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PECORELLI, con quida ai topic sul CASO MORO

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CAT_IMG Posted on 9/9/2022, 19:58
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La strage continua –

La vera storia dell’ omicidio di Mino Pecorelli



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Raccontata da Raffaella Fanelli


Photo of Raffaele Vacca Raffaele Vacca6 Novembre 2020 1.022 11 minuti di lettura


Pecorelli - “La strage continua -Raffaella Fanelli - copertina Pecorelli - “La strage continua -Raffaella Fanelli - copertina
“La strage continua – La vera storia dell’ omicidio di Mino Pecorelli” raccontata dalla giornalista investigativa Raffaella Fanelli. Il libro nasce da un foglio, con frasi scritte a matita di suo pugno, “La strage continua”.
È lo schema della copertina del numero mai pubblicato della rivista, la cui pubblicazione era attesa con preoccupazione da politici dell’epoca.
Il titolo si ispira proprio a quegli appunti ritrovati: “La strage continua – La vera storia dell’omicidio di Mino Pecorelli” (Ponte alle Grazie editore). Più di duecento pagine molto interessanti, da leggere. Ma chi fu Pecorelli?
Avvocato, militante democristiano e giornalista, Pecorelli fondò nel 1968 ‘OP’ per “Raccontare i retroscena di quel sistema di potere che si era incastrato nei gangli dell’Italia a sovranità limitata”. Il suo giornalismo coraggioso sottolineò le gravissime responsabilità politiche e i torbidi intrecci tra politica, affari, loggia P2 e servizi segreti.
Fu uno dei primi a svelare il doppio stato; fu il primo a denunciare l’esistenza del Piano Solo e il golpe Borghese; i traffici di armi e di petrolio con la Libia e altro ancora.
Pecorelli stava approfondendo giornalisticamente tutto ciò che si muoveva intorno alla strage di Piazza Fontana e per questo aveva incontrato Giovanni Ventura, come nel libro viene confermato da Franco Freda e dalla collaboratrice di Pecorelli, Paola Di Gioia.

Iniziamo la lettura di parti del libro.

-da pag. 55…””L’omicidio di Mino Pecorelli.

«Mino aveva un appuntamento importante il giorno in cui fu ucciso», la memoria di Rosita Pecorelli, sua sorella, è vivida. Di quel giorno ricorda tutto. Si, quell’ uomo, un certo Antonio, che Mino disse di aspettare per le 17. Sotto al portone, vidi un uomo. Era lo stesso che avevo incrociato entrando due ore prima». Un volto che Rosita riconosce nelle foto che mostriamo: sono quelle di Antonio Chichiarelli, il falsario della banda della Magliana. «Era lui, l’ ho visto quel giorno, in via Tacito», un volto che segnalò subito ai Carabinieri. Eppure, tra verbali e interrogatori, non troviamo traccia delle sue dichiarazioni. Il 22 marzo del 1979, 48 ore dopo l’ omicidio Pecorelli, una chiamata anonima arrivò sul telefono di casa del Procuratore Giovanni De Matteo, titolare delle indagini insieme al giudice Domenico Sica. La voce accusò Licio Gelli di essere il mandante del delitto e collegò la morte del giornalista all’omicidio del Magistrato Vittorio Occorsio, assassinato nel 1976 da Ordine Nuovo, o meglio, da Pierluigi Concutelli (iscritto alla loggia massonica Camea), un neofascista condannato all’ergastolo ma ai domiciliari dal 2009 per gravi motivi di salute. Così tanto gravi che, dopo 11 anni dalla sua scarcerazione, è ancora vivo. Il giudice Occorsio, lo stesso che nel 1971 aveva chiesto lo scioglimento di Ordine Nuovo invocando l’ applicazione della legge Scelba, fu il primo a intuire che eversione, massoneria e criminalità organizzata si muovevano a braccetto. Era il Magistrato che aveva lavorato alle inchieste sui due colpi di Stato mancati, il Piano Solo e Il golpe Borghese, su Piazza Fontana e sulla massoneria deviata. Poco prima di essere ucciso aveva avviato indagini sulla P2 e sui rapporti di alcuni suoi esponenti con la malavita dedita ai sequestri di persona. Il giudice Vittorio Occorsio, quando fu ucciso, stava indagando sui sequestri di quegli anni e sui soldi dei riscatti finiti per finanziare una certa OMPAM (Organizzazione mondiale per assistenza massonica): «Occorre cercare i mandanti di coloro che muovono gli autori dei sequestri, i cui soldi servono a finanziare azioni eversive. I sequestratori spesso non sono che degli esecutori di disegni invisibili ma concreti. Loro agiscono sempre per conto di altri». Fu una delle ultime dichiarazioni del giudice Occorsio. Per il suo omicidio, nell’ ottobre del 1976, furono indagati prima Danilo Abbruciati e poi Alvaro Pompili, entrambi legati alla banda della Magliana. Anche lo stesso Licio Gelli fu sentito dai Magistrati di Firenze, Pierluigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Le indagini dei giudici fiorentini non individuarono il mandante ma scoprirono che i proventi (280 milioni di lire) del sequestro del banchiere Luigi Mariano, a Lecce, organizzato da Concutelli ed eseguito da noti esponenti politici della destra extraparlamentare pugliesi legati a Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, furono riciclati in banche londinesi utilizzate da esponenti della destra eversiva. Pierluigi Concutelli è stato condannato all’ergastolo il 16 marzo 1978, proprio il giorno del sequestro di Aldo Moro e della strage di via Fani.””





-da pag.63…””Operazione Tacito.

Le prime indagini. In via Orazio, sull’ asfalto, il killer del giornalista lasciò quattro bossoli di pistola calibro 7.65, due di marca Gevelot e due di marca Fiocchi. I Gevelot erano assai rari da trovare sul mercato, anche su quello clandestino. Proiettili dello stesso tipo furono sequestrati, due anni più tardi, nel novembre del 1981, nell’ arsenale della banda della Magliana, quello nascosto nei sotterranei del Ministero della Sanità. I periti che esaminarono le armi della banda, scrissero che i Gevelot sequestrati nei locali del Ministero e quelli usati per uccidere il giornalista appartenevano allo stesso lotto. Chi era Antonio Chichiarelli? Antonio Giuseppe Chichiarelli, detto Tony, era un genio nel riprodurre le opere dei grandi artisti ed era altrettanto abile nel falsificare documenti. Era vicino alla banda della Magliana e in particolare a Danilo Abbruciati. Fu lui l’estensore del famoso e falso comunicato numero 7 attribuito alle Brigate Rosse,quello in cui si annunciava – quando era ancora vivo – la morte di Aldo Moro e la sua sepoltura presso il lago della Duchessa. Anni più tardi ne parlerà Steve Pieczenik, all’ epoca capo dell’ Ufficio per la gestione del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato americano e uomo di fiducia di Henry Kissinger, chiamato a far parte del comitato di esperti istituito da Francesco Cossiga per far fronte all’ emergenza. Steve Pieczenik, nel 2007, molto tempo dopo il caso Moro, dichiarerà che la sceneggiata era stata organizzata dai servizi segreti su suggerimento dell’ unità di crisi capitanata da Cossiga. Di fatto, quel falso comunicato servì a distogliere l’attenzione delle Forze dell’ ordine da Roma e questo consentì ai brigatisti di spostare Moro da una prigione all’altra. Ma Tony Chichiarelli è anche l’ autore dell’ ultimo comunicato delle BR, il numero 10, diffuso il 20 maggio e subito sequestrato dalla Magistratura con diffida ai giornali a pubblicarlo. L’ unico comunicato realizzato in codice e con una macchina da scrivere analoga a quella usata dalle BR per i comunicati veri. Un codice alfanumerico simile fu rinvenuto in un borsello che il 14 aprile del 1979 Antonio Chichiarelli abbandonò su un taxi di Roma. Al suo interno, come in un rebus, il falsario lascia indizi che riportavano al sequestro e all’ omicidio di Aldo Moro, al falso comunicato del lago della Duchessa e al delitto Pecorelli. Tony vuole chiaramente ricongiungere l’ omicidio del giornalista, appena avvenuto, alla morte dell’ onorevole Moro, con esplicito riferimento ai falsi comunicati BR. Un messaggio oscuro per molti, ma molto chiaro per alcuni. Almeno lo sarà per Francesco Monastero, titolare delle indagini su Tony Chichiarelli: «Il movente dell’ omicidio Pecorelli – dirà il magistrato – va ricercato nel contesto del delitto Moro e, con più precisione, nell’ambito dei falsi comunicati BR». La notte fra il 23 e il 24 Marzo 1984, con quattro complici, il falsario mise a segno una rapina da 35 miliardi di lire svuotando il deposito romano della Brink’s Securmark, che faceva capo a una catena bancaria di Michele Sindona. Sei mesi dopo, il 28 settembre 1984 fu assassinato mentre stava rientrando a casa. L’ omicidio di Antonio Chichiarelli è rimasto senza movente e senza colpevoli. La Commissione Parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, presieduta dall’On. Fioroni, nella seduta del 19 marzo 2015, a pagina 10 del suo resoconto, scriverà: “La rapina alla Brink’s Securmark fu un ringraziamento, una sorta di regalia da parte di chi gli aveva commissionato certe particolari operazioni. È un fatto che dopo trentasette anni si può affermare tranquillamente, anche se non a livello giudiziario”.


Varisco.Il Colonnello e Pecorelli si incontravano spesso: Varisco si occupò dello scandalo Lockheed, delle indagini sul gruppo eversivo Rosa dei Venti, dello scandalo ‘Italcasse’ e del sequestro Moro, inchieste tutte seguite anche dal giornalista. Il Colonnello fu anche chiamato da Vittorio Occorsio nelle prime indagini sulla P2 di Gelli per indagare su una riunione segreta della loggia tenutasi nel 1975, quella loggia che il giudice Occorsio considerava implicitamente legata all’eversione nera. Dopo l’ omicidio di Mino Pecorelli, il Colonnello Antonio Varisco, a soli 52 anni, rassegnò le dimissioni dall’Arma dei Carabinieri. Il 13 giugno 1979, due settimane prima della fine del suo mandato, gli spararono quattro colpi con due fucili a canne mozze e i suoi killer, per coprirsi la fuga, usarono dei candelotti fumogeni, della stessa marca e dello stesso lotto di quelli sequestrati nell’ arsenale della banda della Magliana il 27 novembre 1981. L’ omicidio fu rivendicato dalle Brigate Rosse con una telefonata anonima all’ agenzia ANSA. Nel 1982 arrivò la confessione del neopentito rosso Antonio Savasta e nel 2004 la confessione di Rita Algranati, brigatista della colonna romana coinvolta nel rapimento di Aldo Moro. Non sono mai stati identificati gli altri killer. Men che meno i mandanti. Anche per l’ omicidio Varisco, così come Pecorelli, non è mai stato individuato un movente (al di là delle elucubrazioni di un volantino) e gli esecutori, anche se rei confessi, lasciano molti dubbi: dalle armi usate, due fucili a canne mozze, che fanno pensare a un agguato mafioso e non politico, ai candelotti fumogeni, identici, giova ripeterlo, a quelli custoditi nell’arsenale della banda della Magliana, dove peraltro furono sequestrate anche armi dei NAR, notoriamente di destra. Mai sono state fatte indagini su quei candelotti fumogeni. E niente si sa dello strano e sfortunato incontro in piazza delle Cinque Lune tra Varisco, Pecorelli e un terzo attore della vicenda: Giorgio Ambrosoli, curatore fallimentare della Banca Privata italiana di Michele Sindona. Saranno uccisi tutti e tre nel giro di pochi mesi. Nella «scheda Pecorelli», Tony il falsario – che dimostra di essere molto bene informato – riporta la notizia dell’ appuntamento, ma omette il nome di Giorgio Ambrosoli: perché quella dimenticanza?””




-da pag.108…””La strage continua”.



Aldo Moro. Pecorelli scrisse delle pressioni americane su Aldo Moro e – dopo il successo delle sinistre alle elezioni amministrative del giugno del 1975 – fu tra i primi a rivelare i nuovi interessi americani sulla politica italiana. In un articolo intitolato: ‘Sarà Craxi il nostro Soares?’ il giornalista anticipa l’ ascesa di Bettino Craxi verso la segreteria del partito e scrive: Perché a Washington s’è deciso: il nuovo potere in Italia sarà assicurato da una santa alleanza anticomunista ma riformatrice, tra un PSI e una DC tutti i rinnovati. Il 28 aprile del 1977 Pecorelli pubblica su OP la nota: Allarme a Roma.

Si teme il sequestro di un uomo politico, chiamando in causa il Ministro dell’ Interno: «Se Cossiga c’è cerchi di non dormire». Pecorelli insinuava, accusava… invitava a tenere gli occhi aperti. E Aldo Moro non poteva non essere preoccupato, come erroneamente è stato detto e scritto. Il 4 aprile del 1978 Pecorelli rivela: Moro era stato minacciato dalle Brigate Rosse, siamo in grado di rivelare che, da alcune settimane prima del suo rapimento, Aldo Moro era stato raggiunto da messaggi scritti di minaccia. I fogli erano firmati Brigate Rosse e gli venivano inviati sia a casa sia nel suo ufficio in via Savoia. Aldo Moro aveva informato di questi messaggi intimidatori gli uffici competenti. Ma all’informazione non è stata data alcuna importanza.

I risultati si sono visti il 16 marzo in via Fani. Il giornalista disponeva di informazioni più che attendibili come emergerà dodici anni più tardi, l’8 ottobre 1990, quando nella stessa ex base brigatista di via Monte Nevoso verrà trovato una seconda copia del memoriale di Moro comprendente brani inediti rispetto alla versione resa nota nel 1978, brani che riguardavano anche i finanziamenti della CIA alla DC e altri che rivelavano la struttura clandestina antiguerriglia poi nota col nome di Gladio. Dichiarazioni che, stranamente, non furono mai rese pubbliche dai brigatisti. Il memoriale ritrovato nel 1990 in via Monte Nevoso appariva diverso, in parti essenziali, da quello sequestrato nel 1978. Era poi incomprensibile come Pecorelli potesse già esserne a conoscenza.




Nel numero del 17 ottobre (dopo la scoperta del covo di via Monte Nevoso e dopo l’ incontro con il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa) Pecorelli fu di nuovo profeticamente inquietante chiamando Dalla Chiesa il «generale Amen»: Il ministro di polizia [Cossiga] sapeva tutto, sapeva persino dove era tenuto prigioniero, dalle parti del ghetto [ebraico]. […] Un Generale dei Carabinieri [definito Amen, ovvero dalla Chiesa] […] era andato a riferirglielo di persona, nella massima segretezza […] il ministro non poteva decidere nulla su due piedi doveva sentire più in alto […] la loggia di Cristo in Paradiso con [chiara allusione alla P2].””





-da pag.162…””I pentiti”.
Ex pentiti dei NAR, nei primi anni Ottanta, parlano dell’ omicidio del direttore di OP, incastrano Licio Gelli e i suoi presunti sicari. Walter Sordi, legato alla destra eversiva e dissociatosi dopo l’ arresto, fornisce una prima indicazione sull’ autore materiale dell’ omicidio Pecorelli e dice di aver saputo che Valerio Fioravanti aveva commesso il delitto su commissione di Licio Gelli per conto del quale aveva eseguito altri delitti in Francia. Su questa dichiarazione Cristiano Fioravanti tornerà successivamente, nell’ interrogatorio reso al Giudice istruttore di Palermo il 21 luglio del 1988: Confermo la dichiarazione da me resa al PM di Bologna, dottor Mancuso, il 4 marzo del 1988. Debbo dire però che per quanto riguarda le mie dichiarazioni sull’avvocato Di Pietropaolo, si tratta di mere sensazioni e valutazioni personali, pertanto non le confermo. La Corte di Assise di Bologna nella sentenza del 1° luglio 1988, a pagina 1.667, afferma: “Vi sono cointeressenze processuali fra Licio Gelli e Valerio Fioravanti. Non sono in discussione, naturalmente, la responsabilità per l’ omicidio di Mino Pecorelli che dovranno essere accertate in altra sede dal giudice naturale. Qui occorre semplicemente rilevare come sia provato che, per conto di Gelli, l’ Avvocato Di Pietropaolo, per interposta persona e anche direttamente, intervenne presso Valerio Fioravanti, per raccomandargli di tenere, in ordine alla vicenda dell’ omicidio Pecorelli, un contegno processuale tale che consentisse al Gelli di stare tranquillo e per trasmettergli, quale contropartita, le profferte d’ aiuto del Gelli stesso”.””

Sin qui parti ritenute interessanti del libro.

Ora valutazioni e integrazioni.
A tal proposito la Fanelli ha sottolineato: “Voglio precisare che Vinciguerra non è un collaboratore di giustizia, non ha mai fatto dichiarazioni in cambio di benefici o sconti di pena ed è tutt’ora dietro le sbarre. E tutte le dichiarazioni che ha rilasciato in questi anni sono state verificate dal giudice Salvini e nessuna è risultata falsa. La pistola purtroppo non c’è perché sembra sia andata distrutta così come non ci sono i bossoli raccolti in strada in via Orazio il 20 marzo 1979, e furono sostituiti quando si indagava su Valerio Fioravanti poi prosciolto. Ma la perizia sarà fatta dalla Polizia scientifica di Perugia sulle foto scattate all’epoca e quando le armi furono sequestrate. Quindi, per ulteriori sviluppi dell’inchiesta attendiamo l’esito di questa perizia, afferma l’autrice che annuncia che ci sarà un nuovo processo Pecorelli sulla base delle dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra, ribadite dall’intervista che rilascia in carcere a Opera all’autrice.
Proprio quanto detto da Vinciguerra, peraltro, ha convinto il P.M. Erminio Amelio a riaprire le indagini sull’omicidio, nel febbraio 2019.
Interessante, nel libro, la testimonianza di Stefano Pecorelli, figlio di Mino, che per la prima volta rompe il silenzio dal Sudafrica, dove vive. Con grande lucidità e coraggio il figlio sottolinea come le inchieste del padre siano negli archivi di un paese come l’Italia che è ancora in cerca della verità sul sequestro e sull’omicidio di Aldo Moro. Basterebbe leggere le pagine di OP per rendersi conto che non furono solo le Brigate Rosse ad agire. Ma soprattutto il figlio ricorda come le recenti dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra – ampiamente documentate dal saggio della Fanelli – sono molto importanti perché confermano che i killer che uccisero Mino Pecorelli vanno cercati proprio nell’ambiente dell’estrema destra.
Insomma, un fatto è certo: il 20 marzo 1979 davanti al portone c’era una macchina con una persona che guidava e altre due sedute dietro. Ma a sparare a Pecorelli fu uno solo. Chi? Tutti lo sanno, ma nessuno lo dice.

Concludo affermando, da libero cittadino, libero pensatore, che anche con la lettura di questo interessante libro, comprendiamo come il volto del potere sia costituito da intrecci foschi in cui i confini fra bene e male non esistono.

Per chi volesse approfondire, avendo la pazienza, la complessa vicenda Pecorelli, su questa testata altro mio articolo “Il drammatico processo sull’uccisione del giornalista Mino Pecorelli … con personali ricordi …”

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Raffaele Vacca
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utton




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http://win.storiain.net/arret/num145/artic3.asp





Giornalista dal fiuto infallibile o uomo dei servizi segreti, da cui traeva informazioni riservatissime? Mino Pecorelli era sgradito a molti. Il movente del suo assassinio - a oggi uno dei tanti misteri irrisolti della Repubblica -, è da ricercarsi nello stesso personaggio: sfuggente e controverso, al tempo stesso vicino a Licio Gelli e acerrimo nemico di Giulio Andreotti


UCCIDETE "MINO", LA PENNA
SCOMODA AI POTENTI



di RENZO PATERNOSTER


Carmine "Mino" Pecorelli fu ucciso a Roma il 20 marzo del 1979. Poco più di tre anni dopo, il 3 settembre del 1982, un agguato a Palermo pose fine anche alla vita del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (e di sua moglie). Entrambi a conoscenza di importanti segreti di Stato, erano i depositari della vicenda Moro e dei tanti intrecci tra politica, terrorismo, P2, mafia e finanza. E per questo furono uccisi.

Il 26 novembre del 1992, a tredici anni di distanza dal primo omicidio e a dieci dal secondo, il pentito di mafia Tommaso Buscetta dichiarò alla magistratura che «Pecorelli stava scoprendo porcherie politiche [...] segreti che anche Dalla Chiesa conosceva. Pecorelli e Dalla Chiesa sono cose che s'intrecciano».
Chi è stato Mino Pecorelli?

Nato a Sessano del Molise (Isernia), il 14 settembre 1928, Pecorelli si laurea in Giurisprudenza iniziando la carriera di avvocato, diventando esperto di diritto fallimentare con particolare riferimento ai crack fraudolenti. L'inserimento in questo particolare settore, inizierà a fargli capire, e a scoprire, i legami tra gli ambienti della finanza e della politici.



Mino Pecorelli
Dopo una breve esperienza in politica, come portavoce del ministro Fiorentino Sullo e come giornalista presso il periodico "Nuovo Mondo d'Oggi" (rivista caratterizzata dalla pubblicazione di scoop scandalistici), fonda nel 1968 l'agenzia OP (Osservatorio Politico), che nel marzo 1978 si trasforma in rivista settimanale.


La testata, il cui nome coincideva con l'acronimo in uso quel periodo "Ordine Pubblico", pubblicava una velina settimanale destinata a una selezionata lista di abbonati, che comprendeva alte sfere politiche, militari e industriali del nostro Paese.
OP trattava di politica, con particolare riguardo agli scandali e ai retroscena delle manovre di palazzo, descrivendo quadri illeciti, anticipando mosse, intuendo tradimenti, fornendo in anteprima notizie che lo stesso Pecorelli raccoglieva grazie alle sue numerose frequentazioni di ambienti dello Stato (servizi segreti, magistratura, forze armate, carabinieri e polizia), della finanza e dello spettacolo. Rapporti personali che gli permettevano non solo di conoscere in anteprima notizie riservate, ma anche di entrare in possesso di documenti scottanti su vicende delicate e di grande interesse pubblico.
Il flusso di queste notizie si arrestò con la sua morte. Privata della principale fonte di informazioni, la rivista chiuse rapidamente i battenti.

Accusato da più parti di essere al servizio del SID (i Servizi segreti italiani), Pecorelli rivendicò pubblicamente la sua autonomia e la sua professionalità nel numero 78/18 di OP: «Qualcuno ha detto che siamo l'agenzia del SID. Qualcun altro, l'agenzia di Miceli. Ognuno a tirare acqua al suo mulino, in un gran groviglio di inganni e cortine fumogene, pur di nascondere, pur di inquinare. [...] La verità è che OP ha una sua propria autonoma, rete di informatori. E che è bene introdotta in certi ambienti. E che mette in circolo tutte le notizie, nessuna esclusa, che riesce a raggiungere. Lasciando alla intelligenza e alla libertà dei suoi lettori analisi e giudizi. Il nostro archivio, il nostro pubblico, fa fede di questo. Questo nostro costume è talmente originale, talmente straordinario per il giornalismo italiano, da risultare sconvolgente e pericoloso per tutti gli attuali uomini del sistema (e delle veline). Tutti possono ricordare che abbiamo riportato, per rimanere al SID, note contro Henke, note contro Miceli, contro Maletti, contro La Bruna, contro altri».
A onore del vero, nessuna notizia o informazione fu occultata da Pecorelli che, anzi, permetteva ad altri colleghi di attingere alle sue fonti, dimostrando così che per lui era importante che la notizia pubblicata da OP avesse la massima diffusione.


Certo, il modo di presentare le notizie poteva apparire ambiguo, facendo ritenere a molti che questo stile fosse indice di forme velate di ricatto o di condizionamento politico. Tuttavia, come è stato appurato anche in sede processuale, il giornalista non aveva mai ricattato nessuno (lo confermò anche la situazione patrimoniale e finanziaria al momento della sua morte).


Pecorelli, infatti, era titolare di conti correnti modesti e, come emerge dalla deposizione di Franca Mangiavacca, compagna del giornalista, era solo proprietario dell'abitazione in via della Camilluccia (acquistata in cooperativa) e di villa Zincone (acquistata con il frutto del lavoro di entrambi).
Anche la situazione finanziaria della rivista non era delle più floride, tanto che il giornalista aveva contratto debiti nei confronti della tipografia che stampava il giornale.


Tuttavia, l'affannosa ricerca di denaro per far sopravvivere la sua testata, lo portò ad accettare finanziamenti non contabilizzati o a mettere a disposizione le pagine, a pagamento, per battaglie che non erano sue. Come, ad esempio, l'ospitalità data a Michele Sindona per un attacco violento alla Banca d'Italia che si opponeva al salvataggio dei suoi istituti bancari.
Sebbene il giornalista fosse iscritto alla loggia massonica P2 e benché fosse attestato su posizioni anticomuniste, Pecorelli non era per questo indulgente verso la parte politica a lui vicina. Fu anche per questo che raccolse intorno a se molti e potenti nemici.

Tutta la storia professionale di Pecorelli, dalla fondazione di OP fino al suo assassinio, è costellata da misteri, intrighi, clamorose rivelazioni e coincidenze. Già la trasformazione dell'agenzia giornalista in un periodico a stampa regolarmente in vendita nelle edicole corrisponde con un periodo altamente simbolico: l'inizio della "Operazione Fritz" da parte delle Brigate Rosse. Lo stupefacente e sospetto tempismo tra il primo numero del
Clicca sulla immagine per ingrandire




Un numero di OP



settimanale OP e la strage di via Fani a Roma, con cui iniziò il periodo dei cinquantacinque giorni del sequestro di Aldo Moro, destò infatti molti perplessità. Se a ciò accostiamo la scarsezza dei fondi che Pecorelli aveva per questa avventura editoriale, i sospetti si fanno ancor più fitti.
Indubbiamente, Pecorelli con la sua "creatura" editoriale ¬- l'agenzia OP - si inserisce a pieno titolo nel clima della strategia della tensione. Molti sono i suoi bersagli, tra questi soprattutto Giulio Andreotti (accusato poi di essere il mandante dell'assassinio) e il suo entourage (dall'onorevole Franco Evangelisti al magistrato Claudio Vitalone), ma anche il venerabile maestro della Loggia P2 Licio Gelli, il presidente della Repubblica Leone e altri ancora. Ma OP si occupò anche di una ipotetica loggia massonica in Vaticano (scoop pubblicato all'indomani dell'elezione al soglio pontificio di Albino Lucani, il papa che durò solo trentatré giorni) e di finanziamenti della CIA alla Democrazia Cristiana. Dalle colonne del giornale Pecorelli non risparmiò attacchi anche al generale Dalla Chiesa, indicandolo come il "Generale Amen" e profetizzando la sua morte violenta (scriveva Pecorelli nel numero 27 della sua rivista: «[...] Ora c'è solo da immaginarsi [...] quale sarà il Generale dei CC che sarà trovato suicida con la classica revolverata che fa tutto da sé [...] o con il solito incidente d'auto radiocomandato nelle curve [...] o la sbadataggine di un camionista [...] o l'incidente d'elicottero [...]. Purtroppo il nome del Generale dei CC è noto: Amen»).


Verso Licio Gelli e la sua loggia massonica Pecorelli assunse invece un atteggiamento ambiguo. A partire dal 1975, infatti, comincia a prendere di mira la P2: «Come non si sa», si leggeva in un articolo del 15 gennaio 1975, «la massoneria è una cosa che fa morire dal ridere. Ma è anche una bottega per quelli che la sanno sfruttare [...]. Tra l'altro si credono uomini del destino, incaricati dal Padreterno di tracciare le mete per la salvezza del Paese. Basta conoscerne qualcuno per farsi un'idea della massoneria». Ancora più esplicita era la denuncia fatta da Pecorelli sui reali scopi della Loggia P2: «Libertà, fratellanza e uguaglianza sono i tre termini della più geniale truffa che sia stata mai organizzata per sfruttare la democrazia [...]. In genere [i massoni] si riuniscono per fottere chi fotte più grana...».

Nel 1977, tuttavia, Pecorelli muta atteggiamento all'improvviso, e OP definisce il venerabile maestro Gelli «vittima di maldicenze». Il 25 giugno 1977, un articolo di OP arriva a tessere le lodi della loggia segreta: «Si ha un bel dire che sia un covo di golpisti e sovversivi. Vi aderiscono personaggi politici delle più diverse espressioni, ma tutti di primo piano: militari, magistrati, alti funzionari della pubblica amministrazione. Si può dire che Gelli rappresenti quel che resta dello Stato. E ormai si può aggiungere pure che tutti insieme i fratelli della P2 hanno giurato di far giustizia e pulizia. A cominciare da Palazzo Giustiniani».
Il mutamento di registro da parte di OP segue di qualche mese l'affiliazione di Pecorelli alla P2, avvenuta il 1° gennaio 1977 (tessera n. 1750, codice massonico E.19.77). Ma la repentina indulgenza di OP verso Gelli e verso la sua lobby politico-affaristica è di breve durata: il 18 maggio del 1977, infatti, con una lettera indirizzata al venerabile maestro, Pecorelli annuncia formalmente il proprio distacco dalla Loggia P2. Scrive il giornalista nella missiva: «Caro Licio, ho atteso invano una tua comunicazione riguardo Fratello Gigi. All'atto di sollecitare il Tuo autorevole intervento, ti avevo anche rappresentato la mia premura, data l'imminenza del processo [probabilmente, per una delle numerose querele per diffamazione a mezzo stampa che colpivano "Op", ndr]. Se la risposta non è arrivata vuol dire che nella Famiglia è venuta meno, o forse non c'è mai stata, la solidale assistenza dei Suoi componenti o che, nella migliore delle ipotesi, essa è indirizzata verso un'unica direzione. Esistono, per caso, Fratelli di serie A e Fratelli di serie B? Oppure "quello che è in alto non è uguale a quello che è in basso"? Ho notizia che Fratello Gigi almeno in due occasioni ha evitato guai per merito proprio della Famiglia. Io, invece, potrei essere punito per avere esercitato un diritto sancito dalla "legge comune". Nel constatare siffatta disparità, Ti rassegno la mia decisione di uscire definitivamente dall'Organizzazione. Ho fatto una breve ma significativa esperienza che mi conforta nel credere che non ci sono Templi da edificare alle Virtù, bensì solo all'ingiustizia e all'arroganza. Per quanto riguarda i nostri personali rapporti mi auguro, se lo desideri, che essi possano rimanere immutati».
Gli attacchi alla massoneria di Gelli continuano incalzanti fino a pochi giorni prima dell'uccisione del giornalista. Poco prima di morire Pecorelli attacca la P2 direttamente, scrivendo sulla sua rivista: «Attentati, stragi, tentativi di Golpe, l'ombra della massoneria ha aleggiato dappertutto: da Piazza Fontana al delitto Occorsio, dal golpe Borghese all'Anonima sequestri, alla fuga di Michele Sindona dall'Italia [...]».

Pecorelli inizia ad essere perseguitato e minacciato. È pedinato, fatto oggetto di
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Il cadavere di Pecorelli
attentati contro la sua auto, accusato di falso in bilancio e di bancarotta, denunciato all'Ordine dei giornalisti per i continui reati di diffamazione. Il clima che si crea intorno a sé lo turba, e inizia a preoccuparsi per la sua vita. Questi timori emergono anche dalla testimonianza della sorella, Rosina Pecorelli, la quale fa riferimento alle confidenze ricevute dall'avvocato De Cataldo il quale le aveva accennato ad apprensioni riferitegli dal giornalista poco prima di morire.
Egli stesso profetizza la sua fine. Scrivendo sulla rivista una nota "a futura memoria", afferma: «I nostri lettori e coloro che ci stimano saprebbero riconoscere immediatamente la mano che ha armato chi vorrà torcerci anche un solo capello».
La preveggenza di Pecorelli si fa realtà il 20 marzo 1979: il carabiniere ausiliario Ciro Formuso segnala alle 20.40 l'assassinio del giornalista alla sala operativa dei carabinieri. Mino Pecorelli è ucciso con quattro colpi di pistola calibro 7.65, tre alla schiena e uno in faccia. E' trovato steso sui sedili anteriori della sua Citroen parcheggiata in via Orazio, a pochi metri da via Tacito, sede della redazione di OP.
Ma chi ha ucciso Mino? E perché solo ora?
I proiettili che hanno ucciso il giornalista sono molto particolari, marca Gevelot, assai rari da trovare sul mercato, anche su quello clandestino. Sono tuttavia dello stesso tipo di quelli che sarebbero poi stati trovati nell'arsenale della Banda della Magliana, nascosto nei sotterranei del Ministero della Sanità.
Una prima indagine coinvolge Massimo Carminati, esponente dei Nuclei Armati Rivoluzionari e della Banda della Magliana, ma anche Licio Gelli, Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti. Che però nel 1991 verranno prosciolti dal giudice istruttore Francesco Monastero.
Nei mesi a seguire le ipotesi sul mandante e sul movente si moltiplicano: da Gelli alla mafia, fino ad arrivare ai petrolieri e ai falsari di De Chirico.
Nel 1993 la svolta: il pentito Tommaso Buscetta, interrogato dai magistrati di Palermo, accusa Giulio Andreotti. Nell'interrogatorio reso il 6 aprile 1993, Buscetta dichiara infatti che "L'omicidio di Pecorelli è stato deciso da Stefano Bontate nell'interesse di Andreotti". Nell'inchiesta entrano anche Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò. Nell'agosto dello stesso anno le dichiarazioni dei pentiti della banda della Magliana, Vittorio Carnovale, Fabiola Moretti, Maurizio Abbatino, Antonio Mancini e Chiara Zossolo, coinvolgono l'allora magistrato romano Claudio Vitalone.
Si è saputo che la sera in cui Pecorelli fu ucciso, in tipografia era già pronto l'ultimo numero di OP che attaccava nuovamente Andreotti. Sulla copertina vi compariva a tutto campo la foto del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, con un titolo a caratteri cubitali: " Gli assegni del Presidente". La copertina fu ritrovata, le pagine interne mai: forse contenevano i nomi di chi aveva incassato gli assegni, come aveva anticipato Mino nelle settimane precedenti.
Il processo comincia a Perugia l'11 aprile 1996. A presiedere la Corte d'assise è Paolo Nannarone che però risulta incompatibile. È sostituito da Giancarlo Orzella. Il 9 settembre Tommaso Buscetta conferma le accuse contro Andreotti: "Badalamenti e Stefano Bontade mi hanno riferito che l'omicidio Pecorelli lo avevano fatto loro, su richiesta dei cugini Salvo, nell'interesse del senatore Andreotti". Secondo Buscetta, Pecorelli era in grado di pubblicare documenti che riguardavano il caso Moro e che erano in possesso del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il 10 settembre Buscetta ritratta in parte le dichiarazioni del giorno prima.
Il 24 settembre 1999, dopo quattro giorni di camera di consiglio, la Corte d'assise di Perugia assolve tutti gli imputati.
Il 17 novembre 2002 la corte d'Appello di Perugia assolve tutti gli altri imputati, ma condanna a ventiquattro anni di reclusione il senatore a vita Giulio Andreotti e l'ex capomafia Gaetano Badalamenti.
Il 30 ottobre 2003 la Cassazione annulla senza rinvio la sentenza della Corte d'Appello di Perugia. Andreotti e Badalamenti sono completamente assolti d'accusa dell'omicidio di Mino Pecorelli. L'omicidio Pecorelli resta senza colpevoli.

La supposta relazione tra l'omicidio Moro e quello Pecorelli è la teoria che
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Tano Badalamenti
attualmente gode del maggior credito. Pecorelli sapeva molto sulla vicenda Moro. Il periodico si occupò a più riprese del rapimento e dell'omicidio dello statista democristiano, arrivando a fare rivelazioni sconcertanti. Pecorelli aveva già annunciato che il 15 marzo 1978 in Italia sarebbe accaduto qualcosa di gravissimo. Sbaglia di un giorno. Il 16 marzo Moro è sequestrato e la sua scorta trucidata. In seguito si saprà che le BR avevano inizialmente deciso di rapire Moro il 15 marzo.
Secondo Pecorelli, durante il sequestro Moro, Dalla Chiesa aveva informato il ministro dell'interno Cossiga dell'ubicazione del covo in cui era detenuto. Ma secondo il giornalista Cossiga non aveva potuto far nulla: "Cossiga non poteva fare niente per salvare Moro perché doveva sentire più in alto, ma in alto dove sino alla loggia di Cristo in Paradiso?". Forse un chiaro riferimento alla Loggia P2 o alle stanze del potere statunitense?
Sulla stessa rivista, Pecorelli riesce anche a pubblicare tre lettere (con autentica "copie conforme") scritte da Aldo Moro prigioniero della BR e destinate alla moglie, a Zaccagnini e al fidato Rana, che erano state sequestrate dalla magistratura.
In occasione del ritrovamento del memoriale di Moro nel covo delle BR di via Montenevoso, nei numeri 27, 28 e 29 di OP di ottobre, Pecorelli va giù duro. Scrive "Non credo all'autenticità del memoriale, o alla sua integrità, e alle banalità che sono state riportate alla luce. Moro non può aver detto quelle cose e solo quelle cose arcinote; non era stupido, dicendo solo quelle cose, sapeva che non sarebbe uscito vivo dalla prigione. Quindi c'è dell'altro. Così ora sappiamo che ci sono memoriali falsi e memoriali veri. Questo qui diffuso è anche mal confezionato".
La ricerca di documenti o novità compromettenti intensifica i contatti di Pecorelli. Negli ultimi tre mesi di vita il giornalista si era incontrato più volte con Vitalone, con l'ex capo dell'Ufficio Affari Riservati Federico d'Amato, e poi con altri personaggi tra cui Franco Evangelisti, Pietro Musumeci, Antonio Varisco (poi ucciso in un attentato rivendicato dalle BR), Angelo Casentino (consigliere del presidente della Repubblica Giovanni Leone). Il nome del PM Luciano Infelici ricorre cinque volte, i contatti telefonici con Evangelisti sono quasi settimanali. La maggior parte dei personaggi che Pecorelli incontra sono personalità di primissimo piano della politica, della magistratura e dei servizi segreti, quasi tutti iscritti alla P2.
Nel gennaio del 1979 Pecorelli annuncia pubblicamente nuove rivelazioni sul delitto Moro: «Torneremo a parlare del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbetto azzurro visto in via Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all'operazione, del prete contattato dalle BR, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse [...]». Rimane un annuncio. Il 20 marzo 1979 il direttore di OP viene assassinato.
BIBLIOGRAFIA
Pecorelli-OP. Storia di un'agenzia giornalistica, di V. Iacopino - SugarCo, Milano, 1981
Scoop mortale. Mino Pecorelli. Storia di un giornalista kamikaze, di R. Di Giovacchino - Pironti, Napoli, 1994
I veleni di OP. Le "notizie riservate" di Mino Pecorelli, di F. Pecorelli F. e R. Sommella - Kaos Edizioni, Milano, 1995
Mino Pecorelli: un uomo che sapeva troppo. La ricostruzione di un caso ancora aperto nell'Italia dei misteri, di M. Corrias M. e R. Duiz - Sperling & Kupfer, 1996
Il libro nero della Repubblica, di R. Di Giovacchino - Fazi, Roma, 2005
Dossier Pecorelli, di S. Flamini - Kaos Edizioni, Milano, 2005



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' OP' , UN LABIRINTO DI MISTERI



ROMA - Lui lo sapeva, che se fosse stato ucciso un giorno in una strada di Palermo, il movente andava cercato lontano, di là dallo Stretto. Alla vigilia del trasferimento in Sicilia, Carlo Alberto Dalla Chiesa scrisse nel suo diario alcune parole che rilette oggi, alla luce delle inchieste della procura di Palermo e di quella di Roma, gelano il sangue: "Io che sono certamente il depositario più informato di tutte le vicende di un passato non lontano, mi trovo ad essere richiesto di un compito davvero improbo e, perché no, anche pericoloso!". Dalla Chiesa era il depositario della vera storia del sequestro Moro e di tutto ciò che tra il ' 78 e il ' 79 si mosse prima attorno alla gestione dei 55 giorni da parte del Viminale e della presidenza del Consiglio, e poi attorno alla gestione dei documenti scritti da Moro durante la prigionia. Alcune fra le cose conosciute da Dalla Chiesa furono rivelate sotto forma di messaggi sulle pagine di "O.P.". La magistratura romana sospetta che Pecorelli fosse sul punto di pubblicarne molte altre per intero: nero su bianco, nomi e cognomi, date ed episodi che iscrivevano la morte di Aldo Moro e della sua scorta nel capitolo tragico delle "stragi di Stato". E che rivelavano come nei giorni del sequestro non ci fu soltanto la ovvia mobilitazione delle Br, ma anche di elementi della Magliana collegati a Cosa nostra, ai servizi segreti e, mediante un giro molto complicato di operazioni finanziarie, anche agli amici di Andreotti.


Pagine sgualcite Per questo il nostro viaggio all' interno di "O.P.", fra le pagine sgualcite di una pubblicazione che accompagnava lo svolgersi della vicenda italiana con notizie di prima mano, oggi rivelatesi spesso esatte, comincia proprio con la previsione di Mino Pecorelli che il generale Dalla Chiesa sarebbe stato ucciso. Perché aveva informato il potere politico del luogo dove era tenuto prigioniero Moro, ma il potere politico non aveva voluto cercarlo. "C' è solo da immaginarsi" scrisse Pecorelli in una finta lettera al direttore "quale Generale dei carabinieri sarà trovato suicida con la classica revolverata che fa tutto da sé...



Purtroppo il nome del generale Cc è noto: amen". Era il numero datato 17 ottobre ' 78, subito dopo il ritrovamento di via Montenevoso e dopo un incontro con il generale Dalla Chiesa. E gli interpreti del gergo pecorelliano assicurano che "amen" corrisponde a Dalla Chiesa. Abbiamo ripercorso la storia della rivista dal rapimento di Moro ("O.P." divenne rivista settimanale proprio nel marzo del ' 78) fino all' uccisione di Pecorelli, il 20 marzo del ' 79.


E alla fine ci è sembrato di essere arrivati a qualcosa che è stato rivelato di recente, al cuore stesso cioè di quella dichiarazione di Tommaso Buscetta dalla quale si è mossa la procura di Roma. "Secondo quanto mi disse Badalamenti sembra che Pecorelli stesse appurando ' cose politiche' collegate al sequestro Moro. Giulio Andreotti era appunto preoccupato che potessero trapelare quei segreti, inerenti al sequestro dell' on. Aldo Moro, segreti che anche il generale Dalla Chiesa conosceva. Pecorelli e Dalla Chiesa sono infatti cose che si intrecciano fra loro". I fratelli Salvo, la cui conoscenza Andreotti ha sempre smentito (ma sarà impossibile smentirla ad alcuni degli uomini a lui più legati) avrebbero chiesto dunque a Cosa nostra il favore di far uccidere Pecorelli. I messaggi di "O.P." sui retroscena del sequestro cominciano sin dai primi giorni del rapimento e si snodano per tutto l' ultimo anno di vita di Pecorelli. Per grandi linee, si può dire che essi riguardano i seguenti punti: il ruolo della Cia o degli americani in genere nel caso; la falsa pista del lago della Duchessa e il covo delle Br; i memoriali di Moro. Alcuni degli informatori di Pecorelli sono individuabili nella sua agenda, altri sono stati indicati dai magistrati nella richiesta di autorizzazione a procedere contro Andreotti: Pecorelli incontra il giudice Infelisi, che conduce le indagini durante il sequestro, e il procuratore capo De Matteo.


Vede sei volte durante i 55 giorni il colonnello dei carabinieri Antonio Varisco, poi ucciso dalle Br; incontra Licio Gelli e il deputato dc Carenini; parla con Dalla Chiesa (una volta durante il sequestro e poi dopo la scoperta di via Montenevoso) e forse con il falsario Antonio Chichiarelli, autore del comunicato della Duchessa. Pecorelli dà in anticipo alcune lettere di Moro: la terza (in cui Moro incaricava Rana di avviare trattative con le Br) e ai primi di giugno pubblica quattro lettere sconosciute. Nel numero dell' 11 aprile scrive: "Veniamo informati da canali autorevoli che il Vaticano ha effettuato l' inizio concreto delle trattative". Trattative smentite allora dalle fonti ufficiali e confermate da Andreotti recentemente. Il 18 aprile "O.P." preannuncia la maledizione di Moro, contenuta in una di quelle lettere: "Il mio sangue ricada sulle teste di Cossiga e Zaccagnini". Nello stesso numero, Pecorelli accenna agli scheletri su cui Moro potrebbe parlare: "Nel ministero degli Esteri sarebbe l' ora di aprire gli armadi etichettati ' Sindona' oppure ' passaporti di comodo' . In quei giorni Moro sta parlando coi suoi rapitori proprio di Andreotti e Sindona. 25 aprile: per Pecorelli il settimo messaggio (quello falso della Duchessa) e il successivo (vero) "sono stati scritti entrambi dalle Br". "Si sono riuniti a Palazzo Chigi i responsabili del rapimento Moro... scusate, scusate" scrive il giornalista, citando il presunto lapsus di un cronista televisivo. Lucido superpotere Il numero datato 2 maggio contiene la seguente affermazione: "L' agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere: la cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche degli ultimi decenni". L' obiettivo è quello di "allontanare il partito comunista dall' area del potere", nel momento in cui si avvicina al governo.


"E' un fatto che si vuole che ciò non accada perché è comune interesse delle due superpotenze mondiali mortificare l' ascesa del Pci...". Una parte minima Siamo al numero del 23 maggio: Pecorelli preannuncia che le lettere di Moro hanno reso pubblica "solo una parte forse minima di ciò che egli fu costretto a rivelare alle Br". Dice che devono cominciare a tremare "le volpi politiche". Quanto a Cossiga, si è dimesso non perché non ha salvato Moro, ma per non aver catturato le Br "garantendo in tal modo alla classe politica il più assoluto silenzio". Nell' estate "O.P." si dedica sopratutto all' Italcasse e ai Caltagirone, all' avvocato Wilfredo Vitalone "che li rappresenta". Da settembre comincia ad occuparsi di Dalla Chiesa. Nel numero del 17 ottobre (dopo la scoperta di via Montenevoso e dopo l' incontro con il generale) Pecorelli scrive "Perché solo adesso?": chiede come mai Dalla Chiesa "non fu chiamato subito dopo via Fani, quando Moro era ancora vivo?". Conclude: "hanno preferito attendere che si maturasse l' uva e si compisse il peggio".


Ed è questo il numero con la finta lettera al direttore. Il finto lettore scrive a Pecorelli che un generale dei Cc aveva "riferito di persona nella massima segretezza" al ministro di polizia dove Moro era "tenuto prigioniero dalle parti del ghetto...(ebraico)". "Il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla Loggia di Cristo in Paradiso?".


Gli interpreti di Pecorelli spiegano: Dalla Chiesa disse a Cossiga dove era Moro (anche la Magliana è chiamata "ghetto" e Montalcini è un nome ebreo) ma Cossiga dovette rivolgersi alla P2. Prosegue Pecorelli: la risposta di Cossiga fu no. La motivazione: il rischio di un conflitto a fuoco. Il giornalista finisce con la sua previsione di morte per Dalla Chiesa, depositario di quel terribile segreto. Fu anche questo il tema dell' incontro fra il generale e Pecorelli? Dalla Chiesa, oltre a parlare dei memoriali, parlò anche della prigione di Moro?


"O.P." comincia ad occuparsi dei "memoriali" nel numero del 24 ottobre, scrive che a via Montenevoso c' erano anche "alcuni nastri magnetici con la viva voce del presidente Moro". Nel numero successivo la copertina dice: "Un memoriale mal confezionato". Andreotti viene definito "un uomo molto fortunato". Pecorelli sottolinea che nelle 50 pagine del memoriale non c' è niente di "sensazionale", quasi dovesse trovarsi altrove. L' esperto americano Il 16 gennaio ' 79 è la volta di "Vergogna buffoni!": Pecorelli rivela quello che si saprà soltanto anni più tardi, che il governo fu affiancato da un esperto americano di nome Steve Pieczenik "vice segretario di Stato al governo Usa". Moro, dice Pecorelli, doveva uscir vivo dal covo, i "carabineiri" avrebbero dovuto riscontrare che era vivo "e lasciar andar via la macchina rossa". Ma qualcosa non funzionò, si voleva comunque Moro morto. "Ma è di questo che non parleremo, perché è una teoria cervellotica, non diremo che il legionario si chiama ' De' e il macellaio Maurizio". Il 23 marzo Pecorelli ricorda Moro un anno dopo. Ritorna sul mistero della Duchessa e scrive: "La strategia delle due parti in causa, Viminale e comando dei terroristi, è ancora da scoprire". Annuncia: "Il dopo Moro è costellato di morti". E afferma l' esistenza certa di "connivenze all' interno dello Stato, "nel cuore dello Stato"". "O.P.", ultimo numero: Pecorelli sostituisce il servizio sugli assegni di Andreotti con un servizio sul rogo dei fascicoli del Sifar (' 74, Andreotti alla Difesa), per affermare che una parte dei fascicoli non fu distrutta e condizionerà la vita politica. A pagina 11 un giudizio, all' indomani dell' uccisione a Palermo di Michele Reina, da grande conoscitore: "E' da prevedere per il futuro che i conti in casa democristiana verranno sempre più spesso regolati con l' impiego della manovalanza criminale e sotto una pseudo copertura terroristica". Ma siamo ormai alla vigilia della morte. Pecorelli sta per pubblicare ben altro, forse intende mettere in chiaro alcuni dei "messaggi" che ha già lanciato. Forse occupandosi degli assegni di Andreotti ha finito anche lui per imbattersi in quel mondo della Magliana del quale faceva parte Antonio Chichiarelli. Oggi prevale la tesi che il falso comunicato della Duchessa fu commissionato ai servizi da ambienti del Viminale (secondo Sergio Flamigni, esperto del caso Moro, su suggerimento di Claudio Vitalone). C' è chi sostiene addirittura che Chichiarelli abbia fotografato di persona Moro nel covo delle Br, come ha testimoniato un suo complice davanti ai magistrati romani, e che fosse anche un fiancheggiatore delle Br. "Il significato è gravissimo - ha scritto Philip Willan ne I burattinai - un membro della malavita romana in contatto con i servi segreti si era introdotto nella prigione di Moro mentre questi era ancora vivo: dal che si deduce che i servizi conoscevano l' ubicazione della prigione di Moro (e Pecorelli l' aveva detto) ma che non avevano fatto nulla per il rilascio".

SANDRA BONSANTI
13 giugno 1993 sez.
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