Origini delle Religioni

IL CASO MARIO FERRARO E MICHELE LANDI

« Older   Newer »
  Share  
CAT_IMG Posted on 24/5/2023, 11:24
Avatar

www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=44&t=18168

Group:
Administrator
Posts:
8,418
Location:
Gotham

Status:













-----------------------------


www.colarieti.it/archives/377









La strana morte di Mario Ferraro, agente del Sismi







AutoreFabrizio ColarietiPubblicato11 Novembre 20113 commentisu La strana morte di Mario Ferraro, agente del Sismi




Roma, via della Grande Muraglia Cinese 46, 16 luglio 1995.

È domenica e a Roma è una giornata molto calda. Il tenente colonnello dell’Esercito, Mario Ferraro, 46 anni, calabrese, distaccato al Sismi, esperto in informatica, traffici di armi e terrorismo internazionale, è in casa insieme alla sua compagna, Maria Antonietta Viali, per gli amici Antonella. Sono al quinto piano, in un attico nel quartiere Torrino, accanto all’Eur. La coppia è in assoluto relax dopo aver trascorso una giornata serena e scandita da poche e semplici azioni, ignari che quella sia la loro ultima domenica insieme. La mattina si sono alzati tardi, intorno alle undici, hanno fatto colazione e poi sono andati sul terrazzo, portando con loro riviste, bibite e gli amati Toscani, a prendere il sole fino alle quattordici. Sono riscesi nell’appartamento per pranzare e hanno trascorso gran parte del pomeriggio in casa a ridere, scambiarsi baci, carezze e fare programmi per il futuro.

Verso le 19, quando il caldo è meno insopportabile, sono ritornati in terrazzo dove il ponentino, la brezza che arriva dal mare, comincia a rinfrescare l’aria e hanno giocato a scalaquaranta fin verso le venti quando Mario ha deciso di uscire a fare quattro passi. Mario ha infatti finito i suoi sigari, passione che ha in comune con la sua compagna e ha voglia di mangiare un gelato, per cui propone a Maria Antonietta di andare in tabaccheria e poi alla gelateria Giolitti, in viale Oceania. Lei vuole rimanere in casa per cui, dopo aver insistito un po', decide di uscire lo stesso, da solo. Fa la doccia, si veste sportivo con una polo e un paio di jeans e torna di nuovo in terrazzo per vedere se per caso Maria Antonietta ha cambiato idea. Lei è decisa a rimanere in casa a preparare la cena e poco prima che lui esca fa in tempo solo a chiedergli cosa vuole mangiare.



Un passo indietro. La storia di Maria Antonietta e Mario è molto bella, tra loro, infatti, scatta il classico colpo di fulmine. Quando si conoscono sono entrambi separati ma Mario vive ancora in casa con la ex moglie Lidia D.B. da cui ha avuto due figlie: la primogenita, Fabiana, (nel 1995 diciassettenne) e un'altra bimba, Roberta, portata via da un tumore nel 1987 a 5 anni. Mario ha due fratelli, Salvatore e Luigi, che frequenta abitualmente, e un’anziana madre. Tra loro comincia tutto cinque anni prima, nel novembre del 1990. Lavorano entrambi al civico sessantasei di viale Pasteur, all’Eur, dove Maria Antonietta fa la pierre nel ramo immobiliare e finanziario.

Una mattina, parcheggiando l’auto sotto il suo ufficio, conosce Fabio Marcelli, un uomo distinto, gentile e dai modi affabili, che si presenta alla donna come un funzionario di una ditta di import-export, la Cerico che ha i suoi uffici nello stesso palazzo. Fabio in realtà è Mario Ferraro, che usa questa copertura per ragioni di sicurezza essendo un agente del Sismi. I due si piacciono subito. Passano un paio di mesi, continuano a frequentarsi con la scusa di posteggiare le auto vicine, vanno al bar, fanno lunghe passeggiate attorno al laghetto dell’Eur e dopo poco la loro amicizia diventa una vera e propria relazione. Vanno in vacanza insieme diverse volte, in settimana bianca, passano molti weekend fuori Roma. Mario si lega sempre più a questa donna e lei a lui, a febbraio, dunque, fanno una scelta importante e coraggiosa: decidono di andare a vivere insieme, in una mansarda presa in affitto vicino la Cecchignola.

Nonostante tutto Maria Antonietta ancora non conosce la vera identità di quell’uomo con cui ha scelto di vivere né il suo vero lavoro, anche se, a causa di alcune circostanze, comincia a nutrire dei dubbi. Un giorno, infatti, è lo stesso Mario a tradirsi esclamando: “che stupido che sei, Mario” e nell'ufficio di Maria Antonietta in molti dicono che nella società di import-export, dove lavora il suo compagno, ci sono nascoste le barbe finte, gli 007. Lei non sa neanche cosa siano le barbe finte, è roba da film, è ingenua, è semplicemente innamorata di quell’uomo, ma alla fine chiede in giro e scopre informazioni che le confermano che Mario le nasconde molte cose.

Lo affronta, lui all’inizio nega, i due discutono, poi alla fine confessa: “Sono Mario Ferraro, un agente del Sismi, il servizio segreto militare”. Quell’ufficio, quella strana società che si occupa di import-export non è altro che una delle tante ditte di “copertura”: un ufficio distaccato del Sismi che si occupa di traffici internazionali, di armi e di terrorismo. Ma non c’è solo il Sismi in quel palazzo, addirittura qualcuno parla anche di una strana società israeliana e di agenti del Mossad che vanno e che vengono. La prima conseguenza della svelata identità è che il Sismi dopo pochi mesi richiama l’agente in sede, gli fa abbandonare l’ufficio “coperto” di viale Pasteur e lo fa rientrare a Forte Braschi, la sede centrale a Roma.





Fino a quel momento la carriera di Mario Ferraro è ricca di successi, non ultima la promozione al grado di tenente colonnello giunta a giugno del 1995, appena un mese prima della sua tragica scomparsa. Nel 1980, infatti, a soli 31 anni è tenente e passa dall’Esercito al neonato Sismi. Quattro anni dopo viene trasferito nel delicatissimo Ufficio sicurezza interna, la divisione, che sulla carta non esiste, ma che di fatto controlla il lavoro di tutti gli 007 del servizio segreto militare. Il suo ufficio è mascherato, si nasconde dietro l’Istituto per le Relazioni italo-arabe con sede in viale del Policlinico, ed egli riferisce direttamente al direttore, l’ammiraglio Fulvio Martini, nome in codice “Ulisse”, detto il “bastardo”, appena nominato ai vertici del Sismi. Mario Ferraro è un agente operativo, un esperto di affari internazionali, in particolare di traffici di armi ed esplosivi; ha al suo attivo un gran numero di missioni all’estero, un po’ in tutto il mondo. Nel 1986 viene inviato per tre mesi a Beirut dove indaga su traffici di armi. Al suo ritorno viene mandato all’ottava divisione, quella che si occupa di sicurezza industriale e di armamenti, che ha sede proprio in viale Pasteur. È un uomo riservato e sa il fatto suo. Quando viene trasferito a Forte Braschi fa carriera, da capitano a maggiore, lavorando nella divisione controspionaggio, la prima dove si occupa alacremente di flussi migratori. Porta avanti indagini importanti: nel 1993 si reca a Johannesburg, in Sud Africa, e nel 1994 in Somalia. All’Ufficio Sicurezza Interna gli passa per le mani ogni genere di porcheria commessa in giro per il mondo dai suoi colleghi ed è proprio lì che tra il 1984 e il 1988 comincia a inimicarsi un gran numero di persone. Nelle sue memorie, dove sono ben descritte le guerre e le gelosie interne al Servizio segreto militare, si comprende che lui era l’uomo giusto nel posto sbagliato. Nel luglio 1995, poco prima di morire, stava organizzando una missione in Albania: aveva programmato di recarsi a Tirana, dopo le ferie, intorno al 7 agosto. In quel periodo stava lavorando a qualcosa di delicato, forse un traffico tra l’Italia e il Paese delle Aquile, ma nessuno arriverà mai a scoprire di cosa si trattasse.



Una volta svelata a Maria Antonietta la sua identità non cambia solo ufficio, ma modifica profondamente il proprio atteggiamento con lei, nell’arco di un anno, infatti, tra il 1994 il 1995, in lui cambia qualcosa. Il trasferimento e la promozione a tenente colonnello lo avevano inizialmente reso felice, avevano festeggiato con una cena a lume di candela, e lui già pensava all'imminente divorzio e a programmare per l’autunno le nuove nozze, ma poi improvvisamente era diventato guardingo, sospettoso, quando rientrava dall’ufficio non aveva più il sorriso sulle labbra, come una volta, era pensieroso. Con Maria Antonietta era sempre stato riservato riguardo al suo lavoro, ma ora era evidente che c’era qualcosa che lo preoccupava, che lo faceva tornare teso dall’ufficio e sentire sicuro solo dopo essersi chiuso la porta di casa dietro le spalle. A confermare le sue ansie accadevano sempre più frequentemente alcuni fatti inquietati che lo rendevano ancora più vulnerabile: riceveva diverse telefonate mute al numero riservato di casa, oppure spesso, di notte, solo nel loro attico andava via la corrente, mentre nel resto del palazzo no. Era convinto che qualcuno ce l'avesse con lui ed era deciso a scoprire chi fosse. Aveva per questo adottato una serie di precauzioni, che, agli occhi della sua compagna erano inspiegabili: parlava raramente al telefono cellulare, usava sempre più spesso i telefoni pubblici, si affacciava dal balcone per controllare le auto in sosta, prima di parcheggiare faceva sempre diversi giri del palazzo fissando lo specchietto retrovisore. Aveva paura di essere pedinato e intercettato, ma non era preoccupato solo per sé, anche per la sicurezza della sua compagna. Fece adottare anche a lei una serie di precauzioni e voleva essere informato di ogni suo spostamento. Le raccomandava, nel caso mancasse improvvisamente l’energia elettrica, di non abbandonare l’appartamento per nessun motivo. La obbligava, quando usciva per fare delle passeggiate, a cambiare sempre orario e itinerario. Il 16 luglio, il giorno della sua morte, Mario, si era liberato di una grande quantità di documenti bruciandoli e buttandoli in un grosso sacco della spazzatura.



Anche mentre Mario è fuori per prendere sigari e gelato, accadono delle stranezze. Non appena l’ufficiale varca il portone di casa Maria Antonietta sente degli strani rumori provenire dall’ascensore del palazzo ma in quel momento non gli dà peso, lo ricorderà solo dopo. Sente lo scatto della fotocellula della porta della cabina ripetersi a intervalli regolari, per parecchi minuti, come se, dirà poi alla polizia, qualcuno stesse cercando di tenere aperta la porta dell’ascensore coprendo le cellule. Passa circa un’ora da quando Mario è uscito e quello strano ritardo insospettisce Maria Antonietta che scende dal terrazzo e rientra nell'appartamento chiedendo: “Mario sei rientrato? Dove sei?”. Lui non risponde. Dal corridoio la donna vede un po’ di luce che esce dalla porta del bagno leggermente aperta. Si rasserena perché pensa che sia lì e lo chiama ancora, ma dal bagno non esce alcun rumore. Bussa e poi spinge la porta, che però non si apre. Spinge con più forza e la scena che si mostra ai suoi occhi è terribile: Mario Ferraro è impiccato con la cinghia dell’accappatoio, lunga poco più di un metro assicurata al tubo di un appendiasciugamano fissato al muro a circa un metro e venti dal pavimento. La sua posizione è anomale e sospetta, infatti, sebbene egli sembri seduto a terra, il fondo schiena non poggia sulle mattonelle, ma è sospeso a circa dieci centimetri. Il cappio gira attorno al collo dell’ufficiale, è serrato e gli segna la pelle.



Mario è già morto e cianotico, ma, come affermerà poi Maria Antonietta, ha lo sguardo sereno e il collo leggermente reclinato su un lato. La donna è in stato di shock, pensa a tutto, anche che sia uno scherzo, lo chiama ancora, gli tocca la faccia, che è gelida. Afferra le forbici e taglia la cinta. Mario si accascia su se stesso. La donna gli bagna il viso, lo scuote, ma niente. Nessun segno. Nessuna risposta. A questo punto Maria Antonietta entra nel panico, chiama il medico di famiglia, gli dice che Mario sta male, di raggiungerla e di fare presto. Lui le raccomanda di sentirgli il polso, e la rassicura che arriverà presto, sarà infatti lui, più tardi, ad accertarne la morte. Passa del tempo, Maria Antonietta tergiversa, è confusa, si siede, poi torna da Mario e come le aveva detto il medico sente il polso e lì, capisce che è veramente morto. A questo punto chiama Salvatore, uno dei due fratelli di Mario, e gli urla che Mario non c’è più.



I primi a entrare nell’appartamento di Ferraro sono gli agenti del commissariato “Esposizione”. Poi arriva il fratello Salvatore. L’ispettore che redige il primo verbale, quello che verrà poi trasmesso alla Procura, dimentica di scrivere che Ferraro è un agente segreto, perché nel portafogli, come si vedrà in avanti, l’ufficiale ha un tesserino di copertura della polizia. A indagare è il sostituto procuratore Cesare Martellino, di turno quella sera. Piombano in casa anche gli agenti del Servizio segreto militare avvertiti da Maria Antonietta, che, come si accerterà poi, sono alla ricerca di materiale “classificato”, debbono, cioè, come si dice in gergo, bonificare l’appartamento. Lo fanno con gli agenti del commissariato “Esposizione” presenti sulla scena del crimine. Nessuno annota cosa fanno i colleghi dell'ufficiale, si muovono con disinvoltura, entrano nel bagno, girano per la casa, aprono cassetti, di fatto inquinano la scena.
Mario non può essersi suicidato. Non ci credono familiari e nemmeno Maria Antonietta che è distrutta, isolata. Mentre la polizia scientifica entra ed esce da quel bagno lei resta lì, immobile. È lucida e ripensa subito alla fotocellula dell’ascensore. Osserva poi l’appendiasciugamano, il cappio e grida a tutti: “Come ha fatto a suicidarsi, il portasciugamano è più basso di lui?” Ripensa anche al pomeriggio appena trascorso. Ricorda che prima di andare a letto, subito dopo pranzo, Mario aveva chiuso la serranda della camera ma non quella del salotto che dà su un terrazzo accessibile dal balcone condominiale. Era ossessionato dalla sicurezza, ma per caso quel giorno l'aveva dimenticata aperta e da lì sarebbe stato possibile entrare nel loro appartamento. C’è un altro fatto: le chiavi. Quando rientrava Mario, proprio perché temeva per la sua incolumità, chiudeva a chiave la porta, metteva il chiavistello e lasciava le chiavi nella serratura dopo aver dato tutte le mandate. Ma quella sera la porta è chiusa a chiave dall’interno e le chiavi non sono infilate nella serratura ma dentro un cassetto. È insolita come cosa, è più che un sospetto per Maria Antonietta che conosce tutte le ritualità del suo uomo. Ferraro non può aver chiuso quella porta in quel modo, mettendo la chiave nel cassetto. Perché non lo ha mai fatto. Allora la donna ripensa subito alla finestra aperta del salotto che da sul terrazzo e si delinea in lei il sospetto che mentre erano a letto, tra le quindici e le diciannove, qualcuno sia entrato, abbia prese le chiavi e ne abbia fatto una copia.




Una possibile ricostruzione, suggerita successivamente da un testimone dell'inchiesta, Antonino Arconte, è che qualcuno, dopo essere entrato nel loro appartamento dal terrazzo condominiale, abbia preso le chiavi, la cinghia dell’accappatoio e abbia atteso Mario fuori dall’ascensore. Qui lo ha aggredito, incappucciato con una bustina di plastica fino a soffocarlo, lo ha portato nel bagno e lo ha appeso all’appendiasciugamano inscenando il suicidio.
Il fratello di Mario Ferraro, Salvatore commenterà così ai giornalisti quello che ha visto: “ho trovato Mario seduto per terra, aveva un’espressione serena, non quella di un uomo che ha compiuto un gesto disperato. L’avevo sentito al telefono venerdì, tre giorni prima: era tranquillo, non aveva manifestato alcuna apprensione”. Parla anche Maria Antonietta con i giornalisti: “Mario negli ultimi tempi era preoccupato, si sentiva pedinato. Quando era uscito per il gelato, ho sentito strani rumori, ero sul terrazzo, provenivano dall’ascensore del palazzo: lo scatto della fotocellula della porta si ripeteva a intervalli regolari per parecchi minuti, come se qualcuno cercasse di tenere aperta la porta dell’ascensore. Mario non può essersi suicidato”. Maria Antonietta non è la sola ad avere più di un sospetto. Vengono sentiti anche i vicini e si accerta che nessuno, intorno a quell’ora, ha utilizzato l’ascensore. Passano alcuni giorni, la polizia lavora al caso, i giornalisti incalzano Maria Antonietta.



Alla Procura di Roma il 20 luglio si riuniscono, per parlare del caso Ferraro, il procuratore capo Michele Coiro, il pm Cesare Martellino, di turno la sera del fatto, e il sostituto Italo Ormanni. Partecipano anche il capo della Digos, Marcello Fulvi, e quello della Squadra Mobile, Rodolfo Ronconi. In quei giorni vengono sentiti anche gli agenti del commissariato “Esposizione” che per primi hanno visto il corpo di Ferraro. Poi verranno interrogati, come persone informate sui fatti, anche la prima moglie di Ferraro, Lidia D.B., alcuni colleghi del Sismi, Maria Antonietta e i due fratelli dell’ufficiale. In quelle ore si attende, inoltre, l’esito dell’autopsia, affidata alla dottoressa Simona Del Vecchio, e di quattro perizie (medica, tossicologica, istologica e meccanica) ordinate dal pm Martellino.


Dell’operato degli agenti del commissariato non convince, l’aver omesso, nei primissimi atti trasmessi alla Procura, il fatto che Mario Ferraro non fosse un semplice ufficiale dell’Esercito bensì un agente del Servizio segreto militare. Il questore di Roma, Vincenzo Sucato, dispone, infatti, un’inchiesta interna sulle modalità con cui gli agenti del commissariato hanno svolto il primo intervento. La Procura, parallelamente, non tarderà a iscrivere quegli agenti nel registro degli indagati e il 23 luglio cominciano a circolare le prime voci sulle ipotesi di reato che di lì a poco verranno delineate: istigazione al suicidio, poi omicidio a carico di ignoti. Due giorni dopo l’assistente capo Salvatore S. del commissariato “Esposizione”, colui che inviò alla Procura la prima relazione senza l’indicazione dell’appartenenza di Ferraro al Sismi, è indagato. La Procura, nei suoi confronti, ipotizza il reato di omissione d’atti d’ufficio. L’agente si difende ammettendo che nel primo fonogramma non si indicava che Ferraro era del Sismi ma in quello successivo, trasmesso due ore dopo il fatto e in quello inviato in Procura il lunedì mattina, tale indicazione c’era. Dietro quell’omissione, aggiunge l’agente, non c'era alcuna intenzionalità di nascondere l’appartenenza ai Servizi dell’ufficiale ma solo una dimenticanza.



Il 25 luglio il Capo della Mobile, Rodolfo Ronconi e il sostituto procuratore Italo Ormanni effettuano un sopralluogo nell’appartamento di via della Muraglia Cinese. Con loro c’è anche il medico legale e un ingegnere chiamato dalla Procura a valutare le “forze di trazione” esercitate sull’appendiasciugamano. Rimangono lì dal primo pomeriggio fino alle diciassette e trenta. Con loro c’è anche Maria Antonietta. Intanto un altro pm viene chiamato a occuparsi del caso al fianco di Ormanni e Martellino, è Nello Rossi che diventerà presto titolare delle indagini.



Il 27 luglio gli inquirenti si recano anche negli uffici del Sismi, a Forte Braschi e interrogano i colleghi dell’ufficiale, in particolare uno di quelli che la sera del fatto era entrato nell’appartamento di Ferraro: il generale Silvano Saitta, Capo della prima divisione del Sismi. È un superiore di Ferraro, ma anche un suo amico e per questo nel corso dell’interrogatorio ribadirà più volte ai magistrati di essersi recato a casa di Ferraro a titolo esclusivamente di amicizia in seguito a una drammatica telefonata di Maria Antonietta e solo dopo aver avvertito anche i superiori. L’ufficiale si recò nell’appartamento anticipato da un suo collaboratore che lui stesso aveva allertato. Quello stesso giorno, parlando con i giornalisti, il procuratore capo Michele Coiro si lascia sfuggire che per lui la morte di Ferraro è un omicidio “vero e proprio”. La prima svolta c’è il giorno dopo, il 28 luglio. I magistrati ascoltano per ore Maria Antonietta poi si consultano. Sono passati dodici giorni dalla morte dell’ufficiale e la Procura di Roma decide di procedere per omicidio. In questo modo, rubricando il fatto da suicidio a omicidio, ha a disposizione un più ampio margine di azione e di verifica di tutte le ipotesi. Lo stesso giorno, dopo l’agente del commissariato, la Procura decide di procedere, per abuso d’ufficio, proprio nei confronti del generale Saitta al quale viene contestata la sparizione, dall’abitazione di Ferraro, di un’agenda, di un telefono cellulare, entrambi recuperati, tre giorni dopo, solo dopo un ordine di sequestro emesso dalla Procura, e di una tessera di riconoscimento della Polizia di Stato utilizzata come copertura dall’agente. Per la Procura fu lui a prelevare dall’appartamento di Ferraro gli oggetti. Egli si difenderà affermando che telefono, agenda e tesserino furono portati via dall’appartamento in quanto di proprietà del Sismi, in particolare il cellulare, per tutelare i numeri di altri agenti e le altre informazioni in possesso dello 007. Le prime indiscrezioni sull’autopsia eseguita dalla dottoressa Simona Del Vecchio su delega della Procura di Roma, parlano di una morte perfettamente compatibile con il suicidio, inoltre non sono state rilevate tracce di violenza. L’ufficiale è morto per strangolamento, queste le prime conclusioni dell’anatomopatologo, e il decesso rientra nella casistica dei suicidi. Anche i primi risultati degli esami tossicologici non lasciano dubbi: nessuna traccia di sostanze esterne.



Maria Antonietta non regge la tensione, è sola e ha tutti contro. Il 30 luglio si sfoga per la prima volta ai microfoni del Tg3:

Da un mese e mezzo Mario non era sereno perché sospettava di essere seguito e questo l’ho detto anche ai magistrati. Se aveva timori non me li ha mai trasmessi. Si sappia la verità. Io sono stata sola in questa battaglia. I magistrati hanno capito, sono stati tenaci. Spero che si vada fino in fondo, ma, forse, il nome dell’assassino non si saprà mai.

L’11 agosto la donna racconterà inoltre, in esclusiva, al settimanale Panorama, la sua storia con Mario Ferraro, dai giorni in cui lo conobbe come Fabio Marcelli a quella maledetta sera in cui lo trovò morto in bagno.

Nei primi giorni di agosto la lista degli indagati si allunga con il dirigente del commissariato “Esposizione”, Francesco S., e l’ispettore capo Marcello D’A.. Nei confronti del dirigente del commissariato “Esposizione”, Francesco S., e l’ispettore capo Marcello D’A., il procuratore aggiunto Italo Ormanni e il sostituto Nello Rossi ipotizzano, come nel caso dell’assistente capo Salvatore S., il reato di omissione di atti d’ufficio in relazione al primo verbale dei fatti trasmesso alla Procura con l'omissione dell’appartenenza di Ferraro al Sismi. Il 4 agosto i pm Ormanni e Rossi interrogano il generale Saitta. Egli ribadisce davanti ai magistrati che la sottrazione dell’agenda, del tesserino e del telefono cellulare dall’abitazione di Ferraro era collegata a una necessità di tutela del segreto. L’alto ufficiale, una volta giunto nell’appartamento al Torrino, insieme a un altro agente del Sismi, prima di prelevare gli oggetti si fece autorizzare da due poliziotti, uno della Digos e uno della Mobile.


Il 18 agosto il Tg3, durante il telegiornale delle 19, diffonde il contenuto di una lettera-memoria di sei pagine, rinvenuta nell’abitazione di Ferraro, in cui l’ufficiale denuncia un conflitto durissimo all’interno del Sismi e manifesta il timore di essere ucciso. Qui l’ufficiale del Sismi fa riferimento a una missione a Beirut che un suo superiore, Bruno Boccassin, gli aveva chiesto di compiere con la massima segretezza.

Il Tg3 legge alcuni passaggi della lettera:

Francamente che qualcosa non andava o perlomeno che l’operazione non era fine a se stessa lo avevo percepito proprio mentre il buon Boccassin mi dava l’incarico. Era imbarazzato, rosso in viso (sono i classici sintomi di quando uno dice una bugia) occhi e sguardo abbassati…

Scrive ancora Ferraro:

Anche Armando Fattorini dice che sto facendo una cazzata e che Boccassin gli aveva detto espressamente che ormai mi aveva utilizzato per quello che doveva e che quindi era giunto il momento di disfarsene. Usa e getta, è questo il motto che Boccassin avrebbe detto ad Armando Fattorini consigliandolo di fare altrettanto.

Secondo il Tg3 Ferraro interpreta alcune frasi riportategli da colleghi:

Speriamo che non torni con i piedi avanti. Ad Armando Fattorini era rimasto impresso il tono e la freddezza con cui (Boccassin) aveva detto questa frase, come se lo dava per scontato e senza preoccuparsi.

Poi Mario Ferraro fa un'altra riflessione, prima di concludere:

Come fa uno come Boccassin servendosi di me a far fuori un uomo così… (si riferisce all’uomo del Sismi di Beirut).

La lettera si chiude così:

Vendetta per i mafiosi: Armando Fattorini, Bruno Boccassin, Rajola, Cersa e Benito Rosa.

In pratica l’agente elenca i vertici di Forte Braschi: Armando Fattorini, scomparso nel 1986, nel 1984 è capocentro a Fiumicino, Bruno Boccassin, è capo della divisione di cui fa parte Ferraro, Luca Rajola Pescarini è capo della seconda divisione, quella che si occupa di servizi all’estero, Pasquale Cersa è capo del personale del Sismi, e Benito Rosa è Capo di Stato Maggiore del Sismi.
Il Tg3 confermerà, nel corso dello stesso servizio, che sul passaporto diplomatico del colonnello Ferraro c’è un visto per Beirut del 1986 e ipotizza che la memoria sia stata scritta prima di quella missione.
In casa dell’ufficiale, allegato a un’altra lettera, scritta almeno un anno prima, verrà rinvenuto anche un cedolino di una polizza sanitaria stipulata con la compagnia Ina. Nella lettera, che di fatto non è un testamento, Ferraro dà anche precise disposizioni: “desidero che l’importo, di cui allego la ricevuta, sia devoluto a Maria Antonietta Viali”. Ma le polizze sanitarie non hanno un importo a differenza di quelle sulla vita. Secondo gli inquirenti Ferraro nella lettera non si riferisce a quel cedolino bensì a un’altra polizza di cui però nell’appartamento non vi è traccia. Si trova, invece, un fondo del Ministero della Difesa, una sorta di indennità di cravatta, a favore di Ferraro che ammonterebbe a circa cinquanta milioni di lire. La somma corrisponderebbe alle indicazioni di Ferraro, cioè di destinare quei soldi alla donna, ma non è chiaro perché allegò alla lettera solo la ricevuta di una polizza sanitaria.
Maria Antonietta, che intanto aveva perso anche il lavoro, non verrà mai in possesso di quei soldi e, il 31 agosto, parla delle polizze all’Ansa:

Certo, ero a conoscenza di quella polizza sanitaria, ma si trattava di un contratto che Mario aveva sottoscritto circa sette anni fa, prima di conoscere me, e che aveva intestato oltre che a se stesso anche a sua moglie e a sua figlia. Io non c’entro proprio nulla. Di quel fondo di 50 milioni per altro non so proprio niente, so che Mario ha lasciato una lettera che ho consegnato alla magistratura insieme con altri documenti ma non mi risulta che si parlasse di quella cifra o di altro. Questa vicenda mi ha distrutto sono uscita allo scoperto per difendere la memoria del mio uomo e adesso mi ritrovo senza lavoro anche a causa di tutte le sciocchezze che sono state dette.

La Procura di Roma lavora anche ai tabulati del cellulare di Ferraro, ma ci sono delle evidenti stranezze: l’uomo, non ricevette e non effettuò chiamate per un mese, dal 16 giugno fino al giorno della morte. Per la Procura questa circostanza risulterà “inverosimile” e anche per Maria Antonietta che dichiarerà, sbalordita, che da quei tabulali della Telecom sono scomparse le decine di chiamate, anche più di una al giorno, che lei stessa faceva al suo compagno e che lui faceva o riceveva in sua presenza. Nel suo ufficio, a Forte Braschi, gli inquirenti trovano un catalogo di libri con cinque titoli sottolineati: riguardano tutti storie di suicidi e morti sospette.
A novembre i magistrati ascoltano l’ex capo del Sismi, l’ammiraglio Fulvio Martini, in carica come direttore al Sismi dal 1984 al 1991, e altri ufficiali del Servizio. Gli inquirenti, con questo atto, intendono appurare se i vertici del Sismi erano a conoscenza del fatto che da un’indagine interna svolta da Mario Ferraro (compiendo anche intercettazioni) era emerso che nel 1986 due ufficiali del servizio segreto militare avevano chiesto e ottenuto del denaro (80 milioni in parte in oro e in parte in contante) da un imprenditore che doveva fornire a Forte Braschi apparecchiature elettroniche per lo spionaggio. Ferraro, in quel periodo faceva parte della Divisione sicurezza interna e nell’ambito delle sue mansioni aveva indagato su quelle tangenti. I due ufficiali in questione si ritroveranno indagati per concussione. Si tratta dei generali, nel 1995 già in pensione, Vincenzo Dell’Elce e Tindaro Italiano. Entrambi dirigevano la quinta divisione del Sismi, quella che si occupa di intercettazioni, microspie e altre apparecchiature elettroniche per lo spionaggio. L’inchiesta, nata dalle indagini sulla morte di Ferraro, era partita dopo il ritrovamento in casa dell’ufficiale di alcune cassette registrate in cui egli parla con un imprenditore di un caso di concussione facendo anche i nomi dei due ufficiali. I magistrati puntano a capire se proprio da quelle delicate e fastidiose indagini interne compiute dall’agente siano emersi degli illeciti o se il Sismi omise di denunciare fatti di rilevanza penale alla magistratura.
Non mancano testimonianze, confessioni-depistaggio e scritti anonimi sulla morte di Ferraro: uno in particolare, sotto forma di esposto e firmato “Un anonimo”, viene recapitato il 9 aprile 1996 alla Procura di Roma e per conoscenza al quotidiano Il Messaggero:

Riferimento delitto Mario Ferraro della scorsa estate un anonimo abitante in via della Grande Muraglia, 46 già a suo tempo riferito ai competenti uffici giudiziari di aver visto quella sera in cui fu ucciso alto ufficiale ho notato Antonio C. dipendente del Sisde coinquilino dello stesso Ferraro sostare nel pianerottolo del suddetto Ferraro l’ho notato salire le scale a fatica come se avesse un impedimento fisico. Ora a distanza di qualche mese il C. ha cambiato residenza dopo di questo mi permetto ancora una volta di segnalare queste anomalie dato che non è stato fatto un minimo di indagine ma veramente questi agenti possono permettersi tutto senza essere minimamente sospettati.

Effettivamente nel palazzo, dove si consuma la tragedia di Mario Ferraro, c’è qualcosa di strano. C’è uno insolito viavai di "spioni" in quella zona, l’anonimo, addirittura, indica alla procura il nome di un agente del Sisde, Antonio C., ma in quelle stesse ore circola anche un’altra e più insistente voce: sotto l’appartamento di Ferraro, ci sarebbe stato un altro ufficio coperto del Sismi, un’altra società di copertura costituita ad hoc per proteggere l’attività di controspionaggio.
Una fonte attendibile conferma infatti che, non si sa bene a quale piano e se fosse stato in uso al Sismi o al Sisde, nel corso della notte, quando la polizia aveva ormai abbandonato il palazzo e il corpo di Ferraro era già all’obitorio, alcuni agenti segreti avrebbero bonificato a fondo l’appartamento, svuotandolo completamente di ogni cosa e caricando tutto su un furgone. Gli 007, per compiere questa operazione, avrebbero atteso che tutto si fosse calmato, per poi entrare in azione. Il motivo per cui quell’ufficio fu abbandonato solo poche ore dopo la morte dell’ufficiale, le identità degli agenti che operavano sotto copertura al suo interno e quale sia il ruolo di Antonio C. in questa storia, sono tutte domande che non avranno mai una risposta.
Si dirà anche che lo stesso attico di Mario Ferraro era di proprietà a sua volta di una società di copertura dei Servizi. Ma a smentire quest’ultima circostanza sarà la stessa Maria Antonietta, che riferirà ai magistrati di aver preso in affitto quell’appartamento dall’Enpam, sottoscrivendo a suo nome un regolare contratto.
Di cose strane da questo momento se ne dicono tante, cominciano infatti a parlare diversi personaggi, apparentemente non collegati, che da una parte all’altra del paese improvvisamente svelano rapporti diretti o semplici riferimenti alla figura di Mario Ferraro che sembra delinearsi più complessa e misteriosa di quanto fosse emerso fino ad ora.
Il 21 dicembre, infatti, i pm che indagano sulla morte dell’agente del Sismi, interrogano un ufficiale della Guardia di Finanza in relazione ad alcune dichiarazioni rilasciate dal faccendiere siciliano Francesco Elmo, supertestimone dell’inchiesta della Procura di Torre Annunziata, denominata “Cheque to cheque” che tenta di fare luce su un traffico internazionale di valuta, armi e preziosi. Elmo dichiara si essere stato un informatore del Sismi e di avere avuto l’ordine di controllare un agente della Cia, Roger D’Onofrio. A chiedergli di controllare l’agente americano sarebbe stato un ufficiale di Forte Braschi che si era presentato con il nome di Bobby. Elmo farà mettere a verbale che Bobby in realtà era Mario Ferraro. D'Onofrio, ha 72 anni, è italiano di origini, di Solopaca in provincia di Benevento, paese che ha lasciato nel 1957. Fino al 1993 è stato uno dei funzionari più importanti di Langley; in Italia, tuttavia, si è già sentito parlare di lui nel 1983, nell’ambito di un’altra indagine e sempre per un traffico di armi verso il Medio Oriente. D'Onofrio finirà in manette il 2 dicembre 1995: i pm di Torre Annunziata - dopo aver raccolto le rivelazioni di tre indagati nell’ambito di “Cheque to cheque”, Enrico Urso, lo stesso Francesco Elmo e il belga Jean Luc Herigers - lo andranno a catturare proprio a Solopaca, dove era tornato a godersi la pensione. Le cronache di quei giorni raccontano che l’agente della “ditta” sarebbe stato uno degli uomini di maggior rilievo, addirittura il regista, se non il promotore, dell'organizzazione che traffica in armi, valuta e preziosi e per gli inquirenti di Torre Annunziata vantava, grazie al suo ruolo di spione, anche contatti con Cosa nostra negli Stati Uniti. Forse il Sismi è interessato a questo agente della Cia proprio perché avrebbe svolto un ruolo fondamentale nel commercio clandestino di materiale bellico proveniente dalla Croazia e fatto arrivare in Italia via Albania dove negli ultimi tempi si erano concentrate le missioni e le indagini di Mario Ferraro. Di questo aspetto si occuperà anche un'inchiesta di Mixer, il cui servizio va in onda il 4 marzo 1996, dal quale emerge che l’alto ufficiale del Sismi si stava occupando di un traffico di titoli di credito clonati, di speculazioni valutarie e di un traffico di armi per 4500 miliardi di vecchie lire tra l'Italia e alcuni paesi dell'Est, in particolare l'Albania.
Successivamente, nell’aprile del 1996, l’antiquaria milanese Stefania Ariosto teste “Omega” del processo per corruzione giudiziaria contro l’ex parlamentare di Forza Italia Cesare Previti, si presenta in procura a Roma, dopo aver parlato anche con i giudici di Milano, e racconta ai pm che indagano sulla morte di Mario Ferraro che lo 007 dava fastidio proprio a Cesare Previti. Fa riferimento in particolare a una conversazione ascoltata dalla donna mentre, nell'estate del 1994, si trovava a bordo di uno yacht in navigazione all'Argentario. La Ariosto giura di aver sentito Previti - che allora era ministro della Difesa del governo Berlusconi - parlare della ristrutturazione dei servizi e dire: “C'è un certo Ferraro che mi sta creando dei problemi”. È un “osso durissimo”, avrebbe aggiunto ancora il ministro.
Alcuni indizi collegherebbero, ancora, Ferraro all’uccisione di un altro agente del Sismi, il maresciallo Vincenzo Li Causi, morto, in circostanze altrettanto misteriose, durante un conflitto a fuoco in Somalia, il 12 novembre 1993. Li Causi, Ferraro, nomi che compariranno più volte nell’inchiesta sull’uccisione, avvenuta sempre in Somalia, della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del suo cameraman Mirhan Hrovatin. Tali oscuri legami emergeranno, ancora una volta, dalle dichiarazioni di Francesco Elmo. Secondo quanto riferirà Fausto Bulli, che finirà nei guai per aver tentato di rifilare una “bufala” alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi, Ferraro avrebbe fornito alla giornalista informazioni utili a smascherare le connivenze del Sismi in traffici di armi con la Somalia e per questo sarebbe stato ucciso con la messinscena del suicidio nel bagno.
La morte di Ferraro si intreccia anche con il caso di Davide Cervia, l’esperto di guerra elettronica scomparso, e mai più ritrovato, da Velletri il 13 settembre 1990. Un ex sergente della Marina Militare, Luigi D’A., (processato per calunnia su denuncia dei familiari di Ferraro e condannato a un anno di reclusione), dichiarerà, infatti, che a organizzare il sequestro di Cervia, compiuto dagli iracheni, era stato proprio l’agente Mario Ferraro.
Altre rivelazione inquietanti arrivano dalle dichiarazioni di uno strano personaggio, Franco Fuschi, padovano di nascita, ex incursore della Marina Militare, tiratore scelto e grande esperto di armi da fuoco. Lasciata la Marina, nei primi anni Settanta si trasferisce a Mattie in Valsusa dove si dà all’agricoltura. A un certo punto l’uomo si autoaccusa di aver compiuto undici omicidi riusciti e altri due tentati che sarebbero stati compiuti, tra il 1977 e il 1994, nella provincia di Torino. Fuschi è un personaggio strano, davanti ai magistrati si accolla ogni sorta di stragi e delitti, anche i più inverosimili. Per esempio: dice di aver piazzato la bomba a Piazza Fontana, di essere implicato nella morte di Roberto Calvi, il banchiere trovato impiccato sulle rive del Tamigi, e si autodefinisce più volte uno 007 al soldo dei Servizi. A un certo punto l’uomo parla anche di Ferraro: “Si lo conoscevo - giura ai magistrati - tre delitti mi furono commissionati proprio da lui”.
C’è un altro suicidio, un’altra morte sospetta, che si collegherebbe, passando per l’Albania, al destino di Mario Ferrato. Un’altra pista, subito battezzata dai giornali come la “pista albanese”, che verrà battuta dagli investigatori e che porta a Vetralla, in provincia di Viterbo. Lì il 4 luglio 1995, cioè dodici giorni prima la morte di Ferraro, si era tolto la vita il 53enne Roberto Pancani direttore generale della Banca Italo-Albanese, dove, secondo gli inquirenti, sarebbero transitati fondi e titoli sospetti. La morte di Pancani è sospetta quanto quella di Ferraro: si sarebbe suicidato nei giardini pubblici di Vetralla sparandosi un colpo di pistola alla tempia, con una 7,65 priva di caricatore. In realtà a tutti sembra un’esecuzione, i familiari dicono che il direttore negli ultimi tempi era preoccupato, teso e accennava spesso al fatto di essere stato costretto ad autorizzare operazioni finanziarie illegali passate per la sua banca. Operazioni, credono gli inquirenti, che sarebbero finite anche sotto la lente del Sismi e in particolare dell’agente Mario Ferraro che nell’ultimo periodo stava lavorando molto su Tirana. Anche la compagna di Ferraro accennerà, parlando con gli investigatori, ad alcune telefonate intercorse tra il suo compagno e un tale di nome Pancani.
Addirittura salta fuori anche uno strano documento del Ministero della Difesa che lega la morte di Mario Ferraro al sequestro dell’onorevole Aldo Moro. Si tratta di una velina "a distruzione immediata", tuttavia mai distrutta, battuta a macchina su carta filigranata azzurrina, che riferisce circostanze non di poco conto. L’oggetto della velina, datata 2 marzo 1978 - cioè quattordici giorni prima l’agguato di via Fani (16 marzo 1978) che permetterà alle Brigate Rosse di sequestrare il presidente della DC Aldo Moro - è:

Autorizzazione ministeriale a G-219. È autorizzato ad ottenere informazioni di 3° grado e più, se utili alla condotta di operazioni di ricerca contatto con gruppi del terrorismo M.O. (mediorientale, NdA) al fine di ottenere collaborazione e informazioni utili alla liberazione dell’On. Aldo Moro.

Ecco, invece, il testo della strana velina:

Ai fini dell’autorizzazione sopra detta la condotta di operazioni di ricerca da parte del personale militare e Marinai Servizio Macchine ed ex fuochisti della Marina Militare, di cui all’Organizzazione Gladio, la suindicata ordinanza dovrà essere eseguita agli ordini e dipendenze di G-216. Si certifica che il latore della presente, Macchinista Navale, in forza dal 06.03.1978 sul M/n Jumboemme Matricola G-71VO155M classe 1954 ha ricevuto in consegna il plico contenente n. 5 Passaporti e questo ordine diramato dal S.I.M.M. presso l’Ammiragliato e proveniente dal Ministero della Difesa.

Il primo elemento discordante è proprio il fatto che qui si parla della liberazione di Aldo Moro quattordici giorni prima del suo sequestro. All’interno del documento, firmato da un capitano di vascello, si fa riferimento, poi, a due “gladiatori”, G-216 e G-71. La velina viene prelevata a Roma da G-71 e recapitata via nave dallo stesso a Beirut il successivo 12 marzo, cioè quattro giorni prima della strage di via Fani. I “gladiatori” sono gli 007 che appartengono a GladioApre in una nuova finestra, nome di un'organizzazione clandestina di tipo “stay-behind” promossa dalla Nato per contrastare un eventuale invasione sovietica dell'Europa occidentale. A rivelare l'esistenza di Gladio nel nostro Paese è per la prima volta, il 24 ottobre 1990, alla Camera, Giulio Andreotti, l'allora capo del Governo. Quando la sua esistenza diviene pubblica viene diffuso anche l'elenco dei 622 “gladiatori”, un elenco che è considerato ancora oggi incompleto. Il Sismi all’epoca aveva una divisione, la settima, che sovraintendeva a Gladio. Detto questo è necessario scoprire chi si nasconde dietro quelle due sigle, G-71 e G-216. Il primo, colui che avrà nelle mani la busta contenente quella velina diretta a Beirut, è anche il gladiatore che diffonderà questo documento: Antonino Arconte. Mentre chi si cela dietro G-216, a detta dello stesso Arconte, è proprio il colonnello del Sismi Mario Ferraro. Il documento regge anche la prova della perizia, nel 2002, infatti, la dottoressa Maria Gabella, esperta nella studio di tracce e di documenti, consulente di numerose procure italiane nelle indagini sulle Br, certificherà, anche su richiesta del periodico Famiglia Cristiana, che quella velina è autentica. La dottoressa Gabella, dopo una attenta analisi al microscopio a scansione, non ha dubbi: “quel documento non è recente, ha almeno tre anni e mezzo, il che non esclude che sia ancora più “antico”; non è un manufatto dozzinale; se falso, è opera di esperti”. Arconte, G-71, dopo essere uscito allo scoperto, nel 1996 realizza un sito internet dove racconta la sua storia e poi scrive anche un libro dove ricostruisce così il tragitto di quella velina da Roma a Beirut:

Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi islamici per aprire un canale con le BR, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro.

Antonino Arconte parla lungamente della vicenda di Mario Ferraro e di quella velina anche con me, nel corso di alcuni colloqui via e-mail:

Ci eravamo visti (con Ferraro, NdA) in quell'anno (l’anno della morte di Ferraro, NdA) a marzo, credo il 29 marzo 1995, all'Eur a Roma, sotto casa sua c'era un bar tabacchi, lo stesso dove doveva acquistare le ultime sigarette.

Poi ci vedemmo al terminal Tirrenia di Olbia a giugno, credo di ricordare verso metà del mese, mi consegnò quel documento (la velina, NdA) e mi disse di averne altri e di attendere sue notizie per decidere se partecipare con me alla denuncia pubblica del tutto.

Poco meno di un mese dopo lessi che l'avevano suicidato. Come puoi capire non ebbi dubbi che si trattasse di assassinio simulato da suicidio, anche senza conoscere le modalità di esecuzione, ma la stessa cosa accadde con Gardini, eppure... simulazione perfettamente riuscita, anche se maldestra! Qualcosa vorrà dire, no? Anche lui (Ferraro, NdA) era stato fatto oggetto di inchieste giudiziarie di tipo persecutorio e intimidatorio... un classico! Ma ha tentato di ricattare (anche se in maniera legittimata da tutta la situazione) coloro che pretendevano il silenzio e questo è stato un errore fatale: i morti non parlano!”

Prosegue ancora G-71:

Io so, però, che sulla vicenda di G-219 come su altre è calato il silenzio e il segreto. Se pensi che la morte di G-65 (il gladiatore Tano Giacomina, NdA) a Capo Verde è stata sepolta da una nota del Sismi utilizzata per spingere il gip ad archiviare l'inchiesta per omicidio in maniera assurda e a negare la riesumazione chiesta dal padre. Che ci possiamo fare? Come dice il saggio: questo è il paese. Del resto, come ben saprai, uno che finisce dichiarato suicida nei modi e tempi della vicenda Ferraro... non possono permettere che se ne parli troppo. Occorre mettere a tacere tutto e subito. Da parte mia, però, sbagliano, perché questo è un popolo ormai abituato a sentire di tutto e a fregarsene, se non per pochi che protestano, anche se rendessero pubbliche quelle inverosimiglianze non succederebbe proprio niente.

Lo 007 di Gladio, a questo punto, immagina un possibile scenario in cui si sarebbe consumata la tragedia:

Lo scenario era quello di tre persone arrivate con l’ascensore che l'hanno preso per le braccia, uno ha stretto un cappio intorno al collo e l'hanno strangolato quando è uscito per andare all'ascensore a prendere le sigarette. Poi dovevano simulare un suicidio e sono entrati in casa. Essendo G-219 abbastanza robusto non sono riusciti a far di meglio che attaccarlo al portasciugamani. Nessuna magistratura potrebbe archiviare come suicidio una cosa simile, quella Italiana sì. Noi in Italia abbiamo suicidi che si mettono la pistola nella cintura dopo essersi sparati. E altri che la poggiano sul tavolino all'uscita della camera dove si sarebbero sparati, senza toccare la pistola e usando guanti per evitare tracce di polvere che sono anche spariti, ma la magistratura corregge questi “errori” e archivia come suicidi. Poi i protagonisti di questi depistaggi fanno tutti carriere brillantissime. Uno è presidente della... non farmelo dire.

Tutto questo sembra voler suggerire che l'esistenza di una rete nascosta di Gladio potrebbe essere all'origine della strana morte del colonnello Mario Ferraro che sarebbe stato ucciso perché reo di aver divulgato, tramite G-71, i contenuti di un documento classificato che proverebbe che i servizi, cioè Gladio, erano a conoscenza, almeno quindici giorni prima, che Aldo Moro sarebbe stato sequestrato. Il sospetto finisce sui giornali il 23 luglio, otto giorni dopo la sua morte, con una lunga serie di dichiarazioni rilasciate all’Ansa. L’ex presidente della Commissione Difesa della Camera, Falco Accame, esperto di questioni militari e di intelligence, riferendosi alla morte di Ferraro, pone una serie di interrogativi e chiede di fare luce sulla circostanza che nell’abitazione di Ferraro sia stata sequestrata una tessera da commissario di polizia con la foto di Ferraro. "I Servizi per legge possono svolgere solo compiti di intelligence e non di polizia giudiziaria. Il rilascio illegale della tessera di commissario prevedeva l'esecuzione di particolari operazioni non previste dalla legge e quali?” è solo uno degli interrogativi che avanzerà in quelle ore Accame. Altro punto: "Premesso che sia vero: a quale titolo è stata concessa l'autorizzazione ad agenti dei Servizi di entrare nella casa di Ferraro con compiti che ovviamente la legge non consente loro." Per il parlamentare il “presunto suicidio del colonnello Ferraro” potrebbe essere stato determinato dalle polemiche nate all'interno dei servizi segreti dopo le inchieste, abusivamente condotte, dall'Ufficio interno di sicurezza, di cui Ferraro faceva parte tra il 1986 e il 1987. Un ufficio, chiarirà Accame, che non era previsto dalla legge: “fu istituito abusivamente, dopo essere esistito sotto altra forma già all'epoca del colonnello Musumeci. Il colonnello Ferraro è morto in circostanze non ancora chiare, denunciò addirittura la presenza di una cupola mafiosa all'interno dei Servizi”. “C'è da chiedersi quali inchieste siano state condotte dal nucleo di ufficiali che facevano parte dell'Ufficio interno di sicurezza del Sismi e quali soggetti hanno riguardato. Non c'è da escludere che le inchieste avessero creato delle forti tensioni interne al Servizio”. Accame conosce il sottobosco e ci mette poco ad arrivare al nocciolo del discorso. Quell’ufficio, secondo l’ex presidente della Commissione Difesa della Camera, per esempio, potrebbe essersi occupato di questioni scomode che vanno dall’uso, assai disinvolto, dei fondi riservati, delle fonti “fasulle” pagate dai Servizi e delle società di comodo facenti capo a persone dei Servizi. Ma nel mirino di questo Ufficio sarebbero finite anche altre questioni, sempre secondo il parlamentare: assunzioni clientelari e vari contrasti interni sull'operato degli 007, la mancata comunicazione all'autorità giudiziaria di fatti illeciti e la copertura, che di fatto c’è stata, sulla vicenda Gladio di cui la direzione di sicurezza del Sismi si era di certo occupata.




Siamo alle conclusioni. Per la procura è suicidio. Ferraro si è impiccato perché era depresso a causa della morte della figlia e per la separazione dalla moglie. Il pm Nello Rossi si arrende e presenta un’istanza di archiviazione al gip del tribunale di Roma. Alla fine l’inchiesta della Procura, partita inizialmente contro ignoti per istigazione al suicidio e successivamente rubricata in omicidio per la necessità di svolgere ulteriori accertamenti tecnici, conclude che la morte del colonnello Ferraro è compatibile con l’ipotesi suicidiaria e verrà archiviata dal giudice per le indagini preliminari il 1° ottobre 1999. Nessun omicidio. Nessuna istigazione al suicidio. Nessun complotto dietro una morte con tante stranezze. Le perizie, gli esami tossicologici non danno adito a dubbi. Tutto conferma l’ipotesi di un atto autolesionista.


La perizia meccanica, una delle quattro ordinate dal pm, tuttavia, evidenzia una stranezza: la cinta dell’accappatoio con la quale si sarebbe tolto la vita Ferraro si sarebbe dovuta strappare, non avrebbe potuto resistere oltre i cinquanta chili di carico. Ferraro, come già accennato, era un uomo robusto, pesava 86 chili, quindi ben oltre quella soglia.


Ma non è tutto. Sempre secondo la perizia meccanica le quattro viti a tassello che reggevano l’appendiasciugamano in ottone a cui Ferraro avrebbe assicurato la cinta, a poco più di un metro dal pavimento, sotto quel carico, avrebbero dovuto cedere, staccarsi dal muro. Invece Ferraro viene trovato quasi seduto a terra, con il collo leggermente reclinato, l’espressione serena.


La cinta era intatta, l’ha tagliata Maria Antonietta nel disperato tentativo di salvargli la vita, e la staffa dell’appendiasciugamano era ancora ben salda alla parete. Anche la perizia istologica parla di stranezze, due ecchimosi sul collo, compatibili con un’azione di soffocamento, sono delle strozzature, pressioni eseguite in tempi diversi; mentre quella medico-legale e quella tossicologica parlano di suicidio. Non basta, è poco. La dinamica della morte viene definita comunque insolita da destare perplessità, ma non sono emersi elementi specifici che facciano pensare a un delitto.

© Fabrizio Colarieti – Editing Marina Angelo (per nottecriminale.it)












--------------------------------


www.poliziaedemocrazia.it/archivio...&idArticolo=244



JL CASO MICHELE LANDI





Il vizio assurdo di chi indaga:

a un certo punto, suicidarsi



di Gianni Cirone







Ormai non parler� pi�. Una corda al collo � servita. Trenta metri di corda, un’esagerazione, per usarne solo un metro e mezzo. Un metro e mezzo che non baster� per sollevare del tutto quel corpo, alto, robusto, da terra: le gambe rimarranno flesse, sul divano sottostante. Per nulla gonfie.
Aveva detto che era possibile, quel corpo. “Si pu� risalire all’autore delle 500 e-mail”, aveva detto. Parlava della rivendicazione dell’assassinio di Marco Biagi, spedita per Internet con abnorme generosit�. Aveva visto interrompersi la propria relazione da circa tre mesi, quel corpo. La sua ex, da allora, aveva un nuovo partner: un carabiniere.


Michele Landi, 36 anni, alle 22 del 4 aprile scorso viene trovato impiccato. Solo il 5 aprile, alle ore 12.30 le prime agenzie ne danno comunicazione. In estremo ritardo. Super esperto di informatica, responsabile di sicurezza del settore tecnologico della Luiss Managment, � rinvenuto nel suo appartamento, in via Lucera, nel borgo di Montecelio di Guidonia (Rm), dove si � trasferito da circa un anno e mezzo. Prima, ha sempre abitato nel quartiere dell’Eur, a Roma. Nello stesso quartiere dove, qualche anno fa, viene rinvenuto cadavere un altro strano impiccato. Il corpo, legato al collo con la cinta dell’accappatoio, � quasi seduto: � quello del colonnello Ferraro, uomo dei servizi.


Un suicidio, come quello di Landi, il cui cadavere � scoperto dai Carabinieri di Sant’Angelo che, dopo, verranno sostituiti da quelli della Compagnia di Tivoli. Dovranno sfondare la porta con l’ausilio dei Vigili del Fuoco. La segnalazione � di un’intima amica: dopo averlo cercato telefonicamente per tutto il giorno, la donna va a Montecelio, trova la porta chiusa, la luce accesa, (sembra) una finestra aperta. Nessuno risponde, da quella piccola casa a due piani, nel cuore del borgo. Cellulare spento, il telefono di casa che squilla, nel vuoto.


Il 5 aprile stesso, il capitano dei Carabinieri, Giuliano Palozzo, sequestra i computer su cui lavora Landi, due portatili, oltre al computer fisso trovato in casa. Il materiale va al vaglio degli inquirenti. Per capire cosa? Probabilmente per scoprire le operazioni di hackeraggio che Michele Landi effettua a fin di bene. Landi, infatti, � ormai un perito informatico ampiamente utilizzato da diversi organi inquirenti. Si � occupato dell’assassinio D’Antona, ad esempio. Entra in quella vicenda come perito di parte, nominato dalla difesa di Alessandro Geri, il giovane ancora indagato dalla procura di Roma in quanto sospettato di essere stato il telefonista che, il 19 maggio del ’99, rivendica l’attentato di via Salaria con telefonate a due quotidiani. La pista Geri sar� infruttuosa, anche se innescher� aspre polemiche tra Arma e Polizia, perch� ritenuta invece una buona pista: ma “bruciata” in grande fretta.


Incaricato da Rosalba Valori, difensore di Geri, Landi partecipa alla consulenza disposta dal pool antiterrorismo della Capitale sul computer e sul contenuto di circa 200 tra cd e floppy disk, sequestrati nell’abitazione dell’indagato. Con due ingegneri nominati dalla procura, Landi procede ad analizzare il materiale sequestrato: deve accertare se ci sono state operazioni informatiche volte a modificare le date contenute in alcuni file. Le indagini, decise dalla procura, intendono verificare l’alibi di Geri che, da parte sua, ha sempre sostenuto che il giorno dell’agguato a D’Antona ha lavorato al computer di casa con una collega. Gli accertamenti, da quanto si sa, non porteranno a risultati da ritenere efficaci per l’inchiesta.


Landi, comunque, � apprezzato per il proprio lavoro. Un esempio? La reazione del colonnello Umberto Rapetto, responsabile del Gat, il Gruppo anticrimine tecnologico della Guardia di Finanza, alla notizia della sua morte. “Non credo - sostiene Rapetto - che una persona come lui possa essersi tolta la vita. Non riesco a credere che si sia suicidato. Oltre a essere uno dei massimi esperti italiani nel campo della sicurezza informatica era un ragazzo eccezionale. Lo conoscevo da dodici anni. Era uno che amava la vita. Un ex paracadutista. Il migliore nel suo campo”. Il colonnello della Gdf dice il vero: ha da poco proposto Landi come coordinatore della task force che � in via di costituzione presso il ministero dell’Innovazione Tecnologica: una struttura la cui creazione � ancora in cantiere e che avr� come compito quello di vigilare sulla sicurezza della Rete Web. Landi, tra l’altro, sta svolgendo un programma di formazione proprio agli uomini del Gat, alla Luiss.


“L’hanno ‘suicidato’ i servizi segreti,

come storicamente in Italia sanno fare”.


Dopo il dubbio pi� che esternato del colonnello Rapetto, questo altro giudizio non proviene dal solito dietologo di turno. Sono parole di Lorenzo Matassa, per 10 anni pm a Palermo, da quasi un anno trasferito alla procura di Firenze. “Chi si vuole suicidare - afferma Matassa, che nonostante il recente trasferimento a Firenze, � ancora ‘applicato’ a Palermo per seguire la conclusione di alcuni procedimenti - non ha gioia di vivere e invece, per come lo conosco io, Landi era una persona piena di vita, piena di iniziative. L’ho sentito appena quindici giorni fa, ero a Roma e gli ho telefonato per salutarlo: stava benissimo, non era per nulla turbato, mi ha proposto subito di andare con lui a Guidonia a fare volo a vela, lo sport che amava di pi�”. I due hanno lavorato assieme, tra il ’95 e il ’97, nella conduzione di accertamenti tecnologici relativi all’inchiesta su una societ� che ha informatizzato i servizi comunali di Palermo, e in altre analoghe indagini su irregolarit� commesse attraverso l’informatica. “Per me - sostiene Matassa - Landi � stato un valido collaboratore, ma anche un amico, e non ho paura di affermare apertamente la mia convinzione: in Italia, il Paese delle stragi impunite, il Paese delle stragi di Stato, l’esperto di computer che stava lavorando, senza incarico ufficiale, alla rivendicazione via Internet dell’omicidio di Marco Biagi, non si � tolto la vita ma � stato ‘suicidato’ dai servizi segreti”.


Il “buco nero Landi”, comunque sia, c’�. L’autopsia viene effettuata il 6 aprile. Risultato: suicidio. Adesso non resta che dichiarare che i suoi archivi informatici non presentano nulla di interessante. � solo questione di tempo. Peccato, per�, che a pochi sia venuto in mente che Landi non era un “militarizzato”. Landi non si sentiva tenuto al silenzio ed ha comunicato pi� di quanto non si presuma. Insomma, chi lo ha accompagnato a casa, nella sua ultima notte terrena, avr� dovuto “cercare” parecchio prima di fargli interrompere le comunicazioni: compresa quella strana, insulsa, ultima e-mail mandata ad un amico, che si preoccupava delle e-mail porno transitanti sul proprio computer.


Chi ha detto che sia stata mandata da un Landi vivo e vegeto?







 
Top
0 replies since 24/5/2023, 11:16   11 views
  Share