Origini delle Religioni

CASO MORO 6 IL MEMORIALE

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CAT_IMG Posted on 24/4/2024, 14:10
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Non è la piazza che accusa il palazzo, ma il palazzo che accusa sé stesso

Il Memoriale Moro trovato nel covo di via Montenevoso a Milano




A chiare lettere ci sono scritte cose terribili sulla storia italiana e sui segreti della DC. E noi sappiamo, e pur sapendo non facciamo niente e non ce ne importa niente. Sappiamo e continuiamo a vivere nella più totale e oscena indifferenza.


Riccardo Lestini (scrittore e regista)
Fonte: www.riccardolestini.it - 05 maggio 2018
9 ottobre 1990, via Monte Nevoso, zona Lambrate, Milano.





Da quando i carabinieri agli ordini di Dalla Chiesa hanno fatto irruzione nel covo delle BR sito in questa strada, ritrovando al suo interno le carte del celebre “Memoriale Moro”, sono passati dodici anni (per il blitz del 1978, si veda il capitolo precedente).

Nel frattempo il mondo è profondamente cambiato.
È caduto il muro di Berlino, è finita la guerra fredda e con essa la logica dei blocchi contrapposti, i regimi comunisti dell’est si dissolvono uno dietro l’altro e anche il gigante sovietico sta crollando inesorabilmente.

In mezzo ci sono stati gli anni del riflusso e del rampantismo, un ritrovato e diffuso (e apparente) benessere, il craxismo e il pentapartito. Gli anni di piombo sono finiti, la strategia della tensione anche. Le Brigate Rosse sono state sconfitte dall’azione dello Stato, dalle scissioni interne, dal mutato contesto storico e sociale e dal dilagante fenomeno del pentitismo. Renato Curcio, Mario Moretti e Barbara Balzerani, attraverso un comunicato sottoscritto dalla stragrande maggioranza dei militanti, hanno dichiarato la resa e la fine della lotta armata.

Al caso Moro in generale e in particolare al “Memoriale” ritrovato dodici anni prima, nessuno pensa più. Molti dei protagonisti di quello strano ritrovamento non ci sono più. In particolare il generale Dalla Chiesa e il giornalista Mino Pecorelli, entrambi assassinati in brutali agguati dai contorni misteriosi su cui nessuno ha mai voluto fare la dovuta chiarezza.



Solo una cosa è rimasta la stessa rispetto al 1978: alla presidenza del consiglio c’è sempre Giulio Andreotti.

Quel 9 ottobre in via Monte Nevoso, all’interno 1 del civico 8, sono previsti lavori di muratura.
Quell’appartamento era stato acquistato negli anni ’70 dalle BR, per conto del brigatista Domenico Gioia, che aveva sottoscritto il compromesso d’acquisto versando a Rocco Lomutolo, il vecchio proprietario, il 70% del prezzo pattuito. Ma Gioia non aveva mai fatto il rogito, il che aveva consentito a Lomutolo di rientrare in possesso dell’appartamento. Ma l’appartamento, per tutti questi anni, era stato tenuto sotto sequestro, il che aveva impedito a Lomutolo sia di rimetterci piede sia di rivenderlo.



La lunghissima controversia legale si era chiusa solo nella primavera del 1990. Lomutolo, che aveva pure dovuto restituire a Gioia venti milioni delle vecchie lire, aveva potuto così finalmente mettere in vendita l’appartamento, acquistato pochi mesi dopo da Girolamo De Cillis, il quale procede subito ai lavori di ristrutturazione.

I lavori vengono affidati alla ditta Spezi, che il 9 ottobre manda sul posto un suo dipendente, Giovanni Bernardo. L’appartamento, come sappiamo, è molto piccolo, appena quaranta metri quadri, e il lavoro può concludersi in una sola giornata. A metà mattinata, dopo aver già divelto tutto il pavimento, Bernardo procede alla rimozione di un mobiletto incassato sotto la finestra della cucina e fissato al muro con dei chiodi. Dentro il mobiletto non c’è niente, ma dietro c’è un pannello, una finta parete in cartongesso.

Bernardo, facendo leva con uno scalpello, lo apre quel tanto che basta per infilarci dentro il braccio. Dentro c’è una cartellina con dei fogli, una borsa e una scatola.

Bernardo non tocca niente. La ditta lo ha informato che nell’appartamento in cui sta lavorando anni prima erano stati arrestati alcuni terroristi legati al caso Moro, quindi capisce subito di aver trovato qualcosa di importante. Lascia tutto come ha trovato e corre ad avvertire il proprietario.



La presenza dell’intercapedine di per sé non è niente di strano. Ovvio che dentro un covo clandestino vi siano pareti nascoste e non visibili per prevenire eventuali visite improvvise e indesiderate. Se non fosse che l’appartamento, nel 1978, fosse stato perquisito per ben cinque giorni dai carabinieri che, secondo le parole del giudice Pomarici, lo “scarnificarono mattonella per mattonella”.

Quindi come è possibile che il pannello in cartongesso sia sfuggito a una perquisizione che si racconta essere stata tanto lunga e tanto minuziosa? E perché, nonostante i terroristi arrestati durante il blitz avessero denunciato la presenza nell’appartamento di altro materiale non trovato e non repertato, non sono state effettuate altre perquisizioni di controllo

E soprattutto, cosa contenevano quella cartellina, quella borsa e quella scatola?



1. Il grande rompicapo

A repertare il materiale stavolta è la polizia. Che nella scatola trova una pistola nuovissima e mai usata, un mitra di fabbricazione russa avvolto in una copia del Corriere della Sera del 18 settembre 1978, una canna di pistola e trenta detonatori, mentre nella borsa 60 milioni e 307 mila lire in contanti, tutti soldi provenienti dal riscatto per il sequestro dell’armatore Costa e che, tra il 1977 e il 1978, servirono a finanziare l’intera operazione Moro.

Ma il materiale più importante è quello dentro la cartellina marrone, ovvero un totale di 421 fogli, tutti (tranne due) fotocopie di originali manoscritti di Moro. Di questi 421, 174 sono lettere e disposizioni testamentarie, mentre le restanti 245 costituiscono il cosiddetto “Memoriale Moro”.


L’unica certezza è che quelle carte erano state maneggiate da Lauro Azzolini, visto che vi sono state rinvenute sue impronte digitali (anche se ciò non significa che sia stato lui a sistemarle dietro il pannello). Tutto il resto è un gigantesco mistero, un grande e irrisolvibile rompicapo.

Partiamo dai numeri. Il “Memoriale” rinvenuto nel 1978, come abbiamo visto, era costituito da 43 fogli dattiloscritti. Questa seconda versione, anche tenendo conto della differenza tra manoscritti e dattiloscritti, è quindi notevolmente più estesa. Vi sono parti e passaggi completamente mancanti nella prima e, laddove gli argomenti coincidono, sono trattati in maniera assolutamente più articolata e approfondita.

Tutto questo conferma quanto hanno sempre sostenuto Azzolini e Bonisoli, ovvero che il materiale presente in via Monte Nevoso era molto di più di quanto repertato dai carabinieri. E conferma quanto si è sempre sospettato sin da subito e da più parti, vale a dire che il “Memoriale” portato alla luce nel 1978 fosse una versione incompleta e manipolata.

In definitiva, nel 1990, quella che ormai sembrava essere stata una pura dietrologia complottista, si scopriva corrispondere a verità.

A riguardo, la brigatista Nadia Mantovani, che in via Monte Nevoso aveva lavorato sulle carte di Moro, anni prima del secondo ritrovamento e senza aver mai visionato il documento del 1978, in sede processuale aveva dato un resoconto molto dettagliato. Aveva parlato di un ampio passaggio in cui Moro parlava di guerriglia e controguerriglia, dei rapporti tra Andreotti e la CIA, di Kappler e di Rizzoli. Tutte parti completamente mancanti nella versione del 1978 e presenti in quella del 1990. In sostanza, nel “Memoriale” del 1978 mancavano tutte le parti più scottanti e sconvolgenti.

Ma allora, che cos’era il “Memoriale” del 1978 e chi lo aveva redatto?

Che sia stato prodotto dalle Brigate Rosse appare sinceramente strano, se non proprio improbabile. Che senso poteva avere, per le BR, elaborare una versione totalmente priva di tutti quei passaggi in cui venivano portati alla luce i più indicibili segreti di Stato e le più oscure trame della Democrazia Cristiana?

E chi aveva nascosto il “malloppo” rinvenuto nel 1990 all’interno del pannello?

La logica fa ovviamente pensare che siano stati gli stessi brigatisti, ovvero Bonisol
i, Azzolini e la Mantovani.

E infatti, probabilmente, erano stati proprio loro a costruire il tramezzo “invisibile”. Lo conferma lo stesso Bonisoli, che in un’intervista, a proposito del pannello, ricorda: “era lì, noi l’aprivamo ogni giorno, come un armadio, perché poteva entrare un vigile urbano, l’uomo del gas, qualsiasi persona: rappresentava una sicurezza in più”.

Eppure, qualcosa, anzi molto più di qualcosa, continua proprio a non tornare. Prima di tutto resta il fatto che continua a essere incredibile che i carabinieri, smontando da cima a fondo un mini appartamento di appena quaranta metri per ben cinque giorni, non siano riusciti a individuarlo. Ma soprattutto quel pannello è tutt’altro che apribile “come un armadio”. Al contrario, è fissato al muro con dei chiodi, talmente bene che per aprirlo il dipendente della ditta incaricata dei lavori impiega diverso tempo. Quindi non proprio un nascondiglio da poter aprire e chiudere “tutti i giorni”.

Sembra quindi – molto più di un legittimo e naturale sospetto – che qualcuno nel 1978 prima abbia prodotto in fretta e furia una sintesi “epurata” di tutto il materiale, e poi abbia riposto il tutto dietro quel pannello, preoccupandosi di renderlo ancora più nascosto fissandolo al muro con i chiodi.

Inevitabilmente, nel 1990, esplode la polemica politica. Craxi, segretario del PSI come dodici anni prima (tra i pochi esponenti politici, all’epoca, a schierarsi dalla parte della trattativa), dirà che a nascondere quelle carte è stata una “manina” (chiaro riferimento alla corporatura minuta di Giulio Andreotti). Andreotti risponderà che invece è stata una “manona”, ovvero quella del più corpulento Craxi.
Il mistero, ad ogni modo, resta.


Torniamo a quel 1 ottobre 1978. Sappiamo che al momento dell’irruzione nell’appartamento i carabinieri si trovarono davanti carte stipate ovunque, un’incredibile montagna di documenti. Praticamente, l’archivio delle Brigate Rosse. Già qui troviamo la prima anomalia. Ovvero che tra tutte quelle carte il capitano Arlati, che guidava l’operazione, si fionda subito, a colpo sicuro, sulla cartellina azzurra contenente il “Memoriale”, sul cui ritrovamento informa immediatamente per telefono Bozzo, il braccio destro di Dalla Chiesa. Come se Arlati sapesse esattamente cosa cercare. Di sicuro, come abbiamo visto nel capitolo precedente, della presenza del “Memoriale” in via Monte Nevoso sapeva Dalla Chiesa, così come sapeva che in quelle pagine vi erano dei passaggi assai esplosivi sul conto di Andreotti. E che proprio in virtù di questo aveva convinto Andreotti sull’urgenza di quel blitz.

Ma l’anomalia più grande è che il capitano Bonaventura, quella stessa mattina, a perquisizione appena iniziata e con il verbale ancora da stendere, portò via il “Memoriale” dall’appartamento per fotocopiarlo e consegnarlo nelle mani di Dalla Chiesa. E lo riportò in via Monte Nevoso più di sei ore dopo.


Su questo incredibile episodio, dopo il secondo ritrovamento del 1990, si aprono ulteriori scenari. Arlati rivelerà infatti alcuni dettagli che, all’epoca, aveva omesso. Prima di tutto che alle 17,30, quando Bonaventura riconsegnò il “Memoriale”, il plico gli apparve “più magro” di quando era uscito. In secondo luogo che una copia del “Memoriale” fu consegnata da Bonaventura al capitano Gustavo Pignero (che nel 1981 risulterà nella lista della P2 di Licio Gelli), il quale le porterà subito a Roma.


Il rompicapo si fa sempre più complicato e la lista di domande, inevitabilmente, infinita.

Cosa è successo nelle oltre sei ore in cui la cartellina azzurra è rimasta nelle mani del capitano Bonaventura e fuori dall’appartamento? Il materiale presente è stato solo “ridotto” ed espunto delle parti più delicate oppure si è proceduto a una vera e propria riscrittura, a un sunto riveduto e corretto? Nell’uno o nell’altro caso, che fine ha fatto il materiale originale? È stato riportato in via Monte Nevoso e rimesso nel pannello oppure è stato conservato in altro luogo?


Quando Arlati parla di un plico “più magro”, cosa intende esattamente? Una decina, una ventina di pagine? Quante?
Quale versione viene consegnata a Dalla Chiesa? Quella originale o quella “riveduta e corretta”? Il giorno successivo, quando Dalla Chiesa si recò a Roma per incontrare Evangelisti, braccio destro di Andreotti, cosa gli consegnò? La documentazione originale o quella manipolata?


Dalla Chiesa era al corrente di questa manipolazione? Dal momento che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, nei mesi successivi si adopererà per far uscir fuori la verità sul conto di Andreotti, è possibile ipotizzare che Dalla Chiesa non sapesse nulla e che la manovra di manipolazione fu voluta dai servizi segreti per neutralizzare il generale e salvare Andreotti?


Perché Pignero andò a Roma con la copia del “Memoriale” (poi quale? L’originale o quello modificato?)? A chi doveva consegnarlo, visto che i suoi superiori erano tutti a Milano? A Roma arrivò prima lui o Dalla Chiesa?
Delle due l’una. O quel giorno in via Monte Nevoso furono trovati due “Memoriali”, un sunto dattiloscritto dalle BR e uno costituito dalle fotocopie degli originali manoscritti di Moro, e mentre il sunto fu portato via per censurarne ed eliminarne le parti più scomode il plico delle fotocopie fu occultato dietro il pannello chiodato, oppure fu ritrovato soltanto il plico delle fotocopie, da cui seduta stante fu tratto un sunto da presentare come “Memoriale” ufficiale.


Nell’uno o nell’altro caso resta impossibile chiarire le posizioni (e le mosse) di Dalla Chiesa, Arlati e Pignero. Soprattutto, nell’uno o nell’altro caso, è indubbio che quel giorno, in via Monte Nevoso ci furono strani movimenti. Così come è indubbio che il “Memoriale” del 1978 è il frutto di diverse e interessate manipolazioni.
Ma anche quello del 1990 è incompleto.


Ripartiamo dai numeri. Nel capitolo precedente abbiamo visto come più fonti vicinissime alle BR avessero parlato – a proposito di quel “Libro Bianco” in preparazione e in cui le Brigate Rosse avrebbero pubblicato tutti i documenti in loro possesso relativi alla vicenda Moro – di un corpus di circa duemila pagine. Una cifra sicuramente esagerata, ma comunque lontanissima sia dalla settantina di fogli ritrovati nel 1978, sia dai 421 rinvenuti nel 1990.
Che ci fosse qualcosa – o molto – di più, lo dicono gli stessi brigatisti.


Oltre a parlare alle fotocopie degli originali manoscritti, Bonisoli e Azzolini parlarono della presenza, in via Monte Nevoso, della trascrizione integrale di tutti gli interrogatori. Come sappiamo infatti, per almeno i primi venti giorni del sequestro, gli interrogatori furono registrati su nastro e poi sbobinati, pratica poi abbandonata perché richiedeva troppo tempo. I nastri originali, a detta dei brigatisti, furono distrutti poco dopo l’esecuzione di Moro. Ma le trascrizioni, che secondo Bonisoli e Azzolini erano in via Monte Nevoso assieme al resto, dove sono finite?


Non solo. Nella sua deposizione ricordata prima, la Mantovani parla di passaggi del “Memoriale” dedicati a Kappler, ma nel “Memoriale” del 1990 in proposito vi è solo un piccolo accenno. E sempre la Mantovani ricorda che in via Monte Nevoso ci fosse anche la lista delle domande degli interrogatori. Anche questa, mai rinvenuta.
E lo stesso Moretti più di una volta ha dichiarato che del “Memoriale Moro” è venuto alla luce “quasi tutto”, tranne alcune parti che, a detta sua, sarebbero state trattenute dai servizi segreti.

Manca inoltre il capitolo relativo a Taviani e ai servizi segreti americani, di cui le BR avevano pubblicato uno stralcio autografo nel Comunicato numero 5.

Dove è finito tutto questo materiale?



2. Un solo memoriale, infinite stesure

A questo punto, cerchiamo di fare chiarezza e ricostruire la storia, e soprattutto natura e contenuto, delle varie stesure e delle varie versioni del “Memoriale”.


Stesura “A”: il complesso degli originali autografi, dei nastri e dei fogli direttamente provenienti dagli interrogatori, tanto quelli registrati quanto quelli effettuati con la consegna di domande scritte all’ostaggio che poi provvedeva e rispondere su appositi fogli.

Stesura “B”: trascrizione dattiloscritta della stesura “A”.

Stesura “C”: ottantacinque cartelle di cui quarantatré costituenti il “Memoriale”, rinvenute nel 1978 in via Monte Nevoso.

Stesura “D”
: 421 fogli, di 245 costituenti il “Memoriale”, rinvenuti nel 1990 sempre in via Monte Nevoso.
“A” è la fonte primaria e originale, una sorta di “fonte Q” del “Memoriale”, mai stata ritrovata e che, molto probabilmente, come sostengono i brigatisti, fu interamente distrutta da Prospero Gallinari dopo che lo stesso aveva provveduto a farne alcune fotocopie, che chiameremo stesura “A1”.

Interamente perduta “A”, concentriamoci quindi su “A1”. Quante copie furono fatte di “A1”? Impossibile dirlo, ma secondo alcuni ne furono fatte diverse che poi vennero distribuite a tutte le colonne brigatiste. È un’ipotesi che moltiplica all’infinito il numero di copie potenzialmente esistenti e circolanti (se così fosse strano che non negli anni, oltre a quella di via Monte Nevoso, non ne siano saltate fuori altre).

Di sicuro una di queste copie fu spedita, via Firenze, tramite Moretti che la consegnò a Bonisoli, a Milano, in via Monte Nevoso appunto, dove confluì in “D”. Probabile anche che un’altra copia di “A1” sia stata recapitata a qualche brigatista detenuto a Cuneo. Potrebbe infatti trattarsi di “A1” quel plico di carte che Dalla Chiesa, come abbiamo visto nel capitolo precedente, chiese a Incandela di recuperare nel carcere dietro soffiata di Pecorelli.

Anche la maggior parte di “B”, come “A”, non è mai stato trovato. Ma a differenza di “A”, nessuno parla di una sua distruzione. Questa copia dattiloscritta di trascrizione integrale di “A” fu fatta probabilmente dal solito Gallinari, a Firenze. Secondo alcuni, anche di “B” furono fatte diverse copie distribuite alle principali colonne.

Una fu sicuramente inviata a Milano in via Monte Nevoso, dove andò Nadia Mantovani per farne l’analisi politica.

La prima bozza di questa analisi politica fu effettivamente ritrovata nel corpus di “C”, ma su “B” restano infiniti dubbi. O “B” è la versione di “C” da cui Bonaventura sottrasse pagine determinanti, oppure “B” fu prelevato da via Monte Nevoso, occultato dalle forze dell’ordine e sostituito con “C”.

Di conseguenza “C” o è una versione ridotta di “B”, oppure è una versione di altra mano prodotta per nascondere “B”.



3. Il grande segreto della Repubblica



Non potendo saperne di più, siamo obbligati ad esaminare esclusivamente “D”, che per quanto probabilmente incompleto, è di sicuro la versione più estesa e veritiera del “Memoriale” in nostro possesso.


Tra le parti più esplosive c’è senz’altro quella dedicata al presidente Segni, che Moro rappresenta come un oscuro uomo di potere che persegue una strategia ostinatamente contraria al centro-sinistra, contravvenendo quindi al suo ruolo super partes di garante delle istituzioni. Cosa più importante, Moro lo indica come il grande regista del “Piano Solo”, il tentato colpo di Stato del 1964 che avrebbe dovuto instaurare in Italia una dittatura militare guidata dal generale De Lorenzo. I passaggi su Andreotti sono particolarmente forti, visto che si parla dei legami dell’allora presidente del consiglio con Michele Sindona e tra le righe si accenna ai rapporti di connivenza con Cosa Nostra.

Si parla del pesante condizionamento esercitato dai servizi segreti americani su tutta la vita politica italiana, della regia degli stessi nella cosiddetta strategia della tensione. A questo proposito, Moro lascia intendere come, in particolare su piazza Fontana, interi settori della Democrazia Cristiana furono sostanzialmente conniventi.
Autentiche bombe che, se rivelate nel 1978, avrebbero fatto saltare ben più di una poltrona.


Ma ciò che avrebbe destabilizzato l’intero sistema è altro, vale a dire il capitolo in cui Moro rivela alle BR l’esistenza di Gladio. Il paradosso più grande è che le Brigate Rosse, chiuse e ottuse nella loro politica fatta solo della più astratta ideologia e completamente a digiuno del più elementare principio di realtà, non seppero cogliere la portata di tale rivelazione.

In una storia così fitta di torbidi misteri e intrighi inquietanti come quella dell’Italia repubblicana, Gladio è il segreto per eccellenza. Un’organizzazione paramilitare clandestina del tipo “stay-behind” (letteralmente: stare nelle retrovie) in seno alla NATO, organizzata dalla CIA in funzione anticomunista e allo scopo principale di contrastare un’ipotetica invasione sovietica, che in Italia operò sotto la copertura dei governi della Democrazia Cristiana, con tanto di delega specifica per il ministro della difesa (per essere poi sciolta nel 1986).


La sua storia e il suo modus operandi furono tutt’altro che limpidi: ebbe stretti e accertati legami con la P2 di Gelli (tutti i vertici di Gladio erano al contempo iscritti alla loggia), ebbe un ruolo più che attivo nella preparazione del tentato colpo di Stato militare passato alla storia come “piano Solo”, fu spalla dei servizi segreti nella strategia della tensione, forti sospetti continuano a gravare circa rapporti con i vertici di Cosa Nostra. E ancora oggi possiamo dire di conoscere appena il 40% di quella storia così torbida e agghiacciante. Il resto – e probabilmente il peggio – è ancora avvolto da una spessissima coltre di mistero.


Ad ogni modo Gladio è la chiave di tutti i misteri legati al caso Moro, il perno attorno cui ruotano tutti quegli avvenimenti, il grande burattinaio capace di tirare in un colpo solo tutti i fili trattati ed esaminati fino a questo punto.


È Gladio, il timore che Moro possa rivelarla, la grande ossessione di tutti sin dal giorno del suo rapimento. La cosa terrorizza il governo, la Democrazia Cristiana, l’amministrazione americana, la CIA, i servizi segreti italiani. E tutti, a partire dai comitati di crisi istituiti da Cossiga, lavorano non per salvare Moro, ma il segreto di Gladio.

Il che spiega ogni inefficienza, ogni lungaggine, ogni assurdità di quei giorni, l’immobilismo, la rigidità incomprensibile della linea della fermezza, l’abbandono disumano in cui viene lasciato da subito lo statista, l’impegno incredibile profuso da ogni parte a rendere inattendibili le sue parole che disperate filtravano dalla prigionia attraverso le lettere.


Moro può anche morire, anzi forse deve morire, ma il segreto di Gladio deve restare tale. Perché è Gladio, non Moro, il vero ostaggio da liberare.

Per questo prima si fa di tutto perché Moro non parli e perché non venga creduto. E poi si fa di tutto per recuperare quelle carte.

Siamo nel 1978, in piena guerra fredda, e l’Italia è il delicato e traballante ago della bilancia dell’intero equilibrio internazionale. Far venire alla luce un segreto così pazzesco come Gladio in quel contesto avrebbe travolto, di colpo, l’intero sistema.

Basta guardare le date.

Casualmente l’appartamento di via Monte Nevoso viene riconsegnato al legittimo proprietario proprio nel 1990, subito dopo la caduta del muro di Berlino. Ovvero subito la fine della guerra fredda e di quegli equilibri di cui Gladio era uno degli oscuri architravi.

E altrettanto casualmente l’esistenza di Gladio viene pubblicamente e precipitosamente rivelata da Andreotti il 24 ottobre 1990. Sempre dopo la caduta del muro di Berlino, quando per quanto imbarazzante il segreto non è ormai più destabilizzante, ma soprattutto appena quindici giorni dopo il ritrovamento del “Memoriale”.
È credibile che siano tutte coincidenze?



4. Quanto ci importa di Moro?

Ma al di là del gioco delle casualità e delle coincidenze, è forse il caso che noi, dove per noi intendo noi cittadini italiani tutti, iniziamo a chiederci quanto ci importa realmente di Moro.
Le istituzioni hanno fatto di tutto per farlo morire prima e per dimenticarlo poi, inquinando a più non posso la verità sulla sua prigionia e sulla sua esecuzione, allontanandone la memoria e rendendo le sue parole semplicemente disperate, poco importanti dal punto di vista storico e politico.
Ma noi in cosa saremmo diversi?
Il “Memoriale” è lì, alla portata di tutti, scaricabile gratuitamente in pdf e leggibile in poche ore.
A chiare lettere c’è scritto che un presidente della repubblica, negli anni ’60, provò a organizzare un colpo di Stato militare per bloccare l’avanzata dei partiti di sinistra e le loro possibili alleanze con la parte più progressista della Democrazia Cristiana. C’è scritto che il sette volte presidente del consiglio Giulio Andreotti da sempre ha intrattenuto rapporti di piena connivenza con Cosa Nostra e torbidi rapporti con i servizi segreti americani. C’è scritto che la CIA e i servizi segreti nostrani appoggiarono e favorirono la strategia della tensione, la stagione delle bombe che per oltre un decennio, da piazza Fontana alla stazione di Bologna, uccisero brutalmente centinaia di cittadini innocenti. C’è scritto che interi settori della Democrazia Cristiana furono conniventi e silenziosi nella strage di piazza Fontana.


C’è scritto tutto questo e molto altro, ed è stato scritto non dall’ultimo dei complottisti, ma da chi quel Palazzo, quegli intrighi, quelle stanze così oscure e avvelenate le ha abitate e dirette, provando inutilmente a cambiarle, per oltre trent’anni.


Non è la piazza che accusa il palazzo, ma il palazzo che accusa sé stesso.
E noi sappiamo, e pur sapendo non facciamo niente e non ce ne importa niente.
Sappiamo e continuiamo a vivere nella più totale e oscena indifferenza.
Sappiamo e, quel che è peggio, facciamo finta di non sapere.







Edited by barionu - 27/4/2024, 21:19
 
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CAT_IMG Posted on 29/4/2024, 13:59
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Capitolo V

Il memoriale di Aldo Moro.





A trentacinque anni dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro restano
duecentoquarantacinque fotocopie del suo memoriale, una riproduzione degli autografi
dell’interrogatorio al quale venne sottoposto il leader democristiano durante la sua
prigionia. Il documento venne ritrovato in tre diversi momenti, nell’arco di dodici anni.
Otto pagine vennero allegate al comunicato numero cinque delle Brigate rosse, datato
10 aprile 1978, mentre quarantanove fogli furono ritrovati durante il sequestro dei
Carabinieri nel covo brigatista in via Monte Nevoso, il 1 ottobre dello stesso anno.
Durante dei lavori di ristrutturazione nello stesso appartamento, tenuto per anni sotto
sequestro, il 9 ottobre 1990 venne recuperata la terza parte. Un documento manoscritto,
poi battuto a macchina e fotocopiato dai carcerieri, che fu occultato, censurato e
disperso. Carmine Pecorelli, attraverso gli articoli di «Osservatore politico», lasciò
intendere d’aver visionato già dal 1978 la versione ritrovata ufficialmente nel 1990.


Le tre parti del memoriale

Il procedimento di stesura del memoriale dal carcere del popolo risultò complesso ed
articolato. Aldo Moro rispondeva in forma scritta ai quesiti delle Brigate rosse, le sue
risposte venivano battute a macchina e consegnate ad un comitato Br che valutava ed
eventualmente correggeva il testo. Successivamente la correzione veniva riconsegnata al
leader Dc, che riscriveva il testo a mano. Questi testi furono oggetto di studio da parte
dei massimi vertici politici italiani e dalla Stampa che, cercando d’interpretarne il
significato, si domandarono quanto vi fosse realmente di Moro in quelle parole. Lo
scritto contro Taviani, ad esempio, presentò alcune anomalie ed errori che suscitarono
perplessità nel gruppo democristiano. Il prigioniero attaccò lo «smemorato» Taviani, reo
d’aver smentito un’affermazione di Moro contenuta nella lettera a Zaccagnini del 4
aprile 1978. In questa nota il leader democristiano sostenne d’esser stato favorevole, nel
1974, alla trattativa per la liberazione del magistrato Mario Sossi255.




L’accusa destò
255 L’operazione «Girasole» avvenne a Genova il 18 aprile 1974. Mario Sossi, sostituto procuratore della
Repubblica presso la Corte di Genova e Pubblico Ministero nel processo al Gruppo XXII Ottobre nel
99
perplessità non solo per l’inesattezza della dichiarazione, in quanto Moro durante il
sequestro Sossi fu realmente per la non trattativa, ma in virtù del fatto che Emilio
Taviani fu uno dei pochi membri del partito a dichiararsi assolutamente disposto a
trattare con le Br per Moro. Taviani ed il gruppo democristiano si domandarono se
questo attacco ingiustificato potesse racchiudere qualche significato nascosto256. Lo
stesso accusato si domandò se Moro, correlando il sequestro del magistrato della Procura
della Repubblica di Genova e l’attacco rivoltogli, volesse far capire d’esser prigioniero
della colonna genovese. A distanza d’anni e con il Memoriale completo delle sue tre
parti, si è in grado di ricostruire e comprendere in maniera più esaustiva i significati ed i
collegamenti scritti dal leader democristiano durante la sua prigionia. I segnali di Moro a
Taviani furono diversi. In un brano dell’interrogatorio, Moro raccontò una conversazione
avuta con il deputato Franco Salvi, capo della sua segreteria politica fino al 1963,
riguardante la strage di piazza della Loggia257 a Brescia nel 1974




. Secondo Salvi, in
ambienti giudiziari bresciani si diffuse la convinzione che la Democrazia cristiana fosse
stata troppo indulgente sull’accaduto258. Aldo Moro ricordò nei dettagli la risposta data a
Salvi: «l’accusa, nata dall’effervescenza dell’emozione e vociferazione, era priva di ogni
consistenza. Ma auspicava che il deputato bresciano, non fosse come altri uno
“smemorato259”». In quell’attentato morì anche una parente di Salvi, che Moro non
mancò di citare nei suoi scritti. Una disperata strategia per comunicare con l’esterno
senza che i suoi carcerieri se ne rendessero conto. Una meticolosità nel descrivere
particolari dettagli, quasi a voler smentire i giornali che durante il sequestro parlarono di
un Moro «stoccolmizzato» o peggio, drogato dai suoi carcerieri. In un altro passo del
Memoriale ritornò sulla vicenda Salvi, raccontando ulteriori precisi dettagli e
1973, venne rapito sotto casa verso le otto di sera. Le Brigate rosse chiesero la liberazione dei loro
compagni in cambio della vita del magistrato. Venne rilasciato a Milano il 23 maggio 1974.
256 «Non mancarono quanti sospettarono la presenza di anagrammi e di messaggi in cifra nascosti tra le
righe. In un appunto datato 28 ottobre 1978 il giornalista dell’Ansa Marcello Coppetti annotò che un suo
collega de “Il Popolo” gli aveva rivelato come, durante il sequestro, avesse saputo che proprio nella
lettera su Taviani era presente una frase anagrammata che suonava così: sono sequestrato nei pressi della
Cassia. Coppetti, non poteva esimersi dall’osservare che via Gradioli, si trovava nei pressi della Cassia»,
MIGUEL GOTOR, Il memoriale della Repubblica, Einaudi, Torino 2011, p. 32.
257 La strage di piazza della Loggia avvenne il 28 maggio 1974 a Brescia, nella centrale piazza della
Loggia. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una
manifestazione contro il terrorismo neofascista. L'attentato provocò la morte di otto persone e il ferimento
di altre centodue.






258 «In ambienti giudiziari bresciani si era sviluppata la convinzione d’indulgenze e connivenze della Dc e
si faceva il nome dell’On. Fanfani», GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 25.
259 Ivi, p. 26.
100
commettendo due errori di rilievo. Il primo errore fu cronologico, quando la strage venne
collocata nel 1969; mentre la seconda svista riguardò gli incarichi costituzionali, dove
Moro invertì come ministro degli Interni Rumor al posto di Taviani. Il suo continuo
richiamo negli scritti di Moro e le due sviste narrative portarono a teorie non verificabili.
Probabile che Aldo Moro volesse tirare in ballo Emilio Taviani per alludere a Gladio e
convincere i pochi coinvolti ad utilizzare l’organizzazione per liberarlo dalle Brigate
rosse260.





Con l’operazione «Jumbo» del 1 ottobre 1978 il nucleo speciale del generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa colpì tre covi brigatisti situati nel quartiere milanese di Lambrate.
Nell’appartamento in via Monte Nevoso 8 venne scoperto un archivio, catalogato con
maniacale precisione, delle attività Br dal 1970 al 1978, un paio di macchine da scrivere
Olivetti (Lettera 35 e 32), centinaia di appunti fitti di analisi economiche, rassegne
stampa e diari. La scoperta più importante furono le due cartelline di colore azzurro
contenenti settantotto fogli dattiloscritti, di cui quarantanove fogli appartenenti al
Memoriale Moro. La verbalizzazione dei reperti presenti nel covo durò per cinque giorni
al termine dei quali i Carabinieri furono obbligati a lasciare l’appartamento. «La
decisione di ritirare i militari speciali in favore di quelli territoriali sarebbe stata il
prodotto di un compromesso ai vertici dell’Arma per evitare l’esplosione di un conflitto
aperto dalle imprevedibili conseguenze261».





In base alla versione ufficiale l’itinerario a
noi noto dei dattiloscritti di Moro fu il seguente:
nel pomeriggio del Iº ottobre Dalla Chiesa fece un breve sopralluogo nel covo con il
procuratore della Repubblica di Milano Mauro Gresti e il giudice istruttore di Roma
Achille Gallucci, nel frattempo giunto in aereo dalla capitale. Le carte di Moro
verbalizzate furono richieste in copia all’autorità giudiziaria dal ministro dell’Interno
Virginio Rognoni ai sensi del decreto del 21 marzo 1978. Secondo il generale Bozzo
vennero fotocopiate in via Moscova e dunque portate fuori dall’appartamento
quando erano già state verbalizzate per essere consegnate l’indomani dal generale
Dalla Chiesa nelle mani del ministro; secondo Rognoni il ricevimento della
documentazione sarebbe avvenuto dopo qualche giorno. A seguito di un’opportuna
260 VLADIMIRO SATTA, Odissea nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso la documentazione
della Commissione Stragi, Edup, Roma 2008, p. 331.
261 GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 58.
101
valutazione politica, il governo per volontà del ministro dell’Interno, decise di
pubblicarle per evitare polemiche, strumentalizzazioni ed eventuali fughe di
notizie262.




Il colonello Umberto Bonaventura, durante un’audizione della Commissione stragi del
23 maggio 2000, dichiarò che i documenti di Moro furono prelevati da Monte Nevoso
prima della verbalizzazione, per essere fotocopiati e consegnati al generale Dalla Chiesa.
Ma il 1 luglio 2000 il colonnello del Sismi, davanti alla magistratura romana, affermò
d’essersi sbagliato e corresse la sua versione ribadendo che le carte furono sottratte dopo
la loro verbalizzazione263. Nel suo libro di memorie, il capitano dei carabinieri Roberto
Arlati, presente durante l’irruzione nel covo brigatista, confermò la prima versione di
Bonaventura. Le carte uscirono alle ore 11 del 1 ottobre, sostarono nella sede dei
carabinieri di Milano in via della Moscova fino alle 17.30 e poi fecero ritorno nel covo,
dopo essere state esaminate dal generale Dalla Chiesa. Solo allora vennero verbalizzate.
Sostenne che Bonaventura prelevò le carte contro la sua volontà perché Dalla Chiesa
le voleva leggere in privato. Arlati avrebbe voluto che l’ufficiale fosse scortato da un
altro carabiniere, ma Bonaventura gli rispose nel modo più insinuante possibile
nell’ambito di un rapporto gerarchico fra militari e non solo: «E che fai, non ti fidi di
me? Tranquillo, giusto il tempo tecnico delle fotocopie. Ti faccio riavere tutto.
Insomma Roberto, te lo già detto. Faccio fare le fotocopie e ti restituisco il tutto»264.
Per Arlati l’incartamento, al ritorno in via Monte Nevoso, sembrò «lievemente più magro
di quello che aveva affidato al mattino a Bonaventura», inoltre sette ore parvero
decisamente troppe per una semplice commissione di fotocopiatura. Considerando che
Bonaventura ritrattò, trentacinque anni dopo i fatti, vi sarebbe dunque solo un testimone
oculare in grado d’affermare che i dattiloscritti uscirono dal covo prima di venire
verbalizzati.





Il dubbio sulla testimonianza di Arlati è legittimo, e restano inspiegabili le
motivazioni per cui il capitano abbia deciso di cambiare versione solo dieci anni fa,
262 Ivi, p. 60.
263 MANLIO CASTRONUOVO, Vuoto a perdere. Le Brigate rosse, il rapimento, il processo e
l'uccisione di Aldo Moro, Besa 2008, p. 414.
264 GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 62.
102
ricordando la sua indignazione, dopo la scoperta nell’intercapedine dell’appartamento
nel 1990, per coloro che azzardarono un’ipotesi di sparizione di materiale documentale.
Anche la magistratura milanese dichiarò davanti alla Commissione stragi di ritenere che i
carabinieri non potessero aver compiuto tale atto, difendendo la memoria di Dalla
Chiesa265. In un’intervista del Corriere della Sera del 19 aprile 1993, inoltre, Franco
Bonisoli, ex brigatista presente alla strage di via Fani, affermò che tutti gli interrogatori
dell'onorevole Moro furono ritrovati e pubblicati.
Per quanto riguarda le carte ritrovate nel 1990 sono convinto che si sia trattato di un
errore umano. E mi spiego. Quando mi arrestarono, pensai: hanno trovato le carte di
Moro. Erano, infatti, lì nel mio appartamento. Qualche giorno dopo, quando lessi il
verbale della perquisizione, fatto dai carabinieri, e non trovai segnate quelle carte,
oltre a cinquanta milioni che erano sempre conservati in via Monte Nevoso,
cominciai però a dubitare. Vuoi vedere che qualcuno all' interno degli apparati dello
Stato li ha trafugati? Era un chiodo fisso: vogliono eliminare, continuavo a ripetere,
la prova che il contenuto dei dattiloscritti di Moro, già pubblici, è autentico. Nel
1990, all'indomani della seconda scoperta di via Monte Nevoso, fui interrogato dal
sostituto procuratore Ferdinando Pomarici. Mi mostrò le foto del covo scattate dai
carabinieri dopo l'irruzione nel 1978. Riuscimmo a fare una ricostruzione dettagliata
di quanto avvenuto. Capii che i carabinieri dei nuclei speciali, che noi delle Brigate
Rosse consideravamo infallibili, avevano commesso un errore. Nell'appartamento
c'era tanto materiale. Moltissimi documenti. Ovunque. Ebbene, quegli stessi
carabinieri non avevano ritenuto necessario cercare ulteriori piccoli e normalissimi
nascondigli. […





] Era un nascondiglio che ritenevamo una semplice precauzione nel
caso fossero entrati in casa o ladri o persone comunque esterne all'organizzazione.
Mi sembra normale. Le fotocopie integrali degli interrogatori di Moro erano in quel
nascondiglio266.
265 «Non in questo caso, in particolare non con quei carabinieri. Con loro, ho condiviso più notti di quante
non ne trascorressi a casa mia in quel periodo con i miei figli», il pubblico ministero Armando Spataro
alla Commissione Stragi, Ivi, p. 67.
266 Intervista a Franco Bonisoli, «Corriere della Sera», 19 aprile 1993.
103
Nel 28 maggio 1993, l’ex sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei
ministri, Franco Evangelisti raccontò di un incontro notturno avuto con Dalla Chiesa
l’indomani di Monte Nevoso.
Venne a trovarmi verso le due di notte e mi fece leggere un dattiloscritto di circa
cinquanta pagine, nelle quali si parlava anche di me, e mi disse che proveniva da
Moro e che il giorno successivo lo avrebbe consegnato ad Andreotti. Non ho saputo
se effettivamente Dalla Chiesa si sia recato da Andreotti267.
Il 6 ed il 7 ottobre 1978, «Repubblica» pubblicò tre articoli riguardanti presunte
rivelazioni sulle carte di Moro sottratte dal covo brigatista. Si tratta degli articoli di
Giorgio Battistini Altre due lettere inedite e Tutto contro Andreotti il memoriale di Moro.
Sono stati svelati anche segreti di Stato? ed Il generale tace e il giudice ignora di
Giorgio Bocca. Sebbene inizialmente questi articoli causarono un caos politico, la scelta
dei giornalisti di mantenere segreta la loro fonte rese inattendibile e quasi fantasiosa la
denuncia di Repubblica. La fonte segreta venne rivelata nel processo di Palermo contro
Giulio Andreotti del 7 novembre 1995. Battistini confessò d’aver avuto una serie
d’incontri segreti con il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, uomo fidato di Dalla
Chiesa.




Galvaligi mi disse che il generale Dalla Chiesa era entrato nel covo di via Monte
Nevoso alcune ore prima che arrivassero i magistrati e che con il materiale originale
rinvenuto (una settantina di cartelle dattiloscritte con errori di battitura, un nastro
registrato e/o una videocassetta) era stato portato a Roma da due ufficiali dei
carabinieri “a qualcuno molto in alto… a chi di dovere. Galvaligi usò queste
espressioni, ma non volle assolutamente farmi il nome di questa persona, che
comunque non apparteneva né alla magistratura, né all’Arma dei Carabinieri, bensì
al mondo politico istituzionale. Aggiunse che il materiale portato a Roma conteneva
parti in cui Moro parlava in termini molto duri di fatti riguardanti Andreotti. Parlava
di questo materiale e del suo contenuto in termini tali da indurmi a pensare che egli
l’avesse personalmente visionato268.




267 Franco Evangelisti cit. in GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 105.
268 Giorgio Battistini cit. in GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 97.
104
A seguito di tale incontro, il giornalista tornò in redazione e raccontò di quanto avvenuto
al direttore del giornale, Eugenio Scalfari. Quest’ultimo suggerì di contattare
telefonicamente Galvanigi per assicurarsi che fosse la stessa persona incontrata da
Battistini. Confermata l’identità dell’uomo decisero di pubblicare la notizia tacendo la
fonte e sdoppiando la responsabilità della pubblicazione, coinvolgendo anche una firma
di prestigio del quotidiano come Giorgio Bocca. La versione dei fatti venne confermata
davanti ai magistrati da Scalfari, Giorgio Bocca e da Giampaolo Pansa, anche lui al
corrente dei fatti. Il militare chiese un ulteriore incontro con Battistini il giorno
successivo, il 7 ottobre 1978.





In quella circostanza precisò che nel memoriale si affrontavano diciassette
argomenti, dall’inizio della militanza politica di Moro nell’azione cattolica, ai
rapporti internazionali, ai servizi segreti e ai misteri di Stato e che, in alcuni di essi,
Moro attaccava pesantemente il presidente del Consiglio Giulio Andreotti269.
Negli anni successivi al rapimento Moro, dunque, una serie di dichiarazioni lasciarono
intendere che più di un testimone oculare avesse letto già dal 1978 la versione che
venne ritrovata ufficialmente solo nel 1990. Altri testimoni affermarono d’aver
visionato un’ulteriore versione di memoriale che non corrispose, per ampiezza, ai
dattiloscritti divulgati dal governo il 17 ottobre 1978 ed alle riproduzioni dei manoscritti
ritrovati nel 1990. Tra questi, Carmine Pecorelli.
«Osservatore politico» contro lo Stato.




Nell’articolo del 10 ottobre 1978 Verità di ieri tragedie di oggi, Carmine Pecorelli
risollevò la questione della trattativa per la liberazione di Moro. Prendendo ad esempio i
segreti accordi dello Stato con i terroristi palestinesi, liberazione di prigionieri politici in
cambio d’immunità terroristica territoriale, colse l’occasione per aggredire le scelte
politiche nei confronti delle Brigate rosse.
269 Ivi, p. 98.
105
Con assoluta lucidità mentale (dove sono andate a finire le menzogne di Zaccagnini
e Cossiga a proposito di Moro drogato, Moro fuori di sé, Moro impazzito?) [nelle
sue lettere] Moro ha tracciato una perfetta analogia tra la sua condizione di
prigioniero minacciato di morte da terroristi politici organizzati e quella di tanti e
tanti innocenti e ignari italiani che negli ultimi anni hanno corso il pericolo di
perdere la vita in attentati e stragi minacciati dai palestinesi. «Dunque non una ma
più volte furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche
condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in
essere se fosse continuata la detenzione». Moro si riferisce a quell’accordo anomalo
stabilito al di fuori dello Stato ma sotto il controllo dello Stato, grazie al quale l’Italia
non è stata teatro di quei dirottamenti aerei, stragi ed attentati che tante vittime e
danni hanno provocato in Europa a partire dal’72. In quell’anno agenti del Sid
informarono il governo che terroristi palestinesi stavano preparando attentati agli
aeroporti italiani. Rumor e Moro giudicarono che l’unica strada per impedire che
l’Italia diventasse terreno di manovra dei palestinesi era quella di trattare con
Habash270 una sorta di mutuo patto di non aggressione. L’accordo stabilito dal Sid,
con l’unica misteriosa eccezione della strage di Fiumicino271, fu sempre rispettato. A
questo punto non resta che da chiedersi perché quelle trattative anomale impossibili
ed inammissibili in forma ufficiale, ma tuttavia stabilite dal superiore interesse dello
stato con i terroristi palestinesi, sono state prontamente scartate quando si trattava di
salvare la vita di Moro. Perché si è preferito seguire la grottesca via di Cossiga con i
suoi blocchi stradali, le mobilitazioni generali dell’esercito, le perquisizioni a caso su
interi quartieri, una via buona per far saltare i nervi ai custodi di Moro, e avvicinare
l’ora della tragedia finale, quando l’unica strada vincente conosciuta dallo Stato, una
strada che avrebbe consentito alle istituzioni di uscire dalla vicenda Moro con
fermezza e dignità rafforzate, era quella di trattative, anche se lunghe e laboriose?272
«Osservatore politico» ripropose la tesi secondo la quale i brigatisti si sarebbero potuti
accontentare di uno scambio simbolico da parte dello Stato, proprio come con i
270 George Habash fu il fondatore del Movimento nazionalista arabo, dalla cui sezione palestinese nacque
il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina nel 1967.




271 Il 27 dicembre 1985 un gruppo di uomini armati, dopo aver gettato bombe a mano, aprirono il fuoco
con raffiche di mitra sui passeggeri in coda per il check-in dei bagagli presso gli sportelli della compagnia
aerea nazionale israeliana El Al e della americana TWA, colpendo le loro vittime in modo indiscriminato.
272 Verità di oggi tragedie di oggi, «Osservatore politico», 10 ottobre 1978.
106
palestinesi. Allo stesso tempo mosse il dubbio che la liberazione del prigioniero sarebbe
potuta risultare scomoda per alcune strutture statali.
Ieri, trattare con i palestinesi non provocava alterazioni negli equilibri politici di
Montecitorio, Piazza del Gesù e Palazzo Chigi. Trattare con le Br invece, seguire la
via delle lettere, riportare Moro sano e salvo alla guida della Dc o addirittura al
Quirinale, avrebbe provocato un terremoto: il recupero di quelle strutture dello Stato
colpevolizzate e emarginate grazie ad istruttorie giudiziarie pilotate, e la fine della
cordiale, troppo cordiale intesa, tra il Partito comunista di Berlinguer e la Dc di
Zaccagnini. Per scongiurare pericoli del genere, è piccola cosa anche un sacrificio
umano. Dio solo sa quanto male può venire da questo male273.
Pecorelli incalzò la sua tesi nel successivo articolo del 17 ottobre 1978:
Diciamolo chiaro, in agosto Dalla chiesa sapeva già come e dove colpire le Br.
Probabilmente avrebbe saputo cosa fare anche in epoca precedente. Allora perché si
è ricorsi a lui soltanto a settembre? Perché non si è chiamato Dalla Chiesa subito
dopo la strage di via Fani, quando Moro, ancora vivo, era nelle mani delle Br? Uno
Stato, forte di un Dalla Chiesa, avrebbe potuto avviare trattative con i terroristi con
grosse probabilità di successo, specie disponendo di qualche buona pedina di
scambio. Purtroppo non era gradito alla maggioranza dell’arco quel “partito delle
trattative” che consigliava non già di cedere alla violenza, ma di salvare la vita di
Moro attraverso più duttili e meno pubblicizzati comportamenti dello Stato e delle
forze dell’ordine. Cossiga e Pecchioli, Zaccagnini e Berlinguer, intendevano
sfruttare l’emozione popolare provocata dal sequestro Moro per costruire un partito
unico, “cattocomunista”, e chiamavano a raccolta le piazze “bianche” e “rosse” in
nome di una non meglio precisata emergenza. Prima di rivolgersi all’Arma dei
carabinieri, prima di unificare nelle mani di un vero tecnico il comando
dell’antiterrorismo, hanno preferito attendere che si maturasse l’uva e si compisse il
peggio274.




273 Ibidem.
274 Perché solo adesso?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
107
Nel successivo articolo, pubblicato sotto forma di lettera al direttore, un immaginario
abbonato di «Op» pose al giornalista delle domande alla quale Pecorelli rispose
immediato. Si tratta di un testo pieno d’allusioni, virgolette, punti di sospensione, in un
immaginario botta risposta.
Signor Direttore, permetta un piccolo scritto da un suo affezionato lettore, che dopo
l’estate si è posto una domanda: «Cossiga sa tutto su Moro ma non parla?». E si è
risposto da solo: «non parlerà mai, altrimenti…» […]. Dice: ma il ministro non ne
sapeva niente, la Digos non ha scoperto nulla. I servizi poi… Si ribatte: il ministro di
polizia sapeva tutto, sapeva persino dov’era tenuto prigioniero; dalle parti del
ghetto… Dice: il corpo era ancora caldo… perché un generale dei Carabinieri era
andato a riferirglielo di persona nella massima segretezza. Dice: perché non ha fatto
nulla? Risponde: il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire
più in alto e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla loggia di Cristo in
Paradiso?275




Secondo questo articolo la prigione di Moro venne individuata senza nessuna difficoltà
dalla polizia che sarebbe stata bloccata da Cossiga. Il ministro, prima d’agire, avrebbe
dovuto consultare quella che Pecorelli definì «entità superiore», probabilmente
alludendo alla Loggia massonica Propaganda Due276.
Fatto sta, si dice, che la risposta il giorno dopo di quando il ministro la sentenziò fu
lapidaria: «Abbiamo paura di farvi intervenire perché se per caso ad un carabiniere
parte un colpo e uccide Moro, oppure i terroristi lo ammazzano, poi chi se la prende
la responsabilità?». Risposta da prete. Non se ne fece nulla e Moro fu liquidato
perché se la cosa si fosse risaputa in giro avrebbe fatto il rumore di una bomba! […]
C’è solo da immaginarsi, caro Direttore, chi sarà l’Anzà277 della situazione: ovvero
275 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
276 «Un superpotere che il giornalista insinua essere la P2 con le parole “due piedi” e “loggia di Cristo”»,
FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370.
277 «Il generale Antonino Anzà venne ritrovato morto nel suo studio il 12 agosto 1977. L’ufficiale era
stato colpito da un colpo di pistola alla testa, nella sua casa di Roma. L’immediata versione dei fatti
attribuisce il decesso al suicidio, ma l’arma era appoggiata alla scrivania, a due metri di distanza dal
corpo. Qualche giorno prima, a Messina, anche il colonnello Giansante venne ritrovato morto. In quel
periodo, si scoprirà successivamente, erano in gioco gli avvicendamenti al vertice degli stati maggiori di
Esercito e Difesa ed all’interno dei Corpi erano sorte faide per aspirare alle due cariche», GUARINO –
108
quale generale dei Cc sarà ritrovato suicida con una classica revolverata che fa tutto
da se, o col solito incidente d’auto radiocomandato, o la sbadataggine dei camionisti
spagnoli, o d’elicottero278. Sotto a chi tocca: chi sfida l’Internazionale fa questa fine
in questa Italia democratica. […] Purtroppo il nome del Generale Cc è noto279:
Amen280.






Tracce del memoriale negli articoli di «Osservatore politico». Pecorelli sapeva?
Nel’articolo del 17 ottobre 1978 intitolato Fase di attesa, il giornalista espresse i suoi
dubbi sulla effettiva quantità di materiale sequestrato nel covo di Monte Nevoso. Con
toni interrogativi espresse la sua convinzione riguardo alla possibilità che determinate
prove scomode potessero essere state insabbiate, tra le quali accennò ad un verbale e ad
alcune bobine degli interrogatori effettuati dalle Br con il prigioniero.
Il fatto politicamente più importante è stato certamente la brillante operazione
condotta dai Carabinieri del generale Dalla Chiesa contro le Brigate rosse a Milano
che ha tuttavia aperto, come è ormai consuetudine, numerose polemiche circa il
numero e l’identità degli arrestati, circa la quantità e la qualità del materiale
sequestrato. Ci sono o non ci sono le bobine con gli interrogatori di Moro, c’è o non
c’è il memoriale-verbale di questi stessi interrogatori? I magistrati sono arrivati
buoni ultimi a prendere visione di tutto ciò, e quali politici ne sono già al corrente
avendo avuto la possibilità di operare qualche prudenziale censura?281
Il primo indizio d’una lettura precoce del memoriale da parte di Pecorelli lo si può
trovare nello stesso numero di «Osservatore politico», nell’articolo Necrologi &
Memoriali. In tale scritto il giornalista commentò la morte, avvenuta a Lugano il 29
settembre 1978, del politico democristiano Giuseppe Arcaini. Deputato alla Costituente e
sottosegretario al Tesoro dal 1954 al 1957, Arcaini venne nominato direttore dell’istituto
RAUGEI, Gli anni del disonore. Dal 1965 il potere occulto di Licio Gelli e della loggia P2 tra affari,
scandali e stragi, Dedalo, Bari 2006, p. 155.
278 Carmine Pecorelli si riferì al generale dell’Arma dei carabinieri Enrico Mino, coinvolto in un incidente
mortale, dalle circostanze misteriose. L’elicottero precipitò su monte Covello, Catanzaro, il 31 ottobre
1977, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370.
279 «Qui Pecorelli allude in modo piuttosto chiaro al generale Dalla Chiesa», Ibidem.
280 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
281 Fase di attesa, Ivi, 17 ottobre 1978.
109
di Credito delle Casse di Risparmio italiane, chiamato Italcasse. Coinvolto nello
“scandalo Italcasse”, si dimise nel 1977 con l’accusa di peculato, interesse privato verso
alcuni fondi neri e mutui concessi ad amici imprenditori ed al mondo politico. Nel
1977282 «Osservatore politico» pubblicò l’elenco, completo di codici bancari, di una
serie d’assegni incassati dalla Democrazia cristiana, in particolar modo da Andreotti, in
cambio di finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto283. Nel numero del 17
ottobre 1978 Pecorelli scriveva:
Morto il grande elemosiniere, i grandi elemosinati sono usciti dall’incubo. Arcaini
ha comunque lasciato in mani sicure un lungo memoriale per difendere il suo onore e
quello dei figli. Che succederebbe se nei prossimi giorni alle lettere di Moro si
aggiungesse la voce di questo secondo sepolcro?284
Il dato rilevante è l’appellativo con cui Pecorelli definì Arcaini «grande elemosiniere».
In relazione al direttore di Italcasse Aldo Moro usò la stessa denominazione, sebbene il
riferimento sia riscontrabile solamente nella versione del memoriale ritrovata
ufficialmente nel 1990. Pecorelli inoltre si ripeté nell’articolo Intanto Caltagirone si
compra un’altra banca del 24 ottobre 1978, collocando la stessa espressione tra le
virgolette. Tale accorgimento potrebbe apparire come una chiara intenzione, del
direttore Op, di dimostrare la sua pericolosa conoscenza riguardo gli interrogatori Br e
la vicenda Italcasse. Nel 1978 l’unico accenno allo scandalo si trovò negli articoli di
Galvaligi pubblicati da Repubblica, sebbene poco rilevanti poiché riferiti a dattiloscritti
non firmati e dunque non attribuibili ad Aldo Moro. Sebbene non vi sia certezza
riguardo la prematura visione degli scritti morotei da parte di Carmine Pecorelli, né si
conoscono le reali intenzioni del giornalista, «Osservatore politico» continuò ad offrire
indizi che potrebbero avvalorare tale ipotesi. Li riscontriamo nell’articolo Filo rosso del
17 ottobre 1978, nel quale si parlò di quattro polaroid di Moro dei giorni della prigionia
e centocinquanta fogli di carta extrastrong scritti dallo stesso presidente. Circostanze
282 Presidente Andreotti a lei questi assegni chi glieli ha dati?, «Osservatore politico», 14 ottobre 1977.
283 «Contributi a fondo perduto che l’Italcasse aveva elargito, fra gli altri, al gruppo chimico Sir di Nino
Rovelli, ai fratelli Caltagirone e alla società “Nuova Flaminia”, facente capo a Domenico Balducci,
organico alla banda della Magliana e al mafioso Giuseppe Calò», GOTOR, Il memoriale della
Repubblica, p. 225.





284 Necrologi & Memoriali, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
110
che vennero riscontrate solamente nel 1990. L’articolo Non c’è blitz senza spina,
contenuto nel numero del dossier del 24 ottobre 1978 Caso Moro: memoriali veri
memoriali falsi, gioco al massacro, fece riemergere la questione dei verbali
dell’interrogatorio Br già citati la settimana precedente.
Dalla Chiesa ha trovato ad attenderlo una bomba senza spoletta. Accanto a
documenti strategici di grande importanza e probabilmente sottovalutati dagli
inquirenti, accanto ad alcune mappe di prigioni sicure, all’elenco dei nomi di alcuni
capi colonna per la prima volta dimenticati in un nido terrorista, accanto alle schede
segnaletiche di alcuni nemici del popolo da sparare al più presto, c’erano:




- la ricostruzione del sequestro di Moro, secondo il punto di vista della Direzione
strategica dei brigatisti;
- considerazioni autocritiche sull’operazione militare di via Fani e sulla gestione
degli sviluppi;
- il memoriale scritto da Moro durante i 54 giorni di prigionia;
- gli schemi di alcune lettere che Moro non fece in tempo a scrivere;
- i testi di 6 lettere complete, anch’esse non inviate al destinatario;
- alcuni nastri con la viva voce del memoriale Moro285.
Pecorelli rispose agli interrogativi posti nel precedente articolo fase di attesa del 17
ottobre, lo fece evidenziando la notizia in corsivo quasi a volerne sottolinearne la portata.
Nello stesso articolo, non c’è blitz senza spina, si parla di stralci del memoriale riferiti a
Miceli e De Lorenzo.




[b]Il memoriale Moro è un detonatore. Consegnato subito alla magistratura, il materiale
rinvenuto da Dalla Chiesa era protetto dal più rigoroso segreto istruttorio286.
[/b]


Ciònonostante due settimanali hanno pubblicato alcuni passi a loro avviso tratti dal
memoriale287. Non è la prima volta che in Italia il segreto istruttorio non viene
rispettato. Ma qui si tratta di affermazioni gravissime scagliate contro l’intero attuale
staff del partito di maggioranza, di accuse specifiche e ben determinate che
285 Non c’è blitz senza spina, «Osservatore politico», 24 ottobre 1978.
286 «Il segreto istruttorio è valido per il materiale effettivamente consegnato alla autorità giudiziaria: ma
Pecorelli ha già scritto che i magistrati arrivarono per ultimi, dopo che sul materiale era calata una
prudenziale censura», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 374.



287 Probabilmente Carmine Pecorelli si riferiva anche alla vicenda Galvaligi.
111
coinvolgono personaggi di spicco nei più clamorosi casi giudiziari degli ultimi
vent’anni. Chi avrebbe mai azzardato la carriera per favorire un giornalista amico?
La custodia del segreto giovava sia all’esecutivo che ai partiti dell’area di governo,
ma frasi, dettagli, giudizi di Moro, allusioni ai risvolti istituzionali dello scandalo
Lockheed, a Piazza Fontana, all’Italcasse, hanno egualmente raggiunto certa stampa,
polarizzando subito l’attenzione dell’opinione pubblica. Se il detonatore è il
memoriale, la bomba è proprio questa degli scandali e delle rivelazioni. […] C’è chi
sostiene che quegli stralci del memoriale Moro che si riferiscono a Miceli e De
Lorenzo non possono che essere veritieri288.



Il memoriale del 1978, in effetti, riportava ampi brani relativi a De Lorenzo. Mentre né
quello del 1978, né la versione manoscritta del 1990 si soffermava su Vito Miceli, il cui
nome compare solamente in una citazione relativa alla strategia della tensione. Da
sottolineare che in questo unico passaggio relativo a Miceli ed ai servizi segreti, Moro
inserì un doppio rimando289 che ad oggi non ha ancora trovato corrispondenza in nessuna
carta del memoriale. Che cosa volesse dire realmente Pecorelli non è possibile stabilirlo,
ma è un primo indizio per coloro che sostengono la teoria dell’esistenza di un Urmemoriale
di Moro, un testo tutt'oggi censurato e coperto da segreti di Stato. Nei
successivi numeri di «Osservatore politico» si continuò a parlare di un presunto
Memoriale censurato, sollevando dubbi sull’integrità delle carte che vennero rese note
nel 1978. Nel numero del 31 ottobre 1978, Carmine Pecorelli sottolineò due gravi
contraddizioni a riguardo.



La lettura del testo del memoriale Moro diffuso a cura del ministero dell’Interno, che
ha già sollevato dubbi sulla sua integrità e sulla genuinità, presenta due altre gravi
contraddizioni ancora da risolvere:
- nel memoriale, Moro sembra convinto che le sue ammissioni – confessioni
gli possano servire per la libertà. La contraddizione è questa: come poteva
un Moro, tutto sommato lucido, credere che il racconto di fatti già noti,
288 Non c’è blitz senza spina, «Osservatore politico», 24 ottobre 1978.
289 «Ho già detto altrove – ho già detto», GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 231.
112
senza aggiunta di particolari significativi e nuovi, potesse farlo uscire sano e
salvo dal carcere delle Br?290
A questa contraddizione si rispose sostenendo la tesi di una marcata carenza teorica delle
Brigate rosse, un gruppo dunque efficiente dal punto di vista operativo ma incapace di
comprendere le reali verità che Moro avrebbe potuto rivelargli. Secondo Pecorelli questa
ipotesi è insostenibile.
A Milano, oltre al memoriale in due copie, sono stati trovati ben cinquemila
documenti inventariati, tra i quali alcuni che per una corretta interpretazione
richiedono un buon livello di competenza, tale dunque da rendere i carcerieri –
interroganti (o chi poi doveva ascoltare le bobine o leggere le trascrizioni291) in
grado di capire il valore insignificante delle dichiarazioni del presidente della Dc.
Gli interrogativi a questo punto si sommano spontanei: è vero che le Br hanno
promesso a Moro la libertà in cambio di determinate dichiarazioni? Il testo delle
dichiarazioni è stato, diciamo così, “concordato” tra Moro e i suoi carcerieri in modo
da assumere una intonazione antidemocristiana ma non eccessivamente
destabilizzante? Esiste infine un altro memoriale in cui Moro sveli invece importanti
segreti di Stato?292
Come sappiamo questo interrogativo verrà risolto in via Monte Nevoso nel 1990, quando
vennero ritrovate fotocopie dei manoscritti dove il leader Dc affrontò tematiche che nel
1978 sarebbero state altamente destabilizzanti per il mondo politico. Nello specifico e
principalmente riguardanti la struttura segreta della Nato «Stay Behind» e «Gladio». Nel
paragrafo successivo, Caso Moro. Un memoriale mal confezionato, Pecorelli dimostrò
d’essere a conoscenza delle manipolazioni subite dal memoriale.
La bomba Moro non è scoppiata. Il memoriale, almeno quella parte recuperata nel
covo milanese, non ha provocato gli effetti devastanti tanto a lungo paventati […].
290 Contraddizioni e nuovi interrogativi, «Osservatore politico», 31 ottobre 1978.
291 Pecorelli insiste sull’esistenza di bobine degli interrogatori che tutt’oggi non sono presenti.
292 Ibidem.
113
Giulio Andreotti è un uomo molto fortunato ma a spianare il suo cammino questa
volta hanno contribuito una serie di circostanze, solo in parte fortuite293.
Ne diede prova, ancora, nei successivi numeri. In Brigate senza generali, infatti,
«Osservatore politico» sottolineò nuovamente che il memoriale reso pubblico non fu
tutto il memoriale scritto da Aldo Moro. Pecorelli mosse forti critiche nei confronti delle
Brigate rosse, colpevoli di non aver fatto trapelare nessuna notizia, rendendo gli scritti
innocui.



Ce li avevano dipinti come superuomini, invincibili e imprendibili banditi che
coprono di sangue via Fani, sequestrano ed uccidono Aldo Moro, entrano ed escono
a piacere dai più sorvegliati ed esclusivi uffici della capitale, infiltrano le loro spie in
alcuni delicati ministeri. Programmati come computer avveniristici, i terroristi delle
Brigate rosse diventati interlocutori di Paolo VI e del presidente dell’Onu294,
sembravano dei satelliti artificiali al paragone della fariginosa macchina del nostro
Stato. Che resta di quest’immagine di efficienza e di perfezione, dopo la
pubblicazione del dossier Moro? Dov’è la loro intelligenza superiore, è questo il
cervello del partito armato della rivoluzione? Perché sosteniamo che le Brigate rosse
sono un esercito di killer senza cervello e senza idee? È lo stesso memoriale Moro a
parlare. Anche se resta da stabilire perché “la Repubblica” dell’8 ottobre scriveva:
«Ieri è arrivata la conferma della magistratura. Le settanta pagine del dossier ci
sono», e perché il verbale del processo Moro distribuito alla stampa dal Viminale è
di solo quarantanove cartelline; anche se resta da stabilire se è tutto qui il materiale
raccolto dalle Br in cinquantaquattro giorni di interrogatori, posto che per compilare
cinquanta cartelle occorrono tre ore di conversazione, il memoriale Moro che tutti
conosciamo è tutto di Moro, cioè è tutto vero. Gli unici sbagliati sono gli
interlocutori. Lo abbiamo letto più volte, con grande attenzione. Non contiene nulla
che non sapesse già l’ultimo degli uscieri di Palazzo Madama. Sono forse
sensazionali i giudizi personali di Moro su Andreotti, sono forse sensazionali le
rivelazioni sulla «strage di Stato» o sulle faide tra ministeri per il controllo dei
293 Caso Moro. Un memoriale mal confezionato – L’ultimo messaggio è il primo, «Osservatore politico»,
31 Ottobre 1978.
294 GIACOMO FIORINI, Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Interventi di Paolo VI. Dibattito e
Riflessioni, Università degli studi di Padova, tesi di laurea, rel. Prof. G. Romanato, a.a. 2007 - 2008.
114
servizi segreti? È roba trattata con larghezza di immaginazione da “Lotta continua” e
dalla stampa extraparlamentare295.
Dopo due mesi di silenzi sull’argomento, «Osservatore politico» tornò a parlare del
memoriale Moro, il 2 gennaio 1978, nell’articolo Silenzio di regime sul primo furto in
casa Moro. La tematica principale riguardò il furto nell’ufficio di Moro in via Savoia,
avvenuto nel dicembre del 1975, di alcuni documenti riguardanti il golpe Borghese.
Secondo il giornalista, il leader democristiano avrebbe voluto non far trapelare la notizia
di tale sottrazione di documenti, notizia che venne comunque trapelata alla stampa.
La storia del caso Moro deve essere ancora scritta. I retroscena della vicenda sono
ancora misteriosi e chissà ancora per quanto resteranno tali. Ai cronisti sembra
essere sfuggito, tra l’altro, un episodio: il furto verificatosi nell’ufficio di Aldo Moro
fra il Natale e il Santo Stefano del 1975. I ladri mirarono ad impossessarsi solo di
documenti. E non va dimenticato che in via Savoia 85 prestavano servizio di
sorveglianza una gazzella della Polizia e una Alfetta dei Carabinieri! Si trattò di ladri
tanto in gamba da farla in barba al servizio di vigilanza? O bisogna sospettare il
peggio?




Possiamo affermare che Moro, appena saputo dell’accaduto, esattamente il 27
dicembre, chiamo al telefono l’allora comandante generale dell’Arma dei
carabinieri, gen. Mino, per chiedergli di tacere sul fatto ed adoperarsi affinché la
notizia non venisse divulgata. Tuttavia il 28 dicembre qualche agenzia diffondeva un
breve e conciso comunicato sulla vicenda. Quale era il contenuto degli incartamenti
trafugati? Negli ambienti della Procura di Roma, da dove secondo i Carabinieri la
notizia era stata passata alla stampa, c’era chi sosteneva che tra le cartelle sottratte vi
fosse un dossier sul golpe Borghese. […] Del resto era notorio che Moro nutrisse un
particolare interesse per quella istruttoria, dato che dietro di essa si nascondeva la
mano di un suo collega di partito. La cosa trova conferma nelle affermazioni di
Moro prigioniero, secondo le quali tutto il processo Borghese è stato manipolato per
fini personali e politici. Moro sapeva molto sul golpe Borghese. E sapeva bene chi
era l’autore della macchinazione296.



295 Brigate senza generali, «Osservatore politico», 31 Ottobre 1978.
296 Silenzio di regime sul primo furto in casa Moro, «Osservatore politico», 2 gennaio 1979.
115




Occorre soffermarsi su due importanti punti di questo articolo. Secondo Pecorelli la
«mano del collega di partito» sarebbe stata quella di Giulio Andreotti297, opinione che il
giornalista espresse in diversi numeri di «Op»298. In secondo luogo, nelle carte di Moro
ufficialmente ritrovate, non vi furono affermazioni su quello che disse Pecorelli, non vi è
accenno nella versione dattiloscritta del 1978 né in quella in fotocopia di manoscritto nel
1990. Un ulteriore indizio sulla incompletezza del memoriale Moro ritrovato fino ad
oggi, che va ad aggiungersi agli interrogativi riguardanti la parte del documento relativa
ai comportamenti dei servizi segreti e di Miceli. Il 16 gennaio 1979 nell’articolo
Terrorismo, antiterrorismo e riforma di polizia, Pecorelli mise in dubbio tutta la
ricostruzione ufficiale del caso Moro. Lasciò intendere di conoscere molte verità della
vicenda, annunciando di volerle rivelare.



Si è permesso così il dilagare di quella violenza che nel 1978 ha generato la morte di
ventinove persone, cinquanta feriti per attentati, ottantasei tra poliziotti e carabinieri
finiti all’ospedale per scontri di piazza e circa mille automobili distrutte. A questi
vanno aggiunti circa tremila attentati contro edifici pubblici, privati, sedi di partiti
politici, caserme della pubblica sicurezza, dei carabinieri, delle forze dell’ordine in
genere. Violenza politica che ha raggiunto il suo apice con l’uccisione Moro. Aldo
moro che pensava di essere liberato dalle Brigate rosse, e che temeva di rimanere
ferito in un conflitto a fuoco tra i carabinieri ed i suoi carcerieri, come ha pubblicato
“Panorama” in un articolo non firmato, notizia che avrebbe attinto dai documenti
sequestrati nel covo del brigatista Alunni, notizia che viceversa nel memoriale
diffuso dal ministero degli Interni non risulta. Ma torneremo a parlare di questo
argomento, del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbotto azzurro visto in via
Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine
servite all’operazione, del prete contattato dalle Brigate rosse, della intempestiva
lettera di Paolo, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse,
degli sciacalli che hanno giocato al rialzo, dei partiti politici che si sono arrogati il
297 «In una lettera testamento attribuibile al principe Borghese e attualmente agli atti della Procura di
Brescia, si affermava che l’autore della telefonata di contrordine al tentativo di golpe era stato Andreotti
in persona», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 234




.
298«Sempre più strano questo processo al golpe Borghese. Potrebbe svolgersi tutto nell’anticamera dello
studio di Andreotti. Pensate: andreottiano il Pm Vitalone, andreottiana la longa manus della legge (nella
fattispecie Labruna e Maletti), andreottiani gran parte degli imputati», Golpe Borghese: Andreotti ieri e
oggi, «Osservatore politico», 10 giugno 1977.
116
diritto di parlare in nome del Parlamento, dei presunti memoriali, degli articoli
redatti, cervellotici, scritti in funzione del fatto che lo stesso Moro, che avrebbe
intuito che i carabinieri potevano intervenire, aveva paura di restare ferito. Parleremo
di Steve R. Pieczenik, il vice segretario di Stato al Governo Usa il quale, dopo aver
partecipato per tre settimane alle riunioni di esperti al Viminale, ritornato in America
prima che Moro venisse ucciso, ha riferito al Congresso che le disposizioni date da
Cossiga in merito alla vicenda Moro erano quanto di meglio si potesse fare. […] A
questo punto vogliamo fare anche noi un po’ di fantapolitica. Le trattative con le
Brigate rosse ci sarebbero state. Come per i Fedayn. Qualcuno però non ha
mantenuto i patti299. Moro, sempre secondo le trattative, doveva uscire vivo dal covo
(al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario?), i carabinieri
avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciar andare via la macchina
rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva
comunque l’anticomunista Moro morto, le Br avrebbero ucciso il presidente della
Democrazia cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile
azione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica





299 «Vent’anni dopo il senatore Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione parlamentare
d’inchiesta su stragi e terrorismo, esprimerà concetti analoghi. La possibilità che Moro avesse rivelato
alle Br segreti sensibili aveva creato una situazione sicuramente più complessa e pericolosa dal punto di
vista dello Stato. Per cui poteva essere opportuno non forzare la situazione con un blitz. Se avessero fatto
irruzione in via Gradioli e avessero catturato Moretti, quale sarebbe stata la reazione degli altri brigatisti?
La Braghetti, Gallinari e Maccari, i carcerieri di Moro, che istruzioni avevano per una eventualità del
genere? Di uccidere il prigioniero? Di rendere pubblici i verbali e le videocassette del suo interrogatorio?
In questa chiave potrebbe anche capirsi perché non si volesse arrivare a via Gradioli, almeno fino a
quando non fosse stata scoperta la prigione in cui Moro era detenuto, e non si fosse raggiunta la certezza
di poter mettere le mani anche su tutto il materiale relativo al processo brigatista. È possibile che Cossiga
si sia fidato di certe persone e poi se ne sia pentito. Mi riferisco a qualche apparato nazionale o anche
estero che assunse su di sé il doppio compito di recuperare le “carte Moro” e di liberare il prigioniero. Ma
poi perseguì soltanto il primo obbiettivo e lasciò che Moro venisse ucciso, per regolare qualche vecchio
conto. In questo modo le tesi del “doppio ostaggio” e quella del “doppio delitto” verrebbero in qualche
modo a sovrapporsi. La sofferenza umana di Cossiga, tutte le volte che si affronta il caso Moro, a me è
parsa autentica. E credo che nasca non solo dalla perdita di un amico come Moro, ma anche da questa sua
sensazione d’essersi fidato di persone sbagliate, o di apparati sbagliati. È un’ipotesi assai verosimile, che
se fosse confermata porterebbe proprio a concludere che Cossiga è stato atrocemente beffato da mandatari
infedeli»,




da FASANELLA – SESTIERI – PELLEGRINO, Segreto di Stato, la verità da Gladio al caso
Moro, Einaudi 2000, pagg. 180-82 in FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 396.
117
campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama “De300” e il macellaio
Maurizio301.
L’enigmatico riferimento ad Alunni Corrado, brigatista arrestato il 13 settembre 1978 nel
covo in via Negroli a Milano, si collegò all’ipotesi che durante l’arresto fosse stato
trovato il memoriale e che le Br avessero distribuito le copie tra le varie colonne
brigatiste. Ciò spiegherebbe il perché nell’articolo di «Op» del 26 settembre 1978 Le
lettere di zombi, pubblicato dodici giorni prima di Monte Nevoso e una settimana dopo
l’arresto del brigatista, Pecorelli fosse già in grado di annunciare il ritrovamento di una
trentina di lettere di Moro. Un’altra anomalia si riferisce alla paura di Moro d’essere
ucciso in un conflitto a fuoco tra i terroristi ed i carabinieri, dato anche questo non
riscontrabile in nessun suo scritto ufficiale. «Osservatore politico», dunque, sostenne che
le carte divulgate nel 1978 fossero incomplete, dell’esistenza di una copia recuperata nel
covo di via Negroli due settimane prima dell’operazione di Monte Nevoso, che vi
fossero dei manoscritti di Moro autografi ed in fotocopia (che vennero ritrovati solo nel
1990) e che esistesse un memoriale tutt’oggi ignoto contenente rivelazioni non
riscontrabili nelle versioni del 1978 e del 1990. Difficile capire quali potessero essere le
fonti informative di Carmine Pecorelli, sebbene i principali sospetti cadrebbero sulla
figura del generale Dalla Chiesa e su Licio Gelli, comunque in ambienti contigui alla
Loggia Propaganda Due e ai servizi segreti. È probabile che il generale Dalla Chiesa si
servisse di Pecorelli, come fece con il generale Galvaligi, affinché trapelassero notizie
relative al ritrovamento delle carte di Moro, per costringere il governo a pubblicare la
versione che lui stesso gli consegnò. Una triplice responsabilità per dissimulare una fuga
di notizie. Oltre ai diversi articoli di «Osservatore politico» in cui venne elogiata la
figura di Dalla Chiesa, è accertata la collaborazione tra Pecorelli ed il generale nel 1979.
Nell’agenda del giornalista si trovarono appuntate le date dei loro incontri,
300«Questo “De” sembra essere un riferimento a Giustino De Vuono, presente nell’elenco dei terroristi
ricercati diffuso dal Viminale il 16 marzo 1978. De Vuono sarebbe stato riconosciuto da due testimoni
oculari del caso Moro. Quanto al “Maurizio” menzionato da Op, si scoprirà poi che era lo pseudonimo
brigatista del capo delle Br Mario Moretti. Pecorelli lo chiamava “macellaio” e in effetti, lo si scoprirà
anni dopo, Moretti è stato colui che ha materialmente assassinato Moro», Ivi, p. 397.





301 Terrorismo, antiterrorismo e riforma di polizia. Vergogna buffoni!, «Osservatore politico», 16 gennaio
1979.
118
particolarmente intensificati proprio nei mesi in cui Pecorelli rilasciò le sue dichiarazioni
sul memoriale.
Era stato Dalla Chiesa a chiedere d’incontrare Pecorelli e Mino me ne parlò subito
dopo, dicendomi che non aveva capito bene cosa volesse. Aveva avuto l’impressione
che Dalla Chiesa intendesse utilizzarlo in qualche maniera, ma non aveva capito se
per far filtrare notizie o per altro. Era perplesso perché Dalla chiesa non gli aveva
dato notizie302.
La testimonianza del maresciallo Angelo Incandela, comandante degli agenti di custodia
del carcere di Cuneo, confermò che nel gennaio del 1979 Dalla Chiesa e Pecorelli
collaborarono segretamente per recuperare delle fotocopie del manoscritto del
memoriale, che ritenevano fossero entrate nel carcere di Cuneo. Il maresciallo venne
convocato da Dalla Chiesa con l’ordine tassativo di mantenere la massima segretezza.
Nella deposizione del 27 giugno 1994 all’autorità di Palermo, Incandela raccontò
d’essersi incontrato con Dalla Chiesa in un’Alfa Romeo bianca. Il generale lo informò
della presenza di alcuni scritti riguardanti Aldo Moro nel carcere dove lavorava da pochi
mesi, documenti indirizzati al boss della malavita milanese Francis Turatello. Nell’auto
era presente una terza persona che sarebbe stata in grado di spiegare, secondo il generale,
come e dove fossero entrati quei documenti.




Gli scritti riguardanti il caso Moro erano entrati nel carcere attraverso le finestre del
corridoio dell’ufficio per i permessi di colloqui, dove sostavano i parenti dei detenuti
in attesa della perquisizione prima di essere ammessi ai colloqui. Lo sconosciuto mi
fornì una particolareggiata descrizione dei luoghi, specificandomi che le finestre del
corridoio ove sostavano i parenti prima di essere perquisiti, erano prive di reti, sicché
era agevole consegnare attraverso le stesse oggetti a detenuti che circolavano senza
nessuna sorveglianza nel cortile sul quale prospicevano dette finestre. […]Lo
sconosciuto proseguì specificandomi che gli scritti riguardanti il sequestro Moro
erano entrati nel carcere avvolti con un nastro adesivo da imballaggio303.
302 Franca Mangiavacca, compagna di Pecorelli, agli atti della sentenza della corte d’Assise di Perugia del
14 aprile 1993, FLAMIGNI, Dossier Pecorelli, p. 150.




303 Angelo Incandela, GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 250.
119
In una seconda deposizione del 25 luglio 1994, il maresciallo raccontò d’aver
riconosciuto il volto dello sconosciuto solo due mesi dopo, negli articoli che parlavano
dell’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli. Incandela seppe descrivere con
precisione gli occhiali che il giornalista portò in quella circostanza304, inoltre ricordò che
«il generale chiese allo sconosciuto di cercare un numero di telefono il quale rispose
d’averlo dimenticato in redazione305».
Dalla Chiesa continuò a sollecitarmi affinché io trovassi gli scritti del sequestro
Moro che si trovavano all’interno del carcere, nonché documenti concernenti l’on.
Andreotti e dopo quindici giorni di ricerche rinvenni l’involucro che Pecorelli mi
aveva descritto, all’interno di un pozzetto con un coperchio di lamiera profondo
circa venti – trenta centimetri che si trovava in un piccolo locale dove venivano presi
in consegna i generi di conforto portati ai detenuti dai loro familiari. L’involucro
aveva la forma di un salame ed era avvolto con un nastro isolante da imballaggio
color marrone. […] L’involucro poteva contenere un centinaio di fogli306.
Angelo Incandela spiegò come Dalla Chiesa fosse convinto dell’esistenza di ulteriori
fogli all’interno del carcere, riguardanti l’on. Giulio Andreotti.
Io sospetto che volesse in qualche modo incastrare Andreotti. Infatti, il generale
aveva delle riserve su quell’uomo politico; spesso mi faceva capire che lui su
Andreotti sapeva cose assai gravi. Ma Dalla Chiesa pur alludendo pesantemente non
mi disse mai con esattezza cosa aveva in mano, quali fossero gli elementi
d’accusa307.
Secondo il maresciallo Incandela, Dalla Chiesa e Carmine Pecorelli si misero alla ricerca
di documenti altamente segreti e destabilizzanti per il sistema politico di allora.
Documentazione che, probabilmente, avevano già visionato in forma dattiloscritta.
304 «cerchiati in oro piuttosto quadrati, chiari non scuri. Completamente diversi per foggia da quelli
comparsi nella foto pubblicata dopo la morte, con montatura nera e spessa», Ivi, p. 251.
305 Ibidem.
306 Ivi, pag. 252.






307 PINO NICOTRI, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. I misteri degli anni '80 nel racconto del
maresciallo Incandela, Marsilio, Venezia 1994, p. 112.
120
Mi disse che stavamo scrivendo la storia, che si può essere fedeli allo Stato in tanti modi e che
si può servire la Patria anche in modi non propriamente legali. Mi disse: Per la Patria, caro mio,
si può e si deve anche rischiare quando occorre. E quando si hanno i coglioni! Sempre a patto
naturalmente che il fine sia nell’interesse dello Stato e della Società308.
308 Carlo Alberto Dalla Chiesa, GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 254.
121
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597, Senato della Repubblica, Roma 1979.
Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Sindona e sulle responsabilità
politiche ed amministrative ad esso eventualmente connesse, Legge 22 maggio
1980, n. 204 e legge 23 giugno 1981, n. 315, Senato della Repubblica, Roma 1983.
Relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2,
Leggi 23 settembre 1981, n. 527; 4 giugno 1982, n. 342; 28 febbraio 1983, n. 57; 1
ottobre 1983, n. 522; 6 aprile 1984, n. 59, Senato della Repubblica, Roma 1984.






Edited by barionu - 29/4/2024, 15:15
 
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