Origini delle Religioni

GUARNERIUS WERNERIUS bononiensis

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CAT_IMG Posted on 17/11/2016, 10:16
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IRNERIO


www.rmoa.unina.it/3997/

https://archive.org/search.php?query=GAUDENZI%20AUGUSTO

http://irnerio.cirsfid.unibo.it/

https://catalog.hathitrust.org/Record/100473396

https://it.wikipedia.org/wiki/Scuola_bolog..._dei_glossatori



I ROTULI DELLO STUDIO

www.euarchives.org/index.php?sch=3&...1_2_1_1&lng=nat

www.archiviodistatobologna.it/it/bo...nza-berardo-pio

https://collezioni.genusbononiae.it/products/dettaglio/15340






https://it.wikipedia.org/wiki/Irnerio

www.treccani.it/enciclopedia/irneri...iero:-Diritto)/



IL CODEX SECUNDUS

Il Digesto e il volgarismo

C'è stato uno scambio di idee utile per avvicinarsi a un problema molto complesso come quello della ricomparsa del Digesto e le teorie filologiche che si sono succedute sul punto. Anche le risposte qualitativamente migliori contengono qualche inesattezza: ad esempio, che la Florentina sia il manoscritto madre dal quale parte tutta la tradizione è la teoria del Torelli, che è stata smentita. Perciò la presenza dell'errore "conguntivo" (cioè che dimostra una derivazione o una parentela fra tradizioni) dell'inversione di fogli è spiegato non con la copia del misterioso "codex secundus" direttamente dalla Florentina, ma con l'esistenza di un modello comune che conteneva già l'inversione. Altrimenti non si spiegherebbe come mai in certi passaggi la Vulgata ha un testo corretto e la Florentina ha degli errori.


Anche la Bononiensis (e non bolognensis, che è un volgarismo) è stata un po' fraintesa.


E' il nome che Pescani ha dato al testo che troviamo copiato nei manoscritti della scuola di Bologna, che danno origine alla Vulgata. Bononiensis sarebbe quel manoscritto del Digesto che Irnerio o chi per lui hanno trovano e usato come modello. Non è lo stesso che usò il compilatore della Collectio Britannica. Questo non lo ho spiegato a lezione per non farvi morire, ma la cosa complica ancora di più il problema.


Capite perché alcuni studiosi che si sono dedicati al problema da giovani sono poi morti senza averlo risolto?

A me basta che entriate in contatto con questo problema, perché sappiate che i testi antichi e medievali sono molto spesso incerti, e che la loro storia coincide a volte con quella della cultura.


C'era anche una domanda sul volgarismo e il diritto volgare. Il termine volgarismo è stato usato dagli studiosi di diritto romano per indicare singole deviazioni di singoli istituti da alcuni principi di diritto classico. L'immagine storica degli ultimi secoli dell'Impero sembra quella di un edificio classico che il tempo deteriora e che viene restaurato con aggiunte di gusto dubbio. Invece l'immagine del diritto volgare è molto più ampia e forte: indica il sistema giuridico che si impone in quel lungo periodo storico che copre la fine dell'antichità e l'inizio del Medioevo. Consente di interpretare il passaggio da un'epoca all'altra e coglie linee di fondo unitarie negli istituti che si consolidano per consuetudine o per legislazione.


Dal punto di vista della storiografia, la chiave dei volgarismi è stata usata dagli studiosi del diritto romano classico, mentre quella del diritto volgare è preferita dagli studiosi del diritto medievale.


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Irnerio non fu, sicuramente, il primo ad applicarsi allo studio dei testi del diritto romano giustinianeo (integranti quello che in seguito sarà detto Corpus iuris civilis), ma per primo nell’affrontarli usò in modo sistematico i metodi della scolastica, apponendo a essi glosse e manipolandoli per studiarli e renderli accessibili a un indefinito pubblico d’utenti; il suo nome fu ben presto riconosciuto dunque come quello d’un vero caposcuola, con l’appellativo di 'lucerna del diritto', eletto a simbolo di quella rinascita giuridica della fine dell’11° sec. che determinò il contemporaneo formarsi dell’inedita scientia iuris e della figura del suo interprete (legisdoctor, iurisperitus) per mezzo di un’entità educativa conosciuta poi come Università (Studium).

La vita


Appare impossibile scindere la vicenda biografica di Irnerio dall’operato di esegeta-divulgatore dello ius civile, determinante la sua importanza storica in assoluto. Per secoli, a disegnarne il mito è stata la tradizione universitaria bolognese, grazie principalmente a Odofredo Denari (m. 1265), secondo il quale i libri legum da Roma giunsero a Ravenna e poi a Bologna; un certo dominus Pepo cominciò a far lezione su essi, ma senza lasciare duratura traccia in confronto al primo vero docente, il dominus Irnerio, già magister in artibus, che iniziò a spiegare le leggi romane, in modo profondo, tanto da essere riconosciuto come primus illuminator scientie nostre.

Ignoti i dati biografici essenziali; in varie epoche solo sulla base di induzioni sono state formulate proposte – spesso condizionate dalla visuale del fenomeno 'origine dello Studium bolognese' accettata dal proponente di turno – di date e luoghi di nascita e di morte, di status personale. Gli studiosi concordano nell’identificare il territorio e il periodo che una volta si dicevano ‘di fioritura’, cioè Bologna, ultimo ventennio dell'11° sec. e primo del seguente; per il resto, possediamo elementi divisibili in tre classi: sicuri, probabili e oggetto di discussione, del tutto leggendari.

La figura storica di Irnerio ci viene proposta da una serie di documenti, quattordici, appartenenti agli anni compresi tra il 1112 e il 1125 (sono atti giudiziari, una donazione privata, privilegi concessi dall’imperatore Enrico V), nei quali egli compare come causidicus e iudex bononiensis; nonché dalle vicende romane del 1118, quando magister Guarnerius de Bononia et plures legisperiti appaiono coinvolti nell’elezione dell’antipapa Maurizio Burdino, arcivescovo di Braga (Portogallo); che precedettero ma forse non furono la causa diretta della scomunica fulminata nel 1119 dal Concilio di Reims nei confronti dell’imperatore e dei suoi fautori, compreso Irnerio (Mazzanti 2000, pp. 120-25).

Irnerius è forma tarda, della fine del 12° secolo. Prima, il nome compare in varie forme, da Warnerius e Wernerius a Guarnerius, Vuarnerius e Gernerius; il mutamento si spiega con l’interazione con gli usi dei parlanti il volgare in partibus Lombardie (Padovani 2006, pp. 1087-93), e probabilmente con la confusione di lingue regnante nell’ambiente internazionale dell’universitas scholarium bolognese. Collegato, il problema della sigla con cui viene indicato nelle glosse. Meno frequenti quelle firmate o attribuite in modo chiaro, come 'War.' o 'Varn.' e simili; moltissime appaiono siglate con l’iniziale 'Y', sicuramente a lui riferibile, per la quale si sono tentate varie spiegazioni. Importante appare la rivendicazione al grande maestro delle sigle 'J' e 'I', finora attribuite all’allievo Iacopo (Padovani 2006, pp. 1093-109).

Discussa appare l’origine nazionale perché, nonostante la qualifica di bononiensis prevalente nei documenti, esiste una tradizione che lo designa come theutonicus; in qualche modo connessa è l’identificazione, di proposta antica o recente, con persone dello stesso nome documentate in vari luoghi, tra le quali un Guarnerius presbiter nel 1101, de Brigey nel 1106 a Briey in Lotaringia (Mazzanti 2000, pp. 154-62; Cortese 2004, p. 600). Una delle leggende più note lo vuole scegliere il proprio successore tra gli allievi (detti quatuor doctores) Bulgaro, Martino, Iacopo e Ugo.

Il profilo intellettuale del maestro

Al celebre glossatore, Hermann Kantorowicz nel 1938 attribuiva, pubblicandoli, lavori introduttivi al Codex e alle Institutiones, staccando definitivamente la comoda etichetta 'Irnerio' dalla decina d’opere più o meno anepigrafe cui era stata, specie nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, attaccata da alacri e peraltro benemeriti ricercatori (Hermann H. Fitting, Augusto Gaudenzi, Giovanni Battista Palmieri); le Questiones de iuris subtilitatibus, la Summa Codicis, le Exceptiones Petri, il Formularium tabellionum, e altri scritti antichi e notevoli, dovevano ritenersi prodotti di epoca e ambiente diversi e successivi. Restavano le molte glosse, edite sotto il nome d’Irnerio in vari tempi, riprese, discusse e rielaborate dagli epigoni; e proprio queste, che presentano spesso caratteristiche particolari, quali la capacità di risolvere con un colpo di genio grosse difficoltà gnoseologiche o quella di sintetizzare ardui problemi, dobbiamo eleggere a guida fondamentaleper ricostruire il profilo intellettuale del maestro, cercando di accordare le indicazioni ricavabili da tale produzione con quanto risulta dai documenti sicuri e con le tradizioni storiografiche antiche.

I placiti e gli altri atti documentari (ripubblicati in Spagnesi 1970), dei quali solo l’ultimo appare di dubbia autenticità (Mazzanti 2009), presentano quasi tutti un legame con i territori ‘matildici’, vale a dire appartenenti a, o governati da, Matilde di Canossa, e poi entrati alla di lei morte nel 1115 in una questione ereditaria assai complessa, con strascichi ideologici fino al 1700, e forse anche oltre. Irnerio accompagna Enrico V nella ‘discesa’ del 1116-1118, fatta dall’imperatore anche per prendere possesso dell’eredità di Matilde, in parte come superiore feudale, in parte come cugino, parente più prossimo in mancanza d’altri eredi. Una faccenda eminentemente politica, ben concordante con il sostegno all’Impero accordato da una delle più celebri glosse irneriane, dove si dicono passati dal popolo al sovrano, tramite la cosiddetta lex regia, i poteri di governo.



Due le controprove: la firma aggiunta da Irnerio a quella dell’arcivescovo e cancelliere – strano evento, per la diplomatica – al privilegio dell’imperatore, del 15 maggio 1116, con il quale si proteggono «le persone di tutti i cittadini bolognesi, i loro beni mobili e immobili, presenti e futuri».


Come se si volesse riconoscere al giurista di aver svolto una specie di mediazione in una vicenda importante per lo sviluppo del Comune (Spagnesi 1970, pp. 154-59); e soprattutto l’elezione dell’antipapa nel 1118 – che prese il nome di Gregorio VIII, a significare sia la convinzione di essere il papa ‘autentico’, sia la volontà di continuare in qualche modo la grande opera del ‘matildico’ Gregorio VII opponendosi a Gelasio II, eletto regolarmente ma fuori di Roma, a Gaeta, per non sottostare alle pressioni del popolo.




I giuristi, tra i quali Irnerio, convocarono la cittadinanza facendo illustrare da quidam expeditus lector alcuni decreta pontificum – verosimilmente quelli non autentici (Cortese 1995, 1° vol., pp. 359-60; 2° vol., pp. 69-74) – de substituendo papa.

Altro tipo di problema, ma collegato, il ruolo del giurista nel riconoscimento dell’autenticità dei testi giustinianei

. Dietro le leggende raccolte da Odofredo vi sono certo verità che hanno segnato la scuola, specie sul ritrovamento e il recupero ‘a pezzi’ del Digesto (Vetus, Infortiatum, Novum) con l’attribuzione a Irnerio del nome Infortiatum – dove il racconto copre un evento fortuito a noi sconosciuto causante la strana divisione – e sulla vicenda del Liber authenticorum. Irnerio dapprima l’avrebbe giudicato una falsificazione operata «a quodam monacho», cambiando opinione prestamente per ricavarne le autentiche apposte in luoghi opportuni del Corpus. Aneddoto, questo, chiaramente originato da una glossa irneriana (al § 4 della costituzione Cordi, ove Giustiniano annuncia novellae constitutiones), importante come rivelatrice del metodo: lì si trovano critiche molto nette al Liber authenticorum, considerato appunto nella sua essenza e fisionomia giuridica di ‘libro’; mentre tale non è perché: a) il suo stile non concorda con quello delle altre costituzioni imperiali;

b) nella collezione non sono presenti né un principio, né una fine (vale a dire: clausole ‘di stile’ usate per tali eventualità), né un ordine;

c) le nuove costituzioni promesse nella Cordi dovrebbero riguardare solo ‘nuovi negozi’, non, come si nota nell’Authenticum, casi già regolati e soltanto corretti nel loro disciplinamento (E. Spagnesi, Iurisprudentia, stilus, au(c)toritas, in Cristianità ed Europa. Miscellanea di studi in onore di Luigi Prosdocimi, a cura di C. Alzati, 2° vol., 2000, pp. 153-54).

Qui, al di là dell’amplificazione odofrediana, sono adombrate grosse questioni relative alla trasmissione e conoscenza in Occidente delle Novellae raccolte nella collezione detta appunto Authenticum, che sostituì l’Epitome Iuliani proprio con l’avvento della scuola di Bologna. Alcuni manoscritti testimoniano la circolazione congiunta dei due testi per un uso didattico, volto alla migliore comprensione delle Novellae – nell’Autentico in versione latina – attraverso l’Epitome (L. Loschiavo, Il codex graecus e le origini del Liber authenticorum, «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung», 2010, 127, pp. 115-71, in partic. p. 147).

Le ipotesi di attribuzione e di sistemazione delle opere


Nel suo complesso, l’attività di riconoscimento, di sistemazione e d’interpretazione-divulgazione dei testi va considerata fondamentale per stabilire un ‘ordine’ ove il diritto assumeva le valenze da allora caratterizzanti la civiltà occidentale (P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, 1995). Avvertenza utile ad affrontare gli altri autori (oltre Odofredo) cui Irnerio apparve personaggio eccezionale o eroico.


Si tratta di Roberto di Torigni (m. 1186), abate del monastero normanno di Mont Saint Michel, che parlando di Lanfranco di Pavia (poi passato a Bec e infine a Canterbury dove fu arcivescovo dal 1070 per morirvi nel 1089) asserisce che Lanfranco e Guarnerio suo allievo, trovate a Bologna le leggi romane, s'erano dedicate a insegnarle, collocando l’episodio nel 1032;



di Radulfus Niger (Rodolfo il Nero), teologo, storico e letterato inglese di educazione parigina, che in uno scritto databile tra il 1179 e il 1189 esalta Pepo per aver fatto trionfare giusti principi in un processo per l’uccisione di un servo, facendo applicare norme tratte dal diritto romano contro inique leggi longobarde; lo designa come «aurora iuris civilis», mentre da lui Irnerio è presentato come colui che riuscì a far accettare il diritto romano dalla curia di Roma, determinando la fortuna universale di esso;


e di Burcardo di Biberach (m. dopo il 1231), il cui Chronicon urspergense cita Irnerio in un brano diviso in due parti: nella prima si dice ch’egli

libros legum, qui dudum neglecti fuerant nec quisquam in eis studuerat, ad petitionem Mathilde comitisse renovavit et secundum quod a dive recordationis imperatore Iustiniano compilati fuerant, paucis forte verbis alicubi interpositis, eos distinxit;



(rinnovò, a richiesta della contessa Matilde, i libri delle leggi, che fino ad allora erano stati neglietti, e nessuno li aveva studiati; e li ripartì sistematicamnete secondo le indicazionidel loro compilatore, l'imperatore Giustiniano di divina memoria, solo interponendovi qua e là poche parole)nella seconda parte si descrive il contenuto dei testi giustinianei.





Vanno considerati l’ottica e gli scopi degli autori menzionati: le parole del cronista Roberto, rifiutate in genere perché considerate risultato di un’informazione confusa e fuorviante, è stato dimostrato (Padovani 2007) come siano collegate al fervido ambiente anglo-normanno nel quale si svilupparono correnti di studio teologico e giuridico dalle caratteristiche assolutamente peculiari, anche grazie all’opera di un glossatore lombardo, Vacario, cui è dovuto l’inizio dell’insegnamento del diritto romano in Inghilterra, in particolare a Oxford, autore di un’opera conosciuta come Liber pauperum, di grandissima influenza e valore per le sorti della compilazione giustinianea. Nel brano del teologo inglese si tratteggia la posizione reciproca dei due maestri, che Rodolfo differenzia nei ruoli e anche per la conoscenza dei Digesta. Pepo riuscì a imporsi sulle leggi barbariche in giudizio davanti all’imperatore – essendo peraltro baiulus soltanto delle Institutiones e del Codex e ignorando completamente le Pandette; mentre il secondo, magister Guarnerius, avrebbe avuto il merito di far accettare alla curia romana lo ius civile, presentandolo religioso scemate, cioè secondo uno schema a essa gradito.

Ma è il passo della cronaca urspergense a offrire le maggiori possibilità di comprensione del lavoro di Irnerio. Attrasse l’attenzione la notizia del rinnovamento dei libri legali a richiesta della contessa Matilde. Si giunse a spiegare quelle parole con un ‘incarico ufficiale d’insegnamento’ conferito al giurista, anche in virtù di un preteso ‘vicariato italico’ di Matilde. Rigettata l’ipotesi, oggi s’insiste sulla richiesta d’una specie di edizione critica delle opere giustinianee, in conformità della preparazione in artibus e della vocazione filologica d’Irnerio (Cortese 1995, 2° vol., pp. 61-64; Cortese 2004, p. 602).

In realtà occorre percorrere altra strada. L’accostamento tra il magister Gratianus e il doctor Wernerius – proposto dal cronista e talvolta ritenuto dalla storiografia giustificato dalla nuova disciplina fondata, per il rispettivo campo, dai due capiscuola – deve collegarsi strettamente al tipo di operazioni fatte dai due maestri e al risultato del loro lavoro, situando la somiglianza a un livello quasi fisico, tra il Decretum grazianeo, e un’opera irneriana che non ci è pervenuta. Importante stabilire la fonte delle notizie date dal cronista Burcardo: quelle su Graziano le aveva reperite nelle Summae dei ‘decretisti’, per Irnerio, analogamente, in una materia operis civilistica, come si vede dalla seconda parte del brano, che non è una copiatura senza valore di un celebre passo di Paolo Diacono, ma un adattamento dovuto a un esperto del lavoro fatto sui libri di diritto, con cambiamenti significativi dovuti all’intento di adeguarne la sequenza a una visuale precisa di natura propriamente logico giuridica. Ciò induce a ritenere che la prima parte del brano fosse tratta da un prodotto dello stesso genere, vale a dire un proemio-dedica (accessus ad auctorem o exordium operis): le due sezioni del passo della cronaca si completavano a vicenda, conservando, se lette insieme, il ricordo dell’approccio prescritto dalle regole della scolastica alle ‘opere’ e agli ‘autori’. La contessa Matilde doveva essere soltanto la dedicataria di un lavoro specifico (così come successe per Donizone, cantore dei Canossa, il cui poema si conserva nell’originale con tanto di lettera di dedica in testimone unico), il che spiega perché si parli di petitio, termine molte volte impiegato come topos retorico giustificante il prodotto presentato in omaggio (Spagnesi 2006).

La ricostruzione concorda con quanto desumibile dal Liber divinarum sententiarum, opera basata sugli scritti di sant’Agostino, attribuita a certo «Guarnerio giurisperitissimo», la cui paternità irneriana, respinta, all’epoca della scoperta, come impossibile, in seguito generalmente non riconsiderata, da poco è stata invece riproposta come estremamente probabile (Mazzanti 1999; Spagnesi 2001); essa ci propone una fattiva ‘specializzazione’ nel ‘magistero delle arti’ del famoso giurista, e indirizza verso la vicenda, analoga, del Liber pauperum definito dall’autore Vacario un ‘compendio’ del Codice giustinaneo e del Digesto, con inserzione delle ‘autentiche’, che integravano o modificavano i testi ‘principali’ di questa grande composizione ‘a mosaico’, destinata a sopperire i mezzi necessari per risolvere gl’infiniti casi pratici offerti dalla vita quotidiana.

Possibilmente intitolata Wernerii librorum Iustiniani imperatoris renovatio l’opera, scomparsa – forse perduta per sempre, al pari d’un prodotto funzionale, ‘di consumo’, da non conservare, e comunque ritenuto ‘superato’ dalla scuola – antologizzava excerpta da tutte le quattro parti del corpus iuris, distinti in libri alla maniera scolastica e seguendo la falsariga del Codex, raccordati da dicta d’autore, anche accompagnati da altri passi testuali di spiegazione «in glose locum» (come accade nel Liber pauperum). Ciò spiega la frase riferita dall’Urspergense «solo interponendovi qua e là poche parole (paucis forte verbis alicubi interpositis)», anche questa riconducibile a un’autopresentazione, da parte d’Irnerio, del proprio limitato intervento, e analogamente l’inciso «e nessuno li aveva studiati (nec quisquam in eis [i libri legali] studuerat)» si riferisce al ligio rispetto della metodologia scolastica. Ovviamente tale renovatio non intendeva sostituire i testi originali, considerati libri ‘autentici’ e ordinario oggetto di lectura, cioè di ‘reverente’ esposizione raccolta in prodotti ‘magistrali’, bensì affiancare al recupero e al commento di essi un compendio indispensabile alla penetrazione nel mondo del sapere ‘di base’, ovvero un agilissimo attrezzo di contrasto del diritto barbarico, uno strumento di studio conformato ai metodi scolastici, alla cultura ‘giusnaturalista’ della cristianità, e ai suoi bisogni socioeconomici. L'opera poteva esser classificata unicamente come renovatio, sia perché il materiale è desunto per intero dalla compilazione giustinianea, sia perché valorizzava la figura principale di Giustiniano, generico ‘compilatore’ dei volumi delle leggi, come auctor e promulgator delle costituzioni imperiali (Spagnesi 2006).

Si applicava così al mondo laico il metodo usato dai Padri della Chiesa per i testi biblici, consistente da un lato nell’interpretazione di un testo collegata a quella di altri appartenenti alla stessa materia; dall’altro nel servirsi di un’unica collezione di norme per la soluzione di tutte le controversie (A. Padoa Schioppa, Riflessioni sul modello del diritto canonico medievale, in Id., Italia ed Europa nella storia del diritto, 2003, pp. 183-88).

Un esempio di applicazione pratica dei modelli teorici risultanti è fornito dal confronto tra una glossa di Irnerio, l’architettura quadripartita del Formularium tabellionum (G. Orlandelli, Scritti di paleografia e diplomatica, 1994, pp. 495-526) e la donazione fatta da un conte a una donna il 15 novembre 1116, attuata mediante un instrumentum simplicis donationis (Spagnesi 1970, pp. 79-81), cui presenziò Warnerius iudex, redatto da due notai, Bonando e Angelo, autori del rinnovamento nei moduli grafici dell’epoca poi messo al servizio dello sviluppo dello Studium (Spagnesi 1970, pp. 164-73).

Bibliografia

E. Spagnesi, Wernerius bononiensis iudex. La figura storica d’Irnerio, Firenze 1970.

E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, 2 voll., Roma 1995, ad indices.

G. Mazzanti, Introduzione, in Guarnerius iurispertissimus, Liber divinarum sententiarum, a cura di G. Mazzanti, Spoleto 1999.

G. Mazzanti, Irnerio, contributo a una biografia, «Rivista internazionale di diritto comune», 2000, 11, pp. 117-181.

E. Spagnesi, Irnerio teologo, una riscoperta necessaria, «Studi medievali», 2001, 42, 1, pp. 325-79.

E. Cortese, Irnerio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 62° vol., Roma 2004, ad vocem.

A. Padovani, Il titolo "De Summa Trinitate et fide catholica" (C 1.1) nell’esegesi dei glossatori fino ad Azzone. Con tre interludî su Irnerio, in Manoscritti, editoria e biblioteche dal Medioevo all’età contemporanea. Studi offerti a Domenico Maffei per il suo ottantesimo compleanno, a cura di M. Ascheri, G. Colli, 3° vol., Roma 2006, pp. 1076-123.

E. Spagnesi, Magister Gratianus, dominus Wernerius. Le radici d’un antico accostamento, in Proceedings of the XIth congress of Medieval canon law, Città del Vaticano 2006, pp. 205-26.

A. Padovani, Roberto di Torigni, Lanfranco, Irnerio e la scienza giuridica anglo-normanna nell’età di Vacario, «Rivista internazionale di diritto comune», 2007, 18, pp. 71-140.

G. Mazzanti, Un falso irneriano? Riconsiderazioni sul documento del 1125, in Il contributo del monastero S. Benedetto Polirone alla cultura giuridica italiana (secc. XI-XVI), Atti del Convegno, San Benedetto Po (29 settembre 2007), a cura di P. Bonacini, A. Padovani, San Benedetto Po 2009, pp. 39-44.



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Riproduzione+fotografica


Biblioteca+Malatestiana+De+legatis+et+fideicommissis.

la littera fiorentina e la vulgata

http://www1.unipa.it/~dipstdir/portale/rom...#sdfootnote7sym

ORLANDELLI GIANFRANCO

http://opac.regesta-imperii.de/lang_en/anz...atica&pk=103978

PROGETTO IRNERIO BOLOGNA

https://bibliofilosofiamilano.wordpress.co...i-del-trecento/

http://irnerio.cirsfid.unibo.it/codex/284/




Edited by barionu - 24/8/2023, 12:46
 
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PEPO DETTO PEPONE

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PEPONE
di Berardo Pio - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 82 (2015)

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PEPONE (Pepo). – Nato nella prima metà dell’XI secolo, presumibilmente in area toscana, Pepone fu un giurista di una certa importanza verso la fine del medesimo secolo, quando la riscoperta del Digesto e la ripresa dello studio del diritto romano giustinianeo determinarono a Bologna la rinascita dell’insegnamento del diritto civile.

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Un Pepone esperto di diritto – in via ipotetica identificabile con il nostro giurista – compare tra il 1072 e il 1079 in atti giudiziari prodotti da tribunali legati alla dinastia canossana: il 7 giugno 1072 partecipò come avocatus dell’abate di San Salvatore di Monte Amiata al placito di Calceraki, in territorio di Chiusi, presieduto da Beatrice di Toscana e da sua figlia Matilde; nel marzo 1076, con l’appellativo di legis doctor, intervenne al placito di Marturi, presso Poggibonsi, presieduto da Nordilo messo di Beatrice di Toscana, in occasione del quale ricomparve, a distanza di quasi cinque secoli dall’ultima attestazione, una citazione di un passo del Digesto; il 19 febbraio 1078, ancora come advocator dell’abate amiatino, partecipò al placito di Puntiglo presieduto da Matilde di Canossa; infine, come advocatus dell’abate di Pomposa fu presente al placito di Ferrara del 23 novembre 1079, presieduto dalla stessa Matilde.

La frammentarietà e l’ambiguità delle fonti superstiti non ci consentono di delineare con certezza il ruolo e l’importanza di Pepone. Una svogliata e laconica glossa di Azzone, apposta a un frammento del Digesto e databile ai primi decenni del XIII secolo, lo paragona a Tiberio Coruncanio che, secondo la tradizione romana, per primo avrebbe impartito lezioni pubbliche di diritto senza lasciare, però, opere scritte. Più articolato, ma non meno problematico, il ricordo trasmesso in una lectura al Digestum Vetus di Odofredo, allievo di Azzone che, raccontando la nascita della scuola bolognese secondo una tradizione orale già assestata verso la metà del XIII secolo, afferma che un certo Pepone aveva cominciato a insegnare il diritto civile «auctoritate sua», tuttavia, indipendentemente dalla sua scienza, non aveva riscosso alcun successo. A Pepone, che «nullius nominis fuit» e che non viene mai esplicitamente collegato a Bologna, Odofredo contrappone la figura di Irnerio, primo a insegnare diritto nella città emiliana e primo a glossare i libri giuridici, il quale «fuit maximi nominis» e «lucerna iuris». La ricostruzione proposta da Odofredo è però cronologicamente lontana dai fatti narrati, confonde elementi reali con elementi fantasiosi e sembra voler marcare una certa alterità della rinascita bolognese rispetto a Pepone.

Trascurata dai glossatori bolognesi, la figura di Pepone sembra però aver goduto di una certa fama in area francese da dove provengono altre testimonianze che consentono di correggere l’immagine deformata tramandata dal racconto di Odofredo. Radulphus Niger, teologo inglese formatosi a Parigi e autore di un commento al Libro dei Re, i Moralia Regum scritti tra il 1179 e il 1189, presenta il magister Pepone come «aurora surgens» della ripresa dello studio del diritto civile e, dopo aver precisato che il giurista era baiulus del Codice e delle Istituzioni, ma non conosceva il Digesto, racconta un episodio che mostra Pepone – intervenuto con altri giudici del Regnum Italiae a un placito tenuto in Lombardia al cospetto dell’imperatore Enrico IV, databile tra il 1081 e il 1084, o tra il 1090 e il 1094 – intento a contestare il ricorso al diritto longobardo che prevedeva solo una sanzione pecuniaria per un delitto grave come l’omicidio di un servo: invocando l’unicità della natura umana che non permette di distinguere fra servo e uomo libero e avvalendosi di argomentazioni proprie del diritto naturale, del diritto divino e del diritto romano, Pepone riuscì a ottenere la condanna a morte dell’omicida.

Sempre da ambienti francesi provengono altre due testimonianze che attestano una certa diffusione dell’opera di Pepone: una glossa di una Summa Institutionum, scritta nel Sudest della Francia intorno agli anni 1125-1127, che riporta una spiegazione etimologica della parola mutuum attribuita a Pepone e una glossa del Codice, tramandata da alcuni manoscritti risalenti alla metà del XII secolo, che riprende ancora da Pepone l’interpretazione della parola embola, che indicava il trasporto marittimo delle merci.

Molto problematica appare, invece, un’ultima testimonianza di area toscana, un libello in versi del vescovo Gualfredo di Siena, il De utroque apostolico, composto probabilmente tra il 1090 e il 1092, ma tramandato solo parzialmente grazie a un riassunto in prosa inserito nelle cinquecentesche Historiae Senenses dell’erudito Sigismondo Tizio, che elenca Pepone, definito «clarum Bononiensium lumen», tra i personaggi invitati a partecipare a un immaginario confronto fra i sostenitori del papa Urbano II e quelli dell’antipapa filoimperiale Clemente III. In una nota marginale del manoscritto di Tizio, forse estranea al testo originario del De utroque apostolico, Pepone è detto «episcopus Bononiensis». Su questa base Pietro Fiorelli ha avanzato l’ipotesi che Pepone possa essere identificato con il vescovo scismatico di Bologna di nome Pietro, essendo Pepo una forma ipocoristica di Petrus, senza tuttavia considerare che la presenza di Pepone non appare associata alla parte guibertista, ma sembra rappresentare una posizione terza rispetto alle parti contrapposte, posizione che certo non si addice a un vescovo scismatico.

L’ipotesi di Fiorelli è stata riproposta in più occasioni da Carlo Dolcini che non solo ha considerato convincente e probabile l’identificazione di Pepone con Pietro, vescovo filoimperiale di Bologna dal 1086 al 1096 circa, e perciò sicura l’appartenenza di Pepone all’ambiente bolognese, ma si è spinto fino a far notare, senza però azzardare una precisa identificazione, il parallelismo politico, giuridico e geografico che intercorre fra Pepo/Pietro e Pietro Crasso, autore o committente della Defensio Heinrici IV regis, uno dei libelli più famosi della lotta per le investiture.

Un ultimo tentativo di delineare l’identità di Pepone è stato fatto da Giovanna Nicolaj che, pur accettando l’accostamento linguistico Pietro/Pepo, ha escluso l’appartenenza del giurista all’ambiente bolognese e ha sottolineato dati e coincidenze che sembrerebbero portare a una sua identificazione con un poliedrico personaggio di nome Pietro, dotato di una solida cultura giuridica, improntata sulla conoscenza del Codice e delle Istituzioni, che opera saltuariamente come notaio ad Arezzo tra il 1079 e il 1114 e che in un atto del 1090 è detto legis doctor.

Gli studi degli ultimi decenni sulla figura di Pepone, abbondanti e meticolosi, hanno consentito di ampliare le conoscenze sul fenomeno noto come rinascita giuridica della fine dell'XI secolo, senza però giungere alla definizione di un chiaro profilo del giurista che, in assenza di nuove testimonianze, rimane una figura evanescente, quasi leggendaria: restano infatti oscuri i dati biografici essenziali, così come ignote sono la data e le circostanze della sua morte.

Fonti e Bibl.: H.H. Fitting, Pepo zu Bologna, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung, XXIII (1902), pp. 31-40, 42-45; H. Kantorowicz - B. Smalley, An English theologian’s view of Roman law: Pepo, Irnerius, Ralph Niger, in Mediaeval and Renaissance studies, I (1941-1943), pp. 237-241, 243, 247, 249 s.; I placiti del «Regnum Italiae», a cura di C. Manaresi, III, Roma 1960, pp. 304 s., 334, 355-357, 367; G. Fasoli, Ancora un’ipotesi sull’inizio dell’insegnamento di P. e Irnerio, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le prov. di Romagna, XXI (1970), pp. 19, 21-23, 29, 32-34, 36; L. Schmugge, “Codicis Iustiniani et Institutionum baiulus”. Eine neue Quelle zu Magister Pepo von Bologna, in Ius Commune, VI (1977), pp. 1-9; P. Fiorelli, Clarum Bononiensium Lumen, in Per Francesco Calasso. Studi degli allievi, Roma 1978, pp. 415-425, 427-431, 433 s., 440-442, 446-458; G. Zanella, Pepo: addenda minima, in History of universities, II (1982), pp. 217-223; C. Dolcini, Velut aurora surgente. Pepo, il vescovo Pietro e l’origine dello Studium bolognese, Roma 1987, passim; G. Nicolaj, Cultura e prassi di notai preirneriani, Milano 1991, pp. 28, 57-74, 87-91, 93-96, 98, 100, 102 s., 105, 112 s.; B. Paradisi, Il giudizio di Màrturi. Alle origini del pensiero giuridico bolognese in Scintillae Iuris. Studi in memoria di Gino Gorla, I, Milano 1994, pp. 861-887; E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Roma 1995, pp. 33-41, 43-45, 51 s., 54, 57 s., 61-63, 71, 74, 80, 103, 116, 135; L. Loschiavo, “Secundum Peponem dicitur… G. vero dicit”. In margine ad una nota etimologica da Pepo ad Ugolino, in Rivista internazionale di diritto comune, VI (1995), pp. 233-243, 245-249; C. Dolcini, Postilla su Pepo e Irnerio, in G. De Vergottini, Lo Studio di Bologna, l’Impero, il Papato, Spoleto 1996, pp. 85-91; G. Nicolaj, Documenti e libri legales a Ravenna: rilettura di un mosaico leggendario, in Ravenna da capitale imperiale a capitale esarcale, Spoleto 2005, pp. 767 s., 770-774, 797 s.; C. Dolcini, Lo Studium fino al XIII secolo, in Storia di Bologna, 2, Bologna nel Medioevo, a cura di O. Capitani, Bologna 2007, pp. 479-486, 496 s.; E. Cortese, Pepo, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, II, Bologna 2013, pp. 1532 s.; C.M. Radding, Le origini della giurisprudenza medievale. Una storia culturale, Roma 2013, pp. 23, 196, 198-202, 204, 216, 218, 274.
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GIUSEPPE GUIDICINI NOTAIO

COSE NOTABILI


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www.gabrielezanella.it/Pubblicati/R...ecCencetti.html




Giorgio Cencetti

Lo Studio di Bologna Aspetti Momenti e Problemi



- 1970) A cura di Roberto Ferrara - Gianfranco Orlandelli - Augusto Vasina, Bologna, CLUEB 1989 (Università degli Studi di Bologna - Dipartimento di Paleografia e Medievistica), pp. X-416

Utilissimo volume, che rende disponibile per lo studioso l'intero corpus degli scritti di Giorgio Cencetti sullo Studio bolognese. Non poteva mancare, nella pletora delle pubblicazioni originate dal fittizio nono centenario, l'occasione di rimeditare la lezione del più rappresentativo studioso di ieri degli "aspetti momenti e problemi" dell'università bolognese. L'accento posto nella presentazione del libro da parte dei curatori alla "grande vitalità ed attualità, soprattutto sotto il profilo metodologico e critico" di quegli studi è certamente indiscutibile, anche se ogni volta che si sottolinea più il valore metodologico sia inevitabile una certa reazione di fastidio, col relativo sospetto che ci si trovi di fronte ad un necrologio più che ad una riflessione squisitamente scientifica. Ma ci sia consentito qui dire che nel libro è qualche cosa di più di una trascelta di "aspetti". Oltre l'ovvia restituzione di una temperie culturale - che ci pare ben poco "attuale", seppure indubbiamente interessante -, la raccolta di questi lavori consente - ed obbliga - ad una verifica di certe proposizioni, indicazioni di indagini da fare, enucleazione di argomenti da analizzare, sulla base di quanto dopo il C. è stato fatto, e non è stato fatto. Non ci pare lecito guardare a queste pagine come ad una testimonianza - rilevantissima - di un lavoro svolto, concluso con la morte del suo autore, senza tentare - giusto per riaffermarne il valore "attuale" e "critico" - di chiarirne il ruolo scientifico oggi, tralasciando ovviamente il valore che poteva avere ieri, e cercare di definire la considerazione che lo studioso della scuola, della cultura e delle istituzioni culturali deve averne.

Il tema delle origini è sicuramente quello più affascinante, ed affascinò infatti anche C., in più occasioni. I suoi studi in merito - Il pensiero medioevale e lo Studio di Bologna (1943), Sulle origini dello Studio di Bologna (1940), Studium fuit Bononie (1966) - sono allineati qui non in ordine cronologico di apparizione, ma direi in un crescendo di peso quantitativo (pp. 3-15, senza note; 17-27, con note; 29-73 con solo tre note finali, ma con richiami di indicazioni bibliografiche ragionate e fitte nel testo), e scientifico (da "L’Archiginnasio", "Rivista storica italiana", "Studi medievali"). L’inquadramento nell’ambito del "pensiero medioevale" è tutto sommato piuttosto generico e sa di scritto d'occasione, ma sempre alquanto personale ed acuto soprattutto là dove indica nella "concretezza" la cifra distintiva della neonata scuola giuridica bolognese, il vero solco tra quello che era stato prima, il "mondo della fantasia", lo "spirito estetico", e quello che sarà dopo, il mondo del "pensiero" e dello spirito "scientifico" (pp. 6-7), tra una scienza giuridica di enti diversi orientata a risolvere il particolare, al diritto concepito come scienza della legge emanante da un'unica fonte ed orientata a tutto inglobare. Ma risulta un qualche cosa di meccanico e sostanzialmente fuorviante identificare la ragione di questa tendenza nella "stabilità costituzionale del Regnum" e non tanto perché quella stabilità sia solo presunta (C. vi fa cenno di passaggio), quanto perché lega necessariamente l'una all'altra.

Anzi proprio il caso bolognese dimostra che nel maggior momento di incertezza dei ruoli (a Bologna non siamo neppure certi del nome dei vescovi dell'una e dell'altra parte!) la riscoperta del diritto romano celebra non quella dipendenza, ma il suo esatto contrario, o se si vuole una dipendenza rovesciata. E C. in fondo ben lo sapeva, perché poi parla di idea "inespressa, forse confusa e indistinta" che deve trovare in Irnerio "l'uomo di genio che saprà dare espressione concreta anche nella giurisprudenza alle aspirazioni medioevali verso l'universale" (pp. 10-11).

Sull’"unum necesse esse ius, cum unum sit imperium" C. enfatizza non poco (inevitabile il rimando a Dante, "con quasi duecent'anni di anticipo su una famosa terzina dantesca", pen poco perspicuo in tale contesto), ma ancora una volta deriva da un accostamento meccanico e forzato: "onde non è meraviglia se la nascente scuola bolognese ricevé anche il formale crisma di una auctoritas imperiale per mano della viceregina Matilde, i cui giudici erano rimasti sordi alle leggi romane finché potevano continuare a pensarle come personali o semplicemente supplettive, e non è meraviglia nemmeno se nel volgere di brevissimi anni le genti dell'Occidente sentirono che un altro splendidissimo faro della cultura medioevale si era acceso per indicare la rotta alle picciolette barche senza pilota nel mare della dottrina" (p. 12).


Ma poi ci trova del tutto consenzienti il rilievo che il risultato, sul piano della mentalità, "si risolveva in acquisto di concetti giuridici categorici e perciò universali, quando cioè più che la singola legge o costituzione gli scolari finivano per imparare e far proprio il pensiero giuridico" (p. 13). Questa è la vera novità, che giusto contraddice le precedenti concatenazioni storicistiche: "In Italia, al contrario che altrove, dalle antiche scuole alle università medioevali c'è una frattura incolmabile, che non lascia alcuna possibilità d'intendere queste come continuazione neppur materiale di quelle: le vecchie scuole, quasi esclusivamente vescovili e cenobiali, o muoiono o continuano come prima vita non diversa dalla morte o infine si trasformano in preparatorie agli insegnamenti superiori: la vera vita dello spirito scientifico è tutta nei nuovi istituti, estranei all'ordinamento ecclesiastico, che alla Chiesa fanno capo solo in quanto il pontefice, alla pari dell'imperatore, è rappresentante di quell'unica volontà trascendente che con un'unica legge dà norma all'universo" (ibid.).



E in che consiste poi la specificità dell'istituto, del "modello" bolognese? Qui C. si distaccava nettamente dagli studiosi che lo avevano preceduto: "Piuttosto riconosceremo l'ambiente, il terreno, per così dire, nel quale la scuola di diritto è nata e si è sviluppata, in una scuola notarile, che se pure non ha avuto enorme importanza, è certamente esistita in Bologna nel secolo XI..." (p. 18). Senza dimenticare, naturalmente la "petitio" di Matilde, con il recupero delle testimonianze da Riccobaldo a Bartolo al Sigonio sulla fondazione "imperiale" dello studio.


Avvalorata dalla contrapposizione operata da Odofredo di Irnerio a Pepone, che "coepit auctoritate sua legere in legibus" (p. 19). Allora la domanda, ancora oggi senza precisa risposta, è dunque: "Può tutto questo suggerire l'idea che a Bologna sia esistita una scuola notarile, la quale avrebbe preceduto di poco o accompagnato ai suoi inizi quella di diritto?" (p. 45). Dalla scuola notarile alla scuola di diritto, e, dopo una serrata analisi della Habita, dalle scuole di diritto alle societates : "le societates devono ormai essere considerate come la prima organizzazione dell'insegnamento superiore in Italia, e questa constatazione ha notevole importanza per la storia delle origini dell’Università come istituzione" (p. 57), non molto diversamente, insomma da come aveva pensato il Carducci (p. 58).


Sull'origine "prevalentemente, e forse interamente laica" (p. 81) comunque nessun dubbio, anche nei saggi raccolti nella seconda sezione, "Aspetti e momenti di vita dello studio" - La laurea nelle università medioevali (1943), dagli "Studi e Memorie per la storia dell'Università di Bologna", pp. 77-93; Il foro degli scolari negli studi medievali italiani (1940), dagli "Atti e Memorie della Deputazione di Storia patria per l'Emilia e Romagna", pp. 95-112; L’università di Bologna ai tempi di Accursio (1968), dagli "Atti del Convegno internazionale di Studi Accursiani", pp. 113-24; Il contratto di enfiteusi nella dottrina dei glossatori e dei commentatori (1939), dagli "Annali della Società Agraria di Bologna", pp. 125-208.

Pepone e Irnerio sono iudices, il ruolo di Matilde, di Enrico V e di Federico I ne sono l'inequivocabile segno.

Oggi però noi abbiamo molte minori sicurezze.

Per quanto molto si sia studiato la scuola notarile bolognese non si è rivelata affatto quella scuola alla sensibilità per il diritto ipotizzata da C., anzi recentissime ricerche di Giampaolo Ropa ce la presentano per lo più come scuola di indotti, prigionieri di formule (non di un formulario!) tanto fossilizzate quanto lontane da suggerire meditazioni nuove ed attente: "il passo dalle tecniche meramente professionali alla Scientia iuris legata al riscoperto diritto romano appare molto lungo" (G. Ropa Culture letterarie urbane dell’Italia altomedievale "Annuario dell’Università degli studi della Basilicata / Potenza" 1985/1986 p. 258).

Che Pepone fosse stato vescovo seppure scismatico è stato ipotizzato con buoni argomenti da Piero Fiorelli (Clarum Bononiensium lumen, in Per Francesco Calasso.


Studi degli allievi, Roma 1978), diversamente affiancato da Gabriele Zanella (Pepo: addenda minima, in "History of Universities" 2 (1982), pp. 217-24) e Carlo Dolcini (Velut aurora surgente. Pepo, il vescovo Pietro e l'origine dello Studium bolognese, Roma, Istituto storico italiano per il medio evo 1987 (Studi storici 180)). Che il massimo monumento della cultura bolognese sia il codice Angelica A. 123 è ormai certo; il ruolo della cultura ecclesiastica non è affatto fuori causa; che Pepone avesse non solo la capacità e la volontà, ma anche il diritto di insegnare si potrebbe ugualmente sostenere, e non si è mai notato, mi diceva, con lodevolissimo ma raro buon senso in amabili conversazioni Giampaolo Ropa, che se Pepone cominciò a insegnare, ci doveva anche essere un uditorio disposto a ricevere quell'insegnamento (ed ora lo si può leggere: G. Ropa La cultura ecclesiastica bolognese nell’XI-XII secolo e lo Studio universitario "Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia" Università degli studi della Basilicata - Potenza 1987-89 [1990], p. 150), ed un uditorio con un minimo di preparazione non nasce dal nulla. La chiusura del C. riposava su argomenti per lui validissimi, per noi quasi inconsistenti: "il diploma di Lamberto parla di canonici intenti agli studi ma non di scuola; e, di più, nei circa settecento documenti bolognesi superstiti dal 922 al 1100, da noi accuratamente consultati uno per uno, non c'è traccia né di scuole né d'insegnamenti né di maestri" (p. 114).

Ma il diploma è per molti versi unico, e per quanto riguarda la documentazione citata ci sarebbe da meravigliarsi del contrario: perché mai ne avrebbe dovuto parlare, osserva a ragione Ropa (La cultura… p. 148)? Al contrario le testimonianze più sollecitanti vengono da resoconti di tipo cronistico, come ho già rilevato altrove.

Il lavoro di C. sulla laurea è ancora per molti versi insuperato: da cooptazione a concessione papale (p. 83) a concessione regale (p. 86), ma sempre rilevante fino a divenire preponderante fu l'autorità dei professori (pp. 86-87), fino a che il titolo ebbe valore quasi esclusivamente professionale dopo il XV secolo (pp. 88-89). Anche sotto questo aspetto si ribadisce il valore di diverso ma universale "modello" delle università di Bologna e Parigi.

Modello che è piu facilmente riscontrabile nella elaborazione degli statuti, soprattutto nei primi; poi le necessità locali fecero sì che da sede a sede le differenziazioni si evidenziassero. Grande è per questo aspetto la capacità di C. di cogliere il nesso strettissimo tra la vita dello studio e società civile, tra evoluzione di un istituto giuridico e storia politica, cui arrivava da un forte richiamo idealistico: "E' la storia politica, quindi, a darci la spiegazione della nascita e dell'evoluzione di un istituto squisitamente giuridico nel suo contenuto e nella sua applicazione, quella storia che è formata da correnti di vita e d'idee, di pensiero che è azione, di azione che è pensiero" (p. 103).

Proprio su questa base possiamo oggi usufruire di lavori di più ampio respiro, e con notevoli progressi di informazione, per ricordare solo pochi nomi faremo quelli di Rossi, Vasina, Pini; da ultimo per una questione particolare ma di non breve momento Lorenzo Paolini è giunto di recente (L’evoluzione di una funzione ecclesiastica: l’arcidiacono e lo Studio a Bologna nel XIII secolo, in "Studi medievali" 29, 1 (1988) pp. 1-44) a correggere la convinzione del C. che l'arcidiacono esercitasse una specie di presidenza delle commissioni di laurea al posto del vescovo; in realtà la conflittualità fu piuttosto lunga ed accesa. Rivaluta invece Paolini quella che definisce una intuizione del C.: "si potrebbe pensare che alla cerimonia di graduazione assistesse anche l'altro giudice speciale degli scolari, il vescovo, e in tal caso i dottori avrebbero funzionato come assessori o come delegati" (ibid. p. 21 nota n. 47).

Ineliminabile è ancora il lavoro sull’università ai tempi d'Accursio: forte di una conoscenza formidabile della documentazione (p. 114), C. giungeva perspicuamente a rilevare nell'ambiente parigino una lotta per una autonomia da conquistare, ed a Bologna invece per una autonomia da conservare, il che spiega ampiamente le diverse vie di organizzazione istituzionale. Lucidissima è l’individuazione della complessità della materia nel contributo sull’enfiteusi, talmente ricco da obbligare qualunque studioso di oggi a rimandarvi più volte.

Di minor valore la terza sezione, "Lo Studio e la città" - Rolandino Passaggeri dal mito alla storia (1950), da "La Mercanzia", pp. 212-24; Il collegio bolognese dei giudici e avvocati e i suoi statuti del 1393, dal "Bollettino del Consiglio dell'Ordine degli avvocati e procuratori di Bologna", pp. 225-35; Alcuni documenti sul commercio librario bolognese al principio del secolo XVI (1935), da "L’Archiginnasio", pp. 237-44; Le idee politiche di Giosuè Carducci e il tumulto studentesco del 1891 (1937), da "Nuova Antologia", pp. 245-71. Il profilo di Rolandino è sbrigativo, schematico, spesso impressionistico; le indagini sul collegio dei giudici e sul commercio librario sono ormai largamente obsoleti. Divertente, ma forse non altro, la rievocazione di un episodio di contestazione studentesca nei confronti di Carducci, nel quale C. si sforzava di trovare una coerenza politica per la verità di difficilissima decifrazione. Una coerenza che C. non riusciva a definire se non in negativo: non-repubblicano prima, non-socialista sempre, non-monarchico poi. Sostanzialmente non-democratico diremmo noi. Come in questo C. riuscisse a vedere un "logica sicura" (p. 255) rimane un mistero. Banalissima è poi la conclusione: come Dante - ovvio! - Carducci fece parte per se stesso. Di rilievo che nell’episodio C. guardasse non con simpatia ma con comprensione agli studenti, con sostanziale disprezzo alle mene dei professori ed alle amplificazioni della stampa (p. 262). Legga chi voglia rimeditare le implicazioni del tempo di redazione del saggio (1937!) ed i possibili parallelismi con i movimenti studenteschi di più recente datazione.

Poco più di una curiosità sono le "Note e recensioni" - Questioni statutarie bolognesi (1940), da "L’Archiginnasio", pp. 275-91; la rec. di Il liber secretus iuris caesarei dell’Università di Bologna, vol. I (1939), dalla "Rivista storica italiana", pp. 293-97; e di R. Finger Bologna und die Deutschen im Mittelalter (1942), ibid., pp. 299-302; Genesi e sviluppo dello ‘Studium Parmense’ (nota su una recente indagine) (1970), da "Studi medievali", pp. 303-11. Come appunto curiosità - ma preziosa! -segnaleremo l’opinione di C. sull’arimannia: "Certo, nessuna persona sensata vorrà negare che gli arimanni di Alboino, e anche quelli di Rotari e di Liutprando fossero Germani: ma nessuno, neanche ponendosi dal punto di vista della più limitata etnologia, vorrà negare la problematicità di una simile affermazione per i secoli posteriori al nono o al decimo. Lo sentiva già allora la coscienza popolare: e lo stesso Liutprando di Cremona, che sdegnava esser creduto romano e si affermava orgogliosamente longobardo, confondeva poi gli uni e gli altri nell’unica determinazione di Italienses" (p. 300). Per il resto, ripetiamo, quelle note risultano decisamente datate.

Utilissima ancora l’"Appendice" del libro, con quel lavoro su Gli archivi dello Studio bolognese (pp. 313-404) che se risale al 1938 non ha perso nulla della funzione di repertorio indispensabile a chi si deve avvicinare a quella materia.

Un Indice analitico - in realtà un indice dei nomi - chiude questo volume, testamento di uno studioso, ma ancora per tante cose indispensabile vademecum da tenere a portata di mano nelle nostre biblioteche.





Edited by barionu - 12/4/2021, 20:02
 
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CAT_IMG Posted on 1/2/2017, 20:04
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di Ennio Cortese

IRNERIO. -


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"Fondatore" della scuola di Bologna, celebrato ai suoi tempi come "lucerna iuris", I. è tuttora noto più per gli insolubili problemi biografici che per i pochi dati certi.

Il nome con cui egli stesso si sottoscrive è Wernerius; la forma Warnerius e quelle italianizzate Garnerius/Guarnerius sono usate dai suoi contemporanei, mentre la variante Yrnerius/Irnerius, di cui è dubbia l'origine, compare solo dopo la sua morte (Patetta, 1967, pp. 451 s.; Nicolaj, 2000, p. 1045, propone la derivazione paleografica di y da wer). Non è un nome raro.

Per prudenza è bene evitare identificazioni con alcuni omonimi: un "Guarnerius de Montesilicis/ comes/ missus" che compare in un atto di data incerta e in un altro del 1100 (Spagnesi, 1970, pp. 160-162), un "Warnerius presbiter" del 1095 e del 1101, un "Guarnerius de Brigey" del 1106 (Dolcini, 1996, pp. 98-100; Mazzanti, 2000, pp. 154-159) nonché un "magister Garnerius" di una carta siciliana del 1117 (Besta, I, p. 49).

Le uniche date della sua vita che si ritengono sicure sono quelle della sua partecipazione a placiti; due tra il 1112 e il 1113 in veste di causidicus, ben undici tra il 1116 e il 1118 in qualità di iudex Bononiensis (Spagnesi, 1970); la notizia della sua presenza a Roma all'elezione dell'antipapa Gregorio VIII (Maurizio Burdino) nel marzo 1118; la scomunica lanciata contro di lui il 30 ott. 1119 dal concilio di Reims.

Il documento di un arbitrato del dicembre 1125, in cui fungeva da avvocato del monastero di S. Benedetto di Polirone, è stato di recente sospettato (Codice diplomatico polironiano, a cura di R. Rinaldi, Bologna 1993, pp. 331-335).

Quanto alla data di nascita, la si è avventurosamente posta tra il 1055 e il 1060 sulla base di episodi in realtà insussistenti, come l'immaginario magistero romano e le errate datazioni di opere che oltretutto non sono sue. Era forse già in età matura nel 1112 quando nel placito di Cornacervina fu registrato in capo alla lista dei causidici, fatto che dovrebbe indicare ch'era il più anziano.

Non va presa sul serio la tarda additio in cui si narra ch'egli avrebbe raggiunto "nimiam senectutem" (Pace, p. 131); più che di una notizia si tratta di una nota di colore nella favola, esemplata sul racconto di Aulo Gellio, della morte di Aristotele (Tamassia, pp. 318-321), della designazione che avrebbe fatto in punto di morte del proprio successore (narrata nella cronaca dei Morena: "Bulgarus os aureum, Martinus copia legum / Mens legum est Hugo, Iacobus id quod ego"). Meno che mai si può dare credito a Robert de Torigny (Robertus de Monte) che, nella cronaca normanna, fa iniziare gli studi di I. sulle leggi romane nel 1032 con il presunto maestro Lanfranco di Pavia. Anziché immaginare che I. abbia frequentato la scuola di Lanfranco in Normandia (Padovani, pp. 20-22; Mazzanti, 2000, pp. 173 s.), conviene pensare che Robert de Torigny (monaco e priore di Bec tra il 1128 e il 1154, prima della nomina ad abate di Mont-Saint-Michel) abbia attinto da una confusionaria tradizione orale di Bec.

È riemersa negli ultimi decenni la tradizione dell'origine teutonica d'I., che contrasta con la qualifica di "Bononiensis" o "de Bononia" che gli è data nei placiti. Si può forse supporre che fosse cittadino di Bologna ma di ascendenza germanica, il che spiegherebbe la fiducia riposta in lui dall'imperatore Enrico V che amava circondarsi di connazionali.

L'origine teutonica è attestata da un'annotazione in una summa quaestionum monacense risalente al 1185-90 (Nörr) e, circa un secolo più tardi, da un'additio torinese di un allievo di Francesco d'Accorso (Pace). Si è tentato di argomentare l'inattendibilità della nota monacense (Spagnesi, 1970, p. 22 n. 1); Dolezalek (1971, p. 497) e Fried (1990, p. 137) suggeriscono invece che I. abbia avuto il nomignolo di Teutonicus per via dei rapporti intrattenuti con l'imperatore o dei soggiorni compiuti in Germania.

Circa la formazione d'I., di cui nulla si sa, si sono tuttavia fatti i nomi di ipotetici maestri - un misterioso Geminiano, Pepo e Lanfranco di Pavia - che nessuna fonte attendibile conferma.

Fitting, prontamente smentito dal Patetta (1967, pp. 361, 386-388), ha immaginato I. allievo di un Geminianus sulla scorta dell'incerto rapporto tra una regula attribuita a quest'ignoto dalla glossa di Colonia e un passo delle Questiones de iuris subtilitatibus erroneamente assegnate a I. (H. Fitting, Questiones de iuris subtilitatibus des Irnerius, Berlin 1894, pp. 22, 46 s.). Quanto al legame con Lanfranco di Pavia, ammetterlo esigerebbe un castello di supposizioni: che I. dimorasse in Francia (Padovani, p. 23) prima della nomina di Lanfranco ad arcivescovo di Canterbury nel 1070, in tempi in cui era tanto giovane da rendere opportuna l'ulteriore ipotesi ch'egli e la sua famiglia fossero del luogo, o almeno vi avessero residenza stabile. La tesi, infine, che Pepo fosse stato suo maestro è stata aprioristicamente dedotta dall'asserito magistero bolognese di Pepo: Besta (I, pp. 51 s.) ha comunque definito la cosa non inverosimile e De Vergottini (1996, pp. 7-9) sicura. Ulteriore conferma è parsa venire dal suggerimento di P. Fiorelli (Clarum Bononiensium lumen, in Per Francesco Calasso, Roma 1978, pp. 415-459) che Pepo fosse diventato vescovo scismatico di Bologna a partire dal 1085. Ma la scarsa attendibilità del quattrocentesco senese Sigismondo Ticci, fonte di Fiorelli, e i buoni argomenti con cui l'insegnamento bolognese di Pepo è stato negato da Walther (p. 142), Nicolaj (1991, pp. 59-65) e Theisen valgono, malgrado i dissensi (cfr. C. Dolcini, Velut aurora surgente. Pepo, il vescovo Pietro e l'origine dello Studium bolognese, Roma 1987, pp. 24 s.), a confermare l'idea che I. e Pepo appartenessero a mondi separati.

Odofredo (m. 1265) dichiara che I. era magister in artibus al momento in cui giunsero a Bologna, forse provenienti da fondi nonantolani (Colliva, p. 638), parti ignote del Digesto. Egli cominciò allora per conto proprio a studiare e a insegnare il diritto giustinianeo, incontrando un crescente successo sull'onda della crociata contro i diritti germanici e della politica di restauro dell'autorità imperiale.

Odofredo afferma il magistero in artibus d'I. in due passi della sua Lectura (in C. 2.21[22].9: "Dominus Yr., quia loicus fuit et magister fuit in civitate ista in artibus antequam doceret in legibus, fecit unam glosam sophisticam que est obscurior quam sit textus"; in D. 1.1.6: "Sed dominus Yr., dum doceret in artibus in civitate ista, cum fuerunt deportati libri legales, cepit per se studere in libris nostris"). Sull'esistenza stessa di una scuola di arti liberali a Bologna nell'XI secolo si sono però avanzati dubbi (Cencetti); sospetti inoltre sul magistero in artibus d'I. hanno nutrito, per la mancanza di riscontri, Tamassia (pp. 397 s.) e Fried (1974, pp. 103-106). Un riscontro aveva invece trovato Besta (I, p. 53) nell'eleganza della prosa irneriana e nella conoscenza della logica (sottolineata quest'ultima ora da Padovani, pp. 256 s.).

Ultimamente è stata riaffermata la provenienza d'I. dai ranghi dei teologi. Il problema verte in realtà soltanto sull'attribuzione del Liber divinarum sententiarum - raccolta di materiale patristico specialmente agostiniano - che va sotto il suo nome e che storici-letterati, ma non i giuristi, usano assegnargli. La paternità d'I., suggerita nel manoscritto Y.43 sup. della Biblioteca Ambrosiana di Milano del Liber divinarum sententiarum attribuito a un Guarnerius qualificato, in un'aggiunta interlineare di mano del copista, come "iurisperitissimus", è stata ultimamente rivendicata da Mazzanti (1999); se attrae il suo tentativo di agganciare la prima scienza giuridica romanistica alla cultura teologica esplosa con la riforma gregoriana, gli argomenti, pur ingegnosi, non bastano a eliminare le numerose perplessità.

Molto più attendibile è l'immagine di un I. filologo. La propone la cronaca di Burcardo di Biberach, prevosto di Ursperg, là ove narra della richiesta rivolta da Matilde di Canossa a I. di "renovare libros legum […] secundum quod olim a […] Iustiniano compilati fuerant".

Sbrigliate fantasie di interpreti del passo di Burcardo hanno condotto, nella prima metà del '900, a inventare che la contessa avesse dato incarico a I. d'istituire la scuola di Bologna, che, per di più, sarebbe nata come Studio imperiale per via di un vicariato concesso da Enrico V a Matilde nel 1111. In realtà basta leggere attentamente il brano per vedere che Matilde invocava solo un restauro dei testi che li riconducesse agli originali, ossia una sorta di edizione critica, ch'era cosa quanto mai opportuna data la tradizione manoscritta lacunosa e disordinatissima. L'immagine di I. filologo, va notato, potrebbe adattarsi bene a quella del magisterin artibus testimoniata da Odofredo. Quanto alla datazione della vicenda, è logico pensare che la contessa avesse formulato la richiesta quando I. aveva già fama di esperto dei manoscritti delle leges; verrebbe comunque da ricordare che nel maggio 1113 la contessa e I. s'incontrarono a Baviana, in territorio ferrarese, in occasione di un placito.

Non è possibile datare l'inizio dell'insegnamento irneriano delle leges. Sono arbitrari i tentativi fatti nei secoli andati, da quello cinquecentesco di Carlo Sigonio che parlava dell'anno 1102, fino agli assurdi 1128, 1190 o 1200 (Spagnesi, 1970, pp. 16-18). Anche la collocazione generica verso la fine del sec. XI (Kantorowicz, 1938, p. 69) è ragionevole ma indimostrabile. Vecchie dicerie sulle varie città nelle quali I. avrebbe tenuto scuola, in particolare Pisa, Roma e Ravenna, non trovano riscontro. Per il magistero bolognese si può dire soltanto che nel 1116 la fama del giurista era acquisita se venne adottata in città la nuova formula notarile dell'enfiteusi da lui escogitata, e si accantonò quella di tipo ravennate usata fino ad allora. La creazione di tale nuova formula fu all'origine della falsa tradizione, divulgata da Odofredo, che I. avesse composto il primo formularium tabellionum.

Il 1116 fu un anno significativo e intenso per Irnerio. Compare in ben nove documenti, per lo più accanto all'imperatore Enrico V che accompagnò nel secondo viaggio italiano (Spagnesi, 1970, pp. 138-143). I. aveva il titolo di iudex e tra i giudici, fuorché nei due primi atti padovani di marzo, occupava il primo posto, fatto che dovrebbe essere segno di riguardo o di anzianità. Deve aver seguito l'imperatore fino a Roma, raggiunta nella primavera del 1117; nel marzo del 1118 partecipò in S. Pietro all'elezione scismatica di Maurizio Burdino. La notizia data da Landolfo attribuisce però genericamente a un "quidam", e non specificatamente a I., la prolixa lectio con cui venne spiegato al popolo che la procedura da seguire, in spregio al decreto di Niccolò II del 1059 che prevedeva il voto dei cardinali vescovi, consisteva nell'acclamazione della persona designata dall'imperatore. I due primi docenti di diritto romano hanno operato dunque entrambi all'ombra di uno scisma: dopo il 1080 Pepo, dal 1118 Irnerio. Il 30 ott. 1119 il concilio di Reims lo colpì di scomunica (Holtzmann).

Indipendentemente dal fatto che abbia tenuto o meno l'orazione preelettorale in S. Pietro nel marzo del 1118, I. fornì di certo fonti e argomenti. Non è difficile immaginare ch'egli abbia fatto leva sulla lex regia, con la quale il popolo romano aveva trasmesso i suoi poteri a Vespasiano nel 69; la leggenda dice che sul modello della lex regia un concilio romano del 774 aveva conferito a Carlo Magno il diritto, appunto, di nominare il papa. Tale leggenda, divulgata da cronache ecclesiastiche, recepita dal diritto canonico (sarà consacrata da Graziano, Decr. D. 63 c. 22), era confluita nelle falsificazioni cosiddette ravennati di parte imperiale del tempo di Enrico IV (nell'Hadrianum e nel Privilegium maius), nella cui tradizione è logico si muovesse Irnerio. Fu Callisto II, eletto e consacrato a Vienne nel febbraio 1119, a colpire di scomunica Enrico V con un gruppo di nobili, di prelati e di ostinati scismatici: nella lista reperita e pubblicata da Holtzmann nel 1933 compare Irnerio. Mazzanti (2000, p. 121) ritiene che la scomunica, curiosamente ritardata di un anno e mezzo, colpisse i fedeli di Enrico che in quell'autunno 1119 continuavano ad appoggiare l'antipapa.

Con tutta probabilità nel 1119 I. si trovava Oltralpe alla corte dell'imperatore. I documenti, che dopo il novembre 1116 tacciono per un anno e mezzo, nel giugno 1118 lo presentano a Bombiana, nel Bolognese, e il 1° agosto a Treviso, in un placito presieduto dal sovrano nel quale I. è il primo dei giudici. Le due carte disegnano un itinerario verso la Germania coincidente con quello tenuto da Enrico V. Non sono invece dimostrabili il successivo trasferimento d'I. in Francia né il soggiorno e il decesso nel convento vittorino di Parigi ipotizzati da Mazzanti (2000, pp. 127-181). Il ritorno a Bologna potrebbe essere testimoniato dalla sua comparsa nell'arbitrato di Casale Barbato del 10 dic. 1125, in cui lo si dice "iudex Bononiensis", se si ammettesse che l'eventuale falsificazione della carta non fosse falsificazione dell'episodio. Non si ha più notizia di lui dopo il 1125.

La morte d'I. è stata presuntivamente collocata dopo il 1125 o il 1132 (Palmieri) o il 1136 (Pescatore, 1888), o poco prima del 1140 (Gaudenzi, 1901)


. Recentemente una minuziosa indagine di Mazzanti (2000, pp. 127 s.) ha individuato I. nel "magister Garnerius Teutonicus" di un tardo obituario di S. Vittore di Parigi che data il trapasso a un 19 settembre, senza indicazione di anno; Mazzanti sembra collocare quel decesso tra il 1125 e il 1140 (p. 180). Tale identificazione, però, non convince. Anzitutto quell'ignoto tedesco doveva essere un ecclesiastico e I., in quanto giudice imperiale, non lo era. Inoltre non è verosimile che i cinque volumi con glosse lasciati all'abbazia da quel Garnerius, come ricordato nell'obituario ("quinque libros optimos glosatos", ibid., pp. 127 s.), possano essere un Corpus iuris, sia perché all'epoca di I. le leges non erano ancora ripartite nei cinque tomi tradizionali, sia perché gli apparati d'I. sono discontinui.

Opere: alla fine dell'Ottocento si ritenne la produzione d'I. sterminata; oggi la si riduce alle glosse. La loro individuazione ha creato tuttavia problemi per via delle sigle y, I, g, w, che in altri tempi si credeva lo designassero; oggi si considera affidabile solo la y, forse derivata dal segno di richiamo in capo alla glossa e ornamentale in fine (Dolezalek, 1971, p. 497), oppure dalla stilizzazione di un wer. abbreviato (Nicolaj, 2002, p. 1045). La sigla yr nei manoscritti antichi indica Enrico da Baila, ma sui tardi anche Irnerio. Solo una parte delle glosse è stata edita (da Cujas, da Savigny, forse da Bollati, da Pescatore, da Besta, da Torelli, da Rota), ma di quelle pubblicate parecchie non gli appartengono, o perché consistono di più tarde citazioni del suo pensiero o perché la sigla non è sua. Può essere genuina la distinctio in materia di locazione-conduzione attribuitagli da Roffredo (cfr. Savigny, Geschichte, IV, pp. 469 s.). Quanto al suo pensiero, va ricordato, tra l'altro, ch'egli credette non autentico il testo dell'Authenticum, e tuttavia ne introdusse estratti (authenticae) in calce alle costituzioni del Codice giustinianeo cui le Novelle derogavano. Ebbe interessi processualistici testimoniati da glosse e distinctiones (Radding, Errera); taluno ha creduto che fosse persino attento a questioni feudali (Pescatore, 1908; Rota, 1954) e al mondo della Lombarda (Paradisi, La renaissance, p. 984). La sua celebre tesi che nega validità alle consuetudini contra legem dopo la definitiva cessione della sovranità del popolo al principe mediante la lex regia (Savigny, Geschichte, IV, p. 459) rivela i suoi sentimenti filoimperiali e lo mostra ancora ignaro dei meccanismi del sistema del diritto comune. Lasciò quattro allievi famosi - Martino Gosia, Bulgaro, Iacopo e Ugo - che, proseguendo degnamente il suo magistero, assicurarono la gloria dello Studium di Bologna.

Inizialmente gli è stato attribuito il Brachylogus, seppur cautamente (Savigny), e l'Epitome Exactis regibus, opere tutte presto consegnate a scuole francesi postirneriane. Più tardi Fitting pubblicò sotto il suo nome le Questiones de iuris subtilitatibus che datò a Roma intorno al 1082 (Berlin 1894), la Summa Codicis Trecensis, che immaginò composta a Bologna prima del 1090, un breve scritto de aequitate che compariva nei manoscritti delle Questiones ed è tolto dalla Trecensis (cfr. Summa Codicis des Irnerius (Trecensis), Berlin 1894). Gli assegnò inoltre parte di un de natura actionum nonché, sempre per ipotetiche affinità con la Trecensis, persino la Summa legis Langobardorum edita da A. Anschütz (Halle 1870). G.B. Palmieri, allievo di Gaudenzi e seguace di Fitting, presentò nella Bibliotheca iuridica Medii Aevi (I, Bononiae 1913; I, Addendum, ibid. 1914) sotto il nome d'I. la Summa Institutionum Vindobonensis e il Formularium tabellionum, testi di cui si è disconosciuta in seguito la paternità irneriana. Infine Gaudenzi, che però poco dopo si corresse, e Grabmann attribuirono a I. il Liber divinarum sententiarum. Dall'ultimo decennio dell'800 soprattutto Patetta, Pescatore, Besta e Kantorowicz (1938, pp. 33-37) hanno fatto giustizia di queste attribuzioni (letteratura in Weimar, 1973). Tra le esposizioni più o meno attendibili e quasi coeve del pensiero d'I., lo stesso Kantorowicz ha descritto ed edito un Exordium Institutionum "Quia intentio generalis est" (1938, pp. 59-65, 240) e una Materia Codicis "Cum Iustiniani nomine" (ibid., pp. 233-239). I sospetti nutriti da I. circa l'autenticità delle Novelle, prolisse e sistemate nell'Authenticum disordinatamente, lontane cioè dallo stile esibito da Giustiniano nel Codice, sono espressi in una glossa irneriana edita da Savigny; secondo Carlo di Tocco e Roffredo, I. avrebbe però finito col cambiare idea (Savigny, Geschichte, III, pp. 491-495). Sulle autentiche irneriane si è discusso (Patetta, 1926).

Glosse irneriane sono state edite da Savigny (Geschichte, IV, pp. 458-470); L. Chiappelli, Glosse d'I. e della sua scuola, in Memorie dell'Accademia nazionale dei Lincei, cl. di scienze morali, s. 4, II (1886), pp. 184-236; glosse al Codice da G. Pescatore, Die Glossen des Irnerius, Greifswald 1888, pp. 83-111; glosse al Digestum vetus da E. Besta, L'opera d'I., II, Torino 1896 e, poche, da A. Rota, Lo Stato e il diritto nella concezione di I., Milano 1954, pp. 65, 72, 115 s., 121; glosse alle Institutiones da P. Torelli, Glosse preaccursiane alle Istituzioni. Nota prima: glosse d'I., in Id., Scritti di storia del diritto italiano, Milano 1959, pp. 45-94; glosse all'Authenticum da I. Cuiacius, Notae in Institutiones Iustiniani, in Id., Opera, I, Francofurti 1595, pp. 73-75. Taluni manoscritti del Digestum novum con glosse irneriane sono segnalati in G. Dolezalek, Der Glossenapparat des Martinus Gosia zum Digestum Novum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Rom. Abt., LXXXIV (1967), pp. 261, 263, e altri specialmente del Codex in G. Dolezalek - L. Mayali, Repertorium manuscriptorum veterum Codicis Iustiniani, II, Frankfurt a.M. 1985, pp. 928 s. Non appartengono a I., come già brevemente accennato, le opere edite da Fitting e da Palmieri; resta incertissima la paternità dell'opera teologica edita da G. Mazzanti, Guarnerius iurisperitissimus: Liber divinarum sententiarum, Spoleto 1999.

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di Enrico Spagnesi


DENARI, Odofredo.




- Nacque a Bologna, verosimilmente ai primi del '200, da Bonaccorso di Riccardo. Gli scrittori più antichi, fino al Sarti, lo scambiarono talvolta col glossatore Roffredo Epifanio, dicendolo perciò Beneventanus, o caddero in altri errori, come l'attribuirgli il cognome Odofredi, col quale furono comunemente designati i suoi discendenti.

D'estrazione popolare, la famiglia Denari era ricca e potente; il D. fu avviato agli studi giuridici, di cui abbiamo notizia indiretta per due acquisti, fatti dal padre e da lui stesso, nel 1226, di alcuni libri. Non pare fosse ancora addottorato due anni dopo, quando il testamento di suo zio Caravita ne menziona la moglie, Giuliana e un figlio, Riccardino. Scarsa la documentazione anche per gli anni successivi, nei quali debbono situarsi le esperienze, i soggiorni, i viaggi, che hanno lasciato nelle opere sue memorie numerose e talora pittoresche in riferimento a molti luoghi (Venezia, Padova, la Marca anconitana, Spoleto, Roma, Parigi).

Nel gennaio del 1232, col titolo di legum professor e in qualità di giudice, decise una controversia a favore del monastero di S. Vittoria presso Fermo; nel giugno del 1236 rese consiglio, con altri giuristi, tra i quali Bagarotto, a favore di Gardionessa di Camposampiero e figli, contro il vescovo di Padova. Mettendo in relazione queste notizie, che provano essere causa di peregrinazioni le funzioni sue di assessore di giusdicenti, con i ricordi personali, si possono formulare alcune ipotesi.

Il D. dice d'esser stato in Francia prima della pubblicazione d'una certa decretale (cioè anteriormente al 1234), e nella Marca circa trent'anni avanti di tenere certi corsi universitari (assegnabili al 1260-63). Se al principio del 1232 era al servizio di Milone di Châtillori-Nanteuil, vescovo di Beauvais e rettore della Marca dal 25 sett. 1230, si può supporre che il soggiorno francese risalga al 1228-30, e che in tale occasione egli abbia potuto farsi apprezzare dall'ecclesiastico che gli affidò l'ufficio di giudice; la qualifica di professore fa capire che l'inizio dell'insegnamento deve ricondursi ad un'epoca prossima al conseguimento del dottorato, ma anche che l'attività didattica veniva alternata ad altre incombenze. Quanto al consilium padovano, se ne può dedurre che il D. fosse al servizio dei podestà, finché questi fu il bolognese Ramberto de' Ghisilieri, ma non si deve pensare ad un suo magistero nello Studio di Padova; la congettura del Gloria va respinta, né si può argomentare dal fatto che il figlio del D., Alberto, compare nella matricola del Collegio dei dottori padovani, documento tardo e di scarsa affidabilità.

Il 13 ott. 1238, a Bologna, il D. e altri celebri giuristi (tra essi Accursio e Bagarotto) precisavano termini e modalità delle condanne comminate in base all'arbitrium potestatis; è il primo d'una numerosa serie d'interventi che, come membro di diritto del Consiglio speciale, o in altre qualificatissime vesti, il D. opererà partecipando alla vita politica ed amministrativa della propria città.

Nel 1244 fece parte della commissione incaricata di dichiarare quali terre del contado erano esenti da certi tributi, cinque anni dopo di quella che compilava gli elenchi dei "fumanti" per gli estimi; in occasione della resa di Modena, dopo Fossalta, era tra i rappresentanti alla stipula del trattato e tra i testimoni del lodo degli arbitri parmensi per la vertenza sul Frignano (15 e 20 dic. 1249); era degli Anziani, quando liberò dal bando gli Imolesi, nel 1250; tre anni dopo, a Ravenna, era teste della pace tra i Comuni ravennate e bolognese; nel 1254 era ambasciatore prima presso la Curia romana, poi a Modena; nel 1257 era desigriato come eventuale superarbitro nella questione delle rappresaglie tra Bologna e Ravenna.

In un caso è lo stesso D. ad attestare lo svolgimento di queste mansioni pubbliche, dicendo, in una delle proprie lezioni, che il legato pontificio, quando morì papa Gregorio IX (nel 1241), pose a lui, come a diversi peritissimi, il quesito sulla fine della giurisdizione delegata, seguendone poi il parere. Gli atti di maggior rilievo per l'ordinamento statale non esauriscono il panorama dell'attività del giurista; in varie occasioni il D. prestò la propria opera d'assistenza agli uffici podestarili, talvolta come testimone (come il 1º ott. 1240), talaltra per prestare formale consilium sulle procedure giudiziarie (così al notaio del podestà, sulla cancellazione di alcuni bandi, il 31 ag. 1254 e il 4 marzo dell'anno seguente).

Quanto all'insegnamento, lo stato della documentazione superstite relativa allo Studio bolognese non permette di ricostruire i ruoli dei maestri, né esistono fonti di cognizione indiretta; gli scrittori che lo dicono laureato nel 1228, e docente dall'anno successivo, non disponevano di maggiori informazioni di quelle attuali. Certo è che il D. considerava Iacopo Baldovini come suo principale maestro e che gli anni del discepolato sono anteriori al 1229-30 (il Baldovini fu allora podestà di Genova); soltanto dopo il periodo degli assessorati svolti lontano da Bologna si dovrà pensare che il D. abbia legato con stabilità il proprio nome allo Studio dove tenne lezione fino alla morte.

Alcuni dei suoi corsi sono databili, perché esempi di atti portano gli anni 1247 10263, e vi sono riferimenti ad eventi storici del 1259-60. D'altra parte gli appunti dalle lezioni furono presi in tempi diversi, ed accanto al rinvio puntuale si trova il ricordo vago, cronologicamente fuorviante.

Sono stati indicati come maestri suoi anche altri, ma soltanto per Ugolino e Bagarotto egli dice "ita audivi ab eo". Il discepolato non significa supina accettazione d'ogni dottrina; anzi, tra le non infrequenti critiche di celebri doctores ne troviamo anche di formulate per il Baldovini; la linea scientifica comunque è quella stessa inaugurata da Irnerio, e della tradizione scolastica bolognese caratterizzata e distinta dal genere letterario "glossa" le opere del D. sono rappresentative sotto tre profili. In primo luogo per quello, appariscente e curioso, dei tanti aneddoti riguardanti la storia dello Studio e dei libri di diritto, la biografia dei maestri, la vita universitaria nel suo complesso: senza questa "ricchezza meravigliosa di notizie", disse il Tamassia, "nemmeno un Savigny avrebbe aperto la via così magistralmente per lo studio del diritto romano nel medio evo". In secondo luogo per lo straripante numero di citazioni di auctores, a dimostrazione d'un cospicuo bagaglio di cultura generale e specifica: tra i classici, Cicerone e Seneca, Ovidio e Virgilio; tra i medievali Donato e Prisciano, Isidoro e Papia. I giuristi menzionati sono ben trentatré, tra i quali alcuni dei doctores antiqui (così sono designati i precedenti ad Azzone) che non hanno quasi lasciato traccia della loro attività e restano male identificabili. Per quanto riguarda un terzo aspetto, infine, i lavori del D. costituiscono la tangibile espressione di metodi e forme d'insegnamento che in tale ampia misura non sono altrimenti documentati: le lezioni sulle varie parti del Corpus iuris civilis furono raccolte in modo quasi completo, con le loro prolissità, ridondanze e addirittura con il caratteristico esordio in volgare "Or segnori"; e soprattutto, in esse, come nei tractatus, nelle repetitiones, nelle quaestiones che egli ci ha lasciato, si assiste ad un importantissimo sviluppo della didattica, che apre la strada alla scuola dei commentatori, e che è in qualche misura correlato ad un cambiamento nelle strutture dello Studio bolognese.

In quei tempi si viene costituendo l'universitas, la corporazione studentesca destinata a soppiantare completamente gli antichi consortia formati dai maestri e dai loro allievi; i rapporti tra le due componenti vengono ad atteggiarsi in modo diverso; si fa maggiore l'ingerenza degli organismi comunali nella vita accademica sia per quanto riguarda la scelta dei professori, sia per gli obblighi e per il pagamento di questi. Gli statuti del 1252 documentano tali tendenze e tensioni, quando disciplinano rigorosamente la taxatio punctorum, mediante la quale si assegna al docente il tempo necessario e sufficiente per spiegare gli argomenti di lezione, ripartiti tra ordinari e straordinari; tra i generi letterari emergenti spicca la quaestio, la cui disputa sarà resa obbligatoria - per certi insegnanti, almeno una volta all'annol in periodi determinati - rappresentando un momento solenne nella vita di tutta una facoltà.

In alcune proposizioni introduttive ai propri corsi, il D. dimostra d'aver coscienza della novità (e di essa si compiace) di certe prassi ed iniziative personali: egli leggerà tutto il testo, compresi i passi che altri doctores saltano, e anche le glosse; e disputerà almeno due volte all'anno. Le quaestiones, innovative sotto il profilo metodico, confluite o non nei suoi commenti, dimostrano una prima, inusitata attenzione verso lo ius proprium, in sé e nei problemi di raccordo e armonizzazione con le norme generali: tipico l'esempio relativo alla prescrittibilità della iurisdictio, tema difficile, ripreso e dilatato dai giuristi posteriori in relazione alle diverse situazioni politiche.

Tali atteggiamenti e spunti presenti nell'opera del D. sono apparsi al Meijers e a qualche altro studioso collegabili alle origini della scuola di Orléans, in particolare la notale indipendenza" di questa rispetto alla glossa accursiana è sembrata derivare dal magistero del Baldovini e del suo discepolo: come il primo è critico nei confronti di Azzone, il D. lo è riguardo ad Accursio; vi sarebbero, inoltre, notevoli tratti comuni tra gli scritti del D. e quelli di jacques de Révigny, animatore del nuovo corso oltremontano. Com'è ovvio, su tematiche tanto complesse non mancano disparità di vedute; il Nicolini ha tenuto a sottolineare la coesistenza tra le due forme letterarie, della glossa e del commento, che esclude macroscopiche contrapposizioni e soluzioni di continuità: tuttavia la contemporaneità di metodi didattici e scientifici diversificati porge il destro agli scrittori per creare protagonisti e antagonisti, e disegnare le relative scenografie di maniera: Benvenuto da Imola (Comentum a Inf., XV: a cura di J. Ph. Laicata, I, Firenze 1887, p. 523) narra che Accursio si finse ammalato per poter lavorare in tranquillità al proprio apparatus e precedere nella pubblicazione i commenti del D.; se non ci fosse stata l'esegesi accursiana, tutti avrebbero utilizzato quella del D., dice, ancora nel 700, il Sarti.

La critica moderna, cioè il Savigny e il Tamassia, ha segnalato le scarse tracce dirette di questa rivalità riscontrabili nelle opere dei due maestri, come citazioni a mezza bocca e allusioni ironiche (in particolare, la frecciata del D. contro i compilatores glossarum: un'altra volta, tuttavia, i verba Accursii sono detti elegantia); quanto al valore scientifico, prolissità, mancanza di acutezza, ragionare tedioso e impacciato, e altro ancora, sono stati rimproverati dal Savigny alle Lecturae del D., e il Tamassia, manifestando "un senso di disagio intellettuale ineffabilmente grave" nell'accostarsi ad esse, ha rimesso quasi totalmente l'importanza loro nella raccolta di opinioni e notizie, di quelle ofiabe e storielle" propinate agli studenti per interrompere la noia della lezione.

Impossibile sintetizzare in poco spazio i numerosissimì argomenti che con paziente e dotta intelligenza il Tamassia venne spigolando nei commenti odofredianil egli li divise in cinque gruppi, riguardanti il linguaggio e il metodo didattico del giurista, ciò che dice dello Studio bolognese, quanto conosceva dei diritti longobardo, feudale, statutario e canonico, la sua attenzione per la vita pubblica e privata del tempo, la menzione, infine, di personaggi e fatti storici: quasi capitoli d'uno zibaldone ideale, dove sono presenti la cronaca e il romanzo, la grave meditazione e il triviale pettegolezzo. La citazione obbligatoria di alcuni brani celeberrimi sulle origini dell'università bolognese (il trasporto dei testi giuridici da Roma a Ravenna e poi a Bologna; Pepone "nullius nominis" e Irnerio primo glossatore e "lucerna iuris", ecc.), non deve farci dimenticare che l'odierna ricostruzione storica viene via via ad interessarsi di altri dicta del D. (Venezia non riconosce il diritto romano; gli studenti sono "mali pagatores"; parte delle dodici tavole sono, indecifrabili, in Laterano, ecc.), per sistemarli in contesti congrui, dove rivestono indubbia utilità di fonte.

Il problema dell'attendibilità di tali notizie ha tratti comuni con quelli proposti da ogni autore medievale. Il D. raramente sembra lavorare, almeno in questo campo, di prima mano; riprende glosse precedenti, amplificandole e deformandole in qualche misura; a sua volta è saccheggiato, inevitabilmente con fraintendimenti. Comunque è certo che considerare i suoi corsi soltanto come un formidabile centone di aneddoti appare soluzione riduttiva e inaccettabile; si avverte la necessità di un'indagine che abbandoni l'ottica delle "zeppe" collocate a caso, ed esamini il particolare "stile" del D. in un quadro più convincente, operando i collegamenti necessari con l'ambiente dove egli si trovò ad insegnare, così ricco di fermenti culturali (si pensi per esempio all'emergente scuola di notariato), e considerando attentamente, oltre alle Lecturae, le altre produzioni del D., e la vasta gamma d'interessi che da esse viene dimostrata.

Come altri civilisti, il D. guardava con una certa sufficienza alle discipline diverse dalla propria; cio non toglie che abbia scritto di diritto feudale e glossato la pace di Costanza; che dimostri un'approfondita conoscenza della legislazione statutaria di Bologna e di altri luoghi, e abbia glossato gli statuti veneti tiepoleschi; che trovino posto nella sua biblioteca, sia pur tardi (gli acquisti sono del 1256 e del 1257), due copie del Decretum, con e senza l'apparato; e che si sia servito con padronanza di molte delle forme letterarie in uso nella scuola.

Additiones, casus, repetitiones, quaestiones, tractatus e consilia, in unione con le Lecturae, formano un coacervo di materiali ricchissimo, che, rendendo possibili varie utilizzazioni, e plausibili diverse attribuzioni di paternità, determina intrecci districabili solo con fortunata pazienza, ove si voglia stilare il catalogo delle opere del Denari. Abbiamo un vero campionario di situazioni equivoche, adatte a provocare errori. A parte lo scambio d'identità con Roffredo, c'è la pretesa autorizzazione imperiale per il commento alla pax Constantiae; c'è il raffazzonamento più o meno innocente, il plagio smaccato, e l'indicazione non abbastanza controllata. Citiamo qualche caso emblematico. La Summula de libellis, stampata per la prima volta a Strasburgo nel 1510, è quasi sicuramente lavoro di Salatiele. Il Savigny, pur tenendo conto dei numerosi rinvii ad un'arsnotarie che il D. non risultava aver mai scritto, avallò una notizia derivante da Giovanni d'Andrea per confermare la paternità odofrediana. La riedizione del 1970 (dovuta a A. Grazia), mette a frutto solo tre mss. (uno bolognese, due parigini), mentre il Verzeichnis del Dolezalek ne segnala altri sette sotto il nome del D. e uno sotto quello di Salatiele: un ms. adespoto è stato identificato di recente a Praga (Kejf). Il De positionibus, stampato a Siena nel 1494 (col De ludo di G. B. Caccialupi e opere di altri giuristi), non è suo, ma si è ancora incerti tra coloro che i numerosi mss. propongono come autore; il De consiliis habendis per officiales, pubblicato fra i tractatus bartoliani a partire dal 1521, è ora ritenuto opera di Alberto da Pavia, integrata da alcune giunte del D.; il classico De tormentis gli fu attribuito anticamente, e, per certe parti di quel testo composito, un minimo di possibilità sussiste (un codice vaticano, il Lat. 2525, reca il trattato col nome di Guido da Suzzara, e poi quaestiones odofrediane attinenti); il De percussionibus, circolante in genere tra i bartoliani, è invece, come disse il Diplovatazio, con certezza ascrivibile al Denari. Fenomenologia differente hanno i problemi legati alla glossa degli statuti veneti di lacopo Tiepolo del 1242, della quale sono testimoni tre codici veneziani (più un tardo apografo ravennate); gli studi del Besta e del Cessi, stabilita tra quelli l'autorità del ms. marciano, hanno permesso di distinguere lo "strato" odofrediano, e di ravvisare in quel primo commento il disegno d'un'opera completa ed organica, dotata d'una cifra stilistica inconfondibile.

Accanto alle indicazioni provenienti dalle ricerche sulle opere, altre giungono dall'esplorazione di uno o più codici. Si possono citare l'indagine recente (Nicolosi Grassi) che ha portato all'edizione della già menzionata quaestio "quidam miles", dal parigino Lat. 4604, recante complessivamente quarantasei testi di tale tipo, dei quali solo alcuni siglati, ma tutti connessi con l'insegnamento del D.; il breve studio (Buonarnici) sul ms. 427 della Biblioteca capitolare Feliniana di Lucca, un bel codice miniato contenente l'opera feudale di Antonio da Pratovecchio e la glossa del D. alla pace di Costanza; il censimento dei mss. feudistici, con la particolareggiata analisi del MS. 2094 della Osterreichische Nationalbibliothek di Vienna (Seckel), in ordine alla comprensione della Summa in usus feudorum del D., di cui esiste una rara edizione complutense del 1584; la descrizione del miscellaneo C.O. 40 dello Statni Archiv di Olomoue (Dolezalek), testimone della Summula a D. 42, 4, cioè il De primo et secundo decreto, e del De fama.

Queste ultime operette, come il De curatore bonis dando, il De dotis restitutione e il De interdictis, compaiono sotto il nome suo in varie raccolte a stampa, speciali o generali, di monografie. Controlli incrociati della tradizione manoscritta, sulla base anche dei titoli e degli incipit, sono ora possibili grazie al Verzeichnis del Dolezalek, al quale si può senz'altro rinviare. Tale prezioso strumento ci mostra la limitatezza delle segnalazioni savigniane di mss., che si riflette sull'esatta enumerazione delle opere: non vi si trovano i casus, le repetitiones, le additiones ai testi civilistici e alla Summa Institutiones azzoniana, pur rappresentate da tanti codici (ben quindici, per le additiones al Vetus), perché passate sotto silenzio dai biografi precedenti. Il Savigny censi invece accuratamente mss. e stampe delle Lecturae, e poco si può aggiungere; prima di ricordarli, in breve, si può accennare alla notevole fortuna di questi corsi: si trovano elencati nei cataloghi degli stazionari, con un'estensione di cento pecie, quelli sul Vetus e sul Codex, di trenta, quelli sull'Infortiatum e sul Novum; spesso furono oggetto di contratti di vendita o di trascrizione (per esempio, nel 1268); talvolta si usarono per colmare le lacune presenti nelle Lecturae di altri autori (in quella sul Vetus di Jacques de Révigny, alcuni passi si riconoscono per cominciare col caratteristico esordio "Or segnori").

La Lectura sul Vetus fu stampata a Parigi e Angers, nel 1504; a Lione, nel 1519, nel 1550 C 1552; un codice completo alla Nazionale di Firenze (Grandi formati, 39, XXIX, 27), altri mss. più o meno parziali a Kassel (Murbardsche Bibliothek, 2 Mss. iurid., 3), Norimberga (Stadtbibliothek, Cent. II, 78), Parigi (Bibl. nat., Lat. 4489). Sull'Infortiatum, edita a Lione, nel 1550 e nel 1552, a Bamberga ha un testimone del solo D. 28, 2, 29. Sul Novum, edita a Lione, nel 1552, della quale non si conoscono mss. Sul Codex: edizioni di Lione, 1480; Pavia, 1495-1500 (Indice generale degli incunaboli, n. 6959-13, fino al libro IV, sconosciuta al Savigny), 1502 (data dal Savigny); Trino, 154; Lione, 1550 e 1552; mss.: oltre ai quattro dati dal Savigny, se ne conoscono ora a Durham (Cathedral Library, C, I, 12), Francoforte (Stadt-und Universitátsbibl., Bartholom., 17), Seo de Urgel (Biblioteca de la Catedral, 2042), Tarragona (Biblioteca provincial, 87), Toledo (Biblioteca de la Catedral, BC, 40,8; 40,9). Sui Tres libri: edizioni di Venezia, s.d. (segnalazione del Savigny), di Lione, 1517, e 1550; niss. a Chartres (Bibl. munic., 310) e a Madrid (Bibl. nac., 577). Infine un indice, relativo al Vetus e al Codex, fu stampato a Lione, nel 1550 e nel 1552.

La produzione letteraria passata in rassegna, tutta improntata ai ritmi e alle esigenze dell'insegnamento, ha una perfetta corrispondenza nelle notizie biografiche che collegano il nome del D. all'articolata vita dello Studio bolognese. Nessun altro professore, disse il Sarti, ebbe maggior affluenza di studenti, e si procuro, con quest'attività, pari ricchezze; in effetti, le scholae di lui e quelle di Accursio erano le dominanti, e i figli dei due grandi maestri, cioè, rispettivamente, Alberto e Francesco, erediteranno, oltre che il mestiere, la potenza economica dei padri. Sappiamo con certezza che la scuola del D. aveva anche una statio destinata alla confezione dei libri, e probabilmente egli ebbe per un certo periodo come socio, per il commercio relativo, Ardizzone di Guido da Milano, il primo ad incarnare la figura di bidello generale dell'università. Spesso i doctores prestavano denaro agli studenti, talvolta, come scrive ironicamente lo stesso D., per riempire le aule; anche lui, tuttavia, ebbe fama di usuraio, e in veste di mutuante ce lo presentano due documenti spettanti all'ultimo periodo della sua vita (nel maggio del 1265 cede a un concreditore i diritti su una somma; nel novembre dello stesso anno, tramite il suo bidello Petrizolo, presta a diversi scolari stranieri 40 soldi di grossi veneti fino alla Pasqua successiva). Quanto all'entità delle collectae, con un atto del 1269 Alberto riscosse una piccola parte d'un credito paterno di 400 lire: non se ne possono trarre tutte le indicazioni volute da alcuni studiosi, poiché non sappiamo se la somma si riferisce a più anni, e se è gravata di penalità, tuttavia l'entità cospicua, e la distanza di almeno quattro anni dalla costituzione del debito, sono elementi significativi per più versi. Ancora alle caratteristiche funzioni del dominus scolastico attiene la qualità di giudice attestata da un documento dell'agosto 1265: con lui, a dirimere una lite tra uno studente straniero e Filippone de' Pepoli, il rettore degli Oltremontani.

Nell'ambito di un'attività forense privata compare in documenti del 1242, del 1255, del 1265, come arbitro o consiliator, per liti di varia natura e importanza; egli stesso c'informa d'un suo duello giudiziaIrio col Baldovini, per una questione di una certa rilevanza in tema di rapporti patrimoniali tra coniugi.

Morì a Bologna il 3 dic. 1265, come ricorda l'iscrizione posta sul monumento costruitogli, come quello d'Accursio, dietro alla chiesa di S. Francesco. I legami con essa appaiono anche da un lascito di 75 lire, disposto per un testamento non altrimenti conosciuto, cui solo nel 1270 il figlio che ne continua l'attività e la progenie, Alberto, dà esecuzione. Le case della famiglia (in campagna erano poste nei territori di Medicina e di Arcoveggio, in città in via di Val d'Aposa, nella platea maior e in curia S. Ambrosii) avevano accolto, oltre a lui, il primogenito Riccardino e una femmina, Lazzarina: entrambi presero i voti francescani.

Fonti e Bibl.: Chartularium Studii Bononiensis, Bologna 1909-1981, I, pp. 48, 50, 55, 58, 125, 127; III, pp. 233 s.; V, pp. 7, 38, 44, 133, 144; VIII, pp. 55, 185, 254; XI, pp. 148, 163; XIV, p.65; Monumenti della Università di Padova (1222-1318), a cura di A. Gloria, Venezia 1884, pp - 10, 24, 213-216; F. Cavazza, Le scuole dell'antico Studio bolognese, Milano 1896, docc. IV s.; T. Diplovatazio, De claris iuris consultis, a cura di F. Schulz-H. Kantorowicz-G. Rabotti, in Studia Gratiana, X (1968), ad Indicem; C. Ghirardacci, Della historia di Bologna parte prima, Bologna 1596, pp. 122, 164, 166; G.N. Pasquali Alidosi, Li dottori bolognesi di legge canonica e civile, Bologna 1620, pp. 182 s.; M. Sarti-M. Fattorini, De claris Archigymnasii Bononiensis profess., Bononiae 1888-1896, I, pp. 163-172; L. Giustiniani, Memorie istor. degli scrittori legali del Regno di Napoli, I, Napoli 1787, pp. 108-112; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, IV, Modena 1788, pp. 56, 284 s.; G. 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Del Giudice, 1, 2, Milano 1925, ad Indicem; A. Sorbelli, Storia dell'università di Bologna, I, Bologna 1940, ad Indicem; P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, I, Milano 1953, pp. 133-139; F. Calasso, Medio Evo del diritto, I, Le fonti, Milano 1954, ad Indicem; S. Stelling Michaud, L'Université de Bologne et la pénétration des droits romain et canonique en Suisse aux XIIIe et XIVe siècles, Genève 1955, ad Indicem; G. Rossi, Consilium sapientis iudiciale, I, Milano 1958, pp. 151, 264, 285, 290; E.M. Meijers, Etudes d'histoire du droit, III, Leyde 1959, ad Indicem; M. Bellomo, Ricerche sui rapporti patrimoniali tra coniugi, Milano 1961, pp. 32, 41 s., 233, 240 s.; P. Fiorelli, O. D., in Enciclopedia cattolica, IX, Città del Vaticano 1952, col. 75; E. Cortese, La norma giuridica, I-II, Milano 1962-64, ad Indicem; D. Maffei, Il "Tractatus percussionum" pseudobartoliano e la sua dipendenza daO., in Studi senesi, LXXVIII (1966) pp. 7-18; M. Boháček, Nuova fonte per la storia degli stazionari bolognesi, in Studia Gratiana, IX (1966), pp. 447 s.; Atti del Convegno internaz. di studi accursiani, Milano 1968 (si vedano specialmente gli studi di R. Cessi, G. Gualandi, G. Astuti e U. Nicolini), ad Indicem; Salatiele, Summula de libellis, a cura di A. Grazia, Bologna 1970, pp. V-XXI; A. Padoa Schioppa, Ricerche sull'appello nel diritto intermedio, II, Milano 1970, pp. 104, 150, 204; G. Dolezalek, Verzeichnis der Handschriften zum römischen Recht bis 1600, Frankfurt a. M. 1972, sub voce; P. Weimar, Die legistische Literatur der Glossatorenzeit, in Handbuch der Quellen und Literatur der neueren europäischen Privatrechtsgeschichte, I, München 1973, ad Indicem; R. Feenstra, Action publicienne et preuve de la propriété, principalement d'aprèsquelques romanistes du Moyen Age, in Fata iuris romani, Leyde 1974, p. 134, n. 93; J. Fried, Die Entstehung des Juristenstandes im 12. Jahrhundert, Köln-Wien 1974, ad Indicem; J. Kejř, Dvě neidentifikovaná právnická dila v Pražském rukopise musejním XVII B 9, in Studie o rukopisech, XV (1976), pp. 99 ss.; G. Cracco, La cultura giuridico-politica nella Venezia della "Serrata", in Storia della cultura veneta. Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 238 ss., 244 s., 247 s.; M. Bellomo, Saggio sull'università nell'età del diritto comune, Catania 1979, pp. 104, 144-147, 150, 200, 206 e passim; G. Nicolosi Grassi, Una inedita quaestio" diO. in tema di "iurisdictio", in Quaderni catanesi di studi classici e medievali, III (1981), pp. 215-230; E. Cortese, Per la storia d'una teoria dell'arcivescovo Mosè di Ravenna (m. 1154) sulla proprietà ecclesiastica, in Proceedings of the Fifth international Congress of medieval canon law, Citti del Vaticano 1980, p. 128; M. Ascheri, "Consilium sapientis", perizia medica e "res iudicata". Diritto dei "dottori" e istituzioni comunali, ibid, pp. 575-579; Università e società nei secoli XII-XVI, Pistoia 1983 (si vedano gli studi di G. Fasoli, J. Fried, M. Bellomo, W. Steffen, E. Cortese e R. Grandi); G. Dolezalek, I commentari diO. e Baldo alla Pace di Costanza, in La pace di Costanza 1183, Bologna 1984, pp. 59-75; Id., Repertorium manuscriptorum veterum Codicis Iustiniani, Frankfurt: ain Main 1985, ad Indicem.





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di Berardo Pio

PEPONE (Pepo). –






Nato nella prima metà dell’XI secolo, presumibilmente in area toscana, Pepone fu un giurista di una certa importanza verso la fine del medesimo secolo, quando la riscoperta del Digesto e la ripresa dello studio del diritto romano giustinianeo determinarono a Bologna la rinascita dell’insegnamento del diritto civile.

Un Pepone esperto di diritto – in via ipotetica identificabile con il nostro giurista – compare tra il 1072 e il 1079 in atti giudiziari prodotti da tribunali legati alla dinastia canossana: il 7 giugno 1072 partecipò come avocatus dell’abate di San Salvatore di Monte Amiata al placito di Calceraki, in territorio di Chiusi, presieduto da Beatrice di Toscana e da sua figlia Matilde; nel marzo 1076, con l’appellativo di legis doctor, intervenne al placito di Marturi, presso Poggibonsi, presieduto da Nordilo messo di Beatrice di Toscana, in occasione del quale ricomparve, a distanza di quasi cinque secoli dall’ultima attestazione, una citazione di un passo del Digesto; il 19 febbraio 1078, ancora come advocator dell’abate amiatino, partecipò al placito di Puntiglo presieduto da Matilde di Canossa; infine, come advocatus dell’abate di Pomposa fu presente al placito di Ferrara del 23 novembre 1079, presieduto dalla stessa Matilde.

La frammentarietà e l’ambiguità delle fonti superstiti non ci consentono di delineare con certezza il ruolo e l’importanza di Pepone. Una svogliata e laconica glossa di Azzone, apposta a un frammento del Digesto e databile ai primi decenni del XIII secolo, lo paragona a Tiberio Coruncanio che, secondo la tradizione romana, per primo avrebbe impartito lezioni pubbliche di diritto senza lasciare, però, opere scritte. Più articolato, ma non meno problematico, il ricordo trasmesso in una lectura al Digestum Vetus di Odofredo, allievo di Azzone che, raccontando la nascita della scuola bolognese secondo una tradizione orale già assestata verso la metà del XIII secolo, afferma che un certo Pepone aveva cominciato a insegnare il diritto civile «auctoritate sua», tuttavia, indipendentemente dalla sua scienza, non aveva riscosso alcun successo. A Pepone, che «nullius nominis fuit» e che non viene mai esplicitamente collegato a Bologna, Odofredo contrappone la figura di Irnerio, primo a insegnare diritto nella città emiliana e primo a glossare i libri giuridici, il quale «fuit maximi nominis» e «lucerna iuris». La ricostruzione proposta da Odofredo è però cronologicamente lontana dai fatti narrati, confonde elementi reali con elementi fantasiosi e sembra voler marcare una certa alterità della rinascita bolognese rispetto a Pepone.

Trascurata dai glossatori bolognesi, la figura di Pepone sembra però aver goduto di una certa fama in area francese da dove provengono altre testimonianze che consentono di correggere l’immagine deformata tramandata dal racconto di Odofredo. Radulphus Niger, teologo inglese formatosi a Parigi e autore di un commento al Libro dei Re, i Moralia Regum scritti tra il 1179 e il 1189, presenta il magister Pepone come «aurora surgens» della ripresa dello studio del diritto civile e, dopo aver precisato che il giurista era baiulus del Codice e delle Istituzioni, ma non conosceva il Digesto, racconta un episodio che mostra Pepone – intervenuto con altri giudici del Regnum Italiae a un placito tenuto in Lombardia al cospetto dell’imperatore Enrico IV, databile tra il 1081 e il 1084, o tra il 1090 e il 1094 – intento a contestare il ricorso al diritto longobardo che prevedeva solo una sanzione pecuniaria per un delitto grave come l’omicidio di un servo: invocando l’unicità della natura umana che non permette di distinguere fra servo e uomo libero e avvalendosi di argomentazioni proprie del diritto naturale, del diritto divino e del diritto romano, Pepone riuscì a ottenere la condanna a morte dell’omicida.

Sempre da ambienti francesi provengono altre due testimonianze che attestano una certa diffusione dell’opera di Pepone: una glossa di una Summa Institutionum, scritta nel Sudest della Francia intorno agli anni 1125-1127, che riporta una spiegazione etimologica della parola mutuum attribuita a Pepone e una glossa del Codice, tramandata da alcuni manoscritti risalenti alla metà del XII secolo, che riprende ancora da Pepone l’interpretazione della parola embola, che indicava il trasporto marittimo delle merci.

Molto problematica appare, invece, un’ultima testimonianza di area toscana, un libello in versi del vescovo Gualfredo di Siena, il De utroque apostolico, composto probabilmente tra il 1090 e il 1092, ma tramandato solo parzialmente grazie a un riassunto in prosa inserito nelle cinquecentesche Historiae Senenses dell’erudito Sigismondo Tizio, che elenca Pepone, definito «clarum Bononiensium lumen», tra i personaggi invitati a partecipare a un immaginario confronto fra i sostenitori del papa Urbano II e quelli dell’antipapa filoimperiale Clemente III. In una nota marginale del manoscritto di Tizio, forse estranea al testo originario del De utroque apostolico, Pepone è detto «episcopus Bononiensis». Su questa base Pietro Fiorelli ha avanzato l’ipotesi che Pepone possa essere identificato con il vescovo scismatico di Bologna di nome Pietro, essendo Pepo una forma ipocoristica di Petrus, senza tuttavia considerare che la presenza di Pepone non appare associata alla parte guibertista, ma sembra rappresentare una posizione terza rispetto alle parti contrapposte, posizione che certo non si addice a un vescovo scismatico.

L’ipotesi di Fiorelli è stata riproposta in più occasioni da Carlo Dolcini che non solo ha considerato convincente e probabile l’identificazione di Pepone con Pietro, vescovo filoimperiale di Bologna dal 1086 al 1096 circa, e perciò sicura l’appartenenza di Pepone all’ambiente bolognese, ma si è spinto fino a far notare, senza però azzardare una precisa identificazione, il parallelismo politico, giuridico e geografico che intercorre fra Pepo/Pietro e Pietro Crasso, autore o committente della Defensio Heinrici IV regis, uno dei libelli più famosi della lotta per le investiture.

Un ultimo tentativo di delineare l’identità di Pepone è stato fatto da Giovanna Nicolaj che, pur accettando l’accostamento linguistico Pietro/Pepo, ha escluso l’appartenenza del giurista all’ambiente bolognese e ha sottolineato dati e coincidenze che sembrerebbero portare a una sua identificazione con un poliedrico personaggio di nome Pietro, dotato di una solida cultura giuridica, improntata sulla conoscenza del Codice e delle Istituzioni, che opera saltuariamente come notaio ad Arezzo tra il 1079 e il 1114 e che in un atto del 1090 è detto legis doctor.

Gli studi degli ultimi decenni sulla figura di Pepone, abbondanti e meticolosi, hanno consentito di ampliare le conoscenze sul fenomeno noto come rinascita giuridica della fine del XI secolo, senza però giungere alla definizione di un chiaro profilo del giurista che, in assenza di nuove testimonianze, rimane una figura evanescente, quasi leggendaria: restano infatti oscuri i dati biografici essenziali, così come ignote sono la data e le circostanze della sua morte.

Fonti e Bibl.: H.H. Fitting, Pepo zu Bologna, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung, XXIII (1902), pp. 31-40, 42-45; H. Kantorowicz - B. Smalley, An English theologian’s view of Roman law: Pepo, Irnerius, Ralph Niger, in Mediaeval and Renaissance studies, I (1941-1943), pp. 237-241, 243, 247, 249 s.; I placiti del «Regnum Italiae», a cura di C. Manaresi, III, Roma 1960, pp. 304 s., 334, 355-357, 367; G. Fasoli, Ancora un’ipotesi sull’inizio dell’insegnamento di P. e Irnerio, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le prov. di Romagna, XXI (1970), pp. 19, 21-23, 29, 32-34, 36; L. Schmugge, “Codicis Iustiniani et Institutionum baiulus”. Eine neue Quelle zu Magister Pepo von Bologna, in Ius Commune, VI (1977), pp. 1-9; P. Fiorelli, Clarum Bononiensium Lumen, in Per Francesco Calasso. Studi degli allievi, Roma 1978, pp. 415-425, 427-431, 433 s., 440-442, 446-458; G. Zanella, Pepo: addenda minima, in History of universities, II (1982), pp. 217-223; C. Dolcini, Velut aurora surgente. Pepo, il vescovo Pietro e l’origine dello Studium bolognese, Roma 1987, passim; G. Nicolaj, Cultura e prassi di notai preirneriani, Milano 1991, pp. 28, 57-74, 87-91, 93-96, 98, 100, 102 s., 105, 112 s.; B. Paradisi, Il giudizio di Màrturi. Alle origini del pensiero giuridico bolognese in Scintillae Iuris. Studi in memoria di Gino Gorla, I, Milano 1994, pp. 861-887; E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Roma 1995, pp. 33-41, 43-45, 51 s., 54, 57 s., 61-63, 71, 74, 80, 103, 116, 135; L. Loschiavo, “Secundum Peponem dicitur… G. vero dicit”. In margine ad una nota etimologica da Pepo ad Ugolino, in Rivista internazionale di diritto comune, VI (1995), pp. 233-243, 245-249; C. Dolcini, Postilla su Pepo e Irnerio, in G. De Vergottini, Lo Studio di Bologna, l’Impero, il Papato, Spoleto 1996, pp. 85-91; G. Nicolaj, Documenti e libri legales a Ravenna: rilettura di un mosaico leggendario, in Ravenna da capitale imperiale a capitale esarcale, Spoleto 2005, pp. 767 s., 770-774, 797 s.; C. Dolcini, Lo Studium fino al XIII secolo, in Storia di Bologna, 2, Bologna nel Medioevo, a cura di O. Capitani, Bologna 2007, pp. 479-486, 496 s.; E. Cortese, Pepo, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, II, Bologna 2013, pp. 1532 s.; C.M. Radding, Le origini della giurisprudenza medievale. Una storia culturale, Roma 2013, pp. 23, 196, 198-202, 204, 216, 218, 274.



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כג וְאֵת אֲמַצְיָהוּ מֶלֶךְ-יְהוּדָה בֶּן-יוֹאָשׁ בֶּן-יְהוֹאָחָז, תָּפַשׂ יוֹאָשׁ מֶלֶךְ-יִשְׂרָאֵל--בְּבֵית שָׁמֶשׁ; וַיְבִיאֵהוּ, יְרוּשָׁלִַם, וַיִּפְרֹץ בְּחוֹמַת יְרוּשָׁלִַם מִשַּׁעַר אֶפְרַיִם עַד-שַׁעַר הַפּוֹנֶה, אַרְבַּע מֵאוֹת אַמָּה.

23 Ioas re di Israele in Bet-Sèmes fece prigioniero Amazia re di Giuda, figlio di Ioas, figlio di Ioacaz. Condottolo in Gerusalemme, demolì una parte delle mura cittadine, dalla porta di Efraim fino alla porta dell'Angolo, per quattrocento cubiti.






Edited by barionu - 12/4/2021, 20:06
 
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CAT_IMG Posted on 3/3/2017, 18:37
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CODEX SECUNDUS




Il Digesto e il volgarismo


C'è stato uno scambio di idee utile per avvicinarsi a un problema molto complesso come quello della ricomparsa del Digesto e le teorie filologiche che si sono succedute sul punto. Anche le risposte qualitativamente migliori contengono qualche inesattezza: ad esempio, che la Florentina sia il manoscritto madre dal quale parte tutta la tradizione è la teoria del Torelli, che è stata smentita. Perciò la presenza dell'errore "conguntivo" (cioè che dimostra una derivazione o una parentela fra tradizioni) dell'inversione di fogli è spiegato non con la copia del misterioso "codex secundus" direttamente dalla Florentina, ma con l'esistenza di un modello comune che conteneva già l'inversione.

Altrimenti non si spiegherebbe come mai in certi passaggi la Vulgata ha un testo corretto e la Florentina ha degli errori.


Anche la Bononiensis (e non bolognensis, che è un volgarismo) è stata un po' fraintesa. E' il nome che Pescani ha dato al testo che troviamo copiato nei manoscritti della scuola di Bologna, che danno origine alla Vulgata. Bononiensis sarebbe quel manoscritto del Digesto che Irnerio o chi per lui hanno trovano e usato come modello. Non è lo stesso che usò il compilatore della Collectio Britannica. Questo non lo ho spiegato a lezione per non farvi morire, ma la cosa complica ancora di più il problema.
Capite perché alcuni studiosi che si sono dedicati al problema da giovani sono poi morti senza averlo risolto?
A me basta che entriate in contatto con questo problema, perché sappiate che i testi antichi e medievali sono molto spesso incerti, e che la loro storia coincide a volte con quella della cultura.


C'era anche una domanda sul volgarismo e il diritto volgare. Il termine volgarismo è stato usato dagli studiosi di diritto romano per indicare singole deviazioni di singoli istituti da alcuni principi di diritto classico. L'immagine storica degli ultimi secoli dell'Impero sembra quella di un edificio classico che il tempo deteriora e che viene restaurato con aggiunte di gusto dubbio. Invece l'immagine del diritto volgare è molto più ampia e forte: indica il sistema giuridico che si impone in quel lungo periodo storico che copre la fine dell'antichità e l'inizio del Medioevo. Consente di interpretare il passaggio da un'epoca all'altra e coglie linee di fondo unitarie negli istituti che si consolidano per consuetudine o per legislazione.


Dal punto di vista della storiografia, la chiave dei volgarismi è stata usata dagli studiosi del diritto romano classico, mentre quella del diritto volgare è preferita dagli studiosi del diritto medievale.
 
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CAT_IMG Posted on 8/7/2018, 18:23
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DIGESTO


http://dbtvm1.ilc.cnr.it/digesto/DBT_Isapi...O=5&SIGLA=DIG_L


5.3.38


PAULUS libro vicensimo ad edictum.


Plane in ceteris necessariis et utilibus impensis posse separari, ut bonae fidei quidem possessores has quoque imputent, praedo autem de se queri debeat, qui sciens in rem alienam impendit

. sed benignius est in huius quoque persona haberi rationem impensarum (non enim debet petitor ex aliena iactura lucrum facere) et id ipsum officio iudicis continebitur: nam nec exceptio doli mali desideratur.

plane potest in eo differentia esse, ut bonae fidei quidem possessor omnimodo impensas deducat, licet res non exstet in quam fecit, sicut tutor vel curator consequuntur, praedo autem non aliter, quam si res melior sit.


PAOLO, nel libro ventesimo All'editto.

Chiaramente, riguardo alle altre spese necessarie e utili si può distinguere, in modo che i possessori di buona fede imputino anche queste, mentre il predone <cioè un possessore di mala fede> debba lamentarsi di se stesso, perché ha speso, sapendolo, sulla cosa altrui.

Ma è più benevolo calcolare le spese anche a favore della persona di quest'ultimo (infatti colui che esercita la petizione di eredità non deve lucrare dal danno altrui), e il calcolo di tale deduzione delle spese sarà incluso nell'ufficio del giudice: infatti, <per ottenere questo risultato> non c'è bisogno di ricorrere all'eccezione di dolo.

Chiaramente, può esservi una differenza in ciò, che il possessore di buona fede deduce in ogni caso le spese, nonostante non esista più la cosa sulla quale le fece, così come conseguono <la deduzione in ogni caso delle spese> il tutore o il curatore, mentre il predone le deduce soltanto nel caso che la cosa sia migliorata.
 
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CAT_IMG Posted on 23/7/2018, 11:02
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AUGUSTO CORRADI

Notizie sui professori di latinità nello studio di Bologna sin dalle prime memorie raccolte dal Augusto Corradi:

Inventario 3088
Collocazione BO II.A CORA 1
Note v. 1

dolezalek

https://www.degruyter.com/view/j/zrgra.197...74.91.1.529.xml

Edited by barionu - 7/9/2018, 11:34
 
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CAT_IMG Posted on 24/8/2023, 11:47
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IRNERIO[/size]


www.rmoa.unina.it/3997/

https://archive.org/search.php?query=GAUDENZI%20AUGUSTO

http://irnerio.cirsfid.unibo.it/

https://catalog.hathitrust.org/Record/100473396

https://it.wikipedia.org/wiki/Scuola_bolog..._dei_glossatori



I ROTULI DELLO STUDIO

www.euarchives.org/index.php?sch=3&...1_2_1_1&lng=nat

www.archiviodistatobologna.it/it/bo...nza-berardo-pio

https://collezioni.genusbononiae.it/products/dettaglio/15340






https://it.wikipedia.org/wiki/Irnerio

www.treccani.it/enciclopedia/irneri...iero:-Diritto)/



IL CODEX SECUNDUS

Il Digesto e il volgarismo

C'è stato uno scambio di idee utile per avvicinarsi a un problema molto complesso come quello della ricomparsa del Digesto e le teorie filologiche che si sono succedute sul punto. Anche le risposte qualitativamente migliori contengono qualche inesattezza: ad esempio, che la Florentina sia il manoscritto madre dal quale parte tutta la tradizione è la teoria del Torelli, che è stata smentita. Perciò la presenza dell'errore "conguntivo" (cioè che dimostra una derivazione o una parentela fra tradizioni) dell'inversione di fogli è spiegato non con la copia del misterioso "codex secundus" direttamente dalla Florentina, ma con l'esistenza di un modello comune che conteneva già l'inversione. Altrimenti non si spiegherebbe come mai in certi passaggi la Vulgata ha un testo corretto e la Florentina ha degli errori.


Anche la Bononiensis (e non bolognensis, che è un volgarismo) è stata un po' fraintesa.


E' il nome che Pescani ha dato al testo che troviamo copiato nei manoscritti della scuola di Bologna, che danno origine alla Vulgata. Bononiensis sarebbe quel manoscritto del Digesto che Irnerio o chi per lui hanno trovano e usato come modello. Non è lo stesso che usò il compilatore della Collectio Britannica. Questo non lo ho spiegato a lezione per non farvi morire, ma la cosa complica ancora di più il problema.


Capite perché alcuni studiosi che si sono dedicati al problema da giovani sono poi morti senza averlo risolto?

A me basta che entriate in contatto con questo problema, perché sappiate che i testi antichi e medievali sono molto spesso incerti, e che la loro storia coincide a volte con quella della cultura.


C'era anche una domanda sul volgarismo e il diritto volgare. Il termine volgarismo è stato usato dagli studiosi di diritto romano per indicare singole deviazioni di singoli istituti da alcuni principi di diritto classico. L'immagine storica degli ultimi secoli dell'Impero sembra quella di un edificio classico che il tempo deteriora e che viene restaurato con aggiunte di gusto dubbio. Invece l'immagine del diritto volgare è molto più ampia e forte: indica il sistema giuridico che si impone in quel lungo periodo storico che copre la fine dell'antichità e l'inizio del Medioevo. Consente di interpretare il passaggio da un'epoca all'altra e coglie linee di fondo unitarie negli istituti che si consolidano per consuetudine o per legislazione.


Dal punto di vista della storiografia, la chiave dei volgarismi è stata usata dagli studiosi del diritto romano classico, mentre quella del diritto volgare è preferita dagli studiosi del diritto medievale.


#entry606877151






Irnerio non fu, sicuramente, il primo ad applicarsi allo studio dei testi del diritto romano giustinianeo (integranti quello che in seguito sarà detto Corpus iuris civilis), ma per primo nell’affrontarli usò in modo sistematico i metodi della scolastica, apponendo a essi glosse e manipolandoli per studiarli e renderli accessibili a un indefinito pubblico d’utenti; il suo nome fu ben presto riconosciuto dunque come quello d’un vero caposcuola, con l’appellativo di 'lucerna del diritto', eletto a simbolo di quella rinascita giuridica della fine dell’11° sec. che determinò il contemporaneo formarsi dell’inedita scientia iuris e della figura del suo interprete (legisdoctor, iurisperitus) per mezzo di un’entità educativa conosciuta poi come Università (Studium).

La vita


Appare impossibile scindere la vicenda biografica di Irnerio dall’operato di esegeta-divulgatore dello ius civile, determinante la sua importanza storica in assoluto. Per secoli, a disegnarne il mito è stata la tradizione universitaria bolognese, grazie principalmente a Odofredo Denari (m. 1265), secondo il quale i libri legum da Roma giunsero a Ravenna e poi a Bologna; un certo dominus Pepo cominciò a far lezione su essi, ma senza lasciare duratura traccia in confronto al primo vero docente, il dominus Irnerio, già magister in artibus, che iniziò a spiegare le leggi romane, in modo profondo, tanto da essere riconosciuto come primus illuminator scientie nostre.

Ignoti i dati biografici essenziali; in varie epoche solo sulla base di induzioni sono state formulate proposte – spesso condizionate dalla visuale del fenomeno 'origine dello Studium bolognese' accettata dal proponente di turno – di date e luoghi di nascita e di morte, di status personale. Gli studiosi concordano nell’identificare il territorio e il periodo che una volta si dicevano ‘di fioritura’, cioè Bologna, ultimo ventennio dell'11° sec. e primo del seguente; per il resto, possediamo elementi divisibili in tre classi: sicuri, probabili e oggetto di discussione, del tutto leggendari.

La figura storica di Irnerio ci viene proposta da una serie di documenti, quattordici, appartenenti agli anni compresi tra il 1112 e il 1125 (sono atti giudiziari, una donazione privata, privilegi concessi dall’imperatore Enrico V), nei quali egli compare come causidicus e iudex bononiensis; nonché dalle vicende romane del 1118, quando magister Guarnerius de Bononia et plures legisperiti appaiono coinvolti nell’elezione dell’antipapa Maurizio Burdino, arcivescovo di Braga (Portogallo); che precedettero ma forse non furono la causa diretta della scomunica fulminata nel 1119 dal Concilio di Reims nei confronti dell’imperatore e dei suoi fautori, compreso Irnerio (Mazzanti 2000, pp. 120-25).

Irnerius è forma tarda, della fine del 12° secolo. Prima, il nome compare in varie forme, da Warnerius e Wernerius a Guarnerius, Vuarnerius e Gernerius; il mutamento si spiega con l’interazione con gli usi dei parlanti il volgare in partibus Lombardie (Padovani 2006, pp. 1087-93), e probabilmente con la confusione di lingue regnante nell’ambiente internazionale dell’universitas scholarium bolognese. Collegato, il problema della sigla con cui viene indicato nelle glosse. Meno frequenti quelle firmate o attribuite in modo chiaro, come 'War.' o 'Varn.' e simili; moltissime appaiono siglate con l’iniziale 'Y', sicuramente a lui riferibile, per la quale si sono tentate varie spiegazioni. Importante appare la rivendicazione al grande maestro delle sigle 'J' e 'I', finora attribuite all’allievo Iacopo (Padovani 2006, pp. 1093-109).

Discussa appare l’origine nazionale perché, nonostante la qualifica di bononiensis prevalente nei documenti, esiste una tradizione che lo designa come theutonicus; in qualche modo connessa è l’identificazione, di proposta antica o recente, con persone dello stesso nome documentate in vari luoghi, tra le quali un Guarnerius presbiter nel 1101, de Brigey nel 1106 a Briey in Lotaringia (Mazzanti 2000, pp. 154-62; Cortese 2004, p. 600). Una delle leggende più note lo vuole scegliere il proprio successore tra gli allievi (detti quatuor doctores) Bulgaro, Martino, Iacopo e Ugo.

Il profilo intellettuale del maestro

Al celebre glossatore, Hermann Kantorowicz nel 1938 attribuiva, pubblicandoli, lavori introduttivi al Codex e alle Institutiones, staccando definitivamente la comoda etichetta 'Irnerio' dalla decina d’opere più o meno anepigrafe cui era stata, specie nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, attaccata da alacri e peraltro benemeriti ricercatori (Hermann H. Fitting, Augusto Gaudenzi, Giovanni Battista Palmieri); le Questiones de iuris subtilitatibus, la Summa Codicis, le Exceptiones Petri, il Formularium tabellionum, e altri scritti antichi e notevoli, dovevano ritenersi prodotti di epoca e ambiente diversi e successivi. Restavano le molte glosse, edite sotto il nome d’Irnerio in vari tempi, riprese, discusse e rielaborate dagli epigoni; e proprio queste, che presentano spesso caratteristiche particolari, quali la capacità di risolvere con un colpo di genio grosse difficoltà gnoseologiche o quella di sintetizzare ardui problemi, dobbiamo eleggere a guida fondamentaleper ricostruire il profilo intellettuale del maestro, cercando di accordare le indicazioni ricavabili da tale produzione con quanto risulta dai documenti sicuri e con le tradizioni storiografiche antiche.

I placiti e gli altri atti documentari (ripubblicati in Spagnesi 1970), dei quali solo l’ultimo appare di dubbia autenticità (Mazzanti 2009), presentano quasi tutti un legame con i territori ‘matildici’, vale a dire appartenenti a, o governati da, Matilde di Canossa, e poi entrati alla di lei morte nel 1115 in una questione ereditaria assai complessa, con strascichi ideologici fino al 1700, e forse anche oltre. Irnerio accompagna Enrico V nella ‘discesa’ del 1116-1118, fatta dall’imperatore anche per prendere possesso dell’eredità di Matilde, in parte come superiore feudale, in parte come cugino, parente più prossimo in mancanza d’altri eredi. Una faccenda eminentemente politica, ben concordante con il sostegno all’Impero accordato da una delle più celebri glosse irneriane, dove si dicono passati dal popolo al sovrano, tramite la cosiddetta lex regia, i poteri di governo.



Due le controprove: la firma aggiunta da Irnerio a quella dell’arcivescovo e cancelliere – strano evento, per la diplomatica – al privilegio dell’imperatore, del 15 maggio 1116, con il quale si proteggono «le persone di tutti i cittadini bolognesi, i loro beni mobili e immobili, presenti e futuri».


Come se si volesse riconoscere al giurista di aver svolto una specie di mediazione in una vicenda importante per lo sviluppo del Comune (Spagnesi 1970, pp. 154-59); e soprattutto l’elezione dell’antipapa nel 1118 – che prese il nome di Gregorio VIII, a significare sia la convinzione di essere il papa ‘autentico’, sia la volontà di continuare in qualche modo la grande opera del ‘matildico’ Gregorio VII opponendosi a Gelasio II, eletto regolarmente ma fuori di Roma, a Gaeta, per non sottostare alle pressioni del popolo.




I giuristi, tra i quali Irnerio, convocarono la cittadinanza facendo illustrare da quidam expeditus lector alcuni decreta pontificum – verosimilmente quelli non autentici (Cortese 1995, 1° vol., pp. 359-60; 2° vol., pp. 69-74) – de substituendo papa.

Altro tipo di problema, ma collegato, il ruolo del giurista nel riconoscimento dell’autenticità dei testi giustinianei

. Dietro le leggende raccolte da Odofredo vi sono certo verità che hanno segnato la scuola, specie sul ritrovamento e il recupero ‘a pezzi’ del Digesto (Vetus, Infortiatum, Novum) con l’attribuzione a Irnerio del nome Infortiatum – dove il racconto copre un evento fortuito a noi sconosciuto causante la strana divisione – e sulla vicenda del Liber authenticorum. Irnerio dapprima l’avrebbe giudicato una falsificazione operata «a quodam monacho», cambiando opinione prestamente per ricavarne le autentiche apposte in luoghi opportuni del Corpus. Aneddoto, questo, chiaramente originato da una glossa irneriana (al § 4 della costituzione Cordi, ove Giustiniano annuncia novellae constitutiones), importante come rivelatrice del metodo: lì si trovano critiche molto nette al Liber authenticorum, considerato appunto nella sua essenza e fisionomia giuridica di ‘libro’; mentre tale non è perché: a) il suo stile non concorda con quello delle altre costituzioni imperiali;

b) nella collezione non sono presenti né un principio, né una fine (vale a dire: clausole ‘di stile’ usate per tali eventualità), né un ordine;

c) le nuove costituzioni promesse nella Cordi dovrebbero riguardare solo ‘nuovi negozi’, non, come si nota nell’Authenticum, casi già regolati e soltanto corretti nel loro disciplinamento (E. Spagnesi, Iurisprudentia, stilus, au(c)toritas, in Cristianità ed Europa. Miscellanea di studi in onore di Luigi Prosdocimi, a cura di C. Alzati, 2° vol., 2000, pp. 153-54).

Qui, al di là dell’amplificazione odofrediana, sono adombrate grosse questioni relative alla trasmissione e conoscenza in Occidente delle Novellae raccolte nella collezione detta appunto Authenticum, che sostituì l’Epitome Iuliani proprio con l’avvento della scuola di Bologna. Alcuni manoscritti testimoniano la circolazione congiunta dei due testi per un uso didattico, volto alla migliore comprensione delle Novellae – nell’Autentico in versione latina – attraverso l’Epitome (L. Loschiavo, Il codex graecus e le origini del Liber authenticorum, «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung», 2010, 127, pp. 115-71, in partic. p. 147).

Le ipotesi di attribuzione e di sistemazione delle opere


Nel suo complesso, l’attività di riconoscimento, di sistemazione e d’interpretazione-divulgazione dei testi va considerata fondamentale per stabilire un ‘ordine’ ove il diritto assumeva le valenze da allora caratterizzanti la civiltà occidentale (P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, 1995). Avvertenza utile ad affrontare gli altri autori (oltre Odofredo) cui Irnerio apparve personaggio eccezionale o eroico.


Si tratta di Roberto di Torigni (m. 1186), abate del monastero normanno di Mont Saint Michel, che parlando di Lanfranco di Pavia (poi passato a Bec e infine a Canterbury dove fu arcivescovo dal 1070 per morirvi nel 1089) asserisce che Lanfranco e Guarnerio suo allievo, trovate a Bologna le leggi romane, s'erano dedicate a insegnarle, collocando l’episodio nel 1032;



di Radulfus Niger (Rodolfo il Nero), teologo, storico e letterato inglese di educazione parigina, che in uno scritto databile tra il 1179 e il 1189 esalta Pepo per aver fatto trionfare giusti principi in un processo per l’uccisione di un servo, facendo applicare norme tratte dal diritto romano contro inique leggi longobarde; lo designa come «aurora iuris civilis», mentre da lui Irnerio è presentato come colui che riuscì a far accettare il diritto romano dalla curia di Roma, determinando la fortuna universale di esso;


e di Burcardo di Biberach (m. dopo il 1231), il cui Chronicon urspergense cita Irnerio in un brano diviso in due parti: nella prima si dice ch’egli

libros legum, qui dudum neglecti fuerant nec quisquam in eis studuerat, ad petitionem Mathilde comitisse renovavit et secundum quod a dive recordationis imperatore Iustiniano compilati fuerant, paucis forte verbis alicubi interpositis, eos distinxit;



(rinnovò, a richiesta della contessa Matilde, i libri delle leggi, che fino ad allora erano stati neglietti, e nessuno li aveva studiati; e li ripartì sistematicamnete secondo le indicazionidel loro compilatore, l'imperatore Giustiniano di divina memoria, solo interponendovi qua e là poche parole)nella seconda parte si descrive il contenuto dei testi giustinianei.





Vanno considerati l’ottica e gli scopi degli autori menzionati: le parole del cronista Roberto, rifiutate in genere perché considerate risultato di un’informazione confusa e fuorviante, è stato dimostrato (Padovani 2007) come siano collegate al fervido ambiente anglo-normanno nel quale si svilupparono correnti di studio teologico e giuridico dalle caratteristiche assolutamente peculiari, anche grazie all’opera di un glossatore lombardo, Vacario, cui è dovuto l’inizio dell’insegnamento del diritto romano in Inghilterra, in particolare a Oxford, autore di un’opera conosciuta come Liber pauperum, di grandissima influenza e valore per le sorti della compilazione giustinianea. Nel brano del teologo inglese si tratteggia la posizione reciproca dei due maestri, che Rodolfo differenzia nei ruoli e anche per la conoscenza dei Digesta. Pepo riuscì a imporsi sulle leggi barbariche in giudizio davanti all’imperatore – essendo peraltro baiulus soltanto delle Institutiones e del Codex e ignorando completamente le Pandette; mentre il secondo, magister Guarnerius, avrebbe avuto il merito di far accettare alla curia romana lo ius civile, presentandolo religioso scemate, cioè secondo uno schema a essa gradito.

Ma è il passo della cronaca urspergense a offrire le maggiori possibilità di comprensione del lavoro di Irnerio. Attrasse l’attenzione la notizia del rinnovamento dei libri legali a richiesta della contessa Matilde. Si giunse a spiegare quelle parole con un ‘incarico ufficiale d’insegnamento’ conferito al giurista, anche in virtù di un preteso ‘vicariato italico’ di Matilde. Rigettata l’ipotesi, oggi s’insiste sulla richiesta d’una specie di edizione critica delle opere giustinianee, in conformità della preparazione in artibus e della vocazione filologica d’Irnerio (Cortese 1995, 2° vol., pp. 61-64; Cortese 2004, p. 602).

In realtà occorre percorrere altra strada. L’accostamento tra il magister Gratianus e il doctor Wernerius – proposto dal cronista e talvolta ritenuto dalla storiografia giustificato dalla nuova disciplina fondata, per il rispettivo campo, dai due capiscuola – deve collegarsi strettamente al tipo di operazioni fatte dai due maestri e al risultato del loro lavoro, situando la somiglianza a un livello quasi fisico, tra il Decretum grazianeo, e un’opera irneriana che non ci è pervenuta. Importante stabilire la fonte delle notizie date dal cronista Burcardo: quelle su Graziano le aveva reperite nelle Summae dei ‘decretisti’, per Irnerio, analogamente, in una materia operis civilistica, come si vede dalla seconda parte del brano, che non è una copiatura senza valore di un celebre passo di Paolo Diacono, ma un adattamento dovuto a un esperto del lavoro fatto sui libri di diritto, con cambiamenti significativi dovuti all’intento di adeguarne la sequenza a una visuale precisa di natura propriamente logico giuridica. Ciò induce a ritenere che la prima parte del brano fosse tratta da un prodotto dello stesso genere, vale a dire un proemio-dedica (accessus ad auctorem o exordium operis): le due sezioni del passo della cronaca si completavano a vicenda, conservando, se lette insieme, il ricordo dell’approccio prescritto dalle regole della scolastica alle ‘opere’ e agli ‘autori’. La contessa Matilde doveva essere soltanto la dedicataria di un lavoro specifico (così come successe per Donizone, cantore dei Canossa, il cui poema si conserva nell’originale con tanto di lettera di dedica in testimone unico), il che spiega perché si parli di petitio, termine molte volte impiegato come topos retorico giustificante il prodotto presentato in omaggio (Spagnesi 2006).

La ricostruzione concorda con quanto desumibile dal Liber divinarum sententiarum, opera basata sugli scritti di sant’Agostino, attribuita a certo «Guarnerio giurisperitissimo», la cui paternità irneriana, respinta, all’epoca della scoperta, come impossibile, in seguito generalmente non riconsiderata, da poco è stata invece riproposta come estremamente probabile (Mazzanti 1999; Spagnesi 2001); essa ci propone una fattiva ‘specializzazione’ nel ‘magistero delle arti’ del famoso giurista, e indirizza verso la vicenda, analoga, del Liber pauperum definito dall’autore Vacario un ‘compendio’ del Codice giustinaneo e del Digesto, con inserzione delle ‘autentiche’, che integravano o modificavano i testi ‘principali’ di questa grande composizione ‘a mosaico’, destinata a sopperire i mezzi necessari per risolvere gl’infiniti casi pratici offerti dalla vita quotidiana.

Possibilmente intitolata Wernerii librorum Iustiniani imperatoris renovatio l’opera, scomparsa – forse perduta per sempre, al pari d’un prodotto funzionale, ‘di consumo’, da non conservare, e comunque ritenuto ‘superato’ dalla scuola – antologizzava excerpta da tutte le quattro parti del corpus iuris, distinti in libri alla maniera scolastica e seguendo la falsariga del Codex, raccordati da dicta d’autore, anche accompagnati da altri passi testuali di spiegazione «in glose locum» (come accade nel Liber pauperum). Ciò spiega la frase riferita dall’Urspergense «solo interponendovi qua e là poche parole (paucis forte verbis alicubi interpositis)», anche questa riconducibile a un’autopresentazione, da parte d’Irnerio, del proprio limitato intervento, e analogamente l’inciso «e nessuno li aveva studiati (nec quisquam in eis [i libri legali] studuerat)» si riferisce al ligio rispetto della metodologia scolastica. Ovviamente tale renovatio non intendeva sostituire i testi originali, considerati libri ‘autentici’ e ordinario oggetto di lectura, cioè di ‘reverente’ esposizione raccolta in prodotti ‘magistrali’, bensì affiancare al recupero e al commento di essi un compendio indispensabile alla penetrazione nel mondo del sapere ‘di base’, ovvero un agilissimo attrezzo di contrasto del diritto barbarico, uno strumento di studio conformato ai metodi scolastici, alla cultura ‘giusnaturalista’ della cristianità, e ai suoi bisogni socioeconomici. L'opera poteva esser classificata unicamente come renovatio, sia perché il materiale è desunto per intero dalla compilazione giustinianea, sia perché valorizzava la figura principale di Giustiniano, generico ‘compilatore’ dei volumi delle leggi, come auctor e promulgator delle costituzioni imperiali (Spagnesi 2006).

Si applicava così al mondo laico il metodo usato dai Padri della Chiesa per i testi biblici, consistente da un lato nell’interpretazione di un testo collegata a quella di altri appartenenti alla stessa materia; dall’altro nel servirsi di un’unica collezione di norme per la soluzione di tutte le controversie (A. Padoa Schioppa, Riflessioni sul modello del diritto canonico medievale, in Id., Italia ed Europa nella storia del diritto, 2003, pp. 183-88).

Un esempio di applicazione pratica dei modelli teorici risultanti è fornito dal confronto tra una glossa di Irnerio, l’architettura quadripartita del Formularium tabellionum (G. Orlandelli, Scritti di paleografia e diplomatica, 1994, pp. 495-526) e la donazione fatta da un conte a una donna il 15 novembre 1116, attuata mediante un instrumentum simplicis donationis (Spagnesi 1970, pp. 79-81), cui presenziò Warnerius iudex, redatto da due notai, Bonando e Angelo, autori del rinnovamento nei moduli grafici dell’epoca poi messo al servizio dello sviluppo dello Studium (Spagnesi 1970, pp. 164-73).

Bibliografia

E. Spagnesi, Wernerius bononiensis iudex. La figura storica d’Irnerio, Firenze 1970.

E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, 2 voll., Roma 1995, ad indices.

G. Mazzanti, Introduzione, in Guarnerius iurispertissimus, Liber divinarum sententiarum, a cura di G. Mazzanti, Spoleto 1999.

G. Mazzanti, Irnerio, contributo a una biografia, «Rivista internazionale di diritto comune», 2000, 11, pp. 117-181.

E. Spagnesi, Irnerio teologo, una riscoperta necessaria, «Studi medievali», 2001, 42, 1, pp. 325-79.

E. Cortese, Irnerio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 62° vol., Roma 2004, ad vocem.

A. Padovani, Il titolo "De Summa Trinitate et fide catholica" (C 1.1) nell’esegesi dei glossatori fino ad Azzone. Con tre interludî su Irnerio, in Manoscritti, editoria e biblioteche dal Medioevo all’età contemporanea. Studi offerti a Domenico Maffei per il suo ottantesimo compleanno, a cura di M. Ascheri, G. Colli, 3° vol., Roma 2006, pp. 1076-123.

E. Spagnesi, Magister Gratianus, dominus Wernerius. Le radici d’un antico accostamento, in Proceedings of the XIth congress of Medieval canon law, Città del Vaticano 2006, pp. 205-26.

A. Padovani, Roberto di Torigni, Lanfranco, Irnerio e la scienza giuridica anglo-normanna nell’età di Vacario, «Rivista internazionale di diritto comune», 2007, 18, pp. 71-140.

G. Mazzanti, Un falso irneriano? Riconsiderazioni sul documento del 1125, in Il contributo del monastero S. Benedetto Polirone alla cultura giuridica italiana (secc. XI-XVI), Atti del Convegno, San Benedetto Po (29 settembre 2007), a cura di P. Bonacini, A. Padovani, San Benedetto Po 2009, pp. 39-44.



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Riproduzione+fotografica


Biblioteca+Malatestiana+De+legatis+et+fideicommissis.

la littera fiorentina e la vulgata

http://www1.unipa.it/~dipstdir/portale/rom...#sdfootnote7sym

ORLANDELLI GIANFRANCO

http://opac.regesta-imperii.de/lang_en/anz...atica&pk=103978

PROGETTO IRNERIO BOLOGNA

https://bibliofilosofiamilano.wordpress.co...i-del-trecento/

http://irnerio.cirsfid.unibo.it/codex/284/


 
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