Origini delle Religioni

ANAGRAMMI, Tobagi le carte di Moro

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CAT_IMG Posted on 19/2/2022, 14:22
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Gli anagrammi nascosti nelle lettere di Moro




di Michele Ainis


Gli anagrammi nascosti nelle lettere di Moro
La teoria di Carlo Gaudio in un libro


26 APRILE 2022









Cadono i 44 anni dal rapimento e l'assassinio di Aldo Moro. E dopo tutto questo tempo, i lati oscuri prevalgono su quelli che siamo riusciti a illuminare. Succede, d'altronde, anche per altre pagine nere della nostra storia, prima e dopo la stagione delle stragi: in Italia la verità è un segreto di Stato. Ma le 86 lettere che Moro scrisse nei 54 giorni della sua prigionia rimangono, forse, il più misterioso dei misteri che girano attorno alla vicenda. Era davvero lui, quell'uomo? Scriveva sotto dettatura dei suoi sequestratori? Aveva smarrito la propria integrità mentale, precipitando - si disse fin dai primi giorni - nella sindrome di Stoccolma? Ma se invece Moro era in sensi, sapeva dove si trovasse? E ha cercato di trasmettere all'esterno l'indicazione di quel luogo?

Questa pioggia di domande è rimasta, fin qui, senza risposta. Specialmente l'ultima, che proverebbe l'estrema lucidità di Moro. Sciascia intuì un messaggio cifrato in quelle lettere, senza però riuscire a dimostralo: giacché il suo stile - disse - "per l'attenzione che sapeva dedicare alle parole, per l'uso anche tortuoso che sapeva farne", era il più adatto a "nascondere (pirandellianamente) tra le parole le cose". Del resto Moro, soffrendo d'insonnia, di notte frequentava l'enigmistica, i rebus, gli anagrammi. Eppure nessuno seppe - o volle - decrittare le sue lettere.

Marco Follini: racconto Aldo Moro nel suo labirinto
di Concetto Vecchio
18 Marzo 2022

A risolvere il puzzle provvede adesso un libro di Carlo Gaudio, L'urlo di Moro (Rubbettino). Sennonché lui non è un campione di quiz televisivi, è un medico, e d'ottima carriera. Dirige il dipartimento di Scienze cardiovascolari alla Sapienza, ha firmato oltre 400 pubblicazioni. Ma è pure autore di un pamphlet filosofico (La zattera, 2018), d'un paio di volumi sul cinema, di biografie. Dunque Gaudio è un eclettico, categoria un tempo celebrata, oggi guardata in gran sospetto. Se vai da un ortopedico per un dolore alle ginocchia, potresti ottenerne in cambio uno sguardo esterrefatto: "Il ginocchio? Ma io sono uno specialista della caviglia!". Lo specialismo, ecco la malattia del nostro tempo. Come diceva Flaiano, oggi anche il cretino è specializzato. E allora come si permettono i medici di giocare con la storia?

Il gioco di Carlo Gaudio, però, ci dona una rivelazione: Moro conosceva l'indirizzo della sua prigione - l'appartamento di via Montalcini al numero 8, interno 1 - e cercò di divulgarlo. Ne è prova l'inciso più celebre di tutto il suo epistolario, contenuto in una lettera a Cossiga recapitata il 29 marzo 1978: "Che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato". Suona così, difatti, l'anagramma della frase: "E io so che mi trovo dentro il p.o uno di Montalcini n.o otto".




Aldo Moro, una tragedia italiana


di Corrado Augias



21 Febbraio 2022

D'altronde non è l'unica prova; con un'analisi lessicale parola per parola, Gaudio ne mostra varie altre. Per esempio nella lettera alla moglie Eleonora (5 aprile), dove Moro scrive: "Io poso gli occhi dove tu sai e vorrei che non dovesse mai finire", e dove si nasconde, di nuovo, un anagramma: "O forse che io dovevo essere chiuso prigione di via Montalcini". Mentre più volte raccomanda di leggere "con la dovuta attenzione" i suoi messaggi, di "vederli bene". Le frasi in codice di Moro sono sempre in prima persona, vengono introdotte da un "Io" che a sua volta assume valore segnaletico. Succede soprattutto nelle prime nove lettere, le più importanti, anche perché vi s'esprime subito una linea strategica (la trattativa per lo scambio di prigionieri); poi rinuncia, capisce che i suoi indizi non vengono raccolti. Ma non rinuncia mai a rivendicare la propria lucidità, lamentandosi perché "sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio" (lettera alla Democrazia cristiana, 27 aprile).

È l'"Io" di Moro, dunque, che torna a visitarci attraverso la ricerca imbastita da Carlo Gaudio. Ed è esattamente questo l'intento programmatico dell'autore: "la restituzione di Moro a Moro", contro l'espropriazione della sua personalità operata dai politici del tempo, contro la rimozione del suo lascito praticata dai politici di oggi.



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https://it.wikipedia.org/wiki/Memoriale_Moro
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https://it.wikipedia.org/wiki/Memoriale_Moro

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Moro, 35 anni tra enigma e tragedia


Una “memoria” in parte personale, ma carica di interrogativi del giornalista-teologo

Moro, 35 anni tra enigma e tragedia

GIANNI GENNARI

PUBBLICATO IL
15 Luglio 2012

ULTIMA MODIFICA
19 Luglio 2019
14:07



www.lastampa.it/vatican-insider/it...edia-1.36392876







Moro, 35 anni tra enigma e tragedia
Una “memoria” in parte personale, ma carica di interrogativi del giornalista-teologo

Moro, 35 anni tra enigma e tragedia

GIANNI GENNARI
PUBBLICATO IL
15 Luglio 2012

ULTIMA MODIFICA
19 Luglio 2019 14:07


A quasi 35 anni dai fatti la vicenda Moro è sempre un mistero. Qualcuno ogni tanto la rievoca, ed è come se tutto ricominciasse…Ora sul “Foglio” (14 luglio) la rievocazione di quel dramma nelle confidenze di Don Fabio Fabbri, a quei tempi segretario di mons. Cesare Curioni, Ispettore Capo presso il Ministero di Grazia e Giustizia – allora si chiamava ancora così – del settore che riguardava i Cappellani cattolici nelle carceri italiane…




E’ ormai una specie di rito, che ogni volta riapre il tutto. Già 15 anni orsono i giornali annotavano: “Scalfaro riapre il caso Moro”. L’allora Presidente della Repubblica aveva manifestato il suo scetticismo di fronte a ciò che anche allora, per una ennesima volta variante a 360 gradi, veniva presentato come “la verità sulla vicenda Moro”.+

In viaggio a Bari, poi a Lecce per commemorare Moro, chiedeva con forza "verità completa". Segno che non c'era ancora: lo pensava e lo diceva un uomo che è stato anche ministro dell'Interno negli anni immediatamente successivi alla tragedia, e ai vertici dello Stato da decenni. In quegli stessi giorni lo storico Pietro Scoppola affermava che forse con l'apertura dei dossier negli Usa si sarebbe venuti a saperne di più. Erano passati venti anni. Oggi sono trentacinque, e nessuno potrà negare che quella verità non c’è ancora. In realtà il "caso Moro" non è mai stato chiuso.

C'è gente importante – basterà fare i nomi del sen. Pellegrino, o dell'on. Inposimato – che da anni, da decenni, afferma che non solo tutto non è chiaro, come si sostiene da qualche parte, ma che tutto è ancora nell'ombra, e che "le menti" che hanno pensato, preparato, condotto a termine - a quel termine - tutto il dramma, ancora non sono state scoperte…


Mons. Pasquale Macchi, allora segretario di Paolo VI, poi vescovo, qualche anno orsono a futura memoria ha pubblicato da Rusconi un libro su quei drammatici 55 giorni vissuti con il Papa. Egli stesso mi inviò le bozze del libro, che ancora conservo, e rievocando la vicenda e i tentativi di salvare Moro, ricorda più volte mons. Cesare Curioni, ex cappellano capo di San Vittore ed ex ispettore generale, al Ministero della Giustizia, di tutta la pastorale nelle carceri italiane. Dal libro di Macchi si capisce molto bene che ancora qualcosa di poco chiaro, nella vicenda, era rimasto, e che lo aveva subito capito anche Paolo VI.

Non basta: sempre qualche anno orsono lessi con attenzione un altro libro drammatico, "Storia di un delitto annunciato", di Alfredo Carlo Moro, fratello dello statista assassinato. E' l'esposizione calma, ragionata, seria, dei dubbi su tutta la vicenda, con la competenza di un giurista congiunta alla passione di un fratello, la serenità di uno che crede nella possibilità di ricostruire la verità. In particolare mi hanno colpito, e chi leggerà questo mio scritto potrà capirlo bene, i dubbi gravissimi circa la prigione "vera" di Moro e circa il racconto stesso della sua uccisione, quella mattina del 9 maggio 1978…

Tutte le pubblicazioni successive, negli anni, fino a quella di Giovanni Bianconi, e a quella magistrale di Miguel Gotor sui testi delle “lettere” di Moro, non solo non dipanano i dubbi, ma li accrescono…


Una ragione, dunque, due ragioni, tante ragioni per raccontare quello che ho vissuto, nel piccolo della mia esperienza personale. Sono stato per molti anni, fino alla sua morte, amico di mons. Cesare Curioni, che tra l’altro nel 1984 ha celebrato il mio matrimonio, e credo sia giusto parlare del suo ruolo nella vicenda.

Mi muove anche – lo ho fatto altre volte, ma qui l’argomento è sviluppato nel suo contesto pieno – l’esigenza di difendere la memoria di Paolo VI, che qualcuno ogni tanto, anche a firma “cattolica”, ha accusato di “omissioni” in proposito. E con la sua memoria voglio difendere anche quella di uomini come Benigno Zaccagnini ed Enrico Berlinguer, che spesso oggi, fino sugli schermi, qualche irresponsabile accusa di “aver voluto” ad ogni costo la morte di Moro…Con loro sono stati accusati – lo so – anche uomini come Francesco Cossiga e Giulio Andreotti, ma hanno avuto il privilegio – loro – di potersi difendere di persona…


Non so quale contributo possa dare il mio racconto, come si vedrà fatto di parecchi intrecci, e probabilmente è niente o quasi, ma chi legge potrà giudicare se ne valeva la pena. Con una premessa: i “registri” di questo scritto sono molti, e diversi. Iniziano come pura memoria di fatti, poi diventano ricerca, che pare anche un po’ “gioco”, ma non perdono mai la convergenza verso un unico punto interrogativo, che attende ancora risposta, e forse l’attenderà invano.





- Un parcheggio in una strada sconosciuta: via Caetani


Una mattina piena di sole di fine aprile 1978, verso mezzogiorno: arrivai nei pressi di Botteghe Oscure, in una via laterale e trovai parcheggio, dopo vari tentativi, proprio accanto all'ingresso di un cantiere edile, a destra, presso una parete di tavole e lamiera. Portavo un biglietto, che non avevo letto, di Benigno Zaccagnini a Enrico Berlinguer, ma nel quale si parlava della vicenda di Moro, allora in pieno svolgimento. Del resto ero lì per quello…
Ebbene: al momento in cui scesi dall'auto mi sentii come avvinto a terra da una strana forza. Ne fui per qualche istante turbato. Mi scossi e andai nella sede dell’allora Pci a consegnare la busta. Allora, per una specie di silenziosa convenzione, siccome andavo spesso lì, dall’amico Tonino, per varie ragioni che non erano politiche, nessuno mi fermava o mi chiedeva i documenti. Sapevano chi ero, i portieri-vigilanti, e bastava un cenno di saluto. Trovai Tonino Tatò, e lui mi portò da Berlinguer. Pochi minuti e ripartii, con un altro biglietto. Arrivato all'auto, di nuovo la strana sensazione, forte, che mi avvinghiava in quel posto…Mi scossi ancora…


Una decina di giorni dopo esattamente lì, accanto all'ingresso del cantiere, al primo posto, fu trovata la Renault 4 rossa con il cadavere di Aldo Moro…
Avevo dunque lasciato la macchina a via Caetani, per andare a parlare di lui. Allora non sapevo neppure che quella via si chiamasse così. Lo scoprii il 9 maggio pomeriggio, appena rientrato da scuola, sugli schermi della Gbr, un'emittente locale che di sicuro poi risultò molto vicina all'entourage dell’on. Craxi. Furono i primi, loro, ad arrivare sul posto con le telecamere dell’allora collega Franco Alfano. Chissà se fu solo un caso?


Conoscevo Aldo Moro anche di persona, sebbene di sfuggita. Alla fine degli anni '60 e durante gli anni successivi avevo incontrato qualche volta, nell'ambiente di S. Ivo alla Sapienza, sede romana dei "Laureati Cattolici", anche suo fratello, Alfredo Carlo. Lui lo avevo visto parecchie volte a Messa, sulle Dolomiti, a Ziano di Fiemme, ancora con i "Laureati Cattolici", sempre il sabato sera d'estate, per 5 o 6 anni, dal '67 in poi. Scendevano da Bellamonte, sopra Predazzo, lui e la sua famiglia, Nora e figli. Ricordo Giovanni ancora quasi bambino. Dopo la Messa un saluto fuggevole. L'ultima volta che lo vidi di persona, però, fu qualche mese prima del rapimento, al cinema Golden, a via Taranto, una sera tardi, per un film di Ken Russel: "I diavoli". Con lui c'era, come sempre, il fido Oreste Lombardi. Un cenno di saluto e un sorriso: niente altro.



- Come un preannuncio per “Todo modo”, tra Sciascia e Petri



Non avevo mai pensato qualcosa di simile a quanto sarebbe avvenuto, ma nella realtà mi era successo di partecipare, senza saperlo, a quella che poi – col senno di poi – a molti è parsa come una specie di “profezia”, non in senso biblico – che è ben altro – ma nel senso corrente di anticipazione del futuro. A metà degli anni ’70 Elio Petri, un grande regista, ispirato all’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia aveva realizzato “Todo Modo”, un film che racconta in forma fantasiosa la vicenda di un uomo di potere, anche nel senso torbido della parola, che preannuncia a sé e ai suoi la fine di un’era fatta di intrighi e maneggi e ambientata ovviamente in Sicilia, in un convento-albergo in cui un gruppo di politici si riunisce come per una specie di ritiro “spirituale” – non certo in senso propriamente cristiano – a riflettere sulla crisi imminente del proprio potere e sul suo declino irreversibile…


In seguito, compiendo anche una grossa ingiustizia nei confronti della storia vera, e anche di un’intera classe politica, molti hanno voluto vedere nel film – ecco il tono “profetico” suddetto – come un anticipo della vicenda di Aldo Moro e della successiva fine della prima Repubblica…Tra l’altro, e con un tocco provocatorio preciso il protagonista del film, l’attore principale, Gian Maria Volonté, era truccato in modo che pareva richiamare proprio la figura di Moro. Ebbene: all’uscita del film ci fu grosso dibattito sul suo significato di critica al partito dominante, alla sua “crisi” di politica e di guida del Paese, segnato da poco dall’esito del referendum sul divorzio (1974) e dalle elezioni politiche e locali, a Roma, con un successo crescente dell’allora Pci. Che senso dare, a questo film? Fui chiamato a discuterne nella sede di un giornale, “Paese Sera”, a via del Tritone, nella quale misi piede per la prima volta…In seguito vi avrei lavorato per parecchi anni come vaticanista ed editorialista. Dirigeva il giornale, allora, un grande giornalista “laico” del tempo, Arrigo Benedetti. Per quanto mi riguarda credo di essere stato invitato come cattolico, prete e teologo non compiacente con la Dc di allora, a discutere dei problemi della pellicola con il Direttore stesso e con il regista Elio Petri.


All’incontro, che poi occupò due pagine del giornale, c’erano anche Alberto Moravia, scontroso e imbronciato come sempre, il ministro dello Spettacolo del tempo, il Dc Adolfo Sarti, il notissimo giornalista Vittorio Gorresio, il vicedirettore Claudio Fracassi e altri. Mi pare fosse la fine del 1976, e da poche settimane era uscita, sui giornali, anche la famosa Lettera del vescovo di Ivrea, mons. Luigi Bettazzi, ad Enrico Berlinguer. Forse era noto che ero vicino, per ragioni di ministero e di amicizia, ad un gruppo di intellettuali e politici noti come cattolici impegnati, nel Pci di allora, alla ricerca di un passaggio alla visione democratica europea e in particolare di un nuovo atteggiamento verso cattolici e Chiesa in Italia. In particolare conoscevo e stimavo Franco Rodano e Tonino Tatò, cattolici dichiarati e militanti nell’allora Pci guidato da Berlinguer, a lui molto vicini nel difficile e contrastato tentativo di coniugare la realtà ideologica e politica della Sinistra di allora con la professione esplicita della fede cristiana e cattolica.


Era venuto il papato di Giovanni XXIII, che aveva introdotto non solo la distinzione tra peccato e peccatore, già nota ed evidente da sempre, ma anche quella tra ideologie filosofiche, che per loro natura restavano uguali ed eventualmente inconciliabili con la fede, e movimenti storici, che potevano avere dei cambiamenti, con conseguenze pratiche anche nei confronti di Chiesa e fede cristiana…


Forse qualcuno, invitandomi a quel dibattito sul film si attendeva da me solo una frustata alla Dc di allora…Mi trovai così, giovane e quasi del tutto fuori ambiente, a confrontarmi con personaggi di quel calibro. Andò bene:– il regista era di gran valore, la trama tratta da Sciascia era avvincente, nel cast di primo piano, oltre Volonté, c’erano Marcello Mastroianni, Mariangela Melato e Mìchel Piccoli, ancor oggi in auge come “Papa” di un altro Moretti, che per fortuna nulla ha a che vedere con la vicenda Moro – riservate le giuste lodi al film come opera d’arte ebbi modo di difendere con forza la distinzione forte tra la Dc, non solo di allora, ma di sempre, e la Chiesa come tale, tra la politica degli ultimi 30 anni – allora – e il messaggio cristiano nella esperienza cattolica di quasi 2000 anni, e per far questo citai tra l’altro una bella poesia, finemente e giustamente anticlericale, ma non antireligiosa di Trilussa – “La campana de la Chiesa” – che sorprese e rallegrò molto Vittorio Gorresio, che poi ebbe modo di riportarla in un suo libro veloce e nel complesso un po’ ingiusto, “Risorgimento scomunicato”, ricordando proprio quell’incontro.


Ne uscii soddisfatto, mai però avrei pensato che quella trama fantasiosa e geniale, frutto dell’arte e della maestria di Sciascia avrebbe avuto due anni dopo come una specie di appendice reale, nella quale – come vedremo di seguito – sarebbe entrato ancora il genio enigmatico di Leonardo Sciascia…Proprio lui, infatti, fu molto colpito dal dramma di Aldo Moro, e ne trasse uno stranissimo libro, “L’affaire Moro”, sul quale in seguito tornerò, e con qualche buona ragione…



- 1978: un anno cruciale. Quell’insulto di Francesca Mambro.


Il 1978 fu un anno pesantissimo, per tante ragioni e per tutti. Lo fu anche per me. Del resto erano anni duri…Già l'anno prima, 10 e 11 marzo, mi ero trovato a Bologna per una conferenza al mattino sugli ultimi anni della vita della Chiesa, dove presentai un libro appena uscito dello storico gesuita Padre Giacomo Martina, poi nel pomeriggio un dibattito all'università, proprio nelle ore degli scontri in cui fu stato ucciso lo studente Lorusso. Quella sera, alla stazione, di ritorno verso Roma, avevo visto salire sul treno, nella indifferenza di tutti, polizia compresa, giovanotti con catene, pugni di ferro, bastoni... Il giorno dopo, a Roma, ci furono scontri sanguinosi tra quei giovanotti e le forze dell’ordine… Così andavano le cose, in quei tempi.


1978, dunque. Comincio da una settimana prima del rapimento di Moro. Era mercoledì 8 marzo, festa della Donna. Quel giorno uscendo da scuola – allora insegnavo al Liceo Giulio Cesare di Roma – mi trovai in mezzo ad uno scontro tra estremisti nazifascisti di Terza Posizione, tra cui una ragazza allora sconosciuta, Francesca Mambro, accompagnata da giovanotti con catene e pugni di ferro, ed un gruppo di studenti della scuola. I neonazisti stavano picchiando una ragazzina di quarta ginnasio che non voleva che loro strappassero un manifestino della festa affisso davanti alla scuola. Mi misi in mezzo, e la Mambro mi corse addosso, furibonda, urlandomi in faccia questa frase minacciosa: "A te, prete rosso, prima o poi ti ammazziamo!" Le risposi con calma che se non si liberava dell'odio che aveva in corpo sarebbe finita male… Mi schernì urlandomi, ancora e sempre in faccia: "Sei vecchio, fai schifo!". Io avevo 38 anni, lei quasi 20. Oggi è tanto cambiata, e la penso con stima. La sua vicenda tragica cominciava allora, e il seguito fu pesantissimo, non solo per lei. Per la cronaca, nello stesso posto, davanti alla scuola, mesi dopo, fu ucciso il poliziotto Francesco Evangelista, detto Serpico, e furono gravemente feriti due suoi colleghi. Se non sbaglio la Mambro è stata poi condannata anche per quell'omicidio...


Allora si era tutti sulla breccia. Ancora per la cronaca, troppo spesso dimenticata, va ricordato che quei mesi di marzo-maggio '78 furono contrassegnati da innumerevoli attentati terroristici. 14 colpi di pistola contro Giovanni Picco(Dc) il 24 marzo, a Torino; altri il 7 aprile contro l'industriale Felice Schiavetti, a Genova; l'11 aprile, a Torino, ammazzano l'agente delle carceri Cutugno; incendi e bombe, frattanto, a Brescia, Mestre, Rovigo, Padova; il 20 aprile ucciso a Milano Francesco De Cataldo, altro agente carcerario; il 22 è ferito all'Università di Padova il prof. Ezio Riondato; il 26 a Roma il Dc Girolamo Mechelli; il 27, a Torino, il dirigente Fiat Sergio Palmieri; l'8 maggio, a Milano, il medico Diego Fava. Altri ferimenti subito dopo la morte di Moro, il 10 e 11 maggio a Milano, il 12 maggio, ancora a Milano, sparano a Tito Bernardini, segretario di una sezione Dc. Questa era l'aria che tirava, allora, e la respiravano anche coloro che si ponevano il dilemma delle trattative con i terroristi o del loro rifiuto…Con chi continuava a sparare ed uccidere, con chi diceva di rappresentare quelli che sparavano ed uccidevano, era lecito instaurare un rapporto di trattativa, un legame "politico"? Questo, e non solo la vicenda del governo Andreotti con il Pci nella maggioranza, fu lo scenario del caso Moro. E' mai possibile che la memoria di tanti sia diventata così corta, o così miope da subito, e rimanga tale a 33 anni da allora?


- 16 marzo/9 maggio. Quelle notti accanto a Zaccagnini


Dunque Aldo Moro. Appresi del suo rapimento e della strage della scorta in treno, a Firenze dall’altoparlante della Stazione. Era un giovedì, e stavo andando a Modena, alla Fondazione S. Carlo, per una tavola rotonda sul problema dell'aborto, in quei giorni discusso in Parlamento, che naturalmente saltò. Trovai Modena tutta in piazza, e tornai a Roma subito.

La stessa sera, o la sera dopo, mi telefonò la Signora Ettorina Briganti, cognata di Benigno Zaccagnini, segretario della Dc, e mi chiese di andare a trovarla con urgenza, a casa sua, a via della Camilluccia. Conoscevo da anni lei e suo marito, l’ingegner Elio Briganti, allora presidente della Fondazione Bordoni, una consociata Rai. Nella loro casa abitava, quando era a Roma, Benigno Zaccagnini, che non aveva mai voluto una casa sua a Roma, pur lavorandoci da trent'anni: diceva di essere “di passaggio”. Ettorina mi disse che in quelle ore Zaccagnini aveva bisogno di conforto spirituale e di sostegno morale, e che per questo lei e suo marito avevano pensato a me.

Cominciarono così quei due mesi. Passai con Zaccagnini tante sere e parecchie notti, pregando e parlando. Celebrammo più volte la Messa, sul tavolo di famiglia, e posso testimoniare che Zaccagnini avrebbe dato la sua vita, subito, per la salvezza di Moro. E in qualche modo l’ha data, anche per la sua morte: ha cominciato a morire allora, Zaccagnini, in quei 55 giorni di dolore e di speranza delusa. Chi ha assassinato gli uomini della scorta, e poi Moro, ha sulla coscienza anche la vita di Benigno Zaccagnini, condannato a morte al rallentatore.


Arrivai a casa Briganti la prima volta, probabilmente la sera del 17 marzo, attorno alle 22. La casa era vicinissima a via Fani, io venivo da Capannelle. In mezzo c'era tutta Roma, eppure in macchina non incontrai alcun controllo, alcun posto di blocco. Non solo: nella portineria del palazzo trovai solo due agenti che sul tavolo giocavano a carte. In un angolo c’erano due mitragliette, a tre metri di distanza.. Sarebbe stato un gioco da ragazzi disfarsi di loro e salire nella casa in cui era il segretario della Dc. Eppure in quelle ore Tv, radio e giornali parlavano di Roma a ferro e fuoco, di cavalli di Frisia, di posti di blocco…Si scrive che in quei giorni Roma fu messa a soqquadro…Per 60 giorni girai nella zona quasi tutte le sere: nessuno mai mi fermò per chiedermi i documenti. Resta, per me, una stranezza tra le tante, di quei giorni...

Torno a Zaccagnini. Mi disse più volte che non era contento di come erano andate le cose per la soluzione politica di quella crisi di governo. Neppure era convinto della composizione del nuovo governo Andreotti che proprio la mattina della strage si era presentato alla Camera. Anche un recente "rimpasto" degli organi di partito – di cui pure era lui il segretario – non lo aveva soddisfatto…Avevano combinato tutto Moro e Andreotti. Lui aveva preso la decisione, quindi, e me lo disse chiaro, di dare le dimissioni da segretario. Dunque se le Br non avessero rapito Aldo Moro, Benigno Zaccagnini, appena varato il governo Andreotti con il Pci nella maggioranza si sarebbe dimesso da segretario della Dc. Per la cronaca lo ha scritto una volta anche Enzo Biagi, nero su bianco, mai smentito da qualcuno…Zac voleva tornare a Ravenna, a fare il pediatra. Era stanco di quella politica, che aveva voluto anche lui, ma di cui troppe cose, troppe persone, troppe vicende concrete non gli piacevano. Lo aveva detto anche a Moro, e negli ultimi giorni qualche colloquio non era stato del tutto normale. Zaccagnini era inquieto, e ne aveva detto le ragioni precise: inascoltato, nel partito di cui pure era segretario e nel governo…Ma le Br rapirono Moro, e lui fu costretto a restare. In quelle condizioni le sue dimissioni divennero impossibili.


- Il falso dilemma: fermezza o trattativa. Non ci fu mai alcuno "spiraglio" credibile con le Br.



In passato ho scritto altrove, ampiamente, di quell'esperienza accanto a Benigno Zaccagnini nei 55 giorni e notti d'angoscia che seguirono il 16 marzo(cfr. "E Zac scoprì il bluff di Craxi", in "Famiglia Cristiana", n.46, 1993) per difendere la memoria di Zaccagnini – e in modo diverso, ma parallelo, anche quella di Berlinguer, e persino quella di Paolo VI – dall'infame calunnia di non aver voluto salvare Moro.


Non è vero che Zac sposò, o addirittura promosse e volle di sua iniziativa, quella che fu manicheisticamente chiamata "linea della fermezza", e altrettanto manicheisticamente opposta alla "linea della trattativa". La verità, vista dalla parte di Zaccagnini e di quelli che allora gli furono davvero accanto, senza fini di partito, senza tattiche verso l'opinione pubblica, senza altro scopo che quello di vedere sul serio cosa era possibile e lecito fare, tenendo conto di tutti i fattori in campo, e innanzitutto della vita dell'ostaggio, fu che non ci fu mai, da parte delle Br – e va aggiunto seriamente, anche di chi eventualmente, posto che ci sia stato, tirava tutti i fili della vicenda – uno spiraglio reale di apertura, non dico di trattativa, ma neppure di comunicazione credibile e sincera, che potesse far pensare, anche alla lontana, di iniziare un discorso con chi aveva criminalmente pensato, organizzato, diretto ed eseguito il rapimento di Aldo Moro con la strage della sua scorta, e si stava preparando a gestirne l'assassinio.


Ricordo qui, e nessuno smentirà, che gli stessi Br in prigione, in particolare Curcio e Franceschini, in quei giorni sotto processo a Torino, ebbero più volte a dire, per esempio proprio a monsignor Cesare Curioni, cappellano capo di San Vittore – poi ispettore generale di tutte le carceri italiane per l'assistenza religiosa, che ha passato quasi 30 anni nelle stesse carceri – che di tutta la faccenda Moro loro non sapevano niente se non dai giornali, anche se pubblicamente, nell'Aula del processo, di fronte ai giornalisti, si vantavano di averlo in mano…Lo ha dichiarato ai magistrati anche lo stesso monsignor Macchi, ex segretario di Paolo VI, che fu amico di Curioni fino alla sua morte, avvenuta nel gennaio 1996, e che celebrò di persona i suoi funerali lassù, in un paesino di montagna sopra il Lago di Como. Ci tornerò su per quanto riguarda la posizione della Santa Sede nella vicenda.


La verità è e resta che Benigno Zaccagnini sarebbe stato disponibile – se ci fosse stata qualche possibilità reale di aver salva la vita di Moro – non ad un assurdo patteggiamento da potenza a potenza, impossibile sia per ragioni politiche e giuridiche che per ovvie ragioni morali – prima tra tutte, tragica e decisiva, la strage della scorta – ma a ragionevoli proposte umanitarie…Queste ci furono anche, come vedremo subito. Ma la stessa disposizione non ci fu mai, negli assassini e forse anche a certi alti livelli istituzionali di allora, che poi si apprese inquinati da realtà come P2 e servizi deviati. E non si dovrebbe mai dimenticare che soprattutto in ambienti della diplomazia e dei servizi segreti nazionali ed internazionali uno come Aldo Moro poteva far comodo morto, per tante e diverse ragioni, convergenti anche su fronti opposti ed accanitamente in contrasto.


- Paolo VI, il Vaticano e la vicenda Moro all'epilogo.



Dunque non ci fu alcuno "spiraglio" vero verso una via concreta di salvezza per Aldo Moro. La disponibilità ad uno "spiraglio" - ricordo quante volte gli ho sentito sospirare questa parola - vale certissimamente per Zaccagnini, e vale anche altrettanto per Paolo VI. Tutte le informazioni che ho avuto, su questo argomento, le debbo proprio a mons. Cesare Curioni, grande amico di tanti anni, uomo che come nessun altro, in Italia, ha vissuto per decenni dentro le carceri italiane, da cappellano a san Vittore e poi da ispettore capo di tutte le carceri italiane per l'assistenza religiosa. Eravamo molto amici: bontà sua. Ricordo che la sera nella quale fu approvata definitivamente la legge sull’Ispettorato per l’assistenza religiosa nelle carceri italiane Don Cesare, come sempre accompagnato dal suo segretario, Don Fabio Fabbri, volle festeggiare la cosa a casa mia, in via dei Pettinari, e c’erano anche l’on. Rosa Russo Iervolino, Giglia Tedesco e Tonino Tatò…Don Cesare era stato vicino a Paolo VI fino dagli anni di Milano, e proprio Montini lo volle a quella carica ufficiale, a Roma, e lo chiamò accanto a sé anche nei giorni tremendi del dramma. Abbiamo parlato tante volte di tutta la vicenda. Non ha mai voluto, prima di morire, che si dicesse del suo ruolo…Sono passati più di 15 anni: ora è diverso.


Montini e Moro, dunque. Si conoscevano dagli anni '40. Montini stimava Moro e gli voleva bene, ricambiato. Avevano vissuto momenti difficili, insieme, a cominciare da quando Moro, appoggiato proprio dal giovane monsignor Montini, fu allontanato dalla presidenza della Fuci e sostituito con Giulio Andreotti, su proposta di mons. Giuseppe Pizzardo, poi cardinale, vicino al "partito romano" di mons. Ronca e del celebre Egilberto Martire, che nel '54 si sarebbe vantato di aver fatto "cacciare" da Roma proprio Montini, che andò a Milano. Nove anni dopo sarebbe tornato da Papa.


Dunque da Papa Giovanni Battista Montini ha vissuto il dramma dell'amico Aldo. Si è scritto tanto, in questi anni, su questo problema, spesso senza costrutto e con molta fantasia. Sul tema lo stesso segretario particolare di Paolo VI, mons. Pasquale Macchi, ha scritto un libro – “Paolo VI e la tragedia di Moro” (Rusconi ed.) – di cui ha voluto in anticipo inviarmi le “bozze”, sapendo che ero stato a modo mio al corrente di alcuni particolari della vicenda grazie alla mia amicizia con mons. Curioni. Quel libro, nella speranza di Macchi, avrebbe dovuto riuscire a far chiarezza, naturalmente esclusi i pregiudizi in malafede, come quelli di qualche cineasta che con nomi e cognomi veri costruisce vicende del tutto false. Dicono che è la libertà dell’arte…Ma è solo un vizio: e purtroppo dura fino ad oggi.


Il Papa dunque seguì con molta emozione tutta la vicenda: voleva bene a Moro, da sempre ne condivideva lo sguardo pensoso e problematico sul futuro della Dc. Del resto egli stesso era attento osservatore della crisi del partito che era stato di suo padre, e di cui aveva seguito con apprensione il calo di credibilità di fronte al mondo cattolico – si pensi alla vicenda delle Acli di Emilio Gabaglio all’inizio degli anni ‘70 – e di fronte alla realtà dei tempi in mutamento. Proprio Moro aveva pensato, per risalire la china, alla segreteria Zaccagnini, e poi all'apertura di una nuova fase. Un posto, nel cammino verso quel 16 marzo 1978 – lo si dimentica sempre – lo aveva avuto anche lo scambio di lettere di mons. Bettazzi ed Enrico Berlinguer, con i passi avanti del Pci verso una posizione di "partito non teista, non ateista, non antiteista". La formula, elaborata pochi mesi prima, frutto anche di tanti incontri per preparare il testo – cui lavorarono molto Franco Rodano e Tonino Tatò, spesso parlandone anche con me per la parte “religiosa”, che cioè toccava direttamente problemi teologici – resa pubblica nell'autunno 1977, era un passo avanti di dialogo, di tolleranza, di possibili sviluppi. Tra l’altro era il superamento delle posizioni di Gramsci – attirare il mondo cattolico per poi indurlo al “suicidio” – e dello stesso Togliatti, che fino alla fine, nel famoso “Memoriale di Yalta”, affermava che “la coscienza religiosa” era una realtà da “conoscere” e poi “superare”…Il fatto che poi tanti, nel Pci di allora e anche nel mondo cattolico, non riuscirono a coltivare quel passo avanti, non toglie il valore alle intenzioni di chi lo aveva pensato. Moro aveva seguito la vicenda con molto, pur se per lui e per tanti attorno a lui problematico, interesse.


Torniamo a Paolo VI. La tremenda notizia del rapimento dell'amico e del massacro della scorta era stata per lui una vera mazzata. Ottantenne, era agli ultimi mesi del suo cammino terreno. Del resto, se fosse dipeso solo da lui si sarebbe dimesso nel settembre del 1977, quando compì gli 80 anni, come esempio personale dell’obbedienza volontaria alla sua disposizione nella “Ingravescentem Aetatem”, proprio nei confronti dei cardinali ottantenni. Del resto Lui, Paolo VI, aveva predisposto tutto anche in quella prospettiva, e il trasferimento a Firenze di monsignor Benelli, fatto cardinale a giugno, era il segno chiarissimo del suo proposito, che poi per ragioni note qualcuno, molto interessato ad evitare quel cambiamento, una volta che “il dittatore” Benelli era stato allontanato da Roma, fece cambiare…Anche su questo in seguito ho avuto modo di scambiare alcune idee, anche per lettera, con lo stesso mons. Macchi, che incontrai per l’ultima volta a gennaio 1996 proprio ai funerali di mons. Curioni, morto all’improvviso nel paesino natale di Asso, ai confini della Svizzera.


Torniamo alla vicenda Moro. Le ripercussioni del rapimento furono forti, su Paolo VI, e lo abbatterono molto. Egli intervenne pubblicamente più volte. Il 2 aprile, domenica dopo Pasqua, a mezzogiorno aveva parlato di Moro, facendo un "appello vivo e pressante" perché "si desse libertà al prigioniero". Il 22 aprile, con mossa del tutto inattesa, e senza accordi preventivi con chiunque, fece pubblicare sull'“Osservatore Romano” che eccezionalmente anticipò l'uscita al mattino invece che al pomeriggio, la sua “preghiera agli uomini delle Br”. Ne aveva parlato la notte prima con Macchi e l'aveva scritta con lui e proprio con mons. Cesare Curioni, che sapeva informato come nessun altro sulla realtà delle carceri italiane, ed in particolare sulla situazione dei brigatisti detenuti, in quel momento sotto processo a Torino. Scrissero la preghiera insieme, e “Don Cesare” stese sotto dettatura diretta del Papa la prima bozza, se si vuole la brutta copia. Poi il Papa copiò interamente e di sua mano il testo, apportando ancora qualche piccolo cambiamento, ma quelle famose parole, "senza condizioni", vennero da sole e fin nella prima bozza, come segno della consapevolezza lucida, connaturata in un uomo come Montini, che Papa e Santa Sede non potevano entrare in faccende che riguardassero altro che la dimensione morale della vicenda. E' noto che proprio quelle parole furono usate per collocare in modo assoluto e sbrigativo il Papa su quello che fu presentato come fronte della fermezza cieca e disumana. Non era vero, ed è presto dimostrato. Sarebbe difficile spiegare, altrimenti, come mai "Civiltà Cattolica", i cui testi erano e sono sempre rivisti in Segreteria di Stato, ebbe a scrivere così, in piena vicenda Moro, quando tutto poteva essere ancora diverso: "Lo Stato e la Dc non possono cedere al ricatto dei terroristi, né scendere a trattative con essi: ciò, però, non significa che - attraverso possibili canali diversi - non si possa e non si debba far nulla per tentare di salvare la vita dell'on.le Moro"("Civiltà Cattolica", 15 aprile 1978, p. 163. La sottolineatura è mia).


E non basta. Sarebbe ancora più difficile spiegare un altro fatto, e cioè che Paolo VI non aveva rifiutato, ed anzi aveva approvato esplicitamente, l'idea di un fondo in denaro, messo a sua disposizione da personalità del mondo ebraico internazionale, come segno di gratitudine per l'azione della Santa Sede ai tempi del nazismo, e destinato a favorire eventuali "rapporti" con chi aveva allora in mano Aldo Moro. L'incarico di vedere come raccogliere questo fondo, e di trovare eventuali canali sicuri con le Br, Paolo VI lo affidò proprio a mons. Curioni. Ma i rapporti conseguenti non cominciarono neppure, per assoluta mancanza di interlocutori credibili, ed il denaro restò nelle mani dei volenterosi donatori. Resta dunque provato che per Paolo VI, in ogni caso, si doveva fare tutto il possibile per salvare Moro.


Certo: è sicuro che a Moro i suoi carcerieri dicevano che tutti, e soprattutto la Dc e la Santa Sede, lo volevano morto, e le sue lettere sono la normale reazione a questo falso messaggio. Lui era informato soltanto dai suoi assassini, che ad un certo punto gli avevano annunziato anche che di loro iniziativa gli avrebbero salvato la vita, nonostante la Dc e l'inerzia di tutti i suoi amici, ed egli nel suo "Memoriale" si dichiara di questo "profondamente grato". E’ un particolare che va tenuto presente per valutare le lettere di Moro: esse non sono di certo false, ed esprimono il suo vero pensiero di quel momento, ma di uomo informato sulla realtà solo dai brigatisti...Del resto è anche sicuro che nelle lettere ci sono, evidenti, magari in passaggi di scarso rilievo e come tra parentesi, espressioni che egli non avrebbe mai usato. Un solo esempio: Aldo Moro non avrebbe mai detto di mons. Virgilio Levi, vicedirettore dell' "Osservatore Romano", come nella lettera alla moglie, a metà aprile: “questo sig. Levi”…I veri falsari, quindi, sono stati i custodi e carnefici di Moro, che lo hanno sempre informato proponendogli soltanto quello che loro volevano, mettendolo di fronte ad invenzioni per lui dure ed atroci. Di qui certe reazioni del prigioniero, ed anche certi giudizi su persone e realtà che egli conosceva bene come diverse. A lui dicevano che Zaccagnini non lo voleva salvo, che Paolo VI non diceva nulla - lui in una lettera scrive che ha fatto "pochino" - e così si capiscono le sue reazioni in altri passi delle lettere, e si capisce anche che di fronte ad essi uno come Zaccagnini sia rimasto profondamente addolorato, cosa che avvenne anche con Paolo VI.


C'è anche un altro punto, che non andrebbe mai dimenticato, e che nessuno pare ricordare, ragionando a cose fatte sulla vicenda. E' un punto profondamente rivelatore delle intenzioni vere di chi aveva in mano Moro. Ne ha parlato anche qualche anno or sono, per la prima volta mi pare, Lanfranco Pace sul "Corriere della Sera": l'uccisione del prigioniero avvenne immediatamente non appena si delineò sul piano istituzionale per la prima volta uno spiraglio appena possibile, con alcune parole di Amintore Fanfani a favore "della vita e della libertà di ognuno", e con l'individuazione, da parte del ministro di Grazia e Giustizia, di una possibile "grazia" per la Besuschio e/o per un terrorista detenuto a Trani, e perciò subito già trasferito a Napoli. Era l'8 maggio. Non per nulla, all'alba del giorno dopo Aldo Moro fu assassinato, e fatto trovare a via Caetani.


Monsignor Pasquale Macchi ha testimoniato del dolore e del pianto rinnovato di Paolo VI. Il vecchio Papa volle essere presente, e volle parlare, levando la sua drammatica voce dolente e interrogante durante i funerali di stato, tragicamente privati anche della presenza della famiglia.
Macchi, nel suo libro in cui riporta tutti i testi delle parole di Paolo VI per Moro in quei drammatici giorni ricorda proprio il lavoro di Curioni. E proprio Curioni, personalmente, mi ha più volte parlato della vicenda, e basandosi sulla sua conoscenza del mondo dei detenuti Br e degli intrecci della malavita, mi ha manifestato tanti dubbi sulle dichiarazioni dei terroristi stessi, mentre non ha mai avuto un dubbio sul fatto che un vero e proprio canale con le Br attive non ci fu mai proprio per volontà precisa delle Br stesse – o di chi eventualmente le pilotava – che gridavano al mondo la loro disponibilità a trattare, ma si erano mosse, e si muovevano in modo assolutamente coerente con un solo scopo, quello della eliminazione fisica del detenuto, e della fine del suo disegno politico.


Per quanto ho potuto sapere, da lui, e anche da pochi accenni che allora ebbi dal cardinale Ugo Poletti, vicario di Roma, cui all'epoca comunicai i miei incontri con Zaccagnini e Berlinguer, la relazione della Santa Sede con la vicenda Moro fu questa. Posso aggiungere qualcosa, dal mio punto di vista molto personale, e quindi molto relativo e del tutto provvisorio ed opinabile, sull'eventuale ruolo di don Antonello Mennini, allora viceparroco a Santa Lucia, che tanto ha fatto scrivere, senza sua colpa, e spesso anche senza alcun fondamento reale. Egli conosceva personalmente Moro e la sua famiglia. Fu certo lo stesso Moro che lo indicò ai suoi carcerieri come possibile interlocutore, o che forse ne richiese soltanto, esaudito, i servizi religiosi. Egli nella vicenda non credo abbia avuto mai alcun incarico dalla Santa Sede, anche se è probabile che informò i suoi superiori su quanto gli era successo e sui contatti che ebbe, che non ebbero mai alcun rilievo politico. Anzi: è noto che in Vaticano parecchi videro molto male la sua attività, e che a vicenda finita, per sottrarlo alla curiosità di tanti, e forse anche a qualche possibile vendetta, fu deciso di assumerlo in Segreteria di Stato e poi di trasferirlo lontano da occhi e orecchie indiscrete. La cosa fu fatta vincendo anche le resistenze del babbo, commendatore Luigi Mennini, che come noto in Vaticano aveva un ruolo importante nello Ior. Egli è stato interrogato più volte dai giudici, e non è pensabile, anche se è stato scritto tante volte da incompetenti, che si sia trincerato dietro il "segreto confessionale". Questo infatti riguarda solo ed esclusivamente la materia della confessione stessa, per intenderci i "peccati" di chi eventualmente si fosse confessato da lui, e non certo circostanze e luoghi di eventuali incontri. Se fu portato nella prigione di Moro è del tutto verosimile che gli fu impedito di capire dove fosse, e anche quanto essa distasse dal luogo in cui fu preso in consegna. Ai giudici avrà detto quanto aveva potuto sapere. Ogni illazione sul resto è solo fantasia di chi non ha altro da scrivere. E la cosa è confermata dal suo dignitoso silenzio, sull’argomento, tenuto fino ad oggi nelle diverse mansioni ecclesiali che gli sono state affidate, tutte segno di grande fiducia e stima da parte della Santa Sede e dei vari Papi, da Paolo VI in poi.


In ogni caso, per quanto mi riguarda, alla morte di Moro seguirono alcuni altri giorni in cui fui vicino a Zaccagnini, anche in momenti dolorosi come i funerali veri e propri dell'amico, cui per il divieto della famiglia gli fu impedito di partecipare. Avvertì il peso di questo divieto – che rispettò – come una ferita profondissima, ci tenne a non far nulla che potesse acuire i contrasti con la famiglia di Moro, ma pretese con forza, ed ottenne da tutti, anche e soprattutto dal sen. Fanfani – che ci provò a più riprese – che non ci fosse qualcuno che al momento dei funerali potesse pubblicamente dissociarsi dalla condotta tenuta per responsabilità istituzionale e soprattutto per senso vero della realtà effettiva delle cose.


All'ora dei funerali di Moro celebrammo l'Eucarestia di suffragio sulla tavola della famiglia Briganti, e Zaccagnini pianse molto, in silenzio. Proprio all’inizio della celebrazione, tra l’altro, arrivò la telefonata di Fanfani che voleva andare al funerale… Zaccagnini non consentì.


Era molto turbato, e con parole molto forti minacciò immediatamente la denuncia ai probiviri per l’espulsione dal partito. Fanfani obbedì, ma furbescamente a metà: non partecipò ai funerali, ma si fece trovare per primo al cimitero di Torrita, quando arrivò la bara per la sepoltura…Ho raccontato tutto questo, ampiamente, nell’articolo sopra citato di “Famiglia Cristiana”, anche con particolari interessanti dal punto di vista della piccola cronaca, soprattutto per capire ciò che allora si verificò dentro la Dc…


Tra l’altro, ho anche avuto modo di parlare di altre vicende legate al caso Moro – tra cui quelle che seguono qui immediatamente – anche in una trasmissione Rai, che mi pare si chiamasse enigma, e in quella sede sono rimasto colpito dal fatto che, presentandomi ad uno dei partecipanti, ex ministro socialista molto potente, e pubblico paladino di una trattativa che in realtà fu sempre impossibile, mi sentii dire che lui, di me, sapeva già “tutto”! Segno che ero stato per lo meno “osservato”, durante quei giorni difficili…



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https://it.wikipedia.org/wiki/Memoriale_Moro


- Quei passi "strani" delle lettere: gli anagrammi,

Sciascia, il povero Bachelet, il pittore e qualche giornale.



Poteva finire lì, quel 9 maggio 1978, e invece non avevo finito di incontrarmi con la vicenda Moro. Negli anni successivi c’è stato altro. Infatti mi è capitato di venire in contatto con un gruppo di persone che sul "caso Moro" mi raccontarono qualcosa di assolutamente singolare, e per me non ancora concluso. Qui enumero solo i “fatti”, che elenco di seguito.


Primo fatto. Gli “amici” di Moro e gli anagrammi delle lettere.



Qualche tempo dopo la morte di Moro venni a sapere che un gruppo di persone, tra gli amici di Moro, si erano dati da fare immediatamente, ancora nei giorni della sua prigionia, per capire qualcosa di più sulle sue lettere e su possibili "messaggi" contenuti in esse. Sapevano, loro, e così mi hanno riferito, che Moro, soffrendo di insonnia frequente, durante le sue notti si dilettava con grande competenza di enigmistica, di rebus, di anagrammi, e pensarono di leggere con quel particolare "filtro" i testi delle lettere che arrivavano dalla prigione delle Br.


Del gruppo facevano parte parecchie persone. Tra esse per esempio il prof. Giorgio Bachelet, fratello del più noto Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, il prof. Filippo Sacconi e il Dr. Alberto Malavolti. Con loro “lavorarono” anche altri noti professionisti, e alcuni degli incontri di esame dei testi avvennero in casa di E. e G. L., miei amici, che mi informarono del fatto.


Durante gli incontri, dunque, l'attenzione era stata posta sui testi delle lettere in prospettiva di possibili anagrammi nascosti. Era un'idea bislacca per chi non avesse saputo che Moro aveva quell'abilità singolare. Per loro non lo fu. Avrebbe potuto utilizzare quelle lettere, Moro, per far sapere qualcosa al di fuori, ad eventuali anagrammisti esperti come lui? C'era, in quei testi, qualche messaggio cifrato? Con un lunghissimo e minuzioso lavorio, con le lettere dell'alfabeto separate scritte su pezzettini di carta disposti via via sul tavolo, che poi venivano conservati in un pacchetto di sigarette vuoto, il gruppo arrivò ad isolare prima una frase della lettera a Zaccagnini del 4 aprile, e poi un'altra della lettera alla Dc fatta arrivare al "Messaggero" il 29 aprile.
In ambedue i casi la frasi segnano, nel contesto, un brusco passaggio logico, ed in ambedue i casi si parla della "famiglia", interrompendo lunghi ragionamenti politici pubblici, per parlare improvvisamente del privato.

Eccole:

Dalla Lettera a Zaccagnini: "Se non avessi una famiglia così bisognosa di me, sarebbe un po' diverso".

Dalla Lettera alla Dc: "E' noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte".

Dopo tantissimi tentativi quel gruppo di amici di Moro giunse ai seguenti anagrammi, sorprendentemente convergenti:

Il primo testo: "Son fuori Roma, dove la Cassia in basso forma un'esse, vedo pini e bimbi".

Il secondo: "Le Br mi tengono prigioniero nel cottage a mattoni a sommo della valle di Formello tra Flaminia e Cassia: Aldo M."

Per precisione nel primo anagramma restava fuori una g, e nel secondo tre lettere: h, i, u.

I due anagrammi indicavano, se presi sul serio, un luogo abbastanza preciso: zona di Formello, tra Flaminia e Cassia.

Quella zona è raggiungibile in meno di un quarto d'ora da via Fani, ed è ancora più vicina alla nota - adesso - via Gradoli, di cui si continua a parlare fino ad oggi.


Va aggiunto, avendo di fronte i testi autografi di Moro, che i due testi sono scritti in modo del tutto singolare, soprattutto il secondo.
Moro interrompe la pagina 8 della lettera ben prima della fine del foglio, lascia un ampio spazio vuoto e comincia la pagina 9 ex abrupto con quella frase fuori contesto…






Secondo fatto. Vittorio Bachelet informò gli inquirenti.



Quel gruppo di amici di Moro, all'inizio del maggio '78,. quando le ricerche ufficiali si erano impantanate, segnalò gli anagrammi alle autorità di Polizia. In particolare fu Giorgio Bachelet che ne informò suo fratello, Vittorio, che gli assicurò di averne dato comunicazione agli inquirenti. La cosa non ebbe seguito, allora, perché arrivò il 9 maggio. Resta il fatto che proprio Vittorio Bachelet fu ucciso, il 12 febbraio 1980, da un commando Br di cui faceva parte anche Anna Laura Braghetti, una che risulta tra i "carcerieri" di Moro.


Terzo fatto. Leonardo Sciascia e il suo "Affaire Moro".


In assoluta indipendenza da quel gruppo di amici di Moro ci fu qualcun altro che nei mesi immediatamente seguenti al sequestro Moro fu colpito, nello studio minuzioso delle lettere di Moro, proprio da quelle due frasi che erano state individuate per la loro sorprendente incongruità con il contesto. Leonardo Sciascia, scrivendo il suo "L'Affaire Moro", edito da Sellerio nel 1978, solo alcuni mesi dopo i fatti, si disse innanzitutto certo che Moro nelle lettere cercasse "di comunicare qualche elemento che potesse servire ad orientare le ricerche per ritrovarlo"(p. 43)

e dopo aver escluso, di suo, che ci fossero "crittogrammi, o che sia possibile decifrarle attraverso scomposizioni e ricomposizioni"(ivi) arrivò tuttavia ad isolare ed indicare proprio e solo quelle due frasi(pp. 54 e 55)

per dire che in esse doveva esserci un "messaggio" essenziale che Moro voleva trasmettere a chi lo cercava.

Ragiona, Sciascia, sulla evidente paradossalità delle due frasi, in cui il rapporto con la “famiglia” è presentato in un modo del tutto unilaterale, come di un bisogno "assoluto", che per chi conosceva la realtà della vita famigliare di Moro risulta evidentemente esagerato ed enfatizzato ad arte.


Quarto fatto. Freato, Cazora, e la N’drangheta



Durante gli ultimi giorni delle ricerche di Moro, esattamente il 6 maggio, alle 12.10, la polizia registrò una telefonata tra Sereno Freato, "segretario" di Moro poi molto discusso, e l'on. Benito Cazora, Dc, che riferiva dei contatti avuti con elementi della malavita calabrese per cercare indicazioni sulla prigione di Moro. Si parlava della necessità di andare a cercare Moro nei sotterranei di una villa "riparata ad arte", e del fatto che occorreva far presto, perché "ancora c'è un margine, ed è l'estremo". Tre giorni dopo Moro fu ucciso e ritrovato a via Caetani.


Quinto fatto. La vicenda arriva su "Paese Sera"



Questa storia degli anagrammi rimase sepolta nella mia memoria, dopo il racconto che me ne avevano fatto i protagonisti - che mi avevano anche regalato il pacchetto vuoto di sigarette con i pezzettini di carta serviti a cercare gli anagrammi - fino al dicembre 1986. Ero giornalista a "Paese Sera", allora, e ne parlai con il Direttore, Claudio Fracassi, che volle consultare in merito, quasi per gioco, un suo amico notissimo esperto di enigmistica, Ennio Peres, che allora come oggi si occupava professionalmente di anagrammi su varie riviste, p. es. allora sul settimanale "L'Europeo" e poi su “La Stampa”.


Ebbene, Peres all'inizio fu molto scettico, affermando che da una frase si può tirare fuori tutto ed il suo contrario, ma dopo aver studiato i testi restò davvero colpito dalla singolarità degli anagrammi, e perplesso, e allora acconsentì a parlarne sul giornale. Il 2 dicembre '86, dunque, "Paese Sera" uscì con una prima pagina ed un mio ampio servizio, non firmato, e con un pezzo dell'anagrammista Peres che raccontava della sua ricerca professionale su quei testi e del loro possibile significato indicativo del luogo della prigione. C'erano, sul fatto, l'apertura di prima pagina e dentro altre due pagine intere, ed il giorno dopo, 3 dicembre, un'altra pagina intera, con il racconto di un collega, Enrico Fontana, che era andato nella zona di Formello, a cercare l'ipotetico posto cui rimandavano i testi di Moro: descrizione dello scenario di ville, prati, pini, costruzioni ricche e modeste immerse nel silenzio e nel verde.


In redazione, allora, ci fu qualche aspettativa di riscontri. Nulla: il "presunto" scoop cadde nel vuoto totale. Nessun giornale, salvo "L'Avanti" con un trafiletto, riprese la curiosità…


Sesto fatto. Due riscontri inattesi.


In realtà quasi immediatamente quella pubblicazione su "Paese Sera" un riscontro lo ebbe. Qualche settimana dopo - fine '86/inizio '87 - arrivò in redazione a Roma, a via del Tritone, un anziano distinto signore, chiedendo degli autori di quegli articoli sugli anagrammi. Mi telefonò il leggendario “portiere” del giornale, che si era informato sull’autore del pezzo, e gli dissi di inviarlo da me. Si chiamava Viktor Aurel Spachtholz, e si presentò con biglietto da visita, che conservo ancora, come pittore e grafico di fama internazionale, membro dell'Accademia Goncourt di Parigi e Senatore dell'Accademia Burckhardt di Zurigo, residente da decenni in Italia, a Vettica di Amalfi. Raccontava di aver combattuto nella resistenza antinazista, poi era rimasto in Italia. Di fronte al Direttore di “Paese Sera”, Claudio Fracassi al collega ed ex direttore Piero Pratesi, che avevo subito chiamato e a me, egli disse che sulla base di quello che avevamo pubblicato era in grado di indicare la prigione di cui gli anagrammi parlavano. Secondo lui essa era nel sotterraneo della villa di un ex magistrato, importantissimo, il cui nome era comparso nelle liste della P2. Raccontò, Spachtholz, davanti a noi tre, che verso il 1976 aveva dato lezioni di pittura a questo ex magistrato nella sua villa in zona Formello, e che una volta era sceso con lui, per brindare alla fine delle lezioni, nella cantina della villa, un vero e proprio bunker fortificato. Sorpreso dallo scenario inatteso egli aveva esclamato così, "Ma questa è una prigione!", ed il padrone di casa gli aveva replicato pressappoco così: "Noi da qui incendieremo l'Italia, e la salveremo"…


Era noto che proprio Moro, presidente del Consiglio, aveva avuto forti contrasti, ufficiali, con questo magistrato, che aveva dovuto dimettersi da ogni carica in relazione alla vicenda Sindona…Il racconto di Spachtholz aveva risvolti notevoli: se il discorso cadeva su quella persona, ovvio che entrasse in gioco anche tutto lo scenario della P2, dei Servizi Segreti deviati, della infiltrazione di piduisti nel comitato incaricato proprio in quei mesi di coordinare tutto quello che riguardava la gestione delle ricerche di Moro, della sua prigione, dei suoi sequestratori, dei mandanti e degli esecutori della strage di via Fani e del rapimento…Lo Spachtholz si offrì, subito, di accompagnarci a vedere la villa, ma era tardo pomeriggio, si doveva "chiudere" il giornale del giorno dopo, e con decisione immediata l'offerta fu per il momento declinata. Ci lasciammo con l'intesa che ci saremmo risentiti…


Va aggiunto, per la cronaca, che egli poche settimane dopo morì: fu trovato morto dai vicini nella sua casa di Vettica di Amalfi. Era anziano, sicuramente, ma era anche un personaggio singolare. Ho letto anche di recente su “Storia in Rete”, una rivista che va in edicola ma soprattutto su Internet, parecchie pagine interessanti e cariche di stranezze e misteri…


Tornando a quel magistrato indicato da Spachtholz come padrone della “prigione”, tutti mi dicevano, allora, che era già morto. E invece ne parlai con un notissimo avvocato romano, il Dr. Zupo, cui mi indirizzò un conoscente comune, il Dr. Pietro Mascioli, il quale mi fece avere le fotocopie delle lettere di Moro e mi assicurò che allora, nel 1986, il soggetto era ancora vivo, rinchiuso nella sua casa presso Genova, e rifiutava di incontrare e vedere chiunque. Anche mons. Cesare Curioni, di cui ho già parlato, che per ragioni professionali lo aveva conosciuto ai tempi in cui era in carica come Ispettore generale presso il Ministero, e che aveva conoscenza di quella sua casa in zona Flaminia-Cassia, mi confermò che allora era vivo…


Ma alla pubblicazione su "Paese Sera" ci fu anche qualche altro riscontro. Ennio Peres, l'anagrammista che aveva firmato il suo pezzo da esperto di enigmistica, cominciò a trovare sulla sua segreteria telefonica messaggi singolari con ripetute minacce anonime, che si ripeterono per un po'. Di più: un notissimo personaggio presente nelle cronache dei tempi del terrorismo italiano degli anni '70, Mario Merlino, che lo conosceva da anni, incontrandolo lo prese ripetutamente in giro chiamandolo "Aldo"…
Ultimo fatto: alcuni mesi dopo il direttore di "Paese Sera" di allora, Fracassi, fu senza grandi spiegazioni pubbliche, dimesso dal suo incarico…


Settimo fatto: 1988. La pubblicazione su "Giochi Magazine" e la fine "improvvisa" della rivista.


La faccenda parve finita lì, con un buco nell'acqua, per la verità un po' torbida, ma niente altro. Fino alla primavera del 1988. In vista del decimo anniversario della morte di Moro, Ennio Peres, l'anagrammista, mi chiamò una sera al telefono e mi chiese di tornare sulla faccenda per una bellissima rivista tutta dedicata ai giochi enigmistici. Mi disse che voleva fare un servizio specifico proprio su quei testi, come per un "gioco" logico, e che era già d'accordo con la direzione della rivista, ma che aveva bisogno di un pezzo che raccontasse la vicenda degli amici di Moro, della scoperta degli anagrammi, di Sciascia, di Paese Sera e di Viktor Aurel Spachtholz con la sua indicazione della villa nella valle di Formello. Lui avrebbe provveduto a raccontare la sua ricerca professionale sugli anagrammi e la storia delle minacce alla sua segreteria telefonica, ma appunto come per un gioco: di questo si occupava la rivista.


Scrissi il mio pezzo, e per prudenza lo firmai Ersilio Quarelli. Peres scrisse il suo, ed il bel servizio, quattro pagine e foto, uscì nel numero di marzo 1988 della rivista, che aveva in copertina un bel ritratto di Gianni Agnelli, un servizio sul "Nome della Rosa" di Eco ed un annuncio: "Caso Moro: c'è un enigma nelle lettere". La rivista era al n. 3 del secondo anno di vita, ed il Direttore, Giuseppe Meroni, nella presentazione del numero cominciava parlando dell' "enigma nelle lettere di Moro", e proseguiva annunciando i prossimi numeri pieni di sorprese, di giochi, di regali per i lettori.


Nel testo pubblicato, all'ultimo momento, su consiglio dell'avvocato della Direzione, che in seguito mi dissero si chiamava Corso Bovio, Meroni aveva omesso il nome del padrone della villa indicata da Spachtholz, indicandolo soltanto come un potente ex magistrato, ma il resto era rimasto esattamente come io ed Ennio Peres avevamo scritto.


La sorpresa, per me fulminante, fu che appena il numero di "Giochi Magazine" arrivò nelle edicole, venni a sapere che non solo il giornalista Giuseppe Meroni non era più direttore del giornale dell'editore Monti, ma anche e soprattutto che la rivista era stata chiusa. Quello del marzo 1988 è stato, per quanto ne so, l'ultimo numero di "Giochi Magazine", rivista fino allora brillante e di grande successo, arrivata appena al terzo numero del suo secondo anno. Nessuno mi ha mai saputo dire perché, e se quella pubblicazione ha avuto qualche parte nella fine della rivista e nel licenziamento del Direttore. Il dubbio, tuttavia, ha del curioso. Se poi uno pensa che è noto che il nome dell'editore Monti era stato tra quelli dell'elenco famoso di Villa Wanda, della P2 di Licio Gelli, allora la curiosità aumenta…E' anche singolare, mi pare, che dopo aver pubblicato su "Paese Sera" il racconto, nel 1986, dopo averlo ripetuto su "Giochi Magazine", e infine ancora su "Paese Sera" nel 1988 nessuno mi abbia mai chiesto per anni qualche chiarimento. E' davvero così improponibile, e campata in aria, tutta questa vicenda?


Per completezza aggiungo che su "Paese Sera" io scrissi un servizio, lo stesso giorno dell'uscita in edicola della rivista, che annunciava la sua pubblicazione. Nessuna eco. Sulla rivista “Storia in Rete”, poi, il giornalista Andrea Biscaro ha scritto un articolo interessante proprio sulla vicenda di “Giochi Magazine”, ma il “busillis”, a mio parere, rimane intatto…


Verso una conclusione: tanti interrogativi non senza ragione, e nessuna risposta, finora…


E tuttavia il mio interesse per la vicenda Moro non finì neppure allora. Negli anni '80 ho scritto parecchi pezzi sulla vicenda delle Br per "Paese Sera". Ho lavorato anche, per Giovanni Minoli, e preparavo i testi di tutte le interviste "Faccia a Faccia" di "Mixer", in particolare quella ad Alberto Franceschini, e collaborai anche con Sergio Zavoli in occasione della preparazione di programmi sugli anni di piombo. La cosa mi ha portato a leggere tante pagine, a pormi ed a porre tante domande…Sono stato e sono anche amico di Giuseppe De Lutiis, il più noto esperto di storia dei Servizi Segreti: con lui abbiamo parlato tante volte della vicenda, ponendoci tante domande… Ma soprattutto con monsignor Cesare Curioni ho parlato tante volte del mistero Moro. Lui era certo che si sapeva ben poco, della vera vicenda e di tanti suoi particolari…


Insomma: da un insieme di cose lette, collegate, interrogate anche in profondità, alla ricerca di qualche nesso, ho tratto un'infinità di interrogativi che desidero mettere qui, un po' senza ordine, allo scopo di concludere questo discorso. Monsignor Curioni per esempio era convinto - e certo aveva parlato in tanti anni con tante persone, sia delle istituzioni, che incontrava essendo per lavoro nei ruoli del Ministero di Grazia e Giustizia come Ispettore Capo di tutte le Carceri italiane relativamente all'assistenza religiosa dei detenuti, sia dei protagonisti, compresi molti brigatisti in prigione - che sul cadavere di Moro ci fosse un solo colpo sparato a bruciapelo su Moro vivo, che aveva lasciato l'alone caratteristico di bruciatura e mostrava il sangue che ne era fuoriuscito, mentre tutti gli altri colpi, una decina, fossero stati sparati a distanza maggiore e dopo parecchio tempo, forse più di un'ora, e quindi non avevano né l'alone di bruciatura né il sangue.


Perché? Si poteva pensare che Moro fosse stato ucciso in un luogo e poi portato altrove, dove altri avessero ripetutamente sparato su di lui, già morto, magari senza sapere che lo era, ma credendolo narcotizzato, e pensando di essere loro ad ucciderlo? Se la cosa è vera, chi ha sparato, a bruciapelo, quel primo colpo mortale? Pareva che a sparare fosse stato Mario Moretti, che disse di essere stato lui a sparare…Si è anche parlato di Maccari, o altri…Ipotesi credibili? E dove è avvenuta l’uccisione? E' certo che il covo di via Montalcini fu l'unica prigione di Moro? E la faccenda che sopra ha portato alla casa di quel magistrato, e quindi alla Loggia P2, è solo e senza alcun dubbio fantasia senza fondamento alcuno? E’ anche senza fondamento alcuno la voce che continua a correre circa un palazzo, proprio in via Caetani, con molti segreti ancora irrisolti?


Ma i dubbi non sono soltanto così esili e marginali, legati a strane storie di anagrammi e di intrecci degni di un giallo. E' del tutto senza significato che il passo decisivo che ha portato le Br alla loro storia concreta, fino al rapimento ed alla morte di Moro, fu l'arresto di Curcio e Franceschini, l'8 settembre 1974, in occasione di un appuntamento che avevano proprio con Mario Moretti ad un passaggio a livello di Pinerolo? Moretti non si presentò all'appuntamento, ed a Franceschini che qualche anno dopo gli chiese ragione del mancato appuntamento, rispose di non ricordare la ragione. In ogni caso la trappola era stata preparata da "frate mitra", Silvano Girotto, un infiltrato dei Servizi segreti che era stato presentato alle Br da Gianbattista Lazagna, ex partigiano amico di Feltrinelli, che aveva letto di lui in alcuni articoli su "Candido", diretto da Giorgio Pisanò, tessera P2, che annunciavano l'arrivo in Italia di questo "emulo di Che Guevara". Girotto fu presentato a Curcio, allora capo riconosciuto delle Br, e fu proprio Moretti che spinse per il suo ingresso all'inizio dell'estate 1974. Frate Mitra entrò, e Curcio e Franceschini furono eliminati.


E' solo un caso che negli atti dell'Istruttoria del giudice Tamburino si legge che proprio all'inizio di settembre 1974, nei giorni esatti in cui avvenne l'arresto di Curcio e Franceschini a Pinerolo, il generale Vito Miceli, capo del Sid, disse a Tamburino stesso, alla presenza del pubblico ministero Nunziante, che da allora in poi non si sarebbe parlato più di terrorismo nero, ma solo di terrorismo rosso? Dunque Miceli sapeva che l'arresto di Curcio non avrebbe posto fine alle Br, ma al contrario, ne avrebbe segnato il definitivo salto di qualità? E' un fatto che da allora il capo unico delle Br fu proprio Mario Moretti. Sospetti espliciti sul rapporto tra Moretti e Girotto, sul fatto che Moretti seppe dell'agguato in anticipo e su quel mancato appuntamento grazie al quale egli non fu arrestato li ha espressi, nel suo libro "Mara, Renato e io", anche Franceschini (pp. 117-118 e altrove). Tra l'altro nel suo libro egli ricorda molti particolari sconcertanti della condotta di Moretti, in quegli anni, fino a sospettare che a lui facesse comodo che egli e Curcio restassero in prigione. Franceschini scrive anche che egli sospettò, e con lui anche il giudice Caselli, che Moretti godesse della "protezione dei Carabinieri"(p. 120). Egli ricorda anche i viaggi di Moretti in Libano, con il panfilo Papago, di cui ha più volte parlato anche Massimo Gidoni, che come skipper andò con Moretti laggiù, appunto per portare in Italia mitra e missili, e racconta di contatti ripetuti delle Br di Moretti con servizi segreti stranieri, che offrirono gratuitamente armi(p.74-75), per una strategia di "destabilizzazione dell'Italia"(p.119).


Ancora su Moretti. Al processo di Torino il giudice Moschetta affermò testualmente che "qualcuno, in ambiente qualificato, aveva interesse che le scorrerie delle Br continuassero” e che “le Br avevano un informatore all'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno"( De Lutiis, Storia dei Servizi Segreti in Italia, Ed. Riuniti, 1984, p. 247). Chi era, questo "qualcuno"? Fu un caso che tutti i componenti incaricati delle ricerche durante la vicenda Moro siano poi risultati iscritti alla P2? Questo è un fatto ormai accertato, come è accertato che tanti documenti delle ricerche di quei 55 giorni sono o spariti del tutto, o assolutamente incredibili, veri e propri depistaggi, con complicità criminali della Banda della Magliana e di altri centri delinquenziali in contatto stretto con i soliti "servizi".


In ogni caso è certo che proprio Moretti dal 1974, con l'arresto di Curcio e Franceschini, fu al centro di tutto, e soprattutto della vicenda Moro. Non per nulla proprio lui è quello che da sempre ha detto che sulla vicenda Moro tutto è noto a tutti, pur essendo stato smentito tante volte, con nuovi personaggi, come Maccari, o Nirta, o Casimirri, o altri, ma non ha mai cambiato versione. E se fosse davvero lui, l'unico a sapere tutto, insieme con quelle "menti" di cui parlò una decina di anni orsono anche l’allora presidente Scalfaro? Risulta, anche, che Moretti faceva, a più riprese, frequenti viaggi in Calabria, che sono rimasti coperti da mistero. I compagni stessi erano insospettiti da questi viaggi, che Moretti non spiegò mai a nessuno…Che andava a fare in Calabria, Moretti?


E il discorso sulla Calabria, sulla malavita calabrese, potrebbe avere anche qualche altro risvolto. Qualcuno ha parlato anche di un "enigma" Delfino, il calabrese Francesco Delfino? Va ricordato che al passaggio a livello di Pinerolo c'erano i Carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, lo stesso reparto di cui faceva parte anche Delfino, guidati dal maresciallo Felice Maritano, uno che probabilmente aveva preso accordi per l'agguato, e forse ne conosceva i retroscena. Proprio Maritano fu ucciso dai terroristi poco più di un mese dopo, il 15 ottobre 1974. Può ricordarsi anche che proprio Francesco Delfino, poi promosso generale, fu protagonista di tanti altri episodi con al centro Curcio e la vicenda Moro, tra cui la scoperta del covo della Cascina Spiotta, il 5 giugno 1975, con il conflitto a fuoco in cui fu uccisa Mara Cagol, mentre Curcio riuscì a fuggire, per essere poi definitivamente arrestato a Milano il 18 gennaio 1976. E Mario Moretti fu di nuovo e definitivamente, così, unico e indiscusso capo delle Br fino alla loro fine. Risulterebbe anche che Delfino fu a capo dei carabinieri che trovarono il covo di via Montenevoso e che in esso scoprirono il famoso "Memoriale" che fu consegnato a Dalla Chiesa, e che ebbe, come noto, altre successive vicende con sospetti di manipolazioni e di occultamenti ripetuti...


E Dalla Chiesa fu ucciso nel 1982. Proprio in quegli anni Delfino fu per parecchio all'estero, ove pare abbia lavorato a contatto con vari servizi segreti. Anche la nota vicenda del sequestro Soffiantini ha fatto emergere qualche aspetto problematico della storia di Delfino, originario di una zona in cui la 'n drangheta è sovrana, in quella Calabria dei misteriosi viaggi, ripetuti, di Mario Moretti…E come non pensare al fatto che nella telefonata di Cazora e Freato, del 6 maggio 1978, riferita sopra, la malavita calabrese pareva saperla lunga sulla prigione di Moro?

Ed ai collegamenti tra malavita calabrese, banda della Magliana, falso comunicato del Lago della Duchessa, tipografia dei volantini Br e altre singolari vicende? Si può ricordare che dopo parecchi anni, in occasione di una trasmissione televisiva di Michele Santoro, su Raitre, alla giornalista Maria Cuffaro che lo intervistava sulla situazione della Calabria e sulla malavita locale, il fratello di Delfino, preside in una scuola della zona nota come controllata anche dalla malavita, appena sentì un minimo accenno ai sequestri di persona, strappò di mano il microfono alla giornalista, e non volle più parlare…Vicenda Moro, Dalla Chiesa, e Pecorelli, e tanti altri misteri…Può essere soltanto fantasia, ma qualche dubbio rimane.


Un ultimo pensiero: rasserenante almeno in parte.



Non voglio concludere questa memoria anche drammatica senza un accenno di ottimismo. Ricordo quindi un altro incontro con il mite e forte insieme Benigno Zaccagnini, che negli anni seguenti ebbe un ufficio proprio nei pressi di “Paese Sera”. La cosa fu occasione di incontri vari, sempre amichevoli, fino a poche settimane prima della sua morte. Ma qui ricordo un'altra vicenda. Qualche settimana dopo la morte di Moro, quando Giovanni Leone fu ingiustamente costretto alle dimissioni, una sentii Benigno al telefono. Erano i giorni delle votazioni per il nuovo Presidente della Repubblica, e lui mi disse era molto addolorato perché gli uomini della Dc, Piccoli e altri, non volevano votare Pertini come presidente. Bettino Craxi si era convinto su quel nome, anche il Pci era d’accordo, ma c’erano i franchi tiratori Dc che sabotavano l’elezione. Era molto preoccupato, Benigno, e allora gli chiesi se a suo parere la scelta di Pertini fosse giusta e opportuna. Mi rispose che era anziano, talora irruento e imprevedibile, ma galantuomo e pulito. A me, allora, venne in mente la sua confidenza sulle dimissioni che avrebbe voluto dare lo stesso 16 marzo, dopo l’approvazione del Governo Andreotti, e che rientrarono per il rapimento di Moro, e gli dissi di botto: “tu stasera dovresti chiamare i tuoi ‘amici’ Dc e dire loro che se domani non votano Pertini tu ti dimetti!” Il giorno dopo Sandro Pertini fu eletto Presidente della Repubblica, e a parte qualche particolare critica, tutti sappiamo come la sua figura abbia onorato il nostro paese. Il mite Zac aveva fatto la sua parte anche in questa vicenda: come sempre.


Conclusione


Ho finito. Non so se questa lunga "memoria" potrà servire a qualcosa. Al di là delle singole tessere di questo piccolo e intricato mosaico, molto personale, la verità è ancora nascosta e "le menti" che probabilmente hanno diretto tutto sono ancora nell'ombra. In sostanza ha ragione chi – politici, uomini di cultura, ricercatori, storici, colleghi giornalisti illustri e soprattutto i famigliari di Moro – sostiene che ancora sappiamo ben poco, quasi nulla, della verità di una vicenda così decisiva per questi quasi 35 anni passati da allora.
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http://dialogoitaliano.blogspot.com/2008/0...-inchiesta.html



Questa inchiesta nasce nel marzo del 2004, ascoltando la testimonianza del giornalista Gianni Gennari al programma "Enigma", dedicato al "caso Moro". In studio Gennari parla del suo incontro con Spachtholz (fare sempre riferimento ai miei 4 articoli, pubblicati in questo blog), dei possibili messaggi presenti nelle lettere del Presidente Moro, della repentina chiusura della rivista "Giochi Magazine". Visto il mio interesse per il "caso Moro", nato intorno alla fine degli anni '80, mi sono stupito di non aver mai letto nulla circa questo misterioso personaggio, Victor Aurel Spachtholz.


Nell'estate del 2005 il mio futuro direttore, Fabio Andriola, mi scrive, proponendomi di collaborare con la sua rivista, "Storia in Rete", di prossima pubblicazione. Gli sottopongo questa inchiesta e così ricevo l'incarico di occuparmene. Nell'autunno dello stesso anno inizio le ricerche e, tra non poche difficoltà e qualche silenzio, realizzo questi 4 articoli... e le domande, nonché i dubbi, aumentano. Aumentano perchè, allo stato auttuale delle ricerche, ho una sola certezza: Victor Aurel Spachtholz, così come l'ha conosciuto chi me l'ha descritto - descrivendomelo in assoluta buona fede - non è mai esistito. Per meglio dire: è anche esistito, ma non solo. Affermare che lo Spachtholz ufficiale fosse una maschera, una sorta di copertura, vorrebbe dire affermare un mero sentore. Non mi sento quindi di affermarlo con certezza. Tuttavia, quest'uomo nascondeva e nasconde qualcosa, una trasversalità ad oggi difficile da collocare.


Essendo un estimatore del programma “Chi l’ha visto?”, ed apprezzando il taglio giornalistico impresso alla trasmissione dalla conduttrice Federica Sciarelli, nel giugno '07 ho ipotizzato che una simile storia fosse adatta a quel lavoro di approfondimento che "Chi l'ha visto?" conduce ormai da anni, percorrendo - con coraggio - i misteriosi meandri della nostra sofferta storia nazionale. Ho quindi ipotizzato che delineare con sufficiente chiarezza la complessa figura di Spachtholz, attraverso un lavoro di collaborazione, avrebbe potuto condurre ad interessanti conclusioni. Questo, in sintesi, è ciò che ho scritto alla redazione del programma, esattamente il 19/06/07. A dieci mesi di distanza non ho ancora ricevuto risposta. La ragione di questo silenzio? Non ne ho la minima idea e non voglio lanciarmi in ipotesi scontate, proferite unicamente per innescare puerili polemiche. Non voglio perchè ho il massimo rispetto per la trasmissione, davvero utile alla collettività. Posso solo esprimere stupore ed un pizzico di delusione. Tutto qui. Naturalmente il mio lavoro di ricerca prosegue e, se ci saranno sviluppi, "Storia in Rete" sarà ben lieta di aggiornare i suoi lettori.


Invito anche i visitatori di questo blog ad esprimere le proprie osservazioni su questo ulteriore aspetto del "caso Moro".

Aldo Moro era un uomo di straordinaria intelligenza che sperava, fortemente sperava, di essere liberato prima dello scadere dell'ora fatale. Le uniche armi a sua disposizione erano la sua mente, una penna ed un blocco. Le usò fino all'ultimo colpo. Poi cadde. Ma come non pensare, se lo chiese Sciascia per primo ("L'affaire Moro"), che un uomo così fine - intellettualmente fine - non cercasse di veicolare all'esterno dei messaggi, delle indicazioni, non soltanto politiche? Io lo credo, Sciascia lo credeva, e lo credevano anche amici intimi di Aldo Moro, come descrivo nei miei pezzi (che riprendono il lavoro che Gianni Gennari fece a suo tempo sul quotidiano "Paese Sera" e su "Giochi Magazine", supportato anche dall'autorevole voce di Ennio Peres).


Ogni commento, approfondimento, critica è quindi bene accetto, perchè questa tragica storia si commemora con la ricerca della verità che, come titola il recente libro della casa editrice Kaos, è stata sequestrata ("Il sequestro di verità"). Le commemorazioni ufficiali sono quanto di più anestetico ci possa essere nei confronti di tragedie collettive non ancora chiarite. Non sto certo dicendo che non si deve commemorare, anzi! Dico soltanto che dietro la banda, il discorso, la medaglia, il busto, deve esserci anche, e soprattutto, la verità che soddisfa, la verità che è alla base di tutto, busti e discorsi compresi, altrimenti li vedremo traballare, essendo poggiati sulla sabbia...





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http://osservatoriop.blogspot.com/2010/12/...lano-il-16.html




Aurelio Spachtholz, nato a Milano il 16 giugno 1915.

Il rischio - per dirla con Robert Musil - è che questo genere di "verità [...] non è un cristallo che si può mettere in tasca, bensì un liquido sconfinato in cui si casca dentro".

Il caso Moro è uno dei passaggi chiave della storia dell'Italia repubblicana. In esso hanno svolto un ruolo da protagonisti i governi stranieri, le élite mondiali, i servizi segreti. Ma è soprattutto una storia di uomini, a volte coinvolti in pieno, a volte solo sfiorati da fatti molto più grandi di un singolo individuo. Tutti, comunque, sono stati in qualche modo segnati: le vittime, i brigatisti, gli investigatori, i politici, i semplici cittadini. Senza quel punto di svolta molte esistenze avrebbero avuto percorsi diversi, ed un presente molto lontano dall'attuale.


Probabilmente è stato così anche per Victor Aurel Spachtholz, ma forse è più corretto dire Aurelio, in base alla registrazione anagrafica compiuta dalla madre, Teresa Spachtholz, nel 1915. Non ne abbiamo la certezza, è una mia ipotesi legare la sua morte alla visita effettuata solo una ventina di giorni prima a "Paese Sera", dichiarando "conosco l'ubicazione della prigione di Moro".

Qualche dubbio in meno possiamo averlo sulla vita di Spachtholz, grazie all'inchiesta portata avanti sulle pagine di "Storia in rete" da Andrea Biscàro. Nel numero di Novembre-Dicembre, ora in edicola, Biscàro racconta l'incontro avuto con una testimone d'eccezione: Leila Ferrario, figlia di Spachtholz.

Sono parole importanti che danno conferma ai sospetti nati leggendo le puntate precedenti dell'inchiesta di Biscàro, che tratteggiavano una figura misteriosa, ambigua, legata ad ambienti importanti della politica e della cultura. Soprattutto, ambienti internazionali. Un uomo definito dalla figlia un falsario di quadri e di firme, che grazie alla sua abilità è riuscito a stringere rapporti insospettabili, compreso quello con il Mister S (pardòn, il Mister X), che gli confidò che dalla cantina che a Spachtholz sembrava una prigione, loro avrebbero salvato l'Italia. Loro chi? E salvato l'Italia da cosa?

La conferma che Spachtholz era un personaggio con frequentazioni di alto livello valorizza implicitamente il racconto fatto ai giornalisti di "Paese Sera", e ciò che ne consegue. Il fatto poi che Spachtholz sia morto meno di un mese dopo costituisce un ulteriore stimolo per continuare a seguire una pista che si sta rivelando sempre più preziosa.

PUBBLICATO DA DOC
ETICHETTE: ALDO MORO, MISTERI D'ITALIA




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https://it.wikipedia.org/wiki/Ennio_Peres



Ennio Peres e il caso Moro


Niente fonti!

Questa voce o sezione sugli argomenti matematici italiani e insegnanti italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti.
Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti attendibili secondo le linee guida sull'uso delle fonti.

Ennio Peres al primo Festival di "Internazionale" a Ferrara
La sua opinione è entrata in gioco in uno dei massimi misteri della recente storia italiana, il caso Moro. Alcune lettere dello statista contenevano passaggi apparentemente in codice, dai quali sono stati ricavati (ovviamente col senno di poi) lunghi anagrammi rivelatori di particolari del sequestro. Interpellato dal giornalista Gianni Gennari in merito alla loro verosimiglianza, Peres rispose negativamente, non escludendo però che la cifratura fosse di altro genere. Moro, infatti, era appassionato di enigmistica. Questo suo parere venne pubblicato il 2 dicembre 1986, dal quotidiano Paese Sera. Nei giorni successivi, Peres trovò alcune minacce anonime registrate nella sua segreteria telefonica e venne avvicinato in strada, con fare intimidatorio, da un paio di noti esponenti della destra eversiva. Nel marzo del 1988, il mensile di cultura ludica Giochi Magazine tornò sull'argomento, pubblicando un servizio firmato da Ennio Peres e da Ersilio Quarelli (pseudonimo di Gianni Gennari). Inaspettatamente, pochi giorni dopo l'uscita in edicola di quel numero, la rivista venne chiusa e il suo direttore fu licenziato in tronco.

Nel 1997, un maresciallo dei Carabinieri si presentò a casa di Ennio Peres, dicendosi interessato alla storia dei presunti anagrammi di Moro. Poi, però, la sua attenzione si concentrò su alcuni episodi da lui riferiti, riguardanti i due estremisti di destra che, all'epoca, avevano voluto intimidirlo. Il maresciallo ritenne che una deposizione di Peres al riguardo potesse essere utile al magistrato Massimo Meroni, che stava conducendo le indagini insieme al giudice Guido Salvini, per riaprire il processo di Piazza Fontana e lo mise in contatto con lui. Il loro incontro si tenne il 29 settembre 1997, presso la sede romana dei ROS, a Villa Ada. La sua convocazione in qualità di testimone avvenne il 12 febbraio 2001, presso la Corte di Assise di Milano (Aula Bunker 1 - Piazza Filangeri, 2).





Edited by barionu - 11/9/2022, 11:39
 
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L'assassinio Tobagi

e quella connessione con le carte di Moro


amduemila-1 29 Maggio 2020


tobagi walter moro aldo da aldomoro eudi AMDuemila






La pretesa di giustizia e verità di Benedetta Tobagi

Ieri era il giorno in cui ricorreva l'anniversario dell'uccisione di Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera, ucciso 40 anni fa, con cinque colpi di pistola, mentre usciva dalla sua casa in via Salaino, vicino al carcere di San Vittore a Milano. Aveva 33 anni. Gli sparò un commando della Brigata XXVIII Marzo, un gruppo di giovani terroristi di estrema sinistra che speravano con un’azione eclatante di farsi riconoscere dalle Brigate Rosse, il più noto gruppo terroristico italiano.

Quarant'anni dopo sono molti ancora i quesiti aperti sulle motivazioni che portarono a quell'assassinio. La figlia del giornalista, Benedetta Tobagi, da anni lotta per giungere ad una verità e ieri, la giornalista Maria Antonietta Calabrò, sull'huffingtsonpost ha ribadito la necessità di aprire gli archivi dell’antiterrorismo per approfondire lo scenario di quel delitto. In parte questo è stato fatto negli ultimi anni con la desecretazione voluta dal Governo Renzi del 2014 degli atti di Ministeri, Servizi segreti, Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza, relativi ad atti di strage e terrorismo.
Scrive la Calabrò che in quei documenti, versati alla commissione di inchiesta Moro2, si "dimostrano possibili connessioni tra l’assassinio di Tobagi e il caso Moro".

Si circonda che Tobagi fu ucciso due mesi dopo l’irruzione nel covo brigatista di Genova in via Fracchia da parte degli uomini del generale dalla Chiesa, il 28 marzo 1980. E che proprio la strage di via Fracchia fu una degli ultimi importanti reportage di Tobagi, prima della morte.
La Calabrò mette in evidenza che Tobagi avrebbe avuto un "ruolo nella 'trattativa' milanese che Craxi instaurò durante il sequestro Moro per la salvezza dello statista Dc e che faceva perno sul generale dalla Chiesa. Una 'trattativa' distinta da quella 'romana' che coinvolse Piperno, Morucci e Faranda", e che è emersa proprio dal lavoro della Commissione Moro2.

Dell'impegno di Tobagi per salvare Moro ha parlato Umberto Giovine, ex Pse e militante nella Federazione milanese, con incarichi nell’ambito dell’Internazionale socialista e direttore di "Critica Sociale”, sentito dalla Commissione.

Un'altra traccia è data dalle parole di Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, che nel numero 1 di "Pagina" del 25 febbraio 1982, e nel periodico "Illustrazione Italiana”, n. 32, luglio 1986 riportò quanto avrebbe detto il procuratore della Repubblica di Genova, Antonio Squadrito sull’irruzione nel covo brigatista di via Fracchia: "La verità è che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi... Soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc, al Paese”.

Purtroppo, però, quelle cartelle di Moro, che sarebbero state indicate dal magistrato, non compaiono agli atti del processo penale per la strage di via Fracchia.

E sono questi gli aspetti da cui è ripartita la Commissione Moro 2.

Nell'articolo si ricorda che anche "il presidente della Commissione Stragi (attiva fino al 2001), Giovanni Pellegrino, aveva elaborato l’ipotesi - che durante il sequestro Moro - ci fosse stato in realtà un doppio ostaggio: Moro, appunto, ma anche numerosa documentazione “sensibile” in mano alle Brigate Rosse (il memoriale completo, interrogatori...)". Elementi nuovi sarebbero poi emersi nei primi anni Duemila, quando sul Corriere Mercantile venne pubblicato un articolo con i ricordi raccolti dalla ″gente del civico 12″, tra cui quello di ″un uomo misterioso, forse Riccardo Dura, che scavava con un piccone nell’erba alta delle aiuole”.



Sul giardino si è concentrata la Commissione Moro 2, perché "incredibilmente non trova esplicita menzione negli atti processuali, né viene evidenziato nella ricostruzione della planimetria dell’appartamento”. E la Calabrò evidenzia come "anche lo scavo di un’ampia buca nel giardino del covo non fu riferito negli atti giudiziari del 1980, ma è stato esplicitamente rievocato solo il 15 marzo 2017 nel corso delle dichiarazioni a Palazzo San Macuto dal pm Filippo Maffeo, intervenuto sul posto in qualità di pubblico ministero di turno, la mattina del 28 marzo 1980. Il magistrato ha indicato con certezza il particolare che in giardino il terreno appariva smosso da poco tempo, precisando le rilevanti dimensioni dello scavo, corrispondente, a suo avviso, al volume di tre valigie di media grandezza. Uno scavo immediato e verosimilmente mirato non poteva che scaturire dalla disponibilità di indicazioni precise. Quell′operazione dovette durare ore ed ore e terminare, appunto, prima dell’arrivo del magistrato di turno".

Altro elemento di mistero, portato in evidenza dall'articolo dell'huffingtonpost è la vicenda che riguarda Volker Weingraber (alias Karl Heinz Goldmann), un agente tedesco occidentale che operò in Italia durante il sequestro Moro e che a partire dal 1978 viveva in Italia nello stesso palazzo dove abitava Tobagi. Vi sarebbero delle informative del Sisde, desecretata dall’Aise (l’attuale servizio segreto estero) nel giugno 2017, in cui si dà atto del suo ruolo.
In particolare in un'informativa si dà atto dei suoi contatti con il terrorista Oreste Strano e un gruppo che preparava il sequestro di un imprenditore svizzero.
Tra i contatti, in un documento del 6 novembre 1978, si precisava anche che "la fonte infiltrata ha avuto contatti con Aldo Bonomi il quale gli avrebbe confermato di essere in grado di procurare armi e documenti falsi per sviluppare attività eversive″. La fonte - continua la citazione - "ritiene che Bonomi sia un provocatore e un confidente della Polizia. Sarebbe stato isolato dalle Br perché ha sempre evitato di assumersi compiti rischiosi nell’ambito dell’organizzazione”.


E in un'altra lettera del 2 novembre 1990, inviata dall’ammiraglio Martini, capo del Sismi, al capo della Polizia, prefetto Vincenzo Parisi, oggi desecretata, si svela che la fonte a cui si fa riferimento in quegli atti era proprio Weingraber.

Dalle carte emergerebbe anche che questi entrò in contatto, tramite Strano (che aveva una compagna tedesca), anche con Nadia Mantovani, "cioè la persona che aveva avuto l’incarico di battere a macchina il Memoriale Moro, e che prima del suo arresto, a Novara frequentava una radio di sinistra extraparlamentare collegata alla Rote Armee Fraktion". Piste, carte, documenti, quesiti e sospetti. Elementi che vanno approfonditi lungo il cammino per giungere alla verità.

In foto: Roma, 31 ottobre 1974. Walter Tobagi con Aldo Moro






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COLONNELLO BONAVENTURA


www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/1...-carte/1676011/



www.archivio900.it/it/articoli/art.aspx?id=5279



a morte del colonnello Umberto Bonaventura, del Sismi, occorre assegnare una protezione anche domiciliare a tutti coloro che sono a conoscenza di particolari segreti, in particolare agli agenti Ossi (operatori speciali dei servizi segreti chiamati anche Sezione K) ed a quelli della Gladio militare. A sostenerlo e' Falco Accame, presidente dell' Anavafaf (Associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle forze armate). Secondo Accame, "la deposizione del colonnello Bonaventura alla commissione Mitrokhin avrebbe certamente riportato in evidenza il contenuto delle carte di Moro rimaste segrete. E' dunque attorno a questo tema che occorre centrare l' attenzione, perche' il colonnello era certamente una delle persone che di tali carte era a conoscenza, come lo erano Pecorelli ed il generale Della Chiesa". Il segreto delle carte di Moro, rileva il presidente dell' Anavafaf, "consisteva nel fatto che nell' ambito dei servizi segreti e di Gladio esistevano degli operatori armati in contrasto con quanto previsto dalla Costituzione, tanto che due recenti atti della magistratura hanno considerato come eversive all' ordine costituzionale le operazioni degli Ossi". Di questo corpo speciale, prosegue, "erano a conoscenza persone che in essi avevano operato, come il maresciallo Vincenzo Li Causi, che mori' in Somalia colpito da una pallottola vagante, proprio prima che deponesse ad un processo. E' dunque ovvio - conclude - che la morte di Bonaventura in prossimita' di una deposizione importante non possa non far riaffiorare una serie di interrogativi che mai hanno avuto una risposta".


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LAURIO AZZOLINI


https://it.wikipedia.org/wiki/Lauro_Azzolini


www.albadeifuneralidiunostato.org/tag/lauro-azzolini/








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Edited by barionu - 25/5/2023, 11:25
 
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CAT_IMG Posted on 24/2/2022, 20:26
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Le carte di Moro, la trattativa di Craxi.

Da dove ripartire per dare giustizia a Tobagi



Marco Minniti: "Nessun punto di Pil può essere scambiato con la parola libertà"


L'Europa al test dei rifugiati ucraini
Johnson vuole cacciare la Russia fuori da Swift. L'Europa no. Perchè è così importante da dividere l'Occidente
Politica
Le carte di Moro, la trattativa di Craxi. Da dove ripartire per dare giustizia a Tobagi
di
Maria Antonietta Calabrò
ANSA foto



Benedetta Tobagi, figlia dell’inviato del Corriere della Sera ucciso 40 anni fa, pone ancora oggi domande sull’assassinio del padre e sulla necessità di aprire gli archivi dell’antiterrorismo
28 Maggio 2020


Benedetta Tobagi, figlia dell’inviato del Corriere della Sera Walter Tobagi, ucciso come oggi 40 anni fa, pone alcune domande sull’assassinio del padre e sulla necessità di aprire gli archivi dell’antiterrorismo per approfondire lo scenario di quel delitto. In parte questo è stato fatto negli ultimi anni con la desecretazione voluta dal Governo Renzi del 2014 degli atti di Ministeri, Servizi segreti, Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza, relativi ad atti di strage e terrorismo.

Ho studiato gran parte di quei documenti (versati alla commissione di inchiesta Moro2) ed essi dimostrano possibili connessioni tra l’assassinio di Tobagi e il caso Moro. Quindi in base a quegli atti - dalla fine del 2018 pubblici - possiamo rispondere in prima approssimazione alla richiesta di nuova chiarezza avanzata della figlia.

Come è noto fu la Brigata “XXVIII marzo” ad uccidere Tobagi, esattamente due mesi dopo l’irruzione nel covo brigatista di Genova in via Fracchia da parte degli uomini del generale Dalla Chiesa, il 28 marzo 1980. La strage di via Fracchia fu una degli ultimi importanti reportage di Tobagi, prima della morte. Con lui furono inviati a Genova dall’allora direttore Franco Di Bella anche Antonio Ferrari e Giancarlo Pertegato.

Solo oggi però sappiamo che Tobagi - cattolico, socialista, vicino al segretario Bettino Craxi - ebbe un ruolo nella ″trattativa” milanese che Craxi instaurò durante il sequestro Moro per la salvezza dello statista Dc e che faceva perno sul generale Dalla Chiesa. Una “trattativa “ distinta da quella “romana” che coinvolse Piperno, Morucci e Faranda. Questo filone “milanese” è emerso solo negli ultimi anni grazie alle indagini della Commissione Moro2. Facendo emergere tanti fatti e circostanze che illuminano gli ultimi anni della vita di Tobagi, e forse, anche la sua morte. La conoscenza di quegli anni infatti è molto progredita, portando alla luce fatti sorprendenti, che potrebbero anche spiegare come mai nell’archivio di Villa Wanda sequestrato nel 1981 a Licio Gelli fosse conservata una copia del volantino di rivendicazione dell’assassinio di Tobagi.

L’impegno di Tobagi per salvare Moro.

Umberto Giovine, iscritto al Psi sin da ragazzo, militante nella Federazione milanese, con incarichi nell’ambito dell’Internazionale socialista e direttore di ”Critica Sociale”, ha dichiarato alla Commissione Moro 2 (tra il 2015 e il 2017) che l’input per cercare d’intervenire nella vicenda Moro per salvare la vita del sequestrato avvenne qualche giorno dopo il 16 marzo 1978, a Torino, durante il congresso del Psi. “Ebbi modo di parlare con Walter Tobagi, che conoscevo da molti anni, e mi disse che secondo lui avrei potuto e dovuto fare qualcosa attraverso Critica Sociale visto che lui personalmente, data la sua posizione al Corriere della Sera non poteva agire”, disse Giovine. “Craxi - aggiunge- in ogni caso poteva contare sull’appoggio e il contributo del generale Dalla Chiesa che era responsabile nazionale delle carceri di massima sicurezza e che in tale veste poteva muoversi anche in modo indipendente e senza specifiche autorizzazioni del Governo”. Il Corriere della Sera, il 2 aprile 1980, negli articoli che illustravano l’irruzione in via Fracchia segnalava che sarebbe stata trovata nel covo delle Br una cartellina con un appunto ”materiale da decentrare sotto terra”.

Il “tesoro” di Genova: tutte le carte di Moro.

Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, scriverà anni dopo la barbara uccisione di Tobagi, nel numero 1 di ”Pagina” del 25 febbraio 1982, e nel periodico ″Illustrazione Italiana”, n. 32, luglio 1986: ”Disse a caldo (dopo l’irruzione nel covo brigatista di via Fracchia, ndr) l’allora procuratore della Repubblica di Genova, Antonio Squadrito: La verità è che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi… Soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc, al Paese”. La rivelazione di Caprara è precisa e circostanziata. Ma di quelle trenta cartelle ″meticolosamente scritte da Aldo Moro”, indicate dal magistrato, che nel 1980 era al vertice della Procura del capoluogo ligure, non è stata trovata alcuna traccia agli atti del processo penale per la strage di via Fracchia.

I lavori della Commissione Moro 2 sono partiti da qui. La quantità e l’importanza del materiale sequestrato in via Fracchia si desumono esaminando il verbale di perquisizione e sequestro (acquisito agli atti della Commissione) che reca un impressionante elenco di 753 reperti, che certamente dal punto di vista investigativo poteva essere considerato un ″tesoro”. Tenuto conto degli interrogativi che sono nati dai parziali ritrovamenti documentali avvenuti nel covo di via Monte Nevoso a Milano (nel 1978 e nel 1990), la citata esternazione di Squadrito è apparsa meritevole di serio approfondimento, anche alla luce delle indicazioni sul ruolo che la colonna genovese guidata da Riccardo Dura, nel sequestro Moro. Già il presidente della Commissione Stragi (attiva fino al 2001), Giovanni Pellegrino, aveva elaborato l’ipotesi - che durante il sequestro Moro - ci fosse stato in realtà un doppio ostaggio: Moro, appunto, ma anche numerosa documentazione “sensibile” in mano alle Brigate Rosse (il memoriale completo, interrogatori…)

Solo agli inizi degli Anni Duemila, sono cominciati ad emergere nuovi fatti. Nell’articolo intitolato “Via Fracchia, ricordi indelebili. Quella donna in giardino, l’uomo con il piccone”, pubblicato venerdì 13 febbraio 2004, firmato da Simone Traverso sul Corriere Mercantile, storico quotidiano della città della Lanterna, vengono riportati i ricordi raccolti dalla ″gente del civico 12″, tra cui quello di ″un uomo misterioso, forse Riccardo Dura, che scavava con un piccone nell’erba alta delle aiuole”. Testimonianza questa che descrive una caratteristica peculiare del covo: la presenza anche di un giardino di pertinenza, a cui si accedeva dalla cucina e dalla sala da pranzo, e che conduceva alla parte posteriore dell’edificio. ″Un giardino che, incredibilmente – annota la Commissione Moro 2 – non trova esplicita menzione negli atti processuali, né viene evidenziato nella ricostruzione della planimetria dell’appartamento”.

Anche lo scavo di un’ampia buca nel giardino del covo non fu riferito negli atti giudiziari del 1980, ma è stato esplicitamente rievocato solo il 15 marzo 2017 nel corso delle dichiarazioni a Palazzo San Macuto dal pm Filippo Maffeo, intervenuto sul posto in qualità di pubblico ministero di turno, la mattina del 28 marzo 1980. Il magistrato ha indicato con certezza il particolare che in giardino il terreno appariva smosso da poco tempo, precisando le rilevanti dimensioni dello scavo, corrispondente, a suo avviso, al volume di tre valigie di media grandezza. Uno scavo immediato e verosimilmente mirato non poteva che scaturire dalla disponibilità di indicazioni precise. Quell′operazione dovette durare ore ed ore e terminare, appunto, prima dell’arrivo del magistrato di turno.

L’agente tedesco nella palazzina di Tobagi, le carte “segrete” di Moro.

Umberto Giovine (che ha illustrato da qualche anno il ruolo di Tobagi nella trattativa per Moro) ha anche parlato davanti alla Commissione della opaca vicenda di Volker Weingraber (alias Karl Heinz Goldmann), un agente tedesco occidentale che operò in Italia durante il sequestro Moro. Ecco, ben 6 informative del Sisde che lo riguardavano sono state desecretata dall’Aise (l’attuale servizio segreto estero) nel giugno 2017. In particolare, dagli atti del nostro servizio segreto – solo ora resi noti – risulta che Weingraber giunse a Milano nel febbraio 1978 e che si mise in contatto con diverse persone, tra cui il terrorista Oreste Strano e un gruppo che preparava il sequestro di un imprenditore svizzero.

L’informativa del 6 novembre 1978 precisava inoltre che ″la fonte infiltrata ha avuto contatti con Aldo Bonomi il quale gli avrebbe confermato di essere in grado di procurare armi e documenti falsi per sviluppare attività eversive″. La fonte – continua la citazione – ”ritiene che Bonomi sia un provocatore e un confidente della Polizia. Sarebbe stato isolato dalle Br perché ha sempre evitato di assumersi compiti rischiosi nell’ambito dell’organizzazione”.

Ma ″la fonte infiltrata″ – come risulta da un’altra lettera desecretata del 2 novembre 1990 inviata dall’ammiraglio Martini, capo del Sismi, al capo della Polizia, prefetto Vincenzo Parisi oggi desecretata – altri non era che proprio Weingraber, il quale lavorava in un’operazione congiunta del Sismi e dei servizi segreti tedesco e svizzero. Risulta inoltre che Weingraber – come confermato dal colonnello Giorgio Parisi al giudice Priore il 28 settembre 1990 e anche questo è in un documento desecretato– entrò in contatto, tramite Strano (che aveva una compagna tedesca), anche con Nadia Mantovani, cioè la persona che aveva avuto l’incarico di battere a macchina il Memoriale Moro, e che prima del suo arresto, a Novara frequentava una radio di sinistra extraparlamentare collegata alla Rote Armee Fraktion. Va pure segnalato che Weingraber alloggiò a partire dal 1978 in Italia nello stesso palazzo dove abitava Tobagi, ucciso il 28 maggio 1980. Ma poi fu lo stesso Strano a denunciare Weingraber pubblicamente come un infiltrato, dopo che al valico del Brennero vennero sequestrati a quattro cittadini tedeschi 800 fogli di documenti: ciò accadde poche settimane prima della seconda scoperta di materiale proveniente dal sequestro Moro nel covo di via Monte Nevoso 8, a Milano, nel novembre 1990”.

Walter Tobagi, odiato senza ragione Su Rai Storia il ricordo del cronista a 40 anni dalla morte








Edited by barionu - 25/5/2023, 11:27
 
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CAT_IMG Posted on 22/5/2023, 19:22
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Il delitto Tobagi e le polemiche infinite



Posted on 27 Maggio 2020

L’omidicio di Tobagi si trasformò in una resa dei conti tra differenti organizzazioni sindacali del giornalismo lombardo che vedevano contrapposti craxiani e giornalisti del Pci. Ne venne fuori una narrazione complottista che vedeva negli autori del delitto dei semplici manovali. Le tesi dietrologicche furono rilanciate dopo la scoperta delle dichiarazioni di un confidente che aveva indicato in Tobagi un possibile obiettivo e che aprirono un nuovo fronte di polemiche, stavolta tra ex appartenenti all’antiterrorismo. Davide Steccanella ripercorre dettagliatamente l’intricata vicenda
di Davide Steccanella

Tobagi targa errata

La targa sbagliata del Liceo Parini che attribuisce l’omicidio alle Brigate rosse

Nel libro Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi, 2009) Benedetta Tobagi ha scritto: «scegliendo di montare tasselli poco chiari, si possono tessere trame verosimili, ma non verificabili, oppure riesumare polemiche già consumate contando sulla memoria corta dei mezzi d’informazione». Vanamente verrebbe da dire, perché come per l’omicidio di Aldo Moro anche per quello di Walter Tobagi, guarda caso i due delitti di maggiore rilevanza mediatica tra i tanti compiuti durante i cosiddetti “anni di piombo”, non manca chi ancora oggi sostiene che sarebbero stati condannati gli esecutori e non i “mandanti” o che comunque permangano irrisolti misteri.

Nel “caso Tobagi” si verificò persino uno scontro istituzionale senza precedenti tra il Presidente della Repubblica e i membri togati del CSM che nel dicembre del 1985 si dimisero in blocco per il divieto posto da Francesco Cossiga alla fissata trattazione in seduta plenaria delle dichiarazioni rese qualche giorno prima dall’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi.



Ricapitoliamo i fatti in ordine cronologico



Walter Tobagi fu ucciso il 28 maggio 1980 e l’omicidio fu rivendicato da una sigla, Brigata 28 marzo, che pochi giorni prima, 7 maggio, aveva rivendicato il ferimento del giornalista di Repubblica Guido Passalacqua.

Il nome richiamava la data di un’operazione dei carabinieri di due mesi prima in una base genovese delle Brigate rosse in via Fracchia nel corso della quale erano morti i quattro i militanti che si trovavano al suo interno; il giorno dopo Walter Tobagi aveva scritto sul Corriere della sera un articolo dal titolo: Adesso si dissolve il mito della colonna imprendibile.


L’operazione era stata resa possibile dalle rivelazioni fatte ai magistrati torinesi dal primo brigatista pentito, Patrizio Peci, in merito al quale il 20 aprile Tobagi aveva firmato un secondo articolo dal titolo Non sono samurai invincibili.


In quello che sarà uno dei suoi ultimi scritti (l’ultimo, Senza promettere la luna, dedicato alle imminenti elezioni, sarà pubblicato il 23 maggio) si legge: «Le notizie delle ultime ore, la tragedia dell’avvocato Arnaldi a Genova o l’arresto di Sergio Spazzali a Milano, sembrano iscriversi in quel filone aperto da Peci e dagli altri brigatisti pentiti. L’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze. E forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascano non dalla paura, quanto da dissensi interni, laceranti sull’organizzazione e sulla linea del partito armato».


L’indagine affidata agli ufficiali della sezione antiterrorismo dei carabinieri di Milano Umberto Bonaventura e Alessandro Ruffino e coordinata dal Sostituto Procuratore della Repubblica Armando Spataro fu particolarmente rapida e dopo soli quattro mesi vennero arrestati tutti i responsabili.
Dai documenti d’indagine risulta che il 5 giugno viene posta sotto osservazione un’abitazione di via Solferino 34 intestata a Caterina Rosenzweig, nota agli inquirenti perché arrestata il 23 marzo di due anni prima, avendo la stessa dimenticato passaporto e guanti nel corso di un attentato incendiario alla Bassani Ticino di Venegono Inferiore (VA) rivendicato dalle Formazioni Comuniste Combattenti, nella cui base milanese di via Negroli il 13 settembre 1978 era stato arrestato Corrado Alunni.


Gli inquirenti sapevano del suo legame con Marco Barbone perché costui le aveva inviato in carcere alcune lettere e l’11 giugno dispongono l’intercettazione delle utenze telefoniche della Rosenzweig e di coloro che, oltre a Barbone, risultavano in costante contatto con lei: Paolo Morandini, Silvana Montanari e Stefano Mari.


Contemporaneamente viene disposta una perizia per confrontare la grafia che compariva sulle buste di rivendicazione di due attentati del 1979 ai giornali L’Unità e Il Corriere della sera siglati Guerriglia Rossa, con quella, che risultava identica, del manoscritto di rivendicazione di una rapina del 1978 in via Colletta reperita in via Negroli e quella, pure apparentemente simile, delle lettere inviate da Barbone alla fidanzata.


Il 5 luglio Barbone parte per il servizio militare ad Albenga e a settembre L’Espresso pubblica le dichiarazioni rese l’8 luglio dal generale Dalla Chiesa alla Commissione Moro in cui riferiva che per l’omicidio Tobagi stavano indagando su ex militanti delle FCC di Alunni e sulla base dell’esito confermativo del 16 settembre della perizia sulla sua grafia, il 25 settembre Barbone viene arrestato per la rapina di via Colletta, per evitare, diranno gli inquirenti, che messo in allarme da quell’articolo si desse alla fuga e tradotto nella caserma Porta Magenta di via Tolentino.


Il 2 ottobre Barbone interrogato nega ogni addebito, al termine il PM Spataro lo informa che è sospettato anche per l’omicidio Tobagi e gli attentati di Guerriglia Rossa, il giorno dopo chiede un incontro riservato con il generale Dalla Chiesa in caserma e il 4 ottobre verbalizza al PM i nominativi degli altri cinque componenti della 28 marzo che vengono tutti arrestati.


Si tratta di due operai e tre studenti: Paolo Morandini, 21 anni, Daniele Laus, 22 anni, ex militante nella SAP (Squadra Armata Proletaria) Sempione, Manfredi De Stefano, 23 anni, operaio IRE di Varese ed ex militante in altra SAP legata alle FCC, Mario Marano, 27 anni, e Francesco Giordano, 28 anni, entrambi ex militanti delle Unità Comuniste Combattenti di Guglielmo Guglielmi.
Morandini e Laus confessano subito (il secondo ritratterà in istruttoria) e il processo denominato Rosso-Tobagi inizia il 1° marzo 1983 e si conclude il 28 novembre dello stesso anno con la condanna dei sei imputati e la scarcerazione di Barbone e Morandini in applicazione della legge premiale n. 304 del 1982.



La campagna dell’Avanti


Sin dalla conclusione dell’istruttoria il PSI, sollecitato da alcune affermazioni dell’allora direttore del Corriere Franco Di Bella (successivamente risultato iscritto alla P2 di Licio Gelli), che riteneva che il movente dell’omicidio fosse da ricercare nell’impegno sindacale del giornalista, monta una campagna stampa su L’Avanti in cui mette in discussione la verità di Barbone, sostenendo che fosse stata concordata con la Procura in cambio dell’impunità per la fidanzata Caterina Rosenzweig, perché il testo della rivendicazione dell’omicidio appariva un elaborato troppo tecnico per non essere stato scritto da un giornalista professionista.
Il 27 maggio 1983, in occasione della campagna elettorale, il segretario Bettino Craxi (che il 4 agosto diventerà il nuovo Presidente del Consiglio) dichiara in un comizio al Castello Sforzesco che «Gli organi di polizia e la magistratura fin dal dicembre 1979 erano a conoscenza che gruppi terroristici progettavano un attentato a un giornalista milanese che la fonte confidenziale indicava in Walter Tobagi, informandoli del luogo esatto dove l’attentato sarebbe stato compiuto».
Procura e carabinieri smentiscono indignati, affermando che quando il nome di Tobagi era stato trovato nel gennaio del 1979 in una valigetta attribuibile ai Reparti Comunisti d’attacco (gruppo collegato alle Formazioni Comuniste Combattenti) al giornalista fu proposta una scorta che lui rifiutò, ma dopo le polemiche all’esito del processo per la scarcerazione di Barbone e Morandini, il 19 dicembre 1983 l’allora Ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro rivela l’esistenza di un appunto riservato del 13 dicembre 1979 in cui un carabiniere che si firma Ciondolo riporta la notizia ricevuta da una fonte confidenziale.
«Secondo il postino, il (segue il nome di un altro confidente) e gli altri avrebbero lasciato il proposito di compiere azioni in Varese ma avrebbero in programma un’azione a Milano. Costui non ha lasciato capire pienamente quale possa essere il loro obiettivo ma ha riferito al postino che si tratta di un vecchio progetto delle Formazioni comuniste combattenti. Per quanto riguarda l’azione da compiere qui a Milano e la zona nella quale il gruppo sta operando il postino ritiene che vi sia in programma un attentato o il rapimento di Walter Tobagi e la zona in cui il gruppo sta operando dovrebbe essere quella di piazza Napoli-piazza Amendola-via Solari dove il Tobagi dovrebbe abitare».
L’Avanti pubblica il documento e il carabiniere Ciondolo viene prontamente identificato nel brigadiere Dario Covolo e così pure il postino: si tratta di un ex militante varesino delle FCC, Rocco Ricciardi, arrestato il 16 novembre 1981, il quale sin dal marzo del 1979 aveva iniziato a collaborare segretamente con i carabinieri consentendo loro di arrestare nel maggio dello stesso anno a Como sette componenti di rilievo delle FCC, che di lì a poco cesseranno di esistere.
La fonte di Ricciardi in realtà non era un altro confidente, ma, come si legge nel documento, Pierangelo Franzetti, ex operaio IRE di Varese, militante nei Reparti Comunisti d’Attacco.



Quel documento era difficilmente collegabile al delitto


A quel punto, posto che meno di sei mesi dopo Walter Tobagi fu effettivamente colpito in via Solari da Barbone che aveva militato nelle FCC di cui aveva parlato Ricciardi e meno di quattro mesi dopo gli inquirenti furono già in grado di arrestarlo, si disse che non si era voluto impedire una morte annunciata e si era imbastita una versione di comodo.
In realtà, ad un’attenta lettura, quel documento non era facilmente collegabile al delitto di sei mesi dopo e tanto meno a Barbone e non perché, come disse qualcuno, ancora non poteva esistere la sigla Brigata 28 marzo (che si riferiva alla data di un fatto accaduto l’anno successivo), ma per altre ragioni.
Ricciardi si limita a dire che secondo lui il fatto che Franzetti gli avesse detto che il suo gruppo stava cessando azioni su Varese per spostarsi a Milano per un precedente progetto delle FCC poteva significare il sequestro di Tobagi, perché agli inizi del 1978 era stato uno degli obiettivi del gruppo. Ricciardi, che ben conosceva Barbone e la Rosenzweig (e proprio per il progettato sequestro Tobagi), non li nomina con riferimento al Franzetti e neppure quando, parlando di altro, cita ex militanti delle FCC (Balice, Serafini, Belloli), per cui dedurre che da quell’appunto gli inquirenti avrebbero potuto risalire al futuro fondatore della 28 marzo, ai tempi persona incensurata, appare una forzatura.
Neppure col senno di poi tuttavia, quando nel dicembre del 1983 tutte le indagini su quei gruppi si erano ormai concluse, quell’appunto appare collegabile all’omicidio di sei mesi dopo. Le successive indagini accerteranno infatti che nel dicembre 1979 il gruppo che l’anno dopo avrebbe assunto la sigla 28 marzo si era appena formato e organizzava rapine di autofinanziamento e Barbone aveva cessato da tempo ogni contatto con gli ex FCC, tanto che Ricciardi rimasto in contatto con loro nulla più sapeva di lui, né di Guerriglia Rossa né di altro. Per cui si può affermare con adeguata certezza che nel dicembre del 1979, contrariamente all’idea che si era fatta il Ricciardi, non era ancora in preparazione un attentato al giornalista del Corriere, né da parte del gruppo di Barbone né da parte di quello di Franzetti.



La querela di Spataro


Ma le polemiche non si placano e Spataro sporge querela per diffamazione contro il direttore dell’Avanti Ugo Intini, il vicedirettore Francesco Gozzano, i giornalisti Adolfo Fiorani e Piervittorio Scorti, il sociologo Roberto Guiducci e i deputati PSI Salvo Andò e Paolo Pillitteri, mentre Ricciardi scrive un memoriale dove nega di avere fatto a dicembre il nome di Barbone, ammettendo di essere stato contattato dai Carabinieri dopo l’omicidio di Tobagi: «Per parte mia mi impegnai nella ricerca di notizie sulla 28 marzo. In proposito riuscii a riferire ai carabinieri una sola voce: Marchettini mi aveva detto che un tale Manfredi che conoscevo personalmente, parlando in un bar con il Franzetti alla presenza di Marchettini stesso, aveva lasciato vagamente intendere che aveva rapporti con la 28 marzo. I CC, sempre durante l’estate, identificarono questo Manfredi per Manfredi Di Stefano ed io ne riconobbi la foto».
Nel 1985, al processo di appello (nel frattempo Manfredi De Stefano era morto il 6 aprile 1984 nel carcere di Udine) la versione di Barbone viene confermata da Marano e Laus, che, scrive Leo Valiani: «il 4 giugno in una lucida deposizione ha corretto le precedenti forzature tese a lasciar bollire nell’ambiguità l’ipotesi dei mandanti del delitto, di mani estranee e specializzate nella stesura del volantino e a diradare le possibili ombre di un coinvolgimento di Caterina Rosenzweig».
Ricciardi, intervistato il 14 giugno 1985 dall’Unità prima di deporre, dichiara: «Intendo dire tutto con chiarezza perché sono state commesse leggerezze sul mio conto anche dall’onorevole Scalfaro che ha fatto il mio nome in Parlamento, esponendomi a rappresaglie e mettendo in pericolo i miei familiari. Si è detto che avrei preannunciato l’omicidio di Walter Tobagi. Ma questo non è vero. Per conto mio percepii che Franzetti potesse parlare di Tobagi giacché nei suoi confronti c’era stato da parte delle Formazioni Comuniste Combattenti quel vecchio progetto di sequestro nel gennaio 1978. Fu una mia personale ipotesi e in questi termini la riferii ai carabinieri».
Il 7 ottobre 1985 la Corte di appello conferma la sentenza di primo grado (con sconti di pena per Marano e Laus), che diviene definitiva nell’ottobre dell’anno successivo.
Il 23 Novembre 1985 il Tribunale di Roma condanna Intini, Andò, Pillitteri, Gozzano e Fiorani per diffamazione ai danni di Spataro e il Presidente del consiglio Craxi dichiara al Tg «Faccio mie parola per parola tutte le affermazioni ed i giudizi che hanno determinato la condanna dei compagni socialisti», affermazione che apre un “caso” senza precedenti al CSM perché il 5 dicembre il Presidente della Repubblica Cossiga ne vieta la discussione determinando le dimissioni (poi rientrate) di tutti i membri togati.
In appello interviene l’applicazione della sopraggiunta amnistia con conferma del risarcimento danni a Spataro, ribadito dalla Cassazione nel 1987 e il 21 maggio 1993 il Tribunale di Milano assolve tutti gli imputati delle FCC, tra cui Barbone, Ricciardi e la Rosenzweig, per il tentato sequestro di Walter Tobagi del 1978, perché il fatto non sussiste.



Le accuse di Magosso e Arlati


La vicenda sembrerebbe finita, quando nel 2003 il giornalista Renzo Magosso e l’ex capitano Roberto Arlati pubblicano per Franco Angeli il libro Le carte di Moro, perché Tobagi che riprende le accuse ai carabinieri e il 17 giugno 2004 Magosso pubblica sul settimanale Gente un’intervista a Dario Covolo dal titolo Tobagi poteva essere salvato che accusa i superiori Ruffino e Bonaventura di avere chiuso le sue note in un cassetto e di avere subito mobbing per quel fatto.

Il 18 giugno 2004 alla Camera il deputato verde Marco Boato dichiara: «A distanza di 24 anni sono ricorrenti gli interrogativi sulle gravi omissioni da parte di ufficiali dei carabinieri dell’epoca che nascosero e non diedero seguito a una nota informativa preventiva redatta da un sottufficiale del nucleo antiterrorismo» e l’ex deputato Claudio Martelli allestisce uno speciale su Canale 5, seguito nel 2005 da Giovanni Minoli sulla RAI che dedica al “caso Tobagi” un’intera puntata di La storia siamo noi, in cui trasmette un’intervista a Covolo (da tempo traferitosi all’estero), che ribadisce la tesi del “delitto annunciato”.



Un’altra querela

Ruffino e la sorella di Bonaventura (deceduto nel 1992) querelano per diffamazione Magosso, Covolo e il direttore di Gente Umberto Brindani e nel corso del processo che si celebra avanti il Tribunale di Monza, all’udienza dell’11 luglio 2007 Dario Covolo viene esaminato come imputato di reato connesso e quando gli viene mostrato l’appunto del 13 dicembre 1979 dichiara: «ci sono degli appunti successivi a questo, dove si fa nome e cognome di quelli che devono ammazzare. O per lo meno si fa il nome e si dice: Guarda che il gruppo che sta operando dovrebbe essere la Caterina e il suo fidanzato, il suo convivente, Barbone Marco, non mi si fanno i nomi degli altri però quei nomi vengono fatti in successivi appunti».
Questi “ulteriori appunti” non verranno mai rintracciati e il 23 luglio 2007, nel corso di una conferenza a Milano dal tiolo Le verità nascoste. Il caso Tobagi, sempre Covolo dichiara: «Spiegai per tempo in un rapporto che un attentato sarebbe stato fatto nei confronti di Walter Tobagi e diedi i nomi di chi l’avrebbe compiuto. Ma non venne preso alcun provvedimento. Dopo la morte di Tobagi ho avuto una discussione molto accesa con Ruffino perché gli avevo detto che volevano uccidere Tobagi e gli avevo fatto i nomi di Marco Barbone e altri. Queste cose le ho anche ripetute come testimone al processo in corso a Monza davanti a lui. L’incredibile è che per aver fatto il mio dovere ora devo risponderne legalmente».
Il 20 settembre 2007 il Tribunale di Monza condanna Magosso e Brindani e la sentenza viene definita dal Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Franco Abruzzo «lesiva della libertà di stampa», ma nel settembre dell’anno successivo viene condannato anche Covolo, condanne tutte confermate nel 2009 in Appello e definitive nel 2010.



Le polemiche continuano, arriva anche la commissione Moro


Al termine del libro Ragazzi di buona famiglia di Fabrizio Calvi (Piemme) si legge che: «Dopo ventisette anni, il barbaro assassinio di Walter Tobagi non ha ancora smesso di far discutere – e indignare – l’Italia».
Nel 2009 Benedetta Tobagi pubblica per Einaudi Come mi batte forte il tuo cuore in cui definisce la nota di Covolo troppo «generica» per costituire prova che i carabinieri fossero stati avvertiti sei mesi prima dell’omicidio del padre e dopo avere direttamente parlato con Covolo non ritiene sia stato «perseguitato per quel documento».
Nel 2010 Armando Spataro pubblica per Laterza Ne valeva la pena in cui racconta che l’indagine sulla 28 marzo si concentrò sull’area gravitante intorno alla sigla Guerriglia rossa sia perché aveva come obiettivo il mondo della stampa sia per le identiche modalità di recapito delle rivendicazioni a mezzo posta a vari giornalisti, e che fu Ruffino a rilevare per primo l’evidente identità di grafia tra la rivendicazione della rapina di via Colletta trovata due anni prima in via Negroli e quella sulle buste di rivendicazione di Guerriglia rossa e sulle lettere di Barbone alla Rosenzweig.
Ancora una volta la vicenda sembrerebbe conclusa, ma il 19 ottobre 2016 nel corso della seduta n. 107 della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro presieduta da Giuseppe Fioroni, l’ex deputato Umberto Giovine torna a parlare della vicenda Tobagi in termini accusatori:
«Come mai Caterina Rosenzweig rimane fuori dall’inchiesta? È una cosa inaudita. La giustificazione che dette – e lo dico con nome e cognome – Armando Spataro è ancora peggio del fatto in sé. Disse che, siccome Caterina Rosenzweig apparteneva a una «famiglia bene» di Milano – una cosa che un giudice non dovrebbe neanche pensare (io sono nipote di un magistrato), figuriamoci dirla – per questo è rimasta fuori dall’inchiesta; poi questi assassini hanno avuto delle pene irrisorie. Dopo l’affare Moro questa è la cosa che mi fa più andare in bestia quando penso all’Italia, non so se qualcuno ha il potere di intervenire ex post su una cosa del genere, ma che fosse una cosa invereconda lo si capì subito, solo che noi socialisti non ci comportammo in modo intelligente. Anziché muoverci in termini di diritto e contestare ogni mossa di Spataro, la buttammo in politica».



Il flop delle nuove rivelazioni


L’ingente elaborato finale della nuova Commissione Moro non approda a particolari novità, ma il 16 gennaio 2018 i media danno ampio risalto a una conferenza stampa organizzata da Renzo Magosso presso la sala dell’associazione lombarda giornalisti di via Monte Santo in cui vengono annunciate «nuove rivelazioni sull’omicidio Tobagi». Alla conferenza è presente il Giudice Guido Salvini, il quale, pur escludendo ogni «complotto», afferma che non essendo credibile che senza la nota Covolo i carabinieri abbiano potuto mirare proprio a Barbone nella scelta del reperto grafico da comparare con quello reperito due anni prima nella base di Alunni, vi fu una iniziale sottovalutazione di quel documento e dopo l’omicidio si è voluto celare la cosa.
Il giorno dopo Il Corriere della sera, forzando non poco il contenuto di quelle affermazioni, titola: «L’ultima verità sull’assassinio di Tobagi, il giudice Salvini: ‘Si poteva salvare’», e ne seguono nuove polemiche.


In realtà, a quella conferenza non fu esibito nessun nuovo elemento rispetto a quelli già noti. L’appunto di Bonaventura a Bozzo era stato depositato nel corso del processo di Monza, come risultava da una interpellanza presentata dal Partito Radicale riportata in un articolo datato 2008 reperibile sul sito web di Franco Abruzzo, dove si legge: «In quest’ultimo processo è emerso ora un fatto nuovo, giudicato dai Radicali grave e sconvolgente. Il generale Niccolò Bozzo – è scritto nell’interpellanza dei Radicali -, all’epoca dei fatti stretto collaboratore del generale Dalla Chiesa, sentito come teste, ha presentato un documento riservato preparato dai suoi superiori, nel quale venivano date indicazioni a Bozzo per fornire, se interrogato dalla magistratura, la versione ‘concordata’ sulle indagini». La scansione dei primi atti d’indagine era già stata riferita da Spataro nel libro Ne valeva la pena di otto anni prima (pagg. 82 e ss.) e l’articolo su L’Occhio del 25 settembre 1980, dove Magosso scriveva «Preso Marco Barbone delle Br, l’informazione viene da Varese», era stato citato da Stefania Limiti in un post datato 20 ottobre 2009 leggibile sul sito Miccia Corta.


Sempre nel 2018 Zona Contemporanea pubblica Vicolo Tobagi di Antonello De Stefano, il quale ricorda che il fratello fu arrestato mentre era con lui la sera del 3 ottobre ad Arona davanti al Bar Stadio, un giorno prima quindi della data del verbale di confessione di Barbone, confermando che Manfredi conosceva Marchettini perché avevano lavorato insieme all’IRE di Varese. Nel libro compare un’intervista a Francesco Giordano che dice di avere conosciuto i membri di quel gruppo alla fine del 1979 tramite Mario Marano, con loro vennero organizzate due rapine di autofinanziamento, la prima a ridosso di Natale 1979 a Castelpalasio e la seconda nel gennaio del 1980, e la proposta di un attentato a Tobagi gli fu fatta da Barbone dopo il 28 marzo del 1980.


Il 15 agosto 2018 Antonello De Stefano rilascia un’intervista a Roberto Pietrobelli sul Fatto Quotidiano in cui dichiara: «Mio fratello non è morto per un aneurisma e qualche inquirente ha falsificato le carte. Ho aspettato così a lungo a prendere un’iniziativa ufficiale sulla morte di mio fratello, perché ho voluto studiare i 138 faldoni del processo e leggere i 220 mila documenti che essi contengono. Manfredi venne picchiato nel carcere di San Vittore e salvato dalle guardie. Poi fu trasferito a Udine. Ed è all’amministrazione penitenziaria che mi sono rivolto». Si legge nell’articolo: «Pochi giorni fa De Stefano ha scritto a Francesco Basentini, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, nonché per conoscenza al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e ai ministri della Giustizia, della Difesa e degli Interni: Mi trovo nella condizione di richiederle le cartelle cliniche del detenuto Manfredi De Stefano, mio fratello, a far data dal 3 ottobre 1980 e fino al 6 aprile 1984, data della sua morte».




Anche la corte di Strasburgo dice la sua


Passano altri due anni e il 16 gennaio 2020 la Corte di Strasburgo condanna l’Italia per violazione del diritto alla libertà d’espressione di Renzo Magosso e Umberto Brindani assegnando loro un risarcimento di 15mila euro perché, si legge nella sentenza CEDU: «Legittimamente i querelanti potevano dolersi con il brigadiere che ha fatto le affermazioni riportate nel settimanale, per contestare l’eventuale falsità o parzialità delle sue dichiarazioni. Viceversa, quanto al cronista e al direttore responsabile del settimanale, l’oggetto della contesa non poteva riguardare la verità dei fatti narrati ma solo se il cronista si fosse limitato a riportare le frasi dell’intervistato, svolgendo ragionevoli verifiche sulla sua attendibilità, e non avesse operato proprie inserzioni e considerazioni offensive sulla narrazione riferita», aggiungendo che sul punto i tribunali nazionali «non hanno fornito motivi rilevanti e sufficienti per ignorare le informazioni fornite e i controlli effettuati dai ricorrenti, che sono stati il risultato di un’indagine seria e approfondita».


Nel commentare la sentenza a lui favorevole Magosso dichiara al Dubbio: «Se hanno saputo di Barbone solo successivamente, per quale motivo sono andati a controllare? A giugno del 1980 venni contattato dal direttore del Corriere, Franco Di Bella, che mi disse: il generale Dalla Chiesa mi ha detto che ad ammazzare Tobagi è stato il figlio del nostro direttore generale Donato Barbone. Così andai a verificare con Umberto Bonaventura, che confermò la circostanza, aggiungendo di essere arrivato a Barbone tramite un manoscritto anonimo su un attentato mai avvenuto ordito dalle Fcc nel quale riconobbe la calligrafia del giovane. Non ci ho creduto, ma lui mi disse che era un’informazione sicura che veniva da Varese. Così gli chiesi di informarmi dell’arresto, cosa che fece. Su L’Occhio scrissi: preso Marco Barbone delle Br, l’informazione viene da Varese. Otto giorni prima che confessasse. Come fa la magistratura a dire che non ne sapeva nulla?».


Anche qui, fermo restando che la CEDU non ha confermato la versione di Covolo, limitandosi a stabilire che non è perseguibile il giornalista che riporta dichiarazioni altrui dopo avere svolto adeguata inchiesta (che non significa inconfutabile), si potrebbe obiettare che quanto ricorda Magosso non smentisce la versione degli inquirenti. A giugno i carabinieri erano già sulle tracce di Barbone per cui l’anticipazione di Dalla Chiesa a Di Bella è imprudente ma compatibile; l’informazione da Varese poteva riferirsi a quanto riferito da Ricciardi su De Stefano dopo l’omicidio per averlo appreso dal Marchettini e non al precedente appunto del 13 dicembre 1979; se Magosso scrive il 25 settembre che Barbone è delle BR mostra di non essere troppo informato su costui, che comunque indica come arrestato e non come l’assassino di Tobagi.

In ogni caso, questi sono i fatti e ognuno è libero di interpretarli come ritiene, ma poiché ritengo probabile che per il quarantennale dell’assassinio di Walter Tobagi la vicenda della nota Covolo verrà ripresa, pareva corretto ricostruirla.

Pubblicato in Anni 70, Lotta armata, Teorie del complotto | Contrassegnato Alessandro Ruffino, Armando Spataro, Bettino Craxi, Brigata XXVIII marzo, Caterina Rosenzweig, Ciondolo, Dario Covolo, Davide Steccanella, FCC, Formazioni comuniste combattenti, Guerriglia Rossa, Marco barbone, Renzo Magosso, Rocco Ricciardi, Umberto Bonaventura, Walter Tobagi | 1 Risposta








Edited by barionu - 25/5/2023, 11:27
 
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