Origini delle Religioni

«IL QUARTO VANGELO» (di Joseph Turmel, alias «Henri Delafosse»)

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CAT_IMG Posted on 10/7/2019, 15:02
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L'invisibile e l'inesistente si somigliano molto. (Delos B. McKown, The Mythmaker's Magic)

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Il primo, la gentilezza, creò le vere ossa.
Il secondo, la lungimiranza, creò i veri tessuti connettivi.
Il terzo, la divinità, creò la vera carne.
Il quarto, l'autorità, creò il vero midollo.
Il quinto, la sovranità, creò il vero sangue.
Il sesto, lo zelo, creò la vera pelle.
Il settimo, l'intelligenza, creò i veri capelli.


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Il primo, Raphaô, iniziò con il formare il cocuzzolo della testa.

Arôna formò il cranio.
Meniggesstrôeth formò il cervello.
Asterekmê, l'occhio sinistro.
Thaspomakha, l'occhio destro.
Ierônumos, l'orecchio sinistro.
Bissoumeeni, l'orecchio destro.
Akiôreim, le narici.
Banênephroum, le labbra.
Amon-ffShata, i denti anteriori.
Ibikan, i denti posteriori.
Adabani, la nuca.
Khaamani, la gola.
Têbar, la spalla sinistra.
Dêarkô, la spalla destra.
Abitriôon, la mano sinistra.
Euanthên, la mano destra.
Astrôpsamini, il capezzolo sinistro.
Barrôph, il capezzolo destro.
Baoum, l'ascella sinistra.
Ararim, l'ascella destra.
Phthauê, l'ombelico.
Gêsole, lo stomaco.
Aggromauma, il cuore.
Mnashakka, l'orifizio anale.
Eilô, il pene.
Sôrma, i testicoli.
E Sôrma, la vagina.
Ormaôth, la gamba sinistra.
Psêrêem, la gamba destra.
Akhiêl, il piede sinistro.
Phnêmê, il piede destro.
Boozabel, le dita del piede sinistro.
Phiknipna, le dita del piede destro.


(da un so quale antico testo gnostico)

Come Padrone del mondo, il Diavolo è la fonte da cui emana ogni autorità politica. A Pilato che si vanta del potere della sua volontà di mettere a morte o di liberarlo, il Cristo giovanneo replica (19:11) «Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto». Poi aggiunge: «Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande». Questa risposta contiene due asserzioni. La prima, apprendiamo che Pilato detiene la sua autorità «dall'alto», cioè da un Essere superiore agli uomini, da un Essere di cui egli è un luogotenente e a cui deve dare obbedienza. Secondo la seconda asserzione è questo Essere superiore, questo Essere «dall'alto» ad aver consegnato il Cristo a Pilato il suo luogotenente; e «per questo» la responsabilità di Pilato nella morte di Cristo è mitigata. Il grande colpevole è questo Essere «dall'alto», che pose il suo delegato Pilato in una situazione inestricabile. Questo Essere «dall'alto» che è feroce contro Cristo fino al punto di consegnarlo a Pilato, è «il Nemico», il Diavolo. Egli ci appare qui come il sovrano detentore dell'autorità politica di cui diede una parte al governatore romano. Ed è nella logica delle cose, dal momento che «tutto il mondo giace sotto il potere del Maligno» e che questo Maligno è il principe di questo mondo.




INDICE

INTRODUZIONE

PRIMA REDAZIONE DEL QUARTO VANGELO.

1. — Il Cristo giovanneo rinnega Maria.

2. — Il Cristo giovanneo rivela Dio agli uomini.

3. — Il Cristo giovanneo respinge l'Antico Testamento.

4. — Il Cristo giovanneo respinge Mosè e i profeti.

5. — Il Cristo giovanneo combatte il principe di questo mondo.

6. — Il Cristo giovanneo respinge la resurrezione della carne.

7. — Il Cristo giovanneo è un essere spirituale.

8. — Esposizione della dottrina marcionita.

9. — Origine del quarto Vangelo.

SECONDA REDAZIONE DEL QUARTO VANGELO.

1. — Il corpo carnale del Cristo.

2. — Il pane di vita.

3. — Il Verbo e la Luce.

4. — La conversazione con Nicodemo.

5. — La resurrezione del Cristo.

6. — I riferimenti all'Antico Testamento.

7. — Il quarto Vangelo e Giustino.

8. — Il Paraclito.

9. — Il Vangelo di san Giovanni.

IL QUARTO VANGELO.

Il Verbo e la Luce. Giovanni il Battista e i primi discepoli

Le nozze di Cana — I mercanti del tempio

La conversazione con Nicodemo. Ancora Giovanni il Battista

La Samaritana — L'ufficiale di Cafarnao

Il paralitico di Betesda

Il pane di vita

La festa dei Tabernacoli

La donna adultera 

La festa dei Tabernacoli (seguito)

Il cieco nato

Il buon Pastore — La Dedizione

La resurrezione di Lazzaro

L'ultimo viaggio a Gerusalemme

La lavanda dei piedi

Il discorso dopo la Cena

La Passione

Le apparizioni di Gerusalemme

L'apparizione del lago di Tiberiade



Edited by Haviland Tuf - 1/12/2020, 18:55
 
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CAT_IMG Posted on 12/7/2019, 08:13
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Veramente interessante !

Grande Haviland !




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Recensione de «Il Quarto Vangelo» (da parte di Paul-Louis COUCHOUD)

Traduzione di: G. Ferri


Revue de l'histoire des religions
Vol. 92 (1925), pp. 155-161 (7 pagine)




H. DELAFOSSE. -- Le quatrième évangile, Parigi, Rieder, 1923.


Dei libri del Nuovo Testamento il vangelo del «discepolo prediletto» è quello che possiede il più alto valore letterario e il significato religioso più profondo. Ed è quello che ha l'origine più nascosta. «L'origine di questo vangelo», ha detto Harnack, «è il più grande enigma di tutta la storia antica del cristianesimo».

Fin da Wellausen e Schwartz si è riconosciuto generalmente che il libro non è omogeneo ma presenta due redazioni differenti, ed anche antagoniste. Loisy è d'accordo con questa opinione, nella seconda edizione espansa del suo Quatrième Evangile (Parigi, 1924). H. Delafosse presenta una tesi audace e vigorosa che, se fosse ammessa, renderebbe conto dell'origine del quarto vangelo e della sua doppia redazione.

Egli mette in luce i caratteri particolari del Cristo giovanneo. Questi respinge le Scritture ebraiche, Mosè e i profeti. È venuto a rivelare Dio agli uomini e a combattere Satana, il principe di questo mondo. Respinge la resurrezione della carne. Rinnega sua madre terrena. È un essere spirituale. Ma tutti questi tratti sono quelli del Cristo di Marcione. Delafosse ne conclude che la prima redazione del quarto vangelo è di origine marcionita.

Delle modifiche, spesso molto visibili, correggono e contraddicono quel ritratto. Al Cristo spirituale è attribuito, di qua e di là, un corpo carnale. La resurrezione della carne è reintrodotta surrettiziamente, così come dei riferimenti all'Antico Testamento. Delafosse ne conclude che la seconda redazione è destinata a rendere inoffensiva la prima. Essa è di origine anti-marcionita, vale a dire cattolica. Il quarto vangelo è «l'edizione cattolica di un libro marcionita».

Il signor Guignebert [1] ha riconosciuto che il signor Delafosse ha sviluppato e sostenuto molto abilmente le sue tesi e che restano del suo lavoro molto interessante delle osservazioni penetranti e suggestive. Ma egli obietta che la Chiesa non ha potuto mutuare dai marcioniti un vangelo senza che nessuno in essa abbia protestato né si sia indignato. Il signor Delafosse ha previsto l'obiezione alla quale egli ha risposto in anticipo. Il vangelo esponeva la dottrina di Marcione con «l'intento di non infastidire i pregiudizi correnti», con delle formule ambigue, delle reticenze. Le sue spiegazioni «stuzzicavano la curiosità senza soddisfarla» e «richiedevano esse stesse di essere completate in tempo opportuno tramite delle spiegazioni orali». La chiesa dove apparve questo vangelo «ammetteva alla sua liturgia i discepoli del Cristo spirituale, di cui non conosceva che molto vagamente la dottrina». Quando le fu presentato «essa non tentò di approfondirlo, si accontentò di ammirarne il lato edificante; l'altro lato le sfuggì» (pag. 43).

Occorre ricordare che Marcione fu condannato solo nel 144. In precedenza egli godette di un grande favore in Asia Minore e anche a Roma.

Il signor Loisy [2] ha fatto altre obiezioni. «Come mai Marcione ha potuto preferire un vangelo comune della Chiesa, il vangelo di Luca, ad un libro scritto per lui?» In effetti il vangelo di Luca che era il vangelo ammesso da tutti ha dato gran pena a Marcione. Costui ha fatto delle acrobazie per provare a sé stesso e per provare agli altri che la sua dottrina si accordava con quel libro. Marcione si è molto occupato e preoccupato del vangelo di Luca, egli non lo ha preferito.

«Come mai Giustino non ha fiutato il marcionismo in un libro che secondo il signor Delafosse, lo predicava apertamente?» Al contrario, secondo il signor Delafosse, il quarto vangelo non predicava il marcionismo apertamente. Quando apparve il libro del signor Loisy, L'Evangile et l'Eglise un sacco di preti che non erano stupidi non vi compresero nulla. Si può ammettere che Giustino che non era molto intelligente non comprese a prima vista dove tendeva la prima edizione del quarto vangelo.

«Come mai Ireneo parla con tanta certezza della raccolta dei quattro vangeli che nell'ipotesi del signor Delafosse, era appena formata?» Ad un vicino esame, la certezza di Ireneo non deriva dal credo in vigore al suo tempo. Ireneo ha conosciuto un numero imprecisato di vangeli. Ha scartato tutti quelli che non si adattavano con i suoi sentimenti personali. Tra quei vangeli sacrificati si trovavano probabilmente il vangelo di Pietro e quello di cui l'Omelia Clementina ha dato strani estratti. Ha preservato quelli che fornivano delle armi per la verità. Quei vangeli utili che avrebbero potuto essere cinque o tre si sono ritrovati ad essere quattro in numero. Ireneo ha elevato questo fatto fortuito all'altezza di una disposizione provvidenziale. La sua certezza non è l'effetto di un consenso anteriore ma è stata la causa del consenso della posterità. Se Ireneo avesse parlato dei quattro vangeli con moderazione, le sue parole sarebbero passate inascoltate. È la sua veemenza che ha fatto impressione.

«Come mai Taziano ha fatto posto al quarto Vangelo nel suo Diatessaron? Sarà quindi necessario assumere per questa edizione cattolica un grande successo?» Il signor Loisy ammette che il Diatessaron è stato scritto nel 175, sebbene ad opinione di Zahn (Forschungen I, pag. 203) questo libro poteva essere posteriore al 190. Renan disse giustamente: «In generale è all'indomani della loro pubblicazione che i libri apocrifi furono accolti e citati» (Les Evangiles, pag. 34). È così che Giustino utilizza il vangelo di Pietro che doveva essere del tutto recente. D'altro canto non abbiamo quasi modo di ricostruire il Diatessaron, neppure di sapere se uno dei quattro vangeli utilizzati da Taziano fosse semplicemente il vangelo di Pietro.

«Si sarebbe quasi obbligati a supporre che Ireneo sia stato uno degli iniziatori e un iniziatore difficilmente inconsapevole della frode mediante la quale il quarto vangelo fu attribuito all'apostolo Giovanni». Ireneo era a Lione, in seno ad una colonia asiatica, quando, secondo Delafosse, l'edizione cattolica del quarto vangelo fu composto negli ambienti montanisti dell'Oriente. Favorevole come tutti i suoi compatrioti al movimento montanista egli poté ricevere con solerzia e buona fede un libro che i montanisti d'Oriente avrebbero recato a Lione verso il 175-180. D'altronde la sincerità come la intende la nostra sensibilità moderna è stata per lunghi secoli sconosciuta all'intera Chiesa. Si commetterebbe un anacronismo nell'esigerla da Ireneo. Ricordiamoci le rivelazioni successive che permisero a sant'Ambrogio di scoprire i corpi dei martiri; il penitenziale trovato negli archivi romani; il martirologio trovato da Adone; la lettera di san Pietro a Pipino il Breve scritto dal papa Stefano; la grande menzogna che Bellarmino nella sua autobiografia si vanta di aver commesso per salvare l'onore della Santa Sede.

Di tutti i tempi i più seri personaggi della Chiesa hanno creduto che la sincerità non fosse incompatibile con l'impiego della frode per la gloria di Dio. La tesi del signor Delafosse non sarebbe screditata se tendesse a fare di Ireneo l'autore oppure uno degli autori della frode sulla quale si basa l'origine apostolica del quarto vangelo. Ma essa non porta a quel risultato.

Il signor Loisy fa altre obiezioni di natura interna di cui la principale è questa qui: «In che modo il grande Dio di Marcione può avvalersi della testimonianza di Giovanni il Battista? Se Giovanni il Battista, creatura del Dio degli ebrei, è stato inviato dapprima dal Dio supremo, perché non i profeti e perché non Mosè?» La questione è sapere se Marcione si rappresentava Giovanni il Battista nella linea ebraica oppure già in opposizione assoluta con gli ebrei. Luca, senza dubbio, ha conservato sulla nascita del Battista una leggenda che si ispira al messianismo nazionalista degli ebrei. Ma i discepoli del Battista che figurano negli Atti non hanno nulla di codesto messianismo, nulla del giudaismo legalista e ortodosso. Marcioniti e cattolici potevano dunque, con lo stesso diritto, considerarsi gli eredi legittimi delle comunità del Battista.

Il signor loisy ha detto ancora: «Il dio di Marcione non è affatto la luce degli uomini». Egli dimentica il testo di Tertulliano (Adv. Marc. 4:79: «Bene autem quod et Deus Marcionis illuminator vindicatur nationum». Marcione ha proprio presentato il suo Dio come la luce degli uomini.

Il signor Goguel, [3] dopo aver sottolineato la novità e l'originalità della tesi del signor Delafosse, dopo aver riconosciuto che essa è sviluppata con grande ingegnosità e difesa con grande abilità dialettica, fa alcune osservazioni molto forti di cui occorre tener conto. Esse non sconvolgono la tesi generale del libro ma obbligano l'autore ad alcune revisioni dei dettagli. A mio avviso le correzioni da fare si reggono su quattro punti:

L'episodio del colpo di lancia (19:31-37) è destinato secondo il signor Delafosse a mostrare che è proprio un corpo reale, pieno di sangue, e non un fantasma che è stato crocifisso. Questo sarebbe dunque una interpolazione anti-marcionita e tutto l'episodio sarebbe da cancellare dalla redazione primitiva. Ma mal si comprende perché il redattore cattolico disse che fuoriuscì dal corpo del sangue e dell'acqua. Perché dell'acqua? Il sangue bastava.

Io credo che l'amputazione radicale proposta dal signor Delafosse possa essere evitata. È sufficiente attribuire alla redazione cattolica «il sangue» e le citazioni dell'Antico Testamento 36-37. Resta un testo proprio marcionita dove dal fianco di Gesù scaturisce solamente dell'acqua, un flusso di acqua viva, conformemente a ciò che Gesù ha annunciato lui stesso (7:37-38). «Se qualcuno ha sete, venga a me e che beva chi crede in me. Dal mio fianco sgorgheranno fiumi di acqua viva». [4]

Quest'interpretazione del colpo di lancia è confermata dalla prima epistola di Giovanni, scritto che ha per obiettivo di combattere la prima redazione marcionita del vangelo di Giovanni e di autenticare la sua seconda redazione cattolica. Quest'epistola respinge ufficialmente (5:6) l'opinione di coloro che negano che Gesù sia venuto con l'acqua e il sangue. Afferma che Gesù è proprio venuto con l'acqua e il sangue. Insiste: «Non con l'acqua soltanto, ma con l'acqua e il sangue». Una tale insistenza presuppone uno stato del vangelo dove vi era menzione solamente dell'acqua.

Se nel vangelo marcionita l'acqua che scaturì dal fianco di Gesù è un'allusione al flusso d'acqua viva di Apocalisse 22:1 si indovina facilmente chi è colui che «ha visto e reso testimonianza». Non è, come lo vuole il testo attuale, l'autore del vangelo: è il visionario dell'Apocalisse. La prima Epistola di Giovanni lo intendeva ancora così poiché identifica questa testimonianza con quella dello Spirito (5:6).

Nell'episodio della corsa al sepolcro (20:2-10) il redattore cattolico, secondo il signor Delafosse, avrebbe interpolato nel testo marcionita il passo messo qui di seguito in corsivo: «I due correvano assieme, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse primo al sepolcro; e, chinatosi, vide le fasce per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro, e vide le fasce per terra, e il sudario...». Qui il chirurgo si mostra troppo timido. Egli si accontenta di curare dove l'amputazione mi sembra necessaria.

Nel verso 2 Maria abbandona il sepolcro per congiungersi coi discepoli. Nel verso 11 la si ritrova inaspettatamente presso il sepolcro senza che si sia detto che vi fu ritornata. Il verso 11 si lega direttamente al verso 1 e tutto il pezzo 2-10, vale a dire tutto l'episodio della corsa di Pietro e di Giovanni al sepolcro, è da eliminare. L'interpolatore ha potuto ispirarsi a Luca 24:12. [5] In effetti nel testo giovanneo il verso 9: «Perché non avevano ancora capito le Scritture» si lega solo alle parole che precedono: «e credette». Il «perché» sembra presupporre qualcosa d'analogo a ciò che si legge in Luca: «meravigliandosi per quello che era avvenuto». In Luca l'interpolatore di Giovanni ha trovato Pietro e di propria iniziativa lo fa accompagnare dal discepolo prediletto.

Un altro episodio, dove Pietro è accompagnato dall'«altro» discepolo, mi sembra interpolato dalla stessa mano e improntato a sua volta a Luca. È il rinnegamento di Pietro (18:15-18, 25-27). In Giovanni il racconto è diviso in due tronconi, il che non sembra primitivo. L'interruzione è anche molto manifesta: la frase che comincia il secondo troncone ripete quella che termina il primo: «18. Ora anche Pietro stava con loro e si scaldava... 25. Ora Simon Pietro stava là e si scaldava».

I due errori di Pietro, il colpo di spada e il rinnegamento, fanno doppione. Il signor Delafosse ha ragione a sopprimere uno e a conservare l'altro. A mio avviso, è il rinnegamento che occorre attribuire all'interpolatore. Delafosse sopprime il colpo di spada, parchè lo trova in contraddizione con 23:36. «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto...». Ciò sembra troppo sottile. E no, i servitori di Gesù non hanno combattuto! Vi è stato solo un tentativo isolato, subito represso da Gesù stesso.

Il verso 3:24 «Infatti Giovanni non era stato ancora imprigionato» mi sembra un'aggiunta secondaria, da respingere dal testo primitivo. Raschke [6] fa osservare che quel passo presuppone la storia del Battista come è raccontata nei sinottici ed egli sottolinea che il quarto vangelo non si mostra in alcuna delle sue parti primitive dipendente da questi ultimi. Io credo che Raschke abbia ragione.

Queste diverse correzioni non toccano che nei dettagli. Nell'insieme la tesi del signor Delafosse mi pare la spiegazione più forte e la più solida che si sia finora data dell'origine del quarto vangelo.


Paul-Louis COUCHOUD.


NOTE

[1] Impartial français, 18 luglio 1925.

[2] Revue critique, 1 luglio 1925.

[3] Revue d'histoire et de philosophie religieuses, maggio-giugno 1925.

[4] «A me» è attestato da parecchi manoscritti e adottato da Loisy. Il punto deve essere messo non dopo «beva» ma dopo «in me». Il signor Delafosse ha giustamente soppresso «come dice la Scrittura»; ora, la terza persona, «dal suo fianco», è legata con questo episodio (Loisy, pag. 272); occorre dunque ristabilire la prima persona.

[5] Questo verso non sembra appartenere a Luca primitivo ma «ad un rimaneggiamento ulteriore che avrebbe coinciso più o meno con la fissazione del canone dei quattro vangeli» (Loisy, L'Evangile de Luc, Parigi, 1924, pag. 572).

[6] H. Raschke, Die Werkstatl des Markus evangelien, Iena 1924, pag. 123.

 
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CAT_IMG Posted on 24/11/2019, 18:43
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IL
QUARTO
VANGELO



TRADUZIONE NUOVA CON INTRODUZIONE
E NOTE

DI


HENRI DELAFOSSE

Titolo originale: Le quatrième évangile, Rieder, 1925.
di Joseph Turmel (pseudonimo: Henri Delafosse)

Traduzione in italiano di Giuseppe Ferri


INTRODUZIONE


Quasi mezzo secolo fa, Renan (L'Eglise chrétienne, pag. 58) definì il quarto Vangelo «uno scritto di nessun valore se si tratta di sapere come Gesù parlò, ma superiore ai Vangeli sinottici in quel che concerne l'ordine dei fatti». La prima parte di questo verdetto è oggi generalmente adottata, ma della sua seconda parte non resta più che un ricordo. Le inchieste numerose e rigorose alle quali è stato sottoposto il quarto Vangelo da venticinque o trent'anni stabiliscono che questo libro è stato composto al di fuori di ogni preoccupazione storica. Nelle righe che seguono si suppongono acquisiti i risultati della critica. Si considera come provato che il quarto Vangelo è una lunga finzione. E si parte da questo fatto per tentare di rischiarare le sue origini. [1]

NOTE

[1] Opere di lingua francese da consultare: Renan, L'Eglise chrétienne, pag. 45-62; J. Réville, Le quatrième Evangile, 1901; Loisy, Le quatrième évangile, di cui una prima edizione è apparsa nel 1905 e di cui la seconda è del 1921; M. Goguel, Introduction au Nouveau Testament, tomo II, Parigi, 1924. Si troveranno in questi ultimi libri tutta la letteratura del soggetto. Tra i commentari antichi io mi limito a segnalare quello di Grotius, Opera, II, 473-574, Londra, 1679.
 
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CAT_IMG Posted on 24/11/2019, 19:48
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PARTE PRIMA

PRIMA REDAZIONE DEL QUARTO VANGELO



1. — Il Cristo giovanneo rinnega Maria.


Il Cristo giovanneo inaugura la sua vita pubblica assistendo alle nozze di Cana (2:1-12). Nel corso del pasto, Maria che, a sua volta, è presente, lo avverte che il vino manca. E Gesù risponde: «Che c'è fra me e te, donna?» Da sempre questa strana risposta ha turbato la fede dei credenti. Ci si domanda come un Dio incarnato abbia potuto parlare così a colei a cui doveva la sua natura umana. Diverse spiegazioni sono state proposte. Ma ci si è reso conto che quelle spiegazioni artificiali hanno portato tutti a confondere la domanda o a sostituirla. Tuttavia, la fede non poteva mancare di avere l'ultima parola. Qui, come altrove, ha trionfato sulla difficoltà. Ma non ha ottenuto il suo trionfo se non rifugiandosi nel mistero. Ci si è chiusi gli occhi; si ha rinunciato a comprendere. Si è detto che Dio aveva avuto le sue ragioni per parlare come ha fatto. E, quelle ragioni, le si ha adorate senza avere la pretesa di conoscerle.

I credenti non sono i soli che la risposta del Cristo ha sconcertato. I critici, anche loro, di fronte ad essa sono stati colpiti da uno stupore che non hanno potuto dissimulare. Senza dubbio non erano più alle prese con un Dio realmente fatto uomo; non avevano a che fare se non con una divinità fittizia. Ma era necessario per loro giustificare quella finzione. Dovevano spiegare come uno scrittore comincia a presentarci il Verbo incarnato, poi gli mette sulle labbra delle parole di rinnegamento contro sua madre. Non si sono affatto messi in cerca di nuove soluzioni: hanno adottato le spiegazioni ricevute dai credenti, spiegazioni di cui la principale consiste nel dire che, nel Cristo, la divinità è indipendente da Maria e che l'espressione: «Cosa c'è in comune tra me e te?» proclama questa indipendenza.

Così i critici non hanno trovato nulla di meglio rispetto ai credenti per rendere conto della risposta del Cristo giovanneo a Maria. Ma, mentre i credenti, messi in presenza di una soluzione che sanno insufficiente, rinunciano alla comprensione e si rifugiano nel mistero, i critici non hanno questa comoda risorsa. Loro non possono nascondersi dietro i consigli insondabili della Provvidenza; non hanno il diritto di chiudere gli occhi; sono tenuti ad averli sempre ben aperti e a denunciare senza pietà tutto ciò che non è che un escamotage. Rileggiamo il celebre testo. Vi constatiamo tre cose: il pensiero che vi è espresso, la svolta data a questo pensiero, l'assenza della parola «madre» al posto della quale si presenta la parola «donna». Il pensiero fondamentale è che il Cristo non è nulla per Maria, che Maria non è nulla per il Cristo. La piega interrogativa data alla frase è il procedimento al quale si ricorre quando si lancia una sfida; qui ha il senso di una provocazione; e, di conseguenza, al posto di attenuare il pensiero, lo accentua. Liberata dall'interrogazione che la circonda, la replica significa: «Io non ti devo niente», oppure «non vi è niente in comune tra noi». Con l'interrogazione il senso è: «Prova dunque, se tu lo puoi, che io ti devo qualcosa, che vi sia qualcosa in comune tra noi!» E, per completare la sfida, Maria è apostrofata col nome di donna che qui significa: «Ti si considera come mia madre, ma tu sai bene che tu non lo sei». Ho detto che questa parola completa la sfida. È essa, in effetti, che chiude la replica. Nel terminarla la motiva; e il senso della frase è questo: «Tu passi per essere mia madre, e il mio storico stesso ti dà questo nome per conformarsi all'opinione comune («la madre di Gesù era là»); ma, in realtà, tu non sei mia madre; io non ti devo niente».

Mi si dirà che mi spingo ad un'enormità. Rispondo che in materia teologica le sole idee esagerate sono quelle che non possono essere situate nella Storia. Cercherò più tardi se la mia interpretazione è sprovvista di attestazione durante il periodo delle origini cristiane. Per il momento io seguo il mio testo senza preoccuparmi di sapere dove esso mi porta. Io lo seguo, vale a dire che io marcio dietro di lui, e mi lascio dirigere da lui, e mi astengo dal dirigere me stesso al capriccio della mia fantasia. La replica: «Cosa c'è in comune?...» contiene una negazione formale, eclatante, della maternità divina di Maria. Devo concludere, a meno di indizi contrari, che questa negazione esprime il pensiero dell'autore.

Dove sono quelli indizi? Accade a volte agli oratori di venir traditi dall'ebbrezza delle parole, e di dire quello che non volevano dire. Ma noi abbiamo a che fare qui con un pezzo di stile studiato a lungo; noi siamo di fronte ad un'improvvisazione oratoria. Vediamo anche tutti i giorni le menti incolte e i vecchi esausti smarrirsi in un vocabolario di cui non hanno mai avuto o di cui hanno perduto la padronanza. Ma l'autore del quarto Vangelo sa rivestire le idee più elevate delle loro sfumature più delicate. Come credere, che volendo insegnare una dottrina, egli abbia insegnato un'altra del tutto diversa da quella che aveva in testa? Infatti è a questo risultato che si arriva non appena ci si diparte dalla lettera del testo. Il Cristo giovanneo, si dice, ci insegna a Cana che Maria non partecipa per nulla alla sua divinità così come al suo potere taumaturgico. Sia. Ma, per esprimere questa verità così semplice, egli si è servito di un gioco di parole che ha imbrogliato tutto; non ha saputo dire quel che voleva dire.

Altri ci assicurano che il rimprovero del Cristo si rivolge non a Maria, ma alla sinagoga, all'antica alleanza. Acconsento. Ma mi si concederà che l'autore è stato ben infelice nella scelta delle sue espressioni, e che il bifolco più grossolano sarebbe stato meno maldestro. E poi, se voleva porre sulle labbra del Cristo delle parole di condanna contro la sinagoga, non poteva farlo senza incaricare Maria di rappresentare in quel momento addirittura la sinagoga? La decenza più elementare non gli impedì di far entrare la madre del Cristo in questo odioso simbolismo? D'altra parte, nessun uomo è stato abbastanza pazzo da domandarsi se il Cristo dovesse la sua divinità o la sua virtù taumaturgica a Maria. Nessuno ha avuto bisogno di fissarsi su questo punto. E il Cristo giovanneo ha proclamato il più insipido dei truismi se, come pretendono i critici così come i credenti, ha dichiarato di non tenere da Maria la sua divinità e i suoi poteri soprannaturali. In poche parole, l'espressione «Cosa vi è in comune?...», come la si comprende comunemente, oltre ad offendere le leggi del linguaggio, contiene più di un'indecenza e di un'insopportabile banalità.


Edited by Haviland Tuf - 25/11/2019, 10:23
 
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2. — Il Cristo giovanneo rivela Dio agli uomini.


Il Cristo giovanneo è venuto «per rendere testimonianza alla verità» (18:37), per far «conoscere la verità» (8:32). La verità che egli rivela «libera» gli uomini (8:32), li fa «passare dalla morte alla vita» (5:24), li preserva per sempre dalla morte (8:51). E questa verità si riassume nella conoscenza di colui che è «il solo vero Dio», poiché la conoscenza di Dio procura e garantisce la vita eterna (17:3, 5:24). Il Cristo giovanneo è venuto a rivelare Dio, il «vero Dio», agli uomini che, prima di lui, non lo conoscevano. Infatti il vero Dio era sconosciuto a tutti gli uomini fino al giorno in cui il Figlio l'ha rivelato: «Nessuno ha mai visto Dio; il Figlio unico, che è nel seno del Padre, l'ha fatto conoscere» (1:18; si veda anche 6:46).

Gli stessi ebrei non fanno eccezione, alla legge generale. Il Cristo giovanneo dice loro che essi non conoscevano Dio: «Colui che mi ha mandato, voi non lo conoscete. Io lo conosco» (7:29). «Voi non conoscete né me né il Padre mio. Se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio» (8:19); «Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: È nostro Dio!, e non lo conoscete» (8:54-55); «Tutte queste cose ve le faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato» (15:21, il seguito del testo prova che gli ebrei sono specificati qui: (verso 25) «Questo perché si adempisse la parola scritta nella loro legge...». E queste ripetute asserzioni non mancano di sorprendere. Cosa fa dunque l'autore del testo: «Dio è ben conosciuto in Giuda» (Salmo 76:1)? Che cosa fa dei testi nei quali il salmista proclama la fedeltà di Israele a Dio (Salmo 44:18, 22): «Non siamo stati infedeli al tuo patto; Il nostro cuore non si è rivolto indietro… Per causa tua siamo ogni giorno messi a morte». Dal ritorno dall'esilio il popolo ebraico si era allontanato dagli idoli; adorava Dio; desiderava portare tutti i pagani ad adorare Dio (Salmo 117:1): «Lodate il Signore, voi nazioni tutte; Celebratelo, voi popoli tutti». Soprattutto temeva di vedere i pagani rivolgersi a Dio con derisione (Salmo 115:2): «Perché direbbero le nazioni: Dov'è ora il loro Dio?». Il Cristo giovanneo si pone in contrasto contro i numerosi testi che testimoniano di questa situazione. Egli è in opposizione con l'Antico Testamento.
 
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3. — Il Cristo giovanneo respinge l'Antico Testamento.


Ma egli non si cura dell'Antico Testamento. Oppure, se vi fa allusione, è per respingerlo con disprezzo. Nel corso delle sue discussioni con gli ebrei, egli adduce a volte a suo favore i testi dell'Antico Testamento. Ed ecco la sua maniera di approcciare questi testi: «Nella vostra legge sta scritto che la testimonianza di due uomini è vera» (8:17). L'ordinanza alla quale si riferisce qui è inscritta in Deuteronomio 19:15; è stata dettata da Dio stesso a Mosè. La sua origine è sacra. Ma non per il Cristo giovanneo che dice sdegnosamente: «La vostra legge». Si obietterà il fatto che la legislazione mosaica aveva un carattere transitorio, che il sacrificio del martirio arrivò a colpirla di caducità e che d'altronde gli ebrei soli vi erano sottomessi? Sia. Ma ascoltiamo di nuovo il Cristo giovanneo. Dice (10:34): «Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi?»; e (15:25): «Ma questo è accaduto affinché si adempisse la parola scritta nella loro legge: Mi hanno odiato senza motivo». In questi due punti il suo disdegno non si rivolge più a delle prescrizioni rituali o disciplinari; attiene a degli oracoli emanati dai salmi. L'autore del quarto Vangelo cita i salmi come noi citiamo i testi dell'Iliade o dell'Eneide di cui sfruttiamo le massime senza crederci obbligati alla loro considerazione col minimo sentimento religioso. Al di fuori del punto di vista letterario egli ignora i salmi. E poiché i salmi e la legislazione mosaica costituiscono la parte essenziale dell'Antico Testamento, egli ignora l'Antico Testamento.

Le constatazioni appena fatte ci danno la chiave di 5:36-37: «Il Padre, che mi ha mandato, ha reso testimonianza di me. Ma voi non avete mai udito la sua voce, né avete visto il suo volto». Si dice spesso che vi sia qui un'allusione alle profezie dell'Antico Testamento per le quali il Padre avrebbe reso testimonianza a suo Figlio. Dove si conclude che quelle stesse profezie sono la «voce» del Padre, voce che ha risuonato nelle orecchie degli ebrei ma che gli ebrei hanno rifiutato di ascoltare, più esattamente alla quale hanno rifiutato di credere. Errore. Se la voce del Padre si è fatta sentire agli ebrei, ma costoro non l'hanno ascoltata nel senso che si sono rifiutati di credervi, si dovrà dire anche che il volto del Padre si è mostrato agli ebrei ma che costoro si sono rifiutati di vederlo. Ora il volto del Padre non si è mai mostrato a nessuno e, secondo quello che si legge altrove, in 1:18: «Dio nessuno l'ha mai visto». Gli ebrei non hanno visto affatto il Padre, non perché si sono rifiutati di vederlo, ma perché non sono mai stati in grado di contemplarlo. La voce del Padre, neanche lei, non ha mai risuonato nel mondo. E gli ebrei non l'hanno udita, non perché si sono rifiutati di credervi, ma perché non sono stati in grado di percepirne gli accenti. Il Padre non ha mai parlato. La testimonianza che ha reso al suo Figlio non consiste quindi nelle profezie dell'Antico Testamento; egli deve essere cercato nelle opere che ha dato a suo Figlio da compiere. L'Antico Testamento è pieno degli oracoli che Dio rende per bocca dei profeti, delle teofanie accordate ai patriarchi e a Mosè. Oracoli e teofanie non sono vie per il Cristo giovanneo: «Voi non avete mai udito la sua voce, né avete visto il suo volto». Egualmente non è una via l'ascensione del profeta Elia in cielo a dispetto dei libri dei Re (2 Re 2:1, 11), poiché leggiamo (3:13) «Nessuno è salito in cielo, se non colui che è disceso dal cielo».
 
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4. — Il Cristo giovanneo respinge Mosè e i profeti.


Ma il Cristo giovanneo non ha ancora dato la sua misura. Continuiamo a raccogliere i suoi oracoli. Dice nell'allegoria del buon pastore (10:8) «Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti». Dice «tutti»; non esclude nessuno, nemmeno i profeti, nemmeno Mosè. Spaventati da questo atto di accusa, i Padri, gli apologeti, i critici hanno fatto ciò che fanno i pompieri in presenza di un incendio. Si sono sforzati di isolarlo.

Occorreva assolutamente preservare dai suoi attacchi Mosè e i profeti dell'Antico Testamento. Ma come? Agostino (in Jo. Tr. 45:8) spiegò che la qualifica di ladro e di brigante si applicava a coloro soltanto che erano venuti «al di fuori» del Cristo. Ora i profeti avevano esercitato il loro ministero non al di fuori del Cristo, ma «d'accordo» con lui. I profeti non erano dunque dei briganti. Devo dire che questa apologia così fantasiosa non ha convinto i critici. Pure loro hanno cercato qualcos'altro. Hanno cercato e hanno trovato. Cosa? Hanno scoperto che la parola «tutti» significa «alcuni». Poiché è là che finiscono i critici quando ci riferiscono che il Cristo giovanneo ha in vista i dottori ebrei del suo tempo oppure i falsi messia (i quali hanno cominciato ad apparire intorno all'anno 50 non prima). Così, nell'allegoria del buon pastore, l'autore del quarto Vangelo ha in vista alcuni di coloro che hanno preceduto Gesù (in realtà i suoi contemporanei o perfino degli uomini venuti dopo di lui). Ma se questo è quello che ha voluto dire, perché si è servito della parola «tutti»? Perché non ha impiegato la parola «alcuni»? Mi si arresta e mi si avvisa che, ostinandomi a prendere alla lettera il testo 10:8, io mi perdo nel dominio della fantasia. Esaminerò questo punto più tardi. Per il momento io constato che, nell'interpretazione di 10:8, i critici replicano, sotto una nuova forma, le fantasie di Agostino.
 
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5. — Il Cristo giovanneo combatte il principe di questo mondo.


Il Cristo giovanneo condanna Mosè e i profeti. Sferra i suoi colpi più in alto; attacca il «principe di questo mondo», il «Diavolo». Egli è venuto sulla terra per rivelare Dio, il «solo vero Dio», agli uomini che non lo conoscevano. Ma è venuto anche per dare battaglia al Diavolo. «Il Figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo» leggiamo nella prima epistola (3:8). [1] Perfino prima che questa lotta sia terminata, veniamo informati sul suo esito. Il Diavolo andrà a far mettere a morte il Figlio di Dio che accetta la sua sorte; ma lui stesso verrà scacciato. «Ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori» (12:31); «il principe di questo mondo è stato giudicato» (16:11); «perché viene il principe di questo mondo. Egli non può nulla contro di me; ma così avviene affinché il mondo conosca che amo il Padre e opero come il Padre mi ha ordinato» (14:30).

Qual è il Diavolo nel quarto vangelo? Chi è lui? Chi è in rapporto a Dio e agli uomini? Considerato in sé stesso il Diavolo è maligno o piuttosto «il Maligno». Lo sappiamo dal vangelo laddove sentiamo il Cristo domandare a suo padre di «custodire dal Maligno» i suoi discepoli (17:15). Lo sappiamo soprattutto dalla prima epistola: «Avete vinto il Maligno» (2:13, 14); «Caino era dal Maligno» (3:12); «il Maligno non lo tocca» (il cristiano nato da Dio) (1 Giovanni 5:18). Essendo malvagio, egli pecca e mente: «Il Diavolo è peccatore fin dal principio» (1 Giovanni 3:8); «non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo» (Giovanni 8:44).

Riguardo a Dio, il Diavolo è «il Nemico», poiché tale è il senso della parola greca che designa il diavolo. Questa inimicizia ci è attestata dal Cristo quando ha detto che è venuto a distruggere le opere del Diavolo. È del resto inevitabile poiché Dio è buono e il Diavolo è malvagio.

Ciò che il Diavolo è in rapporto al mondo, il Cristo giovanneo ce lo insegna in due parole quando lo chiama «il principe di questo mondo». Il mondo è il suo regno, egli ne è il re. La stessa idea riappare sotto un'altra forma nel seguente testo della prima epistola (5:19) «Tutto il mondo giace sotto il potere del Maligno».

Padrone del mondo, il Diavolo è la fonte da cui emana ogni autorità politica. A Pilato che si vanta di potere a sua volontà metterlo a morte o liberarlo, il Cristo giovanneo risponde (19:11) «Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto». Poi aggiunge: «Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande». Questa risposta contiene due asserzioni. La prima ci insegna che Pilato detiene la sua autorità «dall'alto», vale a dire da un essere superiore agli uomini, da un essere di cui egli è il luogotenente e a cui deve obbedienza. Secondo la seconda asserzione è questo essere superiore, questo essere «dall'alto» che ha consegnato il Cristo a Pilato suo luogotenente; e «per questo» la responsabilità di Pilato nella morte di Cristo è mitigata. Il grande colpevole è l'essere «dall'alto», che ha messo Pilato suo delegato Pilato in una situazione inestricabile. Questo essere «dall'alto» che si è accanito contro il Cristo al punto di consegnarlo a Pilato, è «il Nemico», il Diavolo. Egli ci appare qui come il sovrano detentore dell'autorità politica di cui ha dato una parte al governatore romano. E ciò è nella logica delle cose, poiché «tutto il mondo giace sotto il potere del Maligno» e questo Maligno è il principe di questo mondo.

Il Figlio di Dio, che è venuto a combattere il Diavolo, deve necessariamente strappargli l'impero del mondo. È questo programma che formula nel testo 12:31, citato più sopra: «Il principe di questo mondo sarà gettato fuori». E è ancora quel pensiero ad essere sullo sfondo dei seguenti testi (3:17) «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui»; (12:47) «Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo». Il Cristo giovanneo salva il mondo liberandolo dal giogo del Diavolo, e realizza questa emancipazione cacciando il Diavolo «fuori».

Tuttavia questo risultato non deve essere ottenuto che nell'avvenire. Al momento in cui il Cristo è sulla terra, il mondo contaminato dal suo padrone è malvagio. Colui che è venuto per vincere il Diavolo deve cominciare col vincere il mondo; da cui le parole (16:33): «Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo». Il trionfo del Cristo sul mondo è progressivo. Consiste nell'espellere a poco a poco il Diavolo in modo di restringere il dominio del suo impero. E questa espulsione si realizza per mezzo della creazione dei figli di Dio. Si vedrà più oltre (pag. 24) come nascevano i figli di Dio. Limitiamoci qui a constatare che i figli di Dio sono al riparo dagli attacchi del Diavolo: «Chiunque è nato da Dio non pecca: chi è nato da Dio preserva se stesso e il maligno non lo tocca» (1 Giovanni 5:18). Da cui segue che, nella misura in cui il mondo è la proprietà del Diavolo, i figli di Dio non sono del mondo: «Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo» (1 Giovanni 5:4); «Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo ...a causa di ciò il mondo vi odia» (15:19, vedi 17:14, 16).

Ma i figli di Dio, almeno durante i giorni della vita terrena di Cristo, non formano che un piccolissimo gruppo. Quale è la condizione degli altri uomini, vale a dire dell'immensa maggioranza, dell'universalità quasi intera del genere umano? Il Cristo giovanneo ci insegna questo nelle parole che seguono (8:23-44): «Voi siete dal basso, io sono dall'alto. Voi siete di questo mondo; io non sono di questo mondo ... Io dico quel che ho visto presso il Padre mio; e voi pure fate le cose che avete udite dal padre vostro. Se Dio fosse vostro Padre, mi amereste, ... voi siete del Diavolo e volete fare i desideri del padre vostro».

Gli ebrei sono «del diavolo»; il Diavolo è loro «padre»; loro sono i suoi figli. Da dove proviene questa terribile macchia? Dal fatto che essi sono «dal basso», dal fatto che sono «del mondo». Se fossero «dall'alto», se «non fossero del mondo», sarebbero i figli di Dio; ma essendo dal basso e del mondo essi sono necessariamente i figli del Diavolo.

Resta da sapere perché si è figlio di Dio. Sono i figli di Dio, ci dicono i testi, coloro che hanno ricevuto la Luce venuta nel mondo (1:9-13), vale a dire che hanno creduto al Figlio di Dio e che, per questo motivo, hanno la vita eterna (6:27a, 29, 35-40). D'altra parte, si deve credere al Figlio a causa dei miracoli che fa (5:36, 10:25, 37-38, 14:11); e pertanto vengono al Figlio e credono in lui coloro soli che il Padre ha attirato (6:44) e ha dato lui stesso al Figlio (6:37; 10:29; 17:6). Non cerchiamo come questa attrazione del Padre si concili con l'obbligo che hanno gli uomini di credere ai miracoli; supponiamo, al contrario, il problema risolto (il nostro autore si imbroglia qui, ma i teologi si sono fino ai nostri giorni imbrogliati quanto lui) e consideriamo i figli di Dio. Loro, non sono «del mondo» (15:19, 17:14); hanno ricevuto la nascita «dall'alto» di cui parla Gesù nella sua discussione con Nicodemo (3:3-7); sono «generati da Dio» (1:13; 1 Giovanni 2:29; 3:9, si veda più oltre, pag. 28); sono «di Dio» (8:47; 1 Giovanni 4:6; 5:19). Ma, per ricevere quei privilegi, devono prima di tutto credere al Figlio e, per credere al Figlio, hanno dovuto essere attratti dal Padre. Come sarebbero stati attratti dal Padre e come, una volta attratti, avrebbero creduto, se essi non fossero già esistiti? Essi esistevano quindi. La nascita dall'alto che li ha resi figli di Dio, non è venuta che in secondo luogo. Prima di ottenerla avevano ricevuto una prima nascita che aveva reso loro degli uomini. Dapprima uomini, in seguito figli di Dio: ecco la successione.

Soffermiamoci sulla prima nascita, su quella che dà agli uomini la condizione umana. Se fosse dall'alto, essa li avrebbe costituiti figli di Dio, cosa che non fa. Siamo così costretti a concludere che la prima nascita è dal basso. D'altronde non staremmo facendo un'illusione che non potremmo fare, poiché il testo 1:12, 13 è là ad opporre la nascita dei figli di Dio a quella il cui principio è nel sangue, nella volontà della carne e nella volontà dell'uomo. Quella nascita realizzata dalla carne e dal sangue e alla quale presiede la volontà umana, è precisamente quella che ci fa entrare nel mondo, che ci introduce nella grande famiglia umana. Ed è quella nascita che 1:13 oppone alla nascita dei figli di Dio, a quella che, in 3:3, 7, è chiamata la nascita dall'alto.

Concludiamo dunque che la prima nascita è dal basso. E, siccome quel che è dal basso proviene dal Diavolo, dobbiamo rassegnarci a quell'altra conclusione che la prima nascita viene dal Diavolo. E dà là che deve arrivare. Gli ebrei a cui il Cristo giovanneo rimprovera di essere i figli del Diavolo, lo sono a causa della loro condizione umana. L'uomo, per la costituzione stessa della sua natura, ha per padre il Diavolo. Cos'è che manca al «Diavolo» giovanneo, al «principe di questo mondo», al «Maligno» del Quarto vangelo per essere l'autore del genere umano? Cos'è che lo separa dal creatore dell'universo, dall'autore dell'opera di sei giorni? Noi assistiamo a un duello tra il Dio della creazione — che è anche il Dio di Mosè — e un altro Dio rappresentato dal Cristo. Il Creatore, da cui Pilato detiene la sua autorità, consegnerà al suo delegato il Figlio di Dio con l'ordine di metterlo a morte. Ucciderà il Cristo, siccome egli uccide tutti gli uomini, poiché è «omicida fin da principio» (8:44). Ma, malgrado questa vittoria effimera, sarà vinto. «Voi siete da Dio, figli, e avete vinto loro (gli agenti del diavolo) perché Colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo» (1 Giovanni 4:4).

NOTE

[1] Le tre epistole giovannee (1 Giovanni, 2 Giovanni, 3 Giovanni) sono inseparabili dal quarto vangelo con cui condividono un'origine comune e di cui completano la teologia.
 
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6. — Il Cristo giovanneo respinge la resurrezione della carne.


Il Cristo giovanneo rivela agli uomini Dio, il «solo vero Dio», perché la conoscenza di Dio è, per coloro che la possiedono, un principio di vita eterna. Egli espelle il Dio della creazione, perché questo essere perverso fa pesare sugli uomini la legge crudele della morte seguita dalla condanna all'inferno. Insomma lo scopo finale della venuta del Cristo è di strappare gli uomini alla morte, di procurare loro la vita eterna. Tale è la dottrina che emerge dai testi seguenti: «Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo Figlio unico, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna» (3:16); «Colui che crede al Figlio ha la vita eterna» (3:16); «Chiunque crede, ha vita eterna ...Io sono il pane che è disceso dal cielo affinché chi ne mangia non muoia ... se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (6:29-58); «Se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte» (8:51).

Secondo quale regola questo beneficio della vita eterna è dispensato? Lo si possiede sin da ora? O non abbiamo attualmente che la promessa di questo bene il cui possesso è rimandato ad una data ulteriore? Non si può ricavare nulla dal testo 17:3, dove leggiamo: «Questa è la vita eterna: che conoscano te». Ma i testi seguenti sono decisivi: «Colui che ... crede a colui che mi ha mandato, ha vita eterna; ... è passato dalla morte alla vita» (5:24); «Noi siamo passati dalla morte alla vita» (1 Giovanni 3:14). La morte è lo stato dell'anima che ignora Dio, il Dio di cui il Cristo è venuto a rivelare l'esistenza. Questa morte cessa e fa posto alla vita non appena l'anima acquisisce la conoscenza di Dio, oppure, ciò che è la stessa cosa, la fede nel Figlio. Il cristiano possiede da ora la vita eterna: «Vi ho scritto queste cose perché sappiate che avete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio» (1 Giovanni 5:13). Egli era morto, egli vive. E la vita che possiede è una vita reale prodotta per una autentica generazione. Soltanto quella generazione non ha nulla in comune con quella che ci ha introdotto in questo mondo. È «dall'alto» (3:3); è «da Dio» (1:13, essi sono «nati da Dio»); è prodotta dal «seme di Dio» (1 Giovanni 3:9) «Il seme di Dio dimora» nel cristiano. D'ora in poi il cristiano è il figlio di Dio. Tuttavia il suo privilegio, per il momento è nascosto, non è manifestato (1 Giovanni 3:2): «Noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato»).

Poiché la resurrezione è il passaggio dalla morte alla vita, il cristiano, da ora, è risorto. La resurrezione è un fatto compiuto in lui; ma questa resurrezione è di ordine spirituale. L'autore del quarto Vangelo respinge il dogma ebraico della resurrezione dei corpi; gli sostituisce la resurrezione delle anime che ha il suo principio nella conoscenza di Dio.



7. — Il Cristo giovanneo è un essere spirituale.


Durante la festa dei Tabernacoli gli ebrei cercano di arrestare Gesù per farlo morire. Ma, dice l'evangelista (7:30) «Nessuno gli mise le mani addosso, perché la sua ora non era ancora venuta». Dopo un intervallo di alcuni giorni, un secondo tentativo di arresto fallisce allo stesso modo (7:44). Altre due volte (8:59; 10:31) Gesù sfugge, senza che si sappia come, al supplizio della lapidazione. Alcuni giorni prima della pasqua, delle nuove misure prese per arrestarlo non hanno alcun seguito (11:57, 12:36). Il Cristo giovanneo non è sottomesso alle leggi ordinarie della fisica.
La legge della sofferenza non sembra neppure attenderlo. Alcune ore prima dell'agonia del Calvario ne parla con degli accenti lirici: «Padre, l'ora è venuta; glorifica tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te» (17:1). Dall'alto della croce, egli detta con calma le sue ultime istruzioni al suo discepolo prediletto e a Maria che egli evita di chiamare sua madre (19:27). Aggiungiamo che il nostro regime fisiologico gli è estraneo. Ai discepoli che lo invitano a mangiare risponde (4:32, 34) «Io ho un cibo da mangiare che voi non conoscete... Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato, e compiere la sua opera». Muore, ma soltanto perché lo vuole e quando lo vuole. Nessuno gli toglie la vita (10:18); lo stesso principe di questo mondo non ha alcuna presa su di lui (14:30). Muore unicamente per obbedire all'ordine di suo Padre (14:31). Egli non rende lo spirito se non dopo aver constatato che la sua missione è compiuta (19:28, 30).
Il Cristo giovanneo non ha che le apparenze del corpo umano. E si comprende ora perché dice a Maria: «Che c'è fra me e te, donna»; perché dice agli ebrei: «Voi siete dal basso, io sono dall'alto; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo»; perché l'autore del vangelo combatte con discrezione la credenza comune dell'origine davidica di Cristo e della leggenda di Betlemme (7:42); perché non menziona l'immacolata concezione. Il Cristo giovanneo non deve nulla a Davide, non deve nulla a Maria. Egli è venuto direttamente dal cielo nella Galilea senza passare per Betlemme, senza passare per Nazaret.
 
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8. — Esposizione della dottrina marcionita.


Marcione, nato intorno all'anno 100, a Sinope sulle rive del Ponto Eusino (oggi provincia turca di Anatolia) esercitò qualche tempo il mestiere di marinaio (Tertulliano si compiace di dargli il nome di pilota). Ma rinunciò presto al mare e concentrò la sua attenzione sulla religione cristiana in cui probabilmente era allevato fin dalla sua infanzia. [1]

Verso l'anno 130 predicò, con un successo in continua crescita, dapprima nell'Asia poi a Roma, dove arrivò intorno al 138, una teologia di cui doveva il germe a Cerdone e il cui l'obiettivo era di risolvere il problema del male. Attingo da Tertulliano, il cui testo intitolato Contro Marcione è la nostra principale fonte di informazione, l'esposizione del sistema marcionita che si leggerà. [2]

  1. Il problema del male non si può risolvere se non si ammettono due Dèi, l'uno malvagio, l'altro buono. [3]


  2. Il Dio malvagio è il Dio creatore, vale a dire colui che ha fatto il mondo visibile. Questo Dio si vanta lui stesso, in Isaia (45:7) di essere l'autore del male. È, in effetti, crudele, bellicoso. È su di lui che incombe la responsabilità della caduta dell'uomo ebbe luogo dall'origine. Più tardi, nella legge mosaica, che è la sua opera, si è mostrato barbaro e capriccioso. D'altronde, se il Dio creatore non ha previsto il male che esiste nel mondo creato da lui, è ignorante; se, avendolo previsto, non ha voluto impedirlo, è malvagio; se, volendo impedirlo, non ha potuto, è impotente. [4]


  3. Il Dio creatore, che è l'autore della legge mosaica, è anche l'autore dei libri dell'Antico Testamento. I profeti sono i suoi agenti; è lui che parla per loro bocca. [5]


  4. Il Dio creatore ha fatto annunciare dai suoi profeti che egli avrebbe inviato il suo Cristo. Ma questo Cristo, di cui i libri dell'Antico Testamento predicono la venuta, è un personaggio politico oltre che religioso. Ha per missione di restaurare il trono di Davide, di rendere al popolo ebraico la sua potenza di un tempo. Non ha nulla in comune con Gesù. D'altronde, all'epoca di Marcione, ossia più di cento anni dopo la venuta di Gesù sulla terra, il Cristo del Dio creatore non è ancora arrivato. [6]


  5. Il Dio buono è l'autore degli esseri invisibili, di quelli soltanto. Non avendo prodotto né il mondo visibile né l'uomo, egli era completamente sconosciuto in questo mondo fino al giorno in cui Gesù ha rivelato la sua esistenza. Lo stesso Dio malvagio non lo conosceva. [7]


  6. Il Dio buono è dolce, tenero, clemente, compassionevole, incapace di adirarsi. Questo Dio, vedendo l'uomo oppresso dal Creatore che si sforzava di renderlo miserabile, si è interessato a lui e ha deciso di salvarlo. Di salvarlo, ovvero di strapparlo dal potere del Dio che lo aveva creato, di liberarlo. [8]


  7. Per realizzare il suo progetto, il Dio buono, sotto il regno dell'imperatore Tiberio, ha abbandonato il suo cielo, il terzo cielo; ha attraversato il cielo del Creatore situato al di sotto del suo; è venuto sulla terra nella Galilea e si è messo immediatamente all'opera. Immediatamente: ed ecco perché. Non aveva che l'apparenza del corpo umano. In realtà egli era uno Spirito, uno Spirito salvatore. Non ha ricevuto nulla da Maria, non è stato generato, non ha avuto bisogno di crescere. Ma è proprio il Dio buono in persona che è venuto sulla terra ? Non si è limitato a delegare qualcuno? È lui stesso che si è manifestato a noi sotto l'apparenza di un corpo umano e che è chiamato il Cristo. Il Cristo è quindi il Dio buono rivestito di un involucro etereo che lo rende visibile. (È quell'involucro etereo, quell'apparenza del corpo umano che si designa figlio di Dio e chiama Dio suo padre). [9]


  8. Venuto sulla terra per liberare gli uomini che gemevano sotto il giogo crudele del Dio creatore, il Dio buono non poteva lasciar sussistere la legge mosaica che incarnava in qualche sorta la barbarie del Dio malvagio. D'altra parte non poteva trattenersi dal rivelarsi agli uomini, come loro salvatore. Ha dunque abolito la legge e, con la legge, i profeti. [10] In più, si è fatto conoscere agli uomini. In quanto Figlio egli ha rivelato il Padre; in quanto Padre egli ha rivelato il Figlio, secondo ciò che ha detto lui stesso: «nessuno sa chi è il Figlio, se non il Padre; né chi è il Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo». [11]


  9. Il Creatore, vedendo il Cristo operare contro di lui, decretò la sua morte. E, per meglio appagare l'odio che questo rivale gli inspirava, tentò di infliggergli il supplizio che la sua legge, la legge mosaica, riservava ai maledetti, vale a dire il supplizio della croce. Il Cristo fu quindi crocifisso dalle forze e dalle potenze del Creatore; morì su una croce (Tertulliano nota che la morte del Cristo marcionita non fu che apparente poiché il suo corpo non era che un fantasma; ma i marcioniti parlavano della crocifissione e della morte del Cristo come di fenomeni realmente realizzati). [12]


  10. Il Cristo è morto; ma egli ha salvato gli uomini nel senso che li ha liberati dal giogo del Creatore. Più esattamente ha salvato le anime, aspettandosi che la carne è destinata a perire. La resurrezione, intesa nel senso di un ritorno della carne alla vita che avrebbe luogo alla fine del mondo, è un'illusione. Tuttavia esiste per l'anima una resurrezione spirituale che avviene tutti i giorni. Quella resurrezione spirituale si produce quando l'anima passa dall'errore alla verità, ovvero quando si stacca dal Dio creatore per donarsi al Dio buono la cui esistenza le è stata rivelata dal Cristo. Quella conversione è, in effetti, il passaggio dalla morte alla vita. [13]


  11. Il Dio buono non punisce i colpevoli, egli non li giudica nemmeno. Il suo giudizio si limita, in effetti, a dichiarare quel che è male. Il Dio malvagio si fa temere, il Dio buono si fa amare. Il Dio buono non ha dunque un inferno. All'ultimo giorno, egli si accontenterà di scartare da lui i colpevoli che il Creatore raccoglierà in seguito nel suo inferno. [14]
Aggiungiamo che Marcione fu ammesso durante qualche tempo nella chiesa romana, ma che il clero romano lo cacciò nel 144. [15]

NOTE

[1] Epifanio, Haer. 42:1, dice che Marcione era figlio di un vescovo; questa informazione che egli ricava senza dubbio da Ippolito, non può essere ammessa se non a condizione di prendere la parola «vescovo» in un senso molto generale.

[2] Giustino ha dedicato a Marcione che era suo contemporaneo alcune righe nella sua prima apologia, 16:5; 58:1. La stessa operazione si applica a Rodone di cui Eusebio ci dà un frammento nella sua Storia ecclesiastica 5:13, 3. Ireneo, che affronta spesso Marcione, dà una vista generale della sua dottrina in 1:27. Si veda anche il Panarion di Epifanio, Haer. 42. Il dialogo di Adamanzio, P. G. 11:1716 ci presenta un marcionismo molto evoluto.

[3] Adv. Marc. 1:2.

[4] Ibid. 2:14; 1:6; 2:5, 28, 15.

[5] Ibid. 2:19; 3:20; 4:16; 1:20. (Il Creatore ha annunciato per bocca di Isaia e per bocca di Osea che la legislazione mosaica sarebbe scomparsa un giorno).

[6] Ibid. 3:21, 24; 4:6.

[7] Ibid. 1:16, 8, 11; 2:28.

[8] Ibid. 1:6; 4:19, 26, 28; 1:11; 2:28; 1:14, 17, 23; 3:21.

[9] Ibid. 1:19. (Il Cristo marcionita non avendo affatto avuto un'infanzia è disceso dal cielo l'anno 29 della nostra era, proprio al momento in cui ha cominciato la sua vita pubblica); 1:14, 15; 4:7; 1:24; 3:10; 4:19, 21; 1:19, 14; 2:27. Il Cristo spirituale ha un principio di vita analoga all'anima umana che gli permette di provare, quando vuole e senza esservi sottomesso, i fenomeni psicologici e fisiologici che noi proviamo.

[10] Ibid. 1:19; 4:9, 40, 6. Si veda Ireneo 1:27, 2 (il Cristo marcionita è venuto a distruggere la legge e i profeti).

[11] Ibid. 1:2, 8, 19; 4:25.

[12] Ibid. 1:25, 11; 3:23; 4:21; 3:19 (qui Tertulliano rimprovera a Marcione di parlare della morte del Cristo di cui egli ha respinto la nascita); 3:8 (stesso rimprovero d'incoerenza. Ricaviamo il fatto che Marcione credeva alla morte del Cristo).

[13] Ibid. 1:24. Tertulliano menziona parecchie volte nel De resurrectione carnis (in particolare 19) la resurrezione spirituale ammessa da Marcione. Ireneo 2:31, 2, segnala la stessa dottrina tra gli gnostici.

[14] Ibid. 1:26, 27; 4:29; 1:27, 28.

[15] Tertulliano, Adv. Marc. 1:19; 4:4.
 
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9. — Origine del quarto Vangelo.


Fintanto che si attribuì il quarto Vangelo a Giovanni, immediato discepolo di Gesù, si collocò la composizione di questo testo al limite estremo del primo secolo. Non si osava risalire più in là per rispetto a Ireneo che presentava il quarto vangelo come una confutazione di Cerinto. D'altra parte, non si poteva farlo risalire più prima pena il rischio di dare alla vita di Giovanni una durata improbabile . Si attribuì allora un valore storico ai racconti del quarto Vangelo. Quando quell'illusione cadde, quando la natura fittizia del testo attribuito all'apostolo Giovanni fu stabilita, un problema del tutto nuovo si presentò davanti ai critici. Ci si domandò se un immediato discepolo di Gesù avesse potuto, attraverso un vivido racconto della sua vita, col pretesto di raccontare la sua vita, trasformare il suo maestro in un'astrazione. La risposta a questa domanda non si fece attendere. Ci si rese facilmente conto che la fantasia umana ha dei limiti invalicabili e che un testimone della vita di Gesù non avrebbe mai potuto scrivere una finzione come quella che si svolge sotto i nostri occhi nel quarto Vangelo. Storicità e origine giovannea sono due fatti intrecciati, inseparabili e di cui il primo trascina l'altro nella sua caduta. Storicamente, il quarto Vangelo avrebbe potuto essere dell'autore a cui la tradizione lo attribuisce. Ma, se non è che una libera composizione, non può, in alcun modo, derivare da un compagno di Gesù, e si è costretti a cercargli un'altra origine.

I critici hanno cercato. E se non sono riusciti a dire da chi il quarto Vangelo è stato scritto, credevano di essere riusciti a fissare approssimativamente la data della sua composizione. Secondo loro questo testo è stato composto da uno sconosciuto intorno all'anno 100; e, di conseguenza, la tradizione non si inganna che parzialmente sul suo conto. Essa ha torto di attribuirlo ad una penna apostolica; ma ha ragione di collocarlo alla fine del primo secolo. Su quale fondamento si appoggia quella decisione? Sulle epistole di Ignazio e di Policarpo. Questi scritti, si dice, hanno subito l'influenza della letteratura giovannea e gli sono nettamente posteriori; ora essi si collocano intorno all'anno 100; da cui segue che il quarto Vangelo esisteva verso l'anno 100. Questo ragionamento, come lo si vede, è interamente dipendente dalla data delle lettere di Ignazio e di Policarpo; se quella data dovesse rivelarsi sbagliata, esso cadrebbe per terra. Ora tutta la corrispondenza di Ignazio è una fabbricazione successiva al 150. Quanto alla lettera di Policarpo ai Filippesi, essa è — salvo alcune righe — autentica, ma non risale ad oltre la metà del secondo secolo. [1] Insomma, Policarpo e il falso Ignazio si limitano a dirci che il quarto Vangelo esisteva alla metà del secondo secolo. Tentiamo di trovare altrove delle informazioni meno vaghe.

Per trovarle è sufficiente mettersi alla scuola del Cristo giovanneo e raccogliere i suoi oracoli. «Che c'è fra me e te, donna?»; «Voi non conoscete né me né il Padre mio»; «Voi non avete mai udito la sua voce, né avete visto il suo volto»; «Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti»; «Il mondo giace sotto il potere del Maligno»; «Voi siete del vostro padre il Diavolo»; «Colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo»; «Chi ascolta la mia parola... è passato dalla morte alla vita»; «Io ho un cibo da mangiare che voi non conoscete». Di fronte a questi testi e ad altri ancora, credenti e critici chiudono gli occhi per non comprenderli. Ma è impossibile considerarli in superficie senza vederne la provenienza. L'autore del quarto Vangelo ha costruito il suo edificio con delle pietre prese dal cantiere di Marcione.

È ciò che appare soprattutto nel testo 5:24, dove il Cristo dichiara che colui che intende la sua parola «è passato dalla morte alla vita» e nel testo parallelo della prima epistola, 3:14, dove l'autore, utilizzando l'espressione del Cristo, dice: «Noi siamo passati dalla morte alla vita». Quei due oracoli ci mettono di fronte alla resurrezione spirituale, alla resurrezione che consiste nella conversione alla fede cristiana, essi riflettono la dottrina marcionita che, a sua volta (si veda più oltre, pag. 35), insegnava la resurrezione spirituale. Io so ciò che si obietterà. Si dirà che la dipendenza è da parte di Marcione che si è impadronito della formula giovannea e ne ha abusato facendola servire ai suoi fini. Quella spiegazione si urta contro il testo della seconda epistola a Timoteo, 2:17-18, nel quale i due eretici Imeneo e Fileto sono denunciati perché «si sono sviati dalla verità, predicando la menzogna che la resurrezione dei morti è già avvenuta» e, così facendo, «hanno sovvertito la fede di alcuni». I teologi dicono che quella denuncia deriva da Paolo stesso, che ha scritto la seconda epistola a Timoteo nell'anno 62, poco tempo prima di morire. I critici ritengono che l'autore che ha scritto ciò è un cattolico del 125 circa. Se Paolo stesso, nell'anno 62, ha proibito di presentare la resurrezione come un fatto già realizzato, come spiegare che intorno all'anno 100, l'autore del quarto Vangelo non abbia timore di impiegare una formula che aveva, a detta del grande apostolo, «sovvertito la fede di alcuni»? E se le epistole pastorali sono del 125 circa, come spiegare che, a quella data, un cattolico condanna, senza alcuna restrizione, senza alcuna distinzione, un'espressione che non avrebbe potuto mancare di leggere nel quarto Vangelo e nella prima epistola giovannea, poiché i critici collocano questi scritti intorno all'anno 100? Io mi soffermerò un giorno su questo problema più a lungo di quanto riesca a rischiarare qui. Mi limito, per il momento, a concludere che il redattore cattolico delle epistole pastorali (proverò che egli si colloca intorno al 150) denuncia proprio, sotto i nomi di Imeneo e di Fileto, gli scrittori marcioniti tra i quali si trovava l'autore del quarto Vangelo.

Il libro che si chiama il vangelo di San Giovanni, considerato nella sua prima stesura, è un prodotto marcionita. Non ha visto la luce del giorno se non dopo il primo terzo del secondo secolo. Quella data illumina il testo 5:43, nel quale il Cristo giovanneo, dopo aver rimproverato agli ebrei di non averlo accolto, lui che viene nel nome di suo Padre, aggiunge: «Se un altro verrà nel suo proprio nome, quello lo riceverete». Gli apologeti e i critici, che si ostinano a farlo risalire intorno all'anno 100, confessano qui francamente il loro imbarazzo e si riconoscono incapaci di identificare l'«altro» a cui gli ebrei dovevano fare un benvenuto favorevole. Ecco il senso dell'oracolo: «Voi rifiutate di accogliermi, io che sono venuto nel nome di mio Padre; ma, tra centotre anni, voi riceverete il ciarlatano Bar-Kochba che si arrogherà una missione celeste». Il Cristo giovanneo descrive ciò che accadde nell'anno 132 quando gli ebrei, condotti da Bar-Kochba, si sollevarono contro Roma. [2]

Il quarto Vangelo riflette le tesi di Marcione. In che modo, con uno stigma così originale, era riuscito a farsi accettare dalla Chiesa? Non si può rispondere a questa domanda se non con delle congetture. Ecco quel che si può ipotizzare.

Marcione fu scomunicato dal clero romano nel 144. La stessa misura era forse già stata presa contro di lui e i suoi seguaci dall'una o dall'altra delle chiese d'Asia nelle quali aveva soggiornato prima di venire a Roma. Altre chiese imitarono più tardi l'esempio che gli era dato loro. Intorno al 150 Marcione era un orrore negli ambienti cattolici; si concordava con Policarpo nel considerarlo il primogenito di Satana.

Ma sottolineiamo ciò che è accaduto a Roma. Marcione è arrivato nella città imperiale intorno al 138; non è che nel 144 che l'assemblea dei fedeli gli è stata interdetta. Durante sei anni ha potuto raccogliere dei discepoli, veicolare loro le sue idee e mantenere nondimeno il contatto con la Chiesa. Durante sei anni lui e i suoi discepoli hanno partecipato alle riunioni liturgiche senza allarmare il clero. Ciò non è stato reso possibile se non per una severa disciplina. Marcione impose a sé stesso e impose alla sua cerchia di amici una grande circospezione. Non esprimeva apertamente le sue idee se non là dove si sentiva maestro del suo uditorio. Soprattutto dove constatava del disprezzo egli diveniva riservato. Lasciava indovinare le sue tesi piuttosto di manifestarle. Metteva in pratica la massima (Matteo 7:6): «Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci».

È in questa atmosfera mentale che la prima stesura del quarto Vangelo è stata scritta in prossimità del 135 (l'allusione a Bar-Kochba si comprende meglio due o tre anni dopo la rivolta del 132, anziché otto o dieci anni più tardi). Il suo autore, discepolo di Marcione, aveva soggiornato a Gerusalemme e nella Palestina prima della guerra del 132 (ci si può immaginare un uomo come Giustino nato nella Palestina e, di conseguenza, familiarizzato con le usanze ebraiche come pure con la topografia della regione). Il nuovo vangelo era destinato a esporre, ponendo sulle labbra di Gesù, la buona dottrina, la dottrina di Marcione. La esponeva con una grande elevazione, ma con un'eguale cura di prevedere i pregiudizi correnti. Grazie alle formule ambigue che impiegava, grazie anche alle sue reticenze, il Cristo giovanneo restava per metà in luce e per metà in ombra. Diceva ai fedeli: «I vostri dottori hanno raffigurato per voi un ritratto tanto approssimativo quanto impreciso della mia persona». E delineava, sulla sua origine, sulla sua intima natura, delle spiegazioni che suscitavano la curiosità senza soddisfarla, e che domandavano loro stesse di essere completate in tempo opportuno da delle spiegazioni orali.

Il quarto Vangelo vide la luce del giorno in Asia (in quel periodo Marcione non era ancora venuto a Roma). La Chiesa dove esso apparve ammetteva alla sua liturgia i discepoli del Cristo spirituale di cui non conosceva che molto vagamente la dottrina. Quando il nuovo vangelo le fu presentato, non tentò di approfondirlo; si accontentò di ammirare la superficie edificante; il resto le sfuggì. Prese confidenza col libro che uno dei suoi figli aveva composto e ne autorizzò la lettura nelle sue assemblee. Altre chiese la imitarono. Intorno all'anno 140, il quarto Vangelo — più esattamente quel che esisteva allora di quel testo - godeva di autorità in alcune delle principali comunità dell'Oriente.

Dieci anni più tardi, Marcione e i suoi discepoli furono esecrati. Ma l'albero che avevano piantato nel giardino del Cristo aveva avuto il tempo di approfondire le sue radici. Restò. Il quarto Vangelo alimentava la fede e la pietà dei fedeli che non comprendevano i sottintesi; continuò ad esercitare la sua missione. Non apparteneva più al suo autore che, d'altronde, lo aveva lanciato sotto il velo dell'anonimato. La Chiesa, la grande Chiesa — quella dell'Oriente — ne aveva preso possesso per il fatto stesso che l'aveva introdotto nelle sue assemblee liturgiche. Essa custodì il suo tesoro, riservandosi solo il diritto di arricchirlo. [3]

NOTE

[1] Si veda Henri Delafosse, Nouvel examen des lettres d'Ignace d'Antioche, nella Revue d'histoire et de littérature religieuses, VIII, [1922], 303 e 477.

[2] Giustino menziona tre volte, Apologia 31:6; Dial. 1:3; 9:3, la rivolta di Bar-Kokhba; si veda Renan, L'Eglise chrétienne, pag. 204-213; Schuerer, Geschichte des Jüdischen Volkes, I, pag. 682-698.

[3] Giustino ha conosciuto e utilizzato la prima redazione del quarto Vangelo. In 1 Apologia 61:4, egli cita come derivato dal Cristo il discorso seguente che egli attinge, senza dirlo e senza riportarlo esattamente, al nostro vangelo: «Se voi non rinascete, voi non entrerete nel regno dei ceili». Al di fuori di quella citazione implicita si trovano nell'Apologia e nel Dialogo delle reminiscenze più o meno inconsce che suppongono la lettura del quarto Vangelo: 1 Apologia 6:2, l'adorazione in verità (Giovanni 4:24); Ib. 33:2, profezie fatte dal Cristo al fine che si creda quando gli avvenimenti saranno arrivati (Giovanni 14:29); Dialogo 135:6, vi sono due case di Giacobbe, una che è nata dalla carne e dal sangue, l'altra nata dalla fede e dallo spirito (Giovanni 1:13); 137:4, nessuno ha visto il Padre (Giovanni 1:18); 88:7, Giovanni il Battista dice: «Io non sono il Cristo» (Giovanni 1:20); 69:6, l'acqua della vita (Giovanni 4:10); 114:4, l'acqua viva che scaturisce per coloro che vogliono bere (Giovanni 4:14); 69:7, gli ebrei accusavano il Cristo di sedurre il popolo (Giovanni 7:12).

Papia ha letto, a sua volta, il quarto Vangelo se è da lui, come si crede comunemente, che Ireneo ha attinto i detti dei presbiteri di cui ci serve degli estratti. Si legge in Contra Haereses 5:36, 2: «I discepoli anziani degli apostoli dicono... che il Signore ha detto: Vi sono molte dimore nella casa di mio Padre» (Giovanni 14:2); in 2:22, 5, Ireneo dimostra che il Cristo è vissuto quasi cinquant'anni e aggiunge: «Così come lo attestano il vangelo e tutti gli anziani» (Giovanni 8:57). — Eusebio, 3:39, 17, ci informa che Papia ha conosciuto la prima epistola giovannea ma senza precisare che egli la riteneva l'opera dell'apostolo Giovanni.
 
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PARTE SECONDA

SECONDA REDAZIONE DEL QUARTO VANGELO


Lo arricchisce. Il nuovo acquirente di una casa non ne vede dapprima che i vantaggi. Poi, a poco a poco, si rivelano delle carenze, degli inconvenienti, delle lacune che esigono dei ritocchi, dei complementi. All'utilizzo, parecchi punti deboli apparirono nel quarto Vangelo. Si percepì che i suoi discorsi di una così alta ispirazione e i suoi racconti di un ritmo così maestoso non solo si difendevano male dagli attacchi contro l'eresia marcionita, ma le sembravano essere qua e là favorevoli. Era necessario rimediare a quella situazione problematica. Da qui delle aggiunte destinate a spiegare il testo primitivo, a commentarlo, a chiarirlo, ma che, in realtà, l'hanno mascherato.

1. — Il corpo carnale del Cristo.

Le epistole giovannee denunciano con orrore degli uomini che si rifiutano di credere alla carne di Gesù. Quella gente ammetteva che Gesù possiede la divinità; ma pretendeva che quella divinità non ha assunto la carne per venire in mezzo a noi. È in quella negazione della carne che consiste il loro crimine. Crimine mostruoso: «Molti seduttori sono usciti per il mondo, i quali non confessano che Gesù Cristo venne nella carne. Quello (che pensa così) è il seduttore e l'anticristo» (2 Giovanni 7); «Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù (come venuto nella carne), non è da Dio. Questo è lo spirito dell'anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo» (1 Giovanni 4:2-3); «Questi è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo, non con acqua soltanto, ma con l'acqua e con il sangue»; (1 Giovanni 5:6); i colpevoli presi di mira riconoscono che Gesù ha ricevuto il battesimo, ma non ammettono che sia realmente morto; l'acqua indica il battesimo di Gesù da parte di Giovanni, il sangue indica la sua morte reale. Dunque si è un anticristo quando ci si limita ad ammettere la divinità di Gesù e si respinge la sua incarnazione.

Come mai un autore così ansioso di mettere in rilievo la natura umana di Cristo ha potuto lasciarla altrove nell'ombra? Si dirà che non era tenuto a ripetere sempre dappertutto la stessa cosa. D'accordo. Ma doveva almeno sorvegliare le sue formule e mettersi in guardia dal fornire delle armi agli «anticristi», ai «seduttori» che egli denuncia qui con così tanta veemenza. Ora le seguenti professioni di fede, che si leggono in altri punti, non potevano che essere benvenute per i negatori dell'incarnazione, per tutti coloro che si credevano in regola con la fede, quando avevano proclamato la divinità di Gesù: «Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio» (1 Giovanni 4:15); «Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa testimonianza in sé ... Questo vi ho scritto perché sappiate che possedete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio» (1 Giovanni 5:10, 13). Come mai l'apostolo dell'incarnazione di Cristo non ha visto che egli improntava qui ai suoi avversari il loro stesso linguaggio? Ma non è precisamente lui che ci parla ora, ma piuttosto il portavoce degli «anticristi».

Ho appena discusso le epistole giovannee. Passo ora al vangelo. Esso racconta (19:34) che un soldato romano vedendo Gesù morto gli trafisse il costato con una lancia, e che ne scaturì del sangue e dell'acqua. Quel fatto del tutto naturale ci pare banale. Pure si è sorpresi di sentire il narratore garantire solennemente la realtà con quella espressione la cui equivalente non riappare da nessun'altra parte salvo nella nota finale: «Colui che lo ha visto, ne ha reso testimonianza, e la sua testimonianza è vera; ed egli sa che dice il vero, affinché anche voi crediate». Perché quindi attribuisce così tanta importanza ad un dettaglio che non ne ha alcuna per noi? Il testo di 1 Giovanni 5:6, che abbiamo appena incontrato, ci fa intravvedere la soluzione dell'enigma. Il sangue e l'acqua che il colpo di lancia ha fatto sgorgare sono la conferma da parte della storia dell'insegnamento didattico dato dall'epistola. Quest'ultima professa che Gesù non è venuto soltanto con l'acqua, ma anche con il sangue; che non si è limitato a ricevere il battesimo di Giovanni, ma che ha anche versato il suo sangue, che è morto realmente per noi. Il vangelo espone ciò che è accaduto. Quando il soldato romano si avvicinò alla croce, Gesù era già morto. Tuttavia si sarebbe potuto obiettare che fosse morto come morivano i fantasmi, che fosse morto in apparenza. Il colpo di lancia dissipa questo sospetto. Dal fianco di Gesù trafitto dalla lancia, del sangue colò con dell'acqua. Vi era del sangue a colare: prova che Gesù aveva un corpo carnale come il nostro, poiché un corpo etereo non avrebbe avuto del sangue. Ma forse quel sangue era artificiale? No, poiché se fosse stato artificiale, avrebbe avuto un colore vermiglio. Ora, con il sangue vi era dell'acqua a colare: prova che il sangue era putrefatto per la morte; dunque prova che questo sangue era della stessa qualità del nostro e che Gesù aveva proprio una natura umana in tutto simile alla nostra.

Il colpo di lancia, con ciò che ne segue, è quindi una storia apologetica, una storia destinata a confermare l'incarnazione di Gesù Figlio di Dio. Ma che viene a fare qui il testimone con il certificato di alta integrità che gli è consegnato? Quello è l'espediente al quale si ricorre quando si hanno delle riserve da combattere, delle diffidenze da sradicare. L'autore è alle prese con dei cristiani a cui si è predicata la dottrina del Cristo spirituale e che, se non hanno già dato la loro adesione, sono sul punto di darla. Lui dice loro: «Vi è stato del sangue a colare dal fianco di Cristo trafitto dalla lancia; del sangue mescolato all'acqua. Questo è ben certo, poiché la testimonianza del fatto è al di sopra di ogni sospetto. Non credete così al Cristo fantasma, e affrettatevi a ritrattare la vostra fede in lui se avete avuto la sfortuna di accordargliela. Non lasciatevi sedurre da questa dottrina di menzogna. Restate fedeli al Cristo incarnato. Ritornate da lui se lo avete abbandonato». Fa la guerra al docetismo.

Gli fa la guerra. Non ha dunque potuto favorirlo. Non è lui che avrebbe voluto dare a Cristo la percezione di un fantasma. Orbene noi sappiamo di testi nei quali il Cristo parla, agisce come un essere estraneo alle leggi dell'umanità: «Che c'è tra me e te, donna?»; «Voi siete dal basso; io sono dall'alto; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo»; «Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete»; «Padre, è venuta l'ora: glorifica il Figlio tuo». Tra questi testi e la storia del colpo di lancia vi è un abisso, l'abisso che separa la cristologia marcionita dalla cristologia cattolica.


Edited by Haviland Tuf - 28/11/2019, 14:38
 
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2. — Il pane di vita.



Arrestiamoci ora davanti al discorso sul pane di vita (nel capitolo 6) lasciando da parte le promesse sulla resurrezione che vi si trovano là e di cui mi occuperò nelle note.

Gesù, vedendo gli ebrei in cerca del pane materiale, li esorta a procurarsi «il cibo che dura per la vita eterna», il «vero pane che viene dal cielo», di cui la manna non era che l'ombra. Gli ebrei esclamano: «Signore, dacci sempre di questo pane». Gesù risponde: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete ... (40) Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna ... (47) In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. (51) Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno ... (60) Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo? Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: È lo Spirito che dà la vita, la carne non serve a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita».

Questo discorso proclama la virtù della fede, come lo farà più tardi il discorso della cena. Allora Gesù dirà (17:3) «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, il Cristo». Ora dice: «Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete... Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna». La fede è «il cibo che dura per la vita eterna». E, siccome questa fede ha per obiettivo il Figlio di Dio (così come il Padre; ma il Padre non era che uno con suo Figlio, 10:30, e chi vede il Figlio vede il Padre, 14:7-9), ne consegue che il Figlio di Dio è «il pane della vita», il pane che si deve mangiare per vivere eternamente.

Ma in che modo mangiare il Figlio di Dio? Lo si mangia non appena si crede in lui, poiché, non appena si crede in lui, si ha la vita eterna. E le parole di Agostino sono vere (In Jo. 25:12) «I denti, il ventre non anno nulla a che fare qui. Credi e tu hai mangiato». (26:1): «Credere in lui, equivale a mangiare il pane vivente. Colui che crede mangia».

A questa alimentazione spirituale tramite la fede vi era peraltro una spiegazione che Agostino non ha visto, che le sue convinzioni cattoliche gli impedivano di vedere, ma che il Cristo giovanneo ci dà con la sua discrezione abituale. «La carne non serve a nulla». Non sarebbe servita a nulla per il Figlio di Dio per realizzare la sua missione vivificante. Non è per mezzo della carne che egli deve nutrirci; è per mezzo dello spirito. Il Cristo nel discorso sul pane di vita è un Cristo spirituale.

Ma ho omesso un'intera parte del discorso sul pane di vita. E questa parte, che va da 51b a 57, sembra proprio ridurre al nulla le mie conclusioni. Lo si giudichi. Dopo aver detto che lui è il pane disceso dal cielo e che colui che mangia di questo pane vivrà eternamente, il Cristo aggiunge:

(51b) «E il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo», Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo resusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre vivente ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me».

Ecco la carne messa in primo piano. Ma, nello stesso tempo, ecco dimenticata la massima «la carne non serve a nulla». Perché tra questa e quella vi è una contraddizione assoluta. Non per i teologi naturalmente. Loro non sono mai a corto di spiegazioni. Per conciliare il dogma dell'inferno con certi testi sconcertanti hanno distinto un fuoco che brucia e un fuoco che non brucia, delle pene che puniscono e delle pene che non puniscono. Allo stesso modo essi distinguono una carne carnale alla quale si applica la massima sopra menzionata e una carne non carnale, oggetto del precetto: «Se voi non mangiate la carne del Figlio dell'uomo…». Lasciamo da parte quelle cose puerili e concludiamo. È evidente che, se la carne non serve a nulla, non ci si deve preoccuparsi di mangiare la carne di Cristo. È proprio altrettanto evidente che la carne ha un'importanza capitale, se, per avere la vita eterna, si debba mangiare la carne del Cristo. Tra «se voi non mangiate» e «la carne non serve a nulla», l'opposizione è proprio irriducibile.

A questa prima osservazione se ne aggiunge un'altra. Si riconosce generalmente che le dichiarazioni relative al mangiare la carne provocano un certo contrasto con il resto del discorso sul pane di vita. Ma si assicura che questo contrasto è nella precisione della riflessione e non nella loro opposizione. Vediamolo più da vicino.

Credere alla divinità di Cristo e mangiare la sua carne — quale che sia il senso di quell'ultima affermazione — esprimono due idee diverse. Si può credere che il Cristo possegga la divinità senza mangiare la sua carne; viceversa si può mangiare — nel senso che si vorrebbe — la carne di Cristo senza credere alla sua divinità. Ora ciascuno di quei due atti ci è presentato successivamente come necessario e sufficiente. In un punto nel discorso la vita eterna è garantita a tutti coloro che accettano la divinità del Cristo. Poi, un po' più oltre, apprendiamo che, per avere la vita eterna, è necessario mangiare la sua carne. Se quest'ultima operazione è indispensabile, la fede nel Figlio di Dio non è sufficiente quindi. E se la fede è sufficiente, allora il mangiare la carne è superfluo. Per la seconda volta ci troviamo di fronte un'opposizione irriducibile.

Il discorso sul pane di vita non è omogeneo. Due autori vi hanno collaborato. Il primo ha detto: «Il pane di vita, questo è il Figlio di Dio. Questo pane celeste nutre l'anima che crede in lui; e il cibo che egli dà garantisce all'anima l'immortalità. Ma in questa alimentazione non c'è nulla di carnale; poiché il Cristo è spirito e la carne non serve a nulla». Il secondo ha detto: «Il Cristo ha procurato la vita eterna agli uomini versando il suo sangue. È la sua carne immolata ad essere il pane di vita poiché è quella che ha dato la salvezza al mondo. Crediamo dunque alla carne e al sangue di Cristo; poiché se crediamo ad un Cristo fantasma, non avremo la vita eterna che Cristo ci ha ottenuto per la sua carne e il suo sangue».

Abbiamo davanti a noi due autori. E, siccome ciascuno pone la sua dottrina sulle labbra del Cristo, abbiamo davanti a noi due Cristi. Tutti e due concordano nel domandarci la fede, dichiarandoci che, senza la fede, noi non abbiamo la vita eterna (il secondo aggiunge la resurrezione). Soltanto essi differiscono sull'oggetto della fede. L'uno non si occupa che della sua divinità: è il Cristo marcionita. L'altro non pensa che alla sua incarnazione: è il Cristo cattolico. Se crediamo al Figlio di Dio, saremo in regola con il primo. Per soddisfare il secondo occorrerà credere che il Cristo ha preso una carne e non è un fantasma.

Qui una domanda si pone inevitabilmente. Se il Cristo cattolico ci domanda semplicemente di credere alla realtà della sua carne, perché ci dice di mangiarla? Si è visto che il Cristo marcionita fuggiva sistematicamente la luce troppo forte e anzi si avvolgeva di un velo leggero per timore di sconvolgere le coscienze. Ma il Cristo cattolico non ha le stesse suscettibilità da rispettare. Perché dunque è oscuro?

È stato costretto all'oscurità per il dovere professionale. Quale ruolo rivendica qui? Egli finge di essere interprete. Interpreta le parole del Cristo marcionita. In realtà le sopprime; ma le sopprime per mezzo di un commentario. Processo elegante, ma che non avviene senza imporre qualche vincolo. La dissertazione sulla carne ha dovuto adattarsi all'oracolo che avrebbe dovuto spiegare; ha dovuto dare l'illusione che lo prolungasse. Ora il Cristo marcionita aveva presentato la fede sotto il simbolo del pane che nutre l'anima e le procura la vita eterna. Questo simbolo è stato utilizzato dal Cristo cattolico che vi ha gettato come in uno stampo la sua dissertazione. La carne è diventata un pane di immortalità: «Il pane che io darò è la mia carne che darò per la vita del mondo». Trasformata in pane, la carne è diventata il nutrimento dell'anima che la mangia. Poi il sangue, reclamato dalla simmetria, è intervenuto per recitare il ruolo della bevanda. Ecco come la necessità della fede nell'incarnazione del Cristo è stata tradotta nella necessità di mangiare la carne e di bere il sangue del Cristo. Traduzione artificiale certo, ma imposta dalla situazione. L'autore era lontano dal prevedere l'enorme mistero di cui il suo espediente sarebbe diventato la causa per la posterità.


Edited by Haviland Tuf - 28/11/2019, 14:37
 
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CAT_IMG Posted on 30/11/2019, 16:22
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L'invisibile e l'inesistente si somigliano molto. (Delos B. McKown, The Mythmaker's Magic)

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3. — Il Verbo e la Luce.


Il preambolo del quarto Vangelo è composto con l'aiuto dei due simboli del Verbo e della Luce. Il Verbo occupa il primo piano. Il Verbo, leggiamo, era al principio. Egli era presso Dio, egli era Dio. Tutte le cose sono state fatte da lui e nulla di quello che è stato fatto è stato fatto senza di lui. Un po' più oltre, 10b, apprendiamo di nuovo che il mondo è stato creato da lui. Infine, in 14, ci viene detto che il Verbo si è fatto carne. La Luce fa il suo ingresso nel verso 4 e porta con sé le sue credenziali: «La Luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno ricevuta. Vi fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni... Egli non era la Luce, ma venne per rendere testimonianza alla Luce. La Luce vera... veniva nel mondo. Era nel mondo».

Il Verbo e la Luce riempiono il preambolo. Esaminiamo ora il Vangelo. Cammin facendo incontriamo qua e là la luce. In 3:19, leggiamo: «La luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie». Gesù stesso dichiara a più riprese che egli è la luce del mondo. Lo dice a Gerusalemme davanti ai Giudei riuniti (8:12); lo dice ai suoi discepoli nel momento in cui si appresta ad aprire gli occhi del nato cieco (9:5). E la stessa asserzione cade più volte dalle sue labbra in un'altra circostanza (12:35, 36, 46; si veda ancora 11:9, così come la prima epistola giovannea che ci dice, 1:5, che Dio è luce). Insomma la luce di cui il preambolo racconta lo splendore, ci prepara a quella stessa che, nel corpo del Vangelo, brilla ai nostri occhi. E, poiché il ruolo di un preambolo è di essere un introduttore, la luce è al suo posto nel preambolo del quarto Vangelo.

Veniamo ora al Verbo. Non si mostra a noi che nelle prime righe del quarto Vangelo; infatti, passate le prime righe, scompare senza lasciare traccia. Quella scomparsa è impressionante. Vedendo questo personaggio così fieramente accampato proprio sulla soglia dell'edificio giovanneo, si pensa di trovarsi di fronte al padrone della casa. Si entra. All'interno nessuno lo conosce, nessuno ha mai sentito parlare di lui. Come spiegare questo contrasto? Perché il Cristo giovanneo non si dà mai lui stesso il nome di Verbo? Perché non fa mai allusione alla sua opera creatrice? [1] E, poiché il Cristo giovanneo è una creazione artificiale, perché l'autore di questa finzione ha dimenticato così completamente di armonizzare il corpo del suo libro con il preambolo? Lui comincia annunciandoci in termini pomposi e magniloquenti che il Verbo era, fin dall'origine, presso Dio, che era Dio, che ha creato il mondo. Poi ci riporta le imprese del Cristo, i suoi discorsi. E, in quei racconti e in quei discorsi usciti dalla sua immaginazione, il Verbo creatore non occupa alcun posto!

Si cercherà di spiegare questa contraddizione col desiderio della verosimiglianza? Si dirà che l'autore, che ha promulgato la dottrina del Verbo creatore, si è tirato indietro dinanzi al pensiero di collocare questa teoria nella bocca di Gesù stesso? Come se il Cristo che ha insegnato la sua unità con il Padre e altre cose così impressionanti potesse provare il minimo imbarazzo nel rivendicare il titolo di Verbo creatore! La verità è che l'autore del quarto Vangelo ignora totalmente la distinzione tra il verosimile e l'inverosimile. Colui che ha fatto dire a Gesù: «Io sono la luce del mondo»; «Io e il Padre siamo uno»; ecc. poteva proprio altrettanto facilmente attribuirgli, non tenendo conto della plausibilità storica, parole di questo genere: «Io sono il Verbo di Dio»; «Io ho creato il mondo». E doveva lui stesso aggiungere questi fiori alla corona del Cristo, se solo i testi del preambolo che parlano del Verbo provenissero da lui. Ma precisamente il contrasto che noi constatiamo tra il corpo del vangelo e il Verbo del preambolo sembra proprio essere l'indicazione di due diverse redazioni.

Però prima di formulare una conclusione ferma, studiamo il preambolo stesso. Il Verbo e la Luce ne sono i due occupanti. Noi vediamo dapprima apparire il Verbo per mezzo di cui tutte le cose sono state fatte. Poi la Luce si sostituisce al Verbo, portando con sé Giovanni che, senza essere la Luce, rende testimonianza alla Luce. Cede subito del resto lei stessa il posto al Verbo che si impone di nuovo alla nostra attenzione; e finiamo per apprendere che il Verbo si è fatto carne. Strana dualità! Alternanza ancora più strana! Perché mai nella stessa lezione e quasi nella stessa frase ricorrere ai due simboli del Verbo e della Luce così diversi l'uno dall'altro! E, se si era tenuti ad utilizzarli tutti e due, perché ritornare al primo dopo averlo abbandonato?

Ma noi non siamo alla fine delle nostre sorprese. Ho detto che il Verbo, dopo essere stato espropriato dalla Luce, riappare sulla scena e ne espelle a sua volta la Luce. Quando e come si fa la transizione? Leggiamo i versi seguenti: «La luce vera che illumina ogni uomo veniva nel mondo. 10a Era nel mondo; 10b e il mondo fu fatto per mezzo di lui». Il verso 9 parla chiaramente della Luce che vi è indicata a chiare lettere; e la prima parte del verso 10 non contiene alcuna traccia di cambiamento. Ma la seconda parte di quello stesso verso 10 annuncia un pensiero che non ha alcun rapporto con la Luce. Vi si tratta dell'autore del mondo, e questo autore vi è indicato in termini identici a quelli che, in 3, sono applicati all'autore di tutte le cose. Ora, l'autore di tutte le cose, in 3, è il Verbo. L'autore del mondo di cui parla 10b è quindi il Verbo — su questo punto peraltro l'accordo è universale — ed è in 10b che la transizione dalla Luce al Verbo è compiuta. Va notato che questa transizione è compiuta a nostra insaputa. Lo indoviniamo, lo constatiamo. Ma non otteniamo questo risultato se non confrontando i testi e ricorrendo al ragionamento. Non siamo informati ufficialmente se non in 10b che il Verbo si sostituisce alla Luce la quale, in 4 e 5, si era sostituita — ma questa volta apertamente — al Verbo. La transizione è subdola. [2]

Questa transizione dissimulata che siamo riusciti a smascherare in 10b è unica nel suo genere, oppure, proprio al contrario, è seguita da una o più transizioni dello stesso genere? Il Verbo che, in 10b, espelle la Luce, custodisce il posto che ha conquistato oppure è proprio, a sua volta, espulso dalla Luce, destinato a cacciarla di nuovo? Tale è la domanda che dobbiamo risolvere? Il nostro testo attuale non permette alcuna esitazione. A credergli, il Verbo, una volta rientrato nel preambolo, non ne esce più ed è di lui che parla tutto il brano che va da 10b a 14, complessivamente. [3] Dunque è il Verbo che il mondo non ha conosciuto (10c), che è venuto in casa sua e che i suoi non hanno ricevuto affatto (11), ma che ha dato a tutti coloro che l'hanno ricevuto il potere di divenire figli di Dio (12). Non si oserà insorgere contro il testo se non ci incitasse lui stesso. Ma ci incita a farlo per la sua mancanza di coesione. Esso rimprovera al mondo di non aver conosciuto il Verbo, constata con dolore che il Verbo non è stato ricevuto dai suoi. Ora è soltanto nel verso 14 che menziona l'incarnazione del Verbo: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi». Fino ad allora, ovvero in 10b-13, il Verbo non era ancora incarnato e non aveva ancora abitato in mezzo a noi. In che modo il mondo avrebbe potuto conoscerlo in un tempo in cui nessuno lo aveva visto? E in che modo i «suoi» avrebbero potuto rifiutarsi di riceverlo dal momento che non era ancora venuto «in casa sua»? Tutto ciò è incoerente e noi abbiamo il diritto di cercare un'altra interpretazione.

Applichiamo i nostri versi alla Luce a partire da 9: «La Luce vera che illumina ogni uomo veniva nel mondo, 10a. Era nel mondo 10b e il mondo è stato fatto per mezzo di Lui (ossia dal Verbo), 10c ma il mondo non la ha conosciuta (lei, ovvero la Luce). 11 È venuta in casa sua, e i suoi non la hanno ricevuta. 12a Ma a quanti però l'hanno ricevuta, ha dato il potere di diventare figli di Dio 12b a quelli che credono nel suo nome (ovvero al nome del Verbo) 13, i quali sono nati non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio. 14a E il Verbo si fece carne 14b e Lei (la Luce) venne ad abitare in mezzo a noi... noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella di un figlio unico proceduto dal suo Padre».

Dal momento che la Luce è venuta nel mondo, non si è sorpresi di apprendere in seguito che lei era nel mondo, e si comprende egualmente il rimprovero che è formulato contro il mondo perché non ha conosciuto la Luce. Il mondo avrebbe potuto conoscere la Luce poiché la Luce era nel mondo, e vi era poiché la sua venuta nel mondo ci è stata precedentemente segnalata. Tutto ciò ha senso: 10c si collega a 10a, che a sua volta si collega a 9. Comprendiamo senza difficoltà che se la Luce è venuta «in casa sua», «i suoi» sono stati colpevoli di non riceverla. Apprendiamo in seguito che quella colpa non è stata universale e che la Luce è stata ricevuta da un certo numero dei «suoi». Questi sono stati ricompensati con una nuova nascita, una nascita divina. Questi ancora —poiché sono gli stessi — hanno constatato che la Luce abitava in mezzo a loro (quelli dei «suoi» che rifiutavano di ricevere la Luce, non occorre dirlo, non hanno constatato nulla, e il privilegio di vedere la Luce è stato riservato a quelli dei «suoi» che l'hanno ricevuta). Essi hanno visto la sua gloria; hanno visto che la Luce è venuta nel mondo era, in relazione a Dio, ciò che è un figlio in relazione a suo padre.

Ancora una volta, tutto ciò ha senso. E come credere che una chiave che apre così bene la serratura non sia stata fatta per la serratura? Diciamo dunque, senza timore di ingannarci, che la Luce, soppiantata per un istante dal Verbo in 10b, riprende immediatamente il suo posto, e che la ritroviamo non solo in 11, 12 e 13 ma anche in 14b: «Lei venne ad abitare in mezzo a noi...».

Così la Luce non lascia definitivamente il preambolo a partire da 10b come si dice dappertutto. Da questo fatto derivano due conseguenze. Il primo, è che il nostro testo attuale, nei versi 10c, 11, 12a ha subito dei ritocchi. A credergli, nella forma che ha oggi, è il Verbo che il mondo non ha conosciuto (10c); è Il Verbo che è venuto in casa sua e che i suoi non hanno ricevuto; infine è il Verbo che ha trasformato in figli di Dio coloro che l'hanno ricevuto, e che ha procurato loro una nascita divina. In origine non era così. Allora la Luce sola era in causa, ed è passata di là la mano di un interpolatore che ha spogliato la Luce a beneficio del Verbo. [4] Allo stesso modo in 14b non è più la Luce che ci è presentata come se avesse abitato in mezzo a noi e come se avesse una gloria che i figli di Dio hanno contemplato. È il Verbo che oggi occupa il suo posto. Ma qui (io parlo di 14b) nessuna interpolazione è stata richiesta; la sostituzione è stata operata automaticamente con l'introduzione del Verbo in 14a (il francese richiede il cambiamento dal femminile al maschile; in greco non è così).

La seconda conseguenza ha riguardato il Verbo. Siamo ora fissati sul carattere delle sue apparizioni intermittenti. Egli interviene in 10b come l'autore del mondo tra due asserzioni che ci dicono che la Luce era nel mondo e che il mondo non la ha conosciuta. In 12b dove sono menzionati coloro che credono nel suo nome, egli taglia in due tronchi una frase nella quale è descritto il beneficio accordato dalla Luce a coloro che l'hanno ricevuta. In 14a il Verbo si incarna allorché la Luce ha già procurato a coloro che l'hanno ricevuta una nascita divina. Senza gli interventi maldestri del Verbo, il brano sulla Luce, che comincia al verso 4, si svilupperebbe regolarmente. Esso è tagliato a tre diverse riprese dal Verbo e, nei primi tre versi, è mascherato dallo stesso agente perturbatore. Sappiamo già che il Verbo, confinato nel preambolo del quarto Vangelo, era estraneo al Vangelo stesso. Abbiamo ora la prova che la sua presenza nel preambolo è dovuta ad un'operazione artificiale e violenta. Il Verbo non viene là che da intruso. Originariamente il preambolo era dedicato esclusivamente alla Luce. Come era scritto? Per dirlo, occorrerebbe sapere ciò che sono stati esattamente i ritocchi dell'interpolatore. Non lo sappiamo. Il tentativo di restituzione che segue non si presenta dunque che come un'approssimazione congetturale:


4. «Dio è la Vita e la Vita è la Luce degli uomini, 5. E la Luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno accolta, 6. Venne un uomo mandato da Dio; il suo nome era Giovanni. 7. Questi venne come testimone per rendere testimonianza alla Luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. 8. Egli non era la Luce, ma doveva render testimonianza alla luce. 9 La Luce vera che illumina ogni uomo veniva nel mondo. 10a Era nel mondo 10e e il mondo non l'ha accolta. 12a Ma a tutti coloro che l'hanno accolta, 12b ha dato il potere di diventare figli di Dio. 13 Essi sono nati non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio. 14b Lei ha abitato fra di noi e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella di un figlio unico proceduto dal suo padre. Egli (questo figlio) era pieno di grazia e di verità. 16 Noi tutti abbiamo ricevuto dalla sua pienezza la grazia emanata dalla sua bontà. 17 Poiché la legge è stata data per mezzo di Mosè; la grazia e la verità vengono per mezzo di Gesù Cristo».


Prima di andare più oltre, rileggiamo l'esordio della prima epistola giovannea:

1 Quel che era dal principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato, della parola della vita 2 poiché la vita è stata manifestata e noi l'abbiamo vista e ne rendiamo testimonianza, e vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci fu manifestata, 3 quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché voi pure siate in comunione con noi.

Un passo di quella frase («che le nostre mani hanno toccato») è una chiara professione di fede nell'incarnazione del Cristo. Ma l'intera frase porta una tale difficoltà alle leggi della sintassi che solo l'ipotesi di un ritocco è capace di spiegarne la formazione. Il verso 1 è di origine posteriore. Ma è proprio esso che proclama l'incarnazione. Sbarazzatasi di questo pezzo falso, l'epistola ci parla della vita divina che si è manifestata, poi insegna che Dio è Luce: «Il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo è che Dio è luce e in lui non ci sono tenebre». Insomma, la prima epistola giovannea cominciava pressappoco come il quarto Vangelo. Poi la stessa mano che ha sfigurato l'inizio del vangelo ha anche alterato l'esordio dell'epistola collocandovi l'incarnazione. Solo che, in quest'ultimo caso, ha gettato la sua interpolazione senza prendersi la briga di adeguarla alla sintassi.

Ritorniamo ora al preambolo del Vangelo. Il Verbo che oggi la occupa in competizione con la Luce, non vi era originariamente. Vi è stato introdotto da una mano estranea alla prima stesura per compiervi una missione dogmatica. E si vede senza difficoltà di quale missione è stato incaricato. Esso è là per insegnare innanzitutto che il Cristo, prima di venire sulla terra, ha creato il mondo; per insegnare in seguito che questo creatore dell'universo, venendo in mezzo a noi, si è rivestito di un corpo carnale. Ora, al tempo in cui il Verbo fece il suo ingresso nel preambolo, la scuola di Marcione presentava all'adorazione dei fedeli un Cristo che era il Dio buono, venuto di persona sulla terra vestito di un corpo etereo per rovinare l'impero del Dio creatore. Il Verbo ha dunque ricevuto il mandato di combattere il Cristo spirituale della scuola di Marcione. Per dirla tutta il Verbo è di origine cattolica.

Sbarazziamocene e mettiamoci in presenza della Luce che, da sola, occupava la stesura originale. La Luce non ha dovuto creare il mondo; ha trovato il mondo in possesso dell'esistenza ricevuta dal Creatore. La sua preoccupazione era di illuminare il mondo. Così è venuta nel mondo; ma il mondo ha preferito mantenere le tenebre nelle quali era immerso. Il mondo non ha conosciuto la Luce; l'ha respinta.

Apprendiamo allora che la Luce è venuta «in casa sua» e che i «suoi» non l'hanno ricevuta. Cosa equivale a dire? I commentatori spiegano che «i suoi» sono gli ebrei che costituivano il popolo di Dio, il popolo eletto, e che la Luce, quando abitò nel mezzo del popolo ebraico, era «in casa sua». Quest'interpretazione si scontra con le affermazioni più formali del Cristo giovanneo che dice agli ebrei (8:44-47): «Voi avete per padre il Diavolo... Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; voi non le ascoltate, perché non siete da Dio». Questa invettiva alla quale tutti i pagani del mondo sono necessariamente associati, è perentoria. Gli uomini che hanno il Diavolo per padre e che non sono di Dio, non possono appartenere a Cristo, a colui che si è chiamato la luce del mondo. È necessario quindi cercare altrove quel «in casa sua» dove la Luce è venuta e dove ha incontrato «i suoi» che non l'hanno ricevuta.

Seguiamo la Luce nel suo viaggio. Lei è venuta nel mondo e il mondo non l'ha conosciuta. Ma, perfino così, Gesù ha potuto dire a suo Padre (17:6): «Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola». La Luce ha fondato la Chiesa, la società dei figli di Dio. La Chiesa è stata sulla terra il dominio della Luce. Nella Chiesa, la Luce è stata «in casa sua» e i figli della Chiesa sono stati «i suoi». Questo fino al giorno in cui Pietro si lasciò trascinare da Giacomo al giudaismo, [5] quando fu seguito nella sua defezione dai Dodici e dalla massa dei cristiani. A partire da quel giorno la Luce è venuta «in casa sua» e «i suoi» non l'hanno ricevuta. Tuttavia la defezione non è stata universale o, in ogni caso, non è stata che temporanea. Il discepolo prediletto ha lavorato e la sua fatica non è stata vana. Alcuni di loro hanno ricevuto la Luce. Questi sono stati generati alla vita divina. E questi figli di Dio hanno visto la Luce che, con la sua gloria, abitava tra loro. L'hanno vista che rassomigliava ad un Figlio. Questa luce gloriosa si chiamava Gesù Cristo che ha detto e ripetuto: «Io sono la Luce del mondo».

Abbiamo acquisito la prova che Il Verbo è stato introdotto nel preambolo per combattere il Cristo spirituale. Diciamo ora che questo Cristo spirituale al quale il Verbo è venuto a fare la guerra, è la Luce. La Luce è spirituale. La sua gloria anche. Ed è perché è spirituale che il mondo non l'ha conosciuta, che molti degli stessi suoi non l'hanno ricevuta. Se fosse entrata nel mondo circondata di una gloria materiale, il mondo stesso non avrebbe potuto ignorarla; a maggior ragione i suoi non avrebbero potuto né vederla, né riceverla. Ma Lei è di natura spirituale e, come tale, non è vista che attraverso gli occhi della fede. Per vederla occorre prima aderire a lei, riceverla per mezzo della fede. Solo quelli tra i suoi che avevano gli occhi della fede hanno visto la gloria della Luce. Gli altri non l'hanno vista e, non avendola vista, non l'hanno ricevuta. Lei è il Cristo spirituale contro il quale il cristianesimo volgare ha reagito imponendo il Verbo incarnato.

NOTE

[1] In 5:17, egli non ha in vista che l'attività taumaturgica di cui ha appena dato un esempio guarendo il paralitico e che dice emanare da suo Padre; è lo stesso pensiero di 9:4.

[2] Alcun indizio grammaticale lo segnala, poiché il pronome greco, di' autou, che indica l'autore del mondo, a tener conto solo della forma, potrebbe applicarsi altrettanto bene alla Luce come al Verbo.

[3] Il personaggio che, da 10b a 13 è alluso senza essere designato è messo al maschile; ora il termine greco che indica la luce è neutro mentre il termine che indica il Verbo è maschile.

[4] L'interpolazione si è del resto limitata ad aggiungere una lettera al pronome che originariamente era auto. Mentre si legge oggi auton.

[5] Si veda più oltre, pag. 91.


Edited by Haviland Tuf - 30/11/2019, 17:50
 
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