare qualche altra specie, simile al biancospino almeno in alcune caratteristiche morfologiche che potrebbero aver tratto in inganno i classificatori (ma vedremo poi che ero partita col piede sbagliato). E in realtà ne ho trovate non poche. C'è da precisare infatti che oltre al Paliurus esiste una grande varietà di altre piante pioniere spinose della famiglia delle Ramnacee, come il Paliurus, o delle Rosacee (entrambe presenti anche nel continente americano) o altre, presenti in abbondanza sul territorio di interesse biblico. Tali ad esempio sono:
ECHINOPS VISCOSUS D.C., o "pruno della steppa", che compare in Giudici 8, 7;
PRUNUS ARMENIACA L., che inoltre ha semi velenosi;
RHAMNUS PALAESTINA BOISS, o "biancospino di Palestina";
RUBUS SANGUINEUS FRIV.
e parecchi altri arbusti o cespugli.
In teoria, considerandone solamente l'aspetto, sul quale le informazioni in nostro possesso sono oltre tutto così confuse e avare, ciascuna di queste specie (o anche qualche altra) potrebbe essere quella che vado cercando. A tutte queste piante, compreso lo Shamìr, nelle versioni attuali delle Scritture si fa riferimento con indicazioni banalmente generiche quali "spini", o "pruni", o "rovi". Ma, se sono state individuate - come abbiamo visto - con nome e cognome all'interno di un preciso ordine sistematico, significa (se non vado errata) che pure nel testo originale compaiono con un nome proprio: naturalmente quello usato in quei luoghi e a quell'epoca. Infatti non è pensabile che botanici o traduttori abbiano arbitrariamente affibbiato nomi scientifici a queste cosiddette piante "bibliche" (che sono cioè citate nella Bibbia) sulla scorta solo di quegli "spini", "pruni" o "rovi". Tuttavia un abbaglio è pur sempre possibile, tanto più nei confronti di una specie forse già estinta da tempo. In altre parole pare che i profeti che chiamarono "Shamìr" vari cespugli in realtà lo Shamìr non l'avessero visto mai. Ma con chi dovrei prendermela per quelle errate attribuzioni e traduzioni, dopo qualcosa come un paio di millenni?
Ora, può darsi benissimo che tutti gli altri arbusti e suffrutici spinosi siano stati correttamente riconosciuti, ma io sarei pronta a scommettere che così non è stato nel caso del "magico" Shamìr: il quale, per dirla tutta, penso infatti sia stato abusivamente identificato con l'innocente Paliurus in base ad una somiglianza superficiale o per un errore di interpretazione (a meno di supporre, volendo fare un po' di dietrologia, che la sua vera natura sia stata volutamente occultata). E' lo stesso errore che avevo fatto io, cercando analogie apparenti piuttosto che indizi sul comportamento, e prendendo in considerazione soltanto le affinità esteriori invece delle caratteristiche vegetazionali e delle "specializzazioni" chimiche. Ma rimedierò subito, anche se in un certo senso siamo tornati al punto di partenza. Avremo se non altro stabilito che lo Shamìr - va bene - non era il biancospino, ma era di certo una pianta cespugliosa, forse aculeata. Per trovare quale, non c'è che l'imbarazzo della scelta. Stavolta, però, cercheremo in tutt'altra direzione, tentando un approccio totalmente diverso a questo spinoso problema. E adesso, finalmente, veniamo al sodo.
Una proposta da verificare
E allora, vediamo un po' che cosa abbiamo qui.
Innanzitutto, la testimonianza fornita da un assortimento di pietre lavorate: nella loro concreta realtà di reperti archeologici, o anche solo nelle citazioni letterarie (alle quali do - quasi - lo stesso credito). Nel primo caso, le gemme in questione stanno sotto gli occhi di tutti. Per quanto riguarda il secondo caso, mi rifaccio a quelle famose del pettorale e dell'efòd di Aronne, tredici pietre preziose, semipreziose o dure, di piccole dimensioni. Il procedimento attuato da Mosè, se rammentate quanto riportato da Ginzberg, consisteva nel tracciare prima con l'inchiostro, o meglio con uno stilo, sulle pietre (ricoperte, è probabile, da un sottile strato di cera resistente agli acidi) i segni desiderati, e nel passarvi poi sopra lo Shamìr, dal quale le pietre rimanevano così incise. Sistema che ricorda assai da vicino la tecnica tuttora impiegata nella fluorografia per incidere su vetro. E non dimentichiamo che viene inoltre evidenziato il fatto che l'azione dello Shamìr sulla pietra non produceva alcun residuo, cosa - anche questa - spiegabile solo nel caso di una reazione chimica, non di un'azione meccanica. L'elenco di quelle pietre presenta più di una versione; per non sbagliare citerò tutte quelle che ho trovato(34).
Appartengono in prevalenza al gruppo dei minerali a base di silicio. Anzi, circa la metà di esse sono in effetti altrettante varietà di quarzo. Per essere più precisi, le prime quattro sono diverse qualità di CALCEDONIO.
AGATA
CORNIOLA
ONICE
SARDA (nell'efòd)
AMETISTA
DIASPRO (di origine organogena)
Tutte queste pietre silicee sono solubili in acido fluoridrico. Fanno parte dei tectosilicati, insieme ad altre non citate nella Bibbia (ma presenti in molti musei) come il MICROCLINO, il CRISOPRASIO e il LAPISLAZZULI, che si comportano analogamente. Allo stesso gruppo appartiene l'OPALE, forma non cristallizzata e insolubile in acidi.
Abbiamo poi una serie compresa tra i nesosilicati, solubile in acido fluoridrico e in acido solforico.
CRISOLITO
GIACINTO o ZIRCONE ROSSO - esiste pure la varietà AZZURRA, spesso in antico confusa con lo zaffiro, e anche quella INCOLORE, spesso in antico confusa con il diamante.
TOPAZIO: anche di questo esiste una varietà INCOLORE, essa pure anticamente confusa con il diamante.
GRANATO ALMANDINO: chiamato anche "carbonchio", spesso confuso con il rubino, e insolubile in acidi.
Appartiene invece al gruppo dei ciclosilicati lo
SMERALDO o BERILLO, nome che può indicare anche l'ACQUAMARINA: insolubile in acidi. In passato tale termine era usato per designare pure molte altre pietre verdi più comuni e di minore pregio. Anche l'OSSIDIANA, vetro magmatico siliceo a struttura amorfa, è solubile in acido fluoridrico.
MALACHITE: è un carbonato di rame, solubile in acido fluoridrico e in acido cloridrico.
TURCHESE: questo è un fosfato idrato, esso pure solubile in acido fluoridrico e in acido cloridrico.
Insolubili in acidi sono inoltre lo
ZAFFIRO: ossido di alluminio o CORINDONE, denominazione che indicava anche lo zircone azzurro, ed il
RUBINO o CARBONCHIO: altra varietà di CORINDONE. Il nome definiva anche il granato almandino.
Lo stesso problema di identificazione si pone infine per la pietra inattaccabile per eccellenza, il
DIAMANTE: carbonio purissimo allo stato nativo, insolubile in acidi e "indomabile" come il suo nome greco indica, il minerale più duro in assoluto, che all'epoca biblica non poteva né essere tagliato né venire lavorato in alcun modo. E' del tutto verosimile perciò che con questa denominazione ci si riferisse ad altre più docili pietre incolori, quali ad esempio lo zircone ed il topazio incolori.
Molte altre pietre ornamentali vennero usate in diversi contesti, ma statisticamente questo mi è sembrato un campionario abbastanza significativo. Dunque, se avete seguìto il mio ragionamento, vi sto proponendo l'idea che per tagliare ed incidere senza troppo sforzo le gemme bibliche (come anche tante altre giunte fino a noi) fossero conosciuti fin dai tempi più antichi, e possano essere stati correntemente usati, degli acidi.
E, per l'esattezza, acido fluoridrico in primo luogo - poi vi spiego perché -, ma forse anche solforico e cloridrico. Per quanto riguarda invece alcune gemme particolari (smeraldo, rubino, zaffiro, diamante, granato), resistenti all'azione di questi princìpi corrosivi, si dà il caso che siano proprio quelle la cui identificazione solleva i più forti dubbi, dato che nel corso del tempo sono state "soprannominate" in molti diversi modi. E quindi non è detto che i nomi citati corrispondano alla realtà della loro composizione chimica.
Infatti, e specie anticamente (come a tutt'oggi di frequente avviene nel linguaggio popolare, oltre che per le denominazioni dei minerali, per quelle delle specie animali e vegetali più diffuse), non solo spesso una pietra veniva chiamata con più di un nome, ma, inoltre, con il medesimo nome venivano chiamate più pietre diverse (e se, come sospetto, il chimismo dei cosiddetti "opale", "granato", "smeraldo", "zaffiro", rubino" e "diamante" era in realtà riconducibile a quello di materiali più trattabili, come potrebbero essere ad esempio il crisoprasio, lo zircone e il topazio, ecco che tutte le pietre citate verrebbero ad avere un loro naturale "solvente" che ne avrebbe permesso la facile lavorazione manuale).
Ma può darsi pure che (anche escludendo la mala fede o intenti truffaldini), non disponendo di microscopi né di laboratori per l'analisi chimica o strutturale, non si fosse in grado di riconoscerle correttamente e di distinguerle l'una dall'altra. Be', se non altro per le pietre da opera questi problemi non si ponevano. Almeno, non troppo. Per "pietre da opera" intendo quelle usate per sculture a tutto tondo di medie, grandi e grandissime dimensioni, per rilievi di ogni profondità, elementi architettonici, rivestimenti, decorazioni, e in senso proprio come materiale da costruzione. Anche qui, senza entrare nello specifico delle diverse varietà, ne ho fatto una piccola selezione.
Le più correntemente utilizzate sono sempre, come è logico, quelle comunemente diffuse nella zona, ovverosia, data l'estrema reperibilità praticamente ovunque, le
PIETRE CALCAREE SEDIMENTARIE di vario tipo: composte in prevalenza di calcite, dolomite, gesso, resti fossili e minoritariamente di altri e diversi elementi. Queste rocce carbonatiche se da un lato, essendo tenere e a bassa consistenza, offrono il vantaggio di risultare agevoli da lavorare, dall'altro - proprio per gli stessi motivi - non resistono agli agenti atmosferici. Vengono facilmente attaccate e dissolte dagli acidi, specie dall'acido cloridrico, ma anche dall'acido fluoridrico. Fra i più pregiati rappresentanti di questo gruppo si distingue il delicato ALABASTRO, molto usato per statue, vasi ed altri recipienti.
Accanto a queste tuttavia, nonostante l'estrema durezza e difficoltà di lavorazione, è assai frequente l'impiego - soprattutto in àmbito egizio - di materiali di origine magmatica, in diversa misura ricchi di silicio. Tra questi il
GRANITO: come tutte le rocce acide, silicee, può essere attaccato dall'acido fluoridrico. E così pure il
PORFIDO, che ha caratteristiche assai simili a quelle del granito. Contengono un po' meno silice invece l'
ANDESITE, che ha chimismo intermedio come la
DIORITE; altra roccia magmatica prevalentemente basica, contenendo silicio in proporzioni minori, è il
BASALTO, del quale esistono molti tipi; ma la pietra più volentieri utilizzata dalla statuaria egizia, tanto da poter essere considerata il materiale tipico per questo impiego, è la
PORFIRITE DIORITICA, a chimismo intermedio, più conosciuta con il nome di PORFIDO ROSSO ANTICO.
Una posizione a sé tra i due gruppi occupa poi la
QUARZITE, roccia metamorfica di origine sedimentaria, notevolmente silicea e ricca di quarzo.
Abbiamo detto che anche tutte queste pietre di grandi dimensioni, usate per le sculture e messe in opera nelle costruzioni, possono essere soggette a corrosione sotto l'azione di alcuni acidi. Come nel caso delle gemme, dell'acido fluoridrico sempre, ma pure del solforico e del cloridrico. O per lo meno di qualche principio analogo. Il motivo per cui, tuttavia, le mie preferenze per l'identificazione dello Shamìr vanno proprio all'acido fluoridrico sta nel fatto che - secondo quanto ho potuto sapere da un esperto - sembra sia l'unica sostanza in grado di attaccare praticamente qualunque materiale inorganico - o quasi - non meno di quelli organici, che ne vengono carbonizzati. E' un gas incolore, di odore pungente e fumante all'aria, che sotto i 19,54 °C passa allo stato di liquido pure incolore, e la cui soluzione in acqua è fortemente acida. Come già sappiamo, attacca elettivamente la silice e reagisce con quasi tutti i metalli. Per questo motivo può essere conservato solamente in contenitori di piombo (35), di bronzo (o in alternativa d'oro: ma la cosa sarebbe un po' di costo), o di vetro: in questo caso però occorre addirittura proteggere con uno strato di cera o paraffina l'interno dei recipienti destinati a contenerlo. E qui non bisogna dimenticare la specifica indicazione - sempre nei midrashìm - al fatto che lo Shamìr avesse precisamente la capacità di dissolvere perfino il vetro: proprietà, a quanto mi dicono, precipua e caratteristica dell'acido fluoridrico soltanto. Essendo il fluoro inoltre abbondante in natura, questo suo acido, come tenterò di dimostrarvi fra poco, potrebbe essere reperibile ed ottenibile abbastanza facilmente.



E, mentre la lavorazione delle pietre calcaree è, relativamente, assai facile, la cosa a dir poco sorprendente che l'archeologia ci svela è invece la straordinaria abbondanza, in tempi remoti, di manufatti realizzati di preferenza nei più duri minerali esistenti. Prendete ad esempio il basalto, che è uno tra i più antichi materiali lavorati dall'uomo. In Mesopotamia, in Egitto, in Asia Minore, tra il rovinoso sfasciume dei cumuli di blocchi calcarei in avanzato stato di dissolvimento e decomposizione, consumati dai millenni, statue, basamenti, pilastri e architravi in basalto emergono integri, come fossero stati fatti ieri. Superfici levigate, spigoli netti sui quali le intemperie di quaranta o cinquanta secoli praticamente non hanno prodotto neanche un graffio. E allora, quanto














Edited by barionu - 14/6/2022, 14:40
 
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CAT_IMG Posted on 14/6/2022, 13:37
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