Origini delle Religioni

GUARNERIUS WERNERIUS bononiensis

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barionu
CAT_IMG Posted on 1/2/2017, 20:04 by: barionu
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di Ennio Cortese

IRNERIO. -


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"Fondatore" della scuola di Bologna, celebrato ai suoi tempi come "lucerna iuris", I. è tuttora noto più per gli insolubili problemi biografici che per i pochi dati certi.

Il nome con cui egli stesso si sottoscrive è Wernerius; la forma Warnerius e quelle italianizzate Garnerius/Guarnerius sono usate dai suoi contemporanei, mentre la variante Yrnerius/Irnerius, di cui è dubbia l'origine, compare solo dopo la sua morte (Patetta, 1967, pp. 451 s.; Nicolaj, 2000, p. 1045, propone la derivazione paleografica di y da wer). Non è un nome raro.

Per prudenza è bene evitare identificazioni con alcuni omonimi: un "Guarnerius de Montesilicis/ comes/ missus" che compare in un atto di data incerta e in un altro del 1100 (Spagnesi, 1970, pp. 160-162), un "Warnerius presbiter" del 1095 e del 1101, un "Guarnerius de Brigey" del 1106 (Dolcini, 1996, pp. 98-100; Mazzanti, 2000, pp. 154-159) nonché un "magister Garnerius" di una carta siciliana del 1117 (Besta, I, p. 49).

Le uniche date della sua vita che si ritengono sicure sono quelle della sua partecipazione a placiti; due tra il 1112 e il 1113 in veste di causidicus, ben undici tra il 1116 e il 1118 in qualità di iudex Bononiensis (Spagnesi, 1970); la notizia della sua presenza a Roma all'elezione dell'antipapa Gregorio VIII (Maurizio Burdino) nel marzo 1118; la scomunica lanciata contro di lui il 30 ott. 1119 dal concilio di Reims.

Il documento di un arbitrato del dicembre 1125, in cui fungeva da avvocato del monastero di S. Benedetto di Polirone, è stato di recente sospettato (Codice diplomatico polironiano, a cura di R. Rinaldi, Bologna 1993, pp. 331-335).

Quanto alla data di nascita, la si è avventurosamente posta tra il 1055 e il 1060 sulla base di episodi in realtà insussistenti, come l'immaginario magistero romano e le errate datazioni di opere che oltretutto non sono sue. Era forse già in età matura nel 1112 quando nel placito di Cornacervina fu registrato in capo alla lista dei causidici, fatto che dovrebbe indicare ch'era il più anziano.

Non va presa sul serio la tarda additio in cui si narra ch'egli avrebbe raggiunto "nimiam senectutem" (Pace, p. 131); più che di una notizia si tratta di una nota di colore nella favola, esemplata sul racconto di Aulo Gellio, della morte di Aristotele (Tamassia, pp. 318-321), della designazione che avrebbe fatto in punto di morte del proprio successore (narrata nella cronaca dei Morena: "Bulgarus os aureum, Martinus copia legum / Mens legum est Hugo, Iacobus id quod ego"). Meno che mai si può dare credito a Robert de Torigny (Robertus de Monte) che, nella cronaca normanna, fa iniziare gli studi di I. sulle leggi romane nel 1032 con il presunto maestro Lanfranco di Pavia. Anziché immaginare che I. abbia frequentato la scuola di Lanfranco in Normandia (Padovani, pp. 20-22; Mazzanti, 2000, pp. 173 s.), conviene pensare che Robert de Torigny (monaco e priore di Bec tra il 1128 e il 1154, prima della nomina ad abate di Mont-Saint-Michel) abbia attinto da una confusionaria tradizione orale di Bec.

È riemersa negli ultimi decenni la tradizione dell'origine teutonica d'I., che contrasta con la qualifica di "Bononiensis" o "de Bononia" che gli è data nei placiti. Si può forse supporre che fosse cittadino di Bologna ma di ascendenza germanica, il che spiegherebbe la fiducia riposta in lui dall'imperatore Enrico V che amava circondarsi di connazionali.

L'origine teutonica è attestata da un'annotazione in una summa quaestionum monacense risalente al 1185-90 (Nörr) e, circa un secolo più tardi, da un'additio torinese di un allievo di Francesco d'Accorso (Pace). Si è tentato di argomentare l'inattendibilità della nota monacense (Spagnesi, 1970, p. 22 n. 1); Dolezalek (1971, p. 497) e Fried (1990, p. 137) suggeriscono invece che I. abbia avuto il nomignolo di Teutonicus per via dei rapporti intrattenuti con l'imperatore o dei soggiorni compiuti in Germania.

Circa la formazione d'I., di cui nulla si sa, si sono tuttavia fatti i nomi di ipotetici maestri - un misterioso Geminiano, Pepo e Lanfranco di Pavia - che nessuna fonte attendibile conferma.

Fitting, prontamente smentito dal Patetta (1967, pp. 361, 386-388), ha immaginato I. allievo di un Geminianus sulla scorta dell'incerto rapporto tra una regula attribuita a quest'ignoto dalla glossa di Colonia e un passo delle Questiones de iuris subtilitatibus erroneamente assegnate a I. (H. Fitting, Questiones de iuris subtilitatibus des Irnerius, Berlin 1894, pp. 22, 46 s.). Quanto al legame con Lanfranco di Pavia, ammetterlo esigerebbe un castello di supposizioni: che I. dimorasse in Francia (Padovani, p. 23) prima della nomina di Lanfranco ad arcivescovo di Canterbury nel 1070, in tempi in cui era tanto giovane da rendere opportuna l'ulteriore ipotesi ch'egli e la sua famiglia fossero del luogo, o almeno vi avessero residenza stabile. La tesi, infine, che Pepo fosse stato suo maestro è stata aprioristicamente dedotta dall'asserito magistero bolognese di Pepo: Besta (I, pp. 51 s.) ha comunque definito la cosa non inverosimile e De Vergottini (1996, pp. 7-9) sicura. Ulteriore conferma è parsa venire dal suggerimento di P. Fiorelli (Clarum Bononiensium lumen, in Per Francesco Calasso, Roma 1978, pp. 415-459) che Pepo fosse diventato vescovo scismatico di Bologna a partire dal 1085. Ma la scarsa attendibilità del quattrocentesco senese Sigismondo Ticci, fonte di Fiorelli, e i buoni argomenti con cui l'insegnamento bolognese di Pepo è stato negato da Walther (p. 142), Nicolaj (1991, pp. 59-65) e Theisen valgono, malgrado i dissensi (cfr. C. Dolcini, Velut aurora surgente. Pepo, il vescovo Pietro e l'origine dello Studium bolognese, Roma 1987, pp. 24 s.), a confermare l'idea che I. e Pepo appartenessero a mondi separati.

Odofredo (m. 1265) dichiara che I. era magister in artibus al momento in cui giunsero a Bologna, forse provenienti da fondi nonantolani (Colliva, p. 638), parti ignote del Digesto. Egli cominciò allora per conto proprio a studiare e a insegnare il diritto giustinianeo, incontrando un crescente successo sull'onda della crociata contro i diritti germanici e della politica di restauro dell'autorità imperiale.

Odofredo afferma il magistero in artibus d'I. in due passi della sua Lectura (in C. 2.21[22].9: "Dominus Yr., quia loicus fuit et magister fuit in civitate ista in artibus antequam doceret in legibus, fecit unam glosam sophisticam que est obscurior quam sit textus"; in D. 1.1.6: "Sed dominus Yr., dum doceret in artibus in civitate ista, cum fuerunt deportati libri legales, cepit per se studere in libris nostris"). Sull'esistenza stessa di una scuola di arti liberali a Bologna nell'XI secolo si sono però avanzati dubbi (Cencetti); sospetti inoltre sul magistero in artibus d'I. hanno nutrito, per la mancanza di riscontri, Tamassia (pp. 397 s.) e Fried (1974, pp. 103-106). Un riscontro aveva invece trovato Besta (I, p. 53) nell'eleganza della prosa irneriana e nella conoscenza della logica (sottolineata quest'ultima ora da Padovani, pp. 256 s.).

Ultimamente è stata riaffermata la provenienza d'I. dai ranghi dei teologi. Il problema verte in realtà soltanto sull'attribuzione del Liber divinarum sententiarum - raccolta di materiale patristico specialmente agostiniano - che va sotto il suo nome e che storici-letterati, ma non i giuristi, usano assegnargli. La paternità d'I., suggerita nel manoscritto Y.43 sup. della Biblioteca Ambrosiana di Milano del Liber divinarum sententiarum attribuito a un Guarnerius qualificato, in un'aggiunta interlineare di mano del copista, come "iurisperitissimus", è stata ultimamente rivendicata da Mazzanti (1999); se attrae il suo tentativo di agganciare la prima scienza giuridica romanistica alla cultura teologica esplosa con la riforma gregoriana, gli argomenti, pur ingegnosi, non bastano a eliminare le numerose perplessità.

Molto più attendibile è l'immagine di un I. filologo. La propone la cronaca di Burcardo di Biberach, prevosto di Ursperg, là ove narra della richiesta rivolta da Matilde di Canossa a I. di "renovare libros legum […] secundum quod olim a […] Iustiniano compilati fuerant".

Sbrigliate fantasie di interpreti del passo di Burcardo hanno condotto, nella prima metà del '900, a inventare che la contessa avesse dato incarico a I. d'istituire la scuola di Bologna, che, per di più, sarebbe nata come Studio imperiale per via di un vicariato concesso da Enrico V a Matilde nel 1111. In realtà basta leggere attentamente il brano per vedere che Matilde invocava solo un restauro dei testi che li riconducesse agli originali, ossia una sorta di edizione critica, ch'era cosa quanto mai opportuna data la tradizione manoscritta lacunosa e disordinatissima. L'immagine di I. filologo, va notato, potrebbe adattarsi bene a quella del magisterin artibus testimoniata da Odofredo. Quanto alla datazione della vicenda, è logico pensare che la contessa avesse formulato la richiesta quando I. aveva già fama di esperto dei manoscritti delle leges; verrebbe comunque da ricordare che nel maggio 1113 la contessa e I. s'incontrarono a Baviana, in territorio ferrarese, in occasione di un placito.

Non è possibile datare l'inizio dell'insegnamento irneriano delle leges. Sono arbitrari i tentativi fatti nei secoli andati, da quello cinquecentesco di Carlo Sigonio che parlava dell'anno 1102, fino agli assurdi 1128, 1190 o 1200 (Spagnesi, 1970, pp. 16-18). Anche la collocazione generica verso la fine del sec. XI (Kantorowicz, 1938, p. 69) è ragionevole ma indimostrabile. Vecchie dicerie sulle varie città nelle quali I. avrebbe tenuto scuola, in particolare Pisa, Roma e Ravenna, non trovano riscontro. Per il magistero bolognese si può dire soltanto che nel 1116 la fama del giurista era acquisita se venne adottata in città la nuova formula notarile dell'enfiteusi da lui escogitata, e si accantonò quella di tipo ravennate usata fino ad allora. La creazione di tale nuova formula fu all'origine della falsa tradizione, divulgata da Odofredo, che I. avesse composto il primo formularium tabellionum.

Il 1116 fu un anno significativo e intenso per Irnerio. Compare in ben nove documenti, per lo più accanto all'imperatore Enrico V che accompagnò nel secondo viaggio italiano (Spagnesi, 1970, pp. 138-143). I. aveva il titolo di iudex e tra i giudici, fuorché nei due primi atti padovani di marzo, occupava il primo posto, fatto che dovrebbe essere segno di riguardo o di anzianità. Deve aver seguito l'imperatore fino a Roma, raggiunta nella primavera del 1117; nel marzo del 1118 partecipò in S. Pietro all'elezione scismatica di Maurizio Burdino. La notizia data da Landolfo attribuisce però genericamente a un "quidam", e non specificatamente a I., la prolixa lectio con cui venne spiegato al popolo che la procedura da seguire, in spregio al decreto di Niccolò II del 1059 che prevedeva il voto dei cardinali vescovi, consisteva nell'acclamazione della persona designata dall'imperatore. I due primi docenti di diritto romano hanno operato dunque entrambi all'ombra di uno scisma: dopo il 1080 Pepo, dal 1118 Irnerio. Il 30 ott. 1119 il concilio di Reims lo colpì di scomunica (Holtzmann).

Indipendentemente dal fatto che abbia tenuto o meno l'orazione preelettorale in S. Pietro nel marzo del 1118, I. fornì di certo fonti e argomenti. Non è difficile immaginare ch'egli abbia fatto leva sulla lex regia, con la quale il popolo romano aveva trasmesso i suoi poteri a Vespasiano nel 69; la leggenda dice che sul modello della lex regia un concilio romano del 774 aveva conferito a Carlo Magno il diritto, appunto, di nominare il papa. Tale leggenda, divulgata da cronache ecclesiastiche, recepita dal diritto canonico (sarà consacrata da Graziano, Decr. D. 63 c. 22), era confluita nelle falsificazioni cosiddette ravennati di parte imperiale del tempo di Enrico IV (nell'Hadrianum e nel Privilegium maius), nella cui tradizione è logico si muovesse Irnerio. Fu Callisto II, eletto e consacrato a Vienne nel febbraio 1119, a colpire di scomunica Enrico V con un gruppo di nobili, di prelati e di ostinati scismatici: nella lista reperita e pubblicata da Holtzmann nel 1933 compare Irnerio. Mazzanti (2000, p. 121) ritiene che la scomunica, curiosamente ritardata di un anno e mezzo, colpisse i fedeli di Enrico che in quell'autunno 1119 continuavano ad appoggiare l'antipapa.

Con tutta probabilità nel 1119 I. si trovava Oltralpe alla corte dell'imperatore. I documenti, che dopo il novembre 1116 tacciono per un anno e mezzo, nel giugno 1118 lo presentano a Bombiana, nel Bolognese, e il 1° agosto a Treviso, in un placito presieduto dal sovrano nel quale I. è il primo dei giudici. Le due carte disegnano un itinerario verso la Germania coincidente con quello tenuto da Enrico V. Non sono invece dimostrabili il successivo trasferimento d'I. in Francia né il soggiorno e il decesso nel convento vittorino di Parigi ipotizzati da Mazzanti (2000, pp. 127-181). Il ritorno a Bologna potrebbe essere testimoniato dalla sua comparsa nell'arbitrato di Casale Barbato del 10 dic. 1125, in cui lo si dice "iudex Bononiensis", se si ammettesse che l'eventuale falsificazione della carta non fosse falsificazione dell'episodio. Non si ha più notizia di lui dopo il 1125.

La morte d'I. è stata presuntivamente collocata dopo il 1125 o il 1132 (Palmieri) o il 1136 (Pescatore, 1888), o poco prima del 1140 (Gaudenzi, 1901)


. Recentemente una minuziosa indagine di Mazzanti (2000, pp. 127 s.) ha individuato I. nel "magister Garnerius Teutonicus" di un tardo obituario di S. Vittore di Parigi che data il trapasso a un 19 settembre, senza indicazione di anno; Mazzanti sembra collocare quel decesso tra il 1125 e il 1140 (p. 180). Tale identificazione, però, non convince. Anzitutto quell'ignoto tedesco doveva essere un ecclesiastico e I., in quanto giudice imperiale, non lo era. Inoltre non è verosimile che i cinque volumi con glosse lasciati all'abbazia da quel Garnerius, come ricordato nell'obituario ("quinque libros optimos glosatos", ibid., pp. 127 s.), possano essere un Corpus iuris, sia perché all'epoca di I. le leges non erano ancora ripartite nei cinque tomi tradizionali, sia perché gli apparati d'I. sono discontinui.

Opere: alla fine dell'Ottocento si ritenne la produzione d'I. sterminata; oggi la si riduce alle glosse. La loro individuazione ha creato tuttavia problemi per via delle sigle y, I, g, w, che in altri tempi si credeva lo designassero; oggi si considera affidabile solo la y, forse derivata dal segno di richiamo in capo alla glossa e ornamentale in fine (Dolezalek, 1971, p. 497), oppure dalla stilizzazione di un wer. abbreviato (Nicolaj, 2002, p. 1045). La sigla yr nei manoscritti antichi indica Enrico da Baila, ma sui tardi anche Irnerio. Solo una parte delle glosse è stata edita (da Cujas, da Savigny, forse da Bollati, da Pescatore, da Besta, da Torelli, da Rota), ma di quelle pubblicate parecchie non gli appartengono, o perché consistono di più tarde citazioni del suo pensiero o perché la sigla non è sua. Può essere genuina la distinctio in materia di locazione-conduzione attribuitagli da Roffredo (cfr. Savigny, Geschichte, IV, pp. 469 s.). Quanto al suo pensiero, va ricordato, tra l'altro, ch'egli credette non autentico il testo dell'Authenticum, e tuttavia ne introdusse estratti (authenticae) in calce alle costituzioni del Codice giustinianeo cui le Novelle derogavano. Ebbe interessi processualistici testimoniati da glosse e distinctiones (Radding, Errera); taluno ha creduto che fosse persino attento a questioni feudali (Pescatore, 1908; Rota, 1954) e al mondo della Lombarda (Paradisi, La renaissance, p. 984). La sua celebre tesi che nega validità alle consuetudini contra legem dopo la definitiva cessione della sovranità del popolo al principe mediante la lex regia (Savigny, Geschichte, IV, p. 459) rivela i suoi sentimenti filoimperiali e lo mostra ancora ignaro dei meccanismi del sistema del diritto comune. Lasciò quattro allievi famosi - Martino Gosia, Bulgaro, Iacopo e Ugo - che, proseguendo degnamente il suo magistero, assicurarono la gloria dello Studium di Bologna.

Inizialmente gli è stato attribuito il Brachylogus, seppur cautamente (Savigny), e l'Epitome Exactis regibus, opere tutte presto consegnate a scuole francesi postirneriane. Più tardi Fitting pubblicò sotto il suo nome le Questiones de iuris subtilitatibus che datò a Roma intorno al 1082 (Berlin 1894), la Summa Codicis Trecensis, che immaginò composta a Bologna prima del 1090, un breve scritto de aequitate che compariva nei manoscritti delle Questiones ed è tolto dalla Trecensis (cfr. Summa Codicis des Irnerius (Trecensis), Berlin 1894). Gli assegnò inoltre parte di un de natura actionum nonché, sempre per ipotetiche affinità con la Trecensis, persino la Summa legis Langobardorum edita da A. Anschütz (Halle 1870). G.B. Palmieri, allievo di Gaudenzi e seguace di Fitting, presentò nella Bibliotheca iuridica Medii Aevi (I, Bononiae 1913; I, Addendum, ibid. 1914) sotto il nome d'I. la Summa Institutionum Vindobonensis e il Formularium tabellionum, testi di cui si è disconosciuta in seguito la paternità irneriana. Infine Gaudenzi, che però poco dopo si corresse, e Grabmann attribuirono a I. il Liber divinarum sententiarum. Dall'ultimo decennio dell'800 soprattutto Patetta, Pescatore, Besta e Kantorowicz (1938, pp. 33-37) hanno fatto giustizia di queste attribuzioni (letteratura in Weimar, 1973). Tra le esposizioni più o meno attendibili e quasi coeve del pensiero d'I., lo stesso Kantorowicz ha descritto ed edito un Exordium Institutionum "Quia intentio generalis est" (1938, pp. 59-65, 240) e una Materia Codicis "Cum Iustiniani nomine" (ibid., pp. 233-239). I sospetti nutriti da I. circa l'autenticità delle Novelle, prolisse e sistemate nell'Authenticum disordinatamente, lontane cioè dallo stile esibito da Giustiniano nel Codice, sono espressi in una glossa irneriana edita da Savigny; secondo Carlo di Tocco e Roffredo, I. avrebbe però finito col cambiare idea (Savigny, Geschichte, III, pp. 491-495). Sulle autentiche irneriane si è discusso (Patetta, 1926).

Glosse irneriane sono state edite da Savigny (Geschichte, IV, pp. 458-470); L. Chiappelli, Glosse d'I. e della sua scuola, in Memorie dell'Accademia nazionale dei Lincei, cl. di scienze morali, s. 4, II (1886), pp. 184-236; glosse al Codice da G. Pescatore, Die Glossen des Irnerius, Greifswald 1888, pp. 83-111; glosse al Digestum vetus da E. Besta, L'opera d'I., II, Torino 1896 e, poche, da A. Rota, Lo Stato e il diritto nella concezione di I., Milano 1954, pp. 65, 72, 115 s., 121; glosse alle Institutiones da P. Torelli, Glosse preaccursiane alle Istituzioni. Nota prima: glosse d'I., in Id., Scritti di storia del diritto italiano, Milano 1959, pp. 45-94; glosse all'Authenticum da I. Cuiacius, Notae in Institutiones Iustiniani, in Id., Opera, I, Francofurti 1595, pp. 73-75. Taluni manoscritti del Digestum novum con glosse irneriane sono segnalati in G. Dolezalek, Der Glossenapparat des Martinus Gosia zum Digestum Novum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Rom. Abt., LXXXIV (1967), pp. 261, 263, e altri specialmente del Codex in G. Dolezalek - L. Mayali, Repertorium manuscriptorum veterum Codicis Iustiniani, II, Frankfurt a.M. 1985, pp. 928 s. Non appartengono a I., come già brevemente accennato, le opere edite da Fitting e da Palmieri; resta incertissima la paternità dell'opera teologica edita da G. Mazzanti, Guarnerius iurisperitissimus: Liber divinarum sententiarum, Spoleto 1999.

Fonti e Bibl.: Landulphus iunior, Historia Mediolanensis, a cura di C. Castiglioni, in Rer. Ital. Script., 2a ed., V, 3, p. 28;

Robertus de Monte, Cronica, a cura di L. Bethmann, in Mon. Germ. Hist., Script., VI, Berolini 1844, p. 478;


Burcardus Urspergensis, Chronicon, a cura di O. Abel - L. Weiland, ibid., XXIII, ibid. 1874, p. 342;

O. Morena - A. Morena, Historia Friderici I, a cura di F. Güterbock, ibid.,Script. rer. Germ. ad usum scholarum, n.s., VII, p. 59;

Odofredo, in Dig., 1.1.6, de iust. et iure, Ius civile, rist. Bologna 1967, 7rb; Dig. Infort., prooem., rist., 2ra; Dig. Nov., prooem., rist., 2rb; Cod., 1.2, de sacrosanctis eccl., auth. Qui res, rist., 17ra nr. 3; Cod., 2.21[22].9, de in integr. rest., Non videtur, rist., 101va; W. Holtzmann, Zur Geschichte des Investiturstreites…Eine Bannsentenz, in Neues Arch. der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, L (1933), pp. 318 s.; Radulfus Niger, Moralia regum, in H. Kantorowicz, An English theologian's view of Roman law: Pepo, Irnerius, Ralph Niger, in Id., Rechtshistorische Schriften, Karlsruhe 1970, pp. 232, 242;


F.C. von Savigny, Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter, IV, Heidelberg 1850, pp. 9-67; H. Fitting, Die Anfänge der Rechtsschule zu Bologna, Berlin-Leipzig 1888, pp. 89-106;


A. Gaudenzi, Appunti per servire alla storia dell'Università di Bologna e dei suoi maestri, I, L'età di Pepone e di I., in L'Università, III (1889), pp. 161-163; L. Chiappelli, I. secondo la nuova critica storica, in Rivista storica italiana, XI (1894), pp. 607-628;


E. Besta, L'opera d'I., I, Torino 1896;

H. Fitting, Die Summa Codicis und die Questiones des Irnerius, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Rom. Abt., XVII (1896), pp. 1-96; G. Pescatore, Beiträge zur mittelalterlichen Rechtswissenschaft, IV, Kritische Studien, Greifswald 1896, passim; E. Meynial, Encore Irnerius, in Nouvelle Revue historique de droit français et étranger, XXI (1897), pp. 339-356;


F. Schupfer, La scuola di Roma e la questione irneriana, in Memorie dell'Accademia nazionale dei Lincei, cl. di scienze morali, s. 5, V (1897), pp. 3-168; A. Gaudenzi, Lo Studio di Bologna nei primi due secoli della sua esistenza, Appendici, Bologna 1901, III, La odierna questione irneriana, pp. 83-110; IV, Un'ignota opera attribuita ad I. nel codice ambrosiano Y.43 sup., pp. 110-115; G. Pescatore, Die Stellungnahme des Irnerius zu einer lehnrechtlichen Frage, in Mélanges Fitting, II, Montpellier 1908, pp. 163 s.; H. Kantorowicz, Über die Entstehung der Digestenvulgata, Weimar 1910, pp. 88-95, 112-115; H. Fitting, Eine Summa Institutionum des Irnerius?, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Rom. Abt., XXXVI (1915), p. 424; F. Patetta, Autentiche, in Digesto italiano, IV, 2, Torino 1926, coll. 404-406; H. Kantorowicz, Studies in the glossators of the Roman law, Cambridge 1938, pp. 33-37, 46-50, 59-65, 69; F. Calasso, Medio Evo del diritto, Milano 1954, pp. 507-513;



A. Rota, Lo Stato e il diritto nella concezione di I., Milano 1954; Id., Il diritto feudale, la sua autorità e la sua posizione nel sistema delle fonti giuridiche secondo la concezione di I., in Studi sassaresi, XXVI (1955), pp. 33-61; K.W. Nörr, Zur Herkunft des Irnerius, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Rom. Abt., LXXXII (1965), pp. 327-329; F. Patetta, Delle opere recentemente attribuite ad I. e della scuola di Roma, in Id., Studi sullefonti giuridiche medievali, Torino 1967, pp. 341-456; Id., La Summa Codicis e le Questiones falsamente attribuite ad I., ibid., pp. 457-560; N. Tamassia, Note per la storia del diritto romano nel Medio Evo. La leggenda d'I., in Id., Scritti di storia giuridica, II, Padova 1967, pp. 318-321; Id., Odofredo, ibid., pp. 393-402; E. Spagnesi, Wernerius Bononiensis iudex, Firenze 1970 (cfr. le recensioni di M. Ascheri, in Studi senesi, LXXXII [1970], pp. 302-312, e di G. Dolezalek, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Rom. Abt., LXXXIII [1971], pp. 493-497); G. Otte, Dialektik und Jurisprudenz, Frankfurt a.M. 1971, pp. 139 s.; P. Weimar, Die legistische Literatur in der Glossatorenzeit, in Handbuch der Quellen und Literatur der neueren europäischen Privatrechtsgeschichte, a cura di H. Coing, I, München 1973, p. 199 e ad ind.; J. Fried, Die Entstehung des Juristenstandes im 12. Jahrhundert, Köln-Wien 1974, ad ind.;


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di Enrico Spagnesi


DENARI, Odofredo.




- Nacque a Bologna, verosimilmente ai primi del '200, da Bonaccorso di Riccardo. Gli scrittori più antichi, fino al Sarti, lo scambiarono talvolta col glossatore Roffredo Epifanio, dicendolo perciò Beneventanus, o caddero in altri errori, come l'attribuirgli il cognome Odofredi, col quale furono comunemente designati i suoi discendenti.

D'estrazione popolare, la famiglia Denari era ricca e potente; il D. fu avviato agli studi giuridici, di cui abbiamo notizia indiretta per due acquisti, fatti dal padre e da lui stesso, nel 1226, di alcuni libri. Non pare fosse ancora addottorato due anni dopo, quando il testamento di suo zio Caravita ne menziona la moglie, Giuliana e un figlio, Riccardino. Scarsa la documentazione anche per gli anni successivi, nei quali debbono situarsi le esperienze, i soggiorni, i viaggi, che hanno lasciato nelle opere sue memorie numerose e talora pittoresche in riferimento a molti luoghi (Venezia, Padova, la Marca anconitana, Spoleto, Roma, Parigi).

Nel gennaio del 1232, col titolo di legum professor e in qualità di giudice, decise una controversia a favore del monastero di S. Vittoria presso Fermo; nel giugno del 1236 rese consiglio, con altri giuristi, tra i quali Bagarotto, a favore di Gardionessa di Camposampiero e figli, contro il vescovo di Padova. Mettendo in relazione queste notizie, che provano essere causa di peregrinazioni le funzioni sue di assessore di giusdicenti, con i ricordi personali, si possono formulare alcune ipotesi.

Il D. dice d'esser stato in Francia prima della pubblicazione d'una certa decretale (cioè anteriormente al 1234), e nella Marca circa trent'anni avanti di tenere certi corsi universitari (assegnabili al 1260-63). Se al principio del 1232 era al servizio di Milone di Châtillori-Nanteuil, vescovo di Beauvais e rettore della Marca dal 25 sett. 1230, si può supporre che il soggiorno francese risalga al 1228-30, e che in tale occasione egli abbia potuto farsi apprezzare dall'ecclesiastico che gli affidò l'ufficio di giudice; la qualifica di professore fa capire che l'inizio dell'insegnamento deve ricondursi ad un'epoca prossima al conseguimento del dottorato, ma anche che l'attività didattica veniva alternata ad altre incombenze. Quanto al consilium padovano, se ne può dedurre che il D. fosse al servizio dei podestà, finché questi fu il bolognese Ramberto de' Ghisilieri, ma non si deve pensare ad un suo magistero nello Studio di Padova; la congettura del Gloria va respinta, né si può argomentare dal fatto che il figlio del D., Alberto, compare nella matricola del Collegio dei dottori padovani, documento tardo e di scarsa affidabilità.

Il 13 ott. 1238, a Bologna, il D. e altri celebri giuristi (tra essi Accursio e Bagarotto) precisavano termini e modalità delle condanne comminate in base all'arbitrium potestatis; è il primo d'una numerosa serie d'interventi che, come membro di diritto del Consiglio speciale, o in altre qualificatissime vesti, il D. opererà partecipando alla vita politica ed amministrativa della propria città.

Nel 1244 fece parte della commissione incaricata di dichiarare quali terre del contado erano esenti da certi tributi, cinque anni dopo di quella che compilava gli elenchi dei "fumanti" per gli estimi; in occasione della resa di Modena, dopo Fossalta, era tra i rappresentanti alla stipula del trattato e tra i testimoni del lodo degli arbitri parmensi per la vertenza sul Frignano (15 e 20 dic. 1249); era degli Anziani, quando liberò dal bando gli Imolesi, nel 1250; tre anni dopo, a Ravenna, era teste della pace tra i Comuni ravennate e bolognese; nel 1254 era ambasciatore prima presso la Curia romana, poi a Modena; nel 1257 era desigriato come eventuale superarbitro nella questione delle rappresaglie tra Bologna e Ravenna.

In un caso è lo stesso D. ad attestare lo svolgimento di queste mansioni pubbliche, dicendo, in una delle proprie lezioni, che il legato pontificio, quando morì papa Gregorio IX (nel 1241), pose a lui, come a diversi peritissimi, il quesito sulla fine della giurisdizione delegata, seguendone poi il parere. Gli atti di maggior rilievo per l'ordinamento statale non esauriscono il panorama dell'attività del giurista; in varie occasioni il D. prestò la propria opera d'assistenza agli uffici podestarili, talvolta come testimone (come il 1º ott. 1240), talaltra per prestare formale consilium sulle procedure giudiziarie (così al notaio del podestà, sulla cancellazione di alcuni bandi, il 31 ag. 1254 e il 4 marzo dell'anno seguente).

Quanto all'insegnamento, lo stato della documentazione superstite relativa allo Studio bolognese non permette di ricostruire i ruoli dei maestri, né esistono fonti di cognizione indiretta; gli scrittori che lo dicono laureato nel 1228, e docente dall'anno successivo, non disponevano di maggiori informazioni di quelle attuali. Certo è che il D. considerava Iacopo Baldovini come suo principale maestro e che gli anni del discepolato sono anteriori al 1229-30 (il Baldovini fu allora podestà di Genova); soltanto dopo il periodo degli assessorati svolti lontano da Bologna si dovrà pensare che il D. abbia legato con stabilità il proprio nome allo Studio dove tenne lezione fino alla morte.

Alcuni dei suoi corsi sono databili, perché esempi di atti portano gli anni 1247 10263, e vi sono riferimenti ad eventi storici del 1259-60. D'altra parte gli appunti dalle lezioni furono presi in tempi diversi, ed accanto al rinvio puntuale si trova il ricordo vago, cronologicamente fuorviante.

Sono stati indicati come maestri suoi anche altri, ma soltanto per Ugolino e Bagarotto egli dice "ita audivi ab eo". Il discepolato non significa supina accettazione d'ogni dottrina; anzi, tra le non infrequenti critiche di celebri doctores ne troviamo anche di formulate per il Baldovini; la linea scientifica comunque è quella stessa inaugurata da Irnerio, e della tradizione scolastica bolognese caratterizzata e distinta dal genere letterario "glossa" le opere del D. sono rappresentative sotto tre profili. In primo luogo per quello, appariscente e curioso, dei tanti aneddoti riguardanti la storia dello Studio e dei libri di diritto, la biografia dei maestri, la vita universitaria nel suo complesso: senza questa "ricchezza meravigliosa di notizie", disse il Tamassia, "nemmeno un Savigny avrebbe aperto la via così magistralmente per lo studio del diritto romano nel medio evo". In secondo luogo per lo straripante numero di citazioni di auctores, a dimostrazione d'un cospicuo bagaglio di cultura generale e specifica: tra i classici, Cicerone e Seneca, Ovidio e Virgilio; tra i medievali Donato e Prisciano, Isidoro e Papia. I giuristi menzionati sono ben trentatré, tra i quali alcuni dei doctores antiqui (così sono designati i precedenti ad Azzone) che non hanno quasi lasciato traccia della loro attività e restano male identificabili. Per quanto riguarda un terzo aspetto, infine, i lavori del D. costituiscono la tangibile espressione di metodi e forme d'insegnamento che in tale ampia misura non sono altrimenti documentati: le lezioni sulle varie parti del Corpus iuris civilis furono raccolte in modo quasi completo, con le loro prolissità, ridondanze e addirittura con il caratteristico esordio in volgare "Or segnori"; e soprattutto, in esse, come nei tractatus, nelle repetitiones, nelle quaestiones che egli ci ha lasciato, si assiste ad un importantissimo sviluppo della didattica, che apre la strada alla scuola dei commentatori, e che è in qualche misura correlato ad un cambiamento nelle strutture dello Studio bolognese.

In quei tempi si viene costituendo l'universitas, la corporazione studentesca destinata a soppiantare completamente gli antichi consortia formati dai maestri e dai loro allievi; i rapporti tra le due componenti vengono ad atteggiarsi in modo diverso; si fa maggiore l'ingerenza degli organismi comunali nella vita accademica sia per quanto riguarda la scelta dei professori, sia per gli obblighi e per il pagamento di questi. Gli statuti del 1252 documentano tali tendenze e tensioni, quando disciplinano rigorosamente la taxatio punctorum, mediante la quale si assegna al docente il tempo necessario e sufficiente per spiegare gli argomenti di lezione, ripartiti tra ordinari e straordinari; tra i generi letterari emergenti spicca la quaestio, la cui disputa sarà resa obbligatoria - per certi insegnanti, almeno una volta all'annol in periodi determinati - rappresentando un momento solenne nella vita di tutta una facoltà.

In alcune proposizioni introduttive ai propri corsi, il D. dimostra d'aver coscienza della novità (e di essa si compiace) di certe prassi ed iniziative personali: egli leggerà tutto il testo, compresi i passi che altri doctores saltano, e anche le glosse; e disputerà almeno due volte all'anno. Le quaestiones, innovative sotto il profilo metodico, confluite o non nei suoi commenti, dimostrano una prima, inusitata attenzione verso lo ius proprium, in sé e nei problemi di raccordo e armonizzazione con le norme generali: tipico l'esempio relativo alla prescrittibilità della iurisdictio, tema difficile, ripreso e dilatato dai giuristi posteriori in relazione alle diverse situazioni politiche.

Tali atteggiamenti e spunti presenti nell'opera del D. sono apparsi al Meijers e a qualche altro studioso collegabili alle origini della scuola di Orléans, in particolare la notale indipendenza" di questa rispetto alla glossa accursiana è sembrata derivare dal magistero del Baldovini e del suo discepolo: come il primo è critico nei confronti di Azzone, il D. lo è riguardo ad Accursio; vi sarebbero, inoltre, notevoli tratti comuni tra gli scritti del D. e quelli di jacques de Révigny, animatore del nuovo corso oltremontano. Com'è ovvio, su tematiche tanto complesse non mancano disparità di vedute; il Nicolini ha tenuto a sottolineare la coesistenza tra le due forme letterarie, della glossa e del commento, che esclude macroscopiche contrapposizioni e soluzioni di continuità: tuttavia la contemporaneità di metodi didattici e scientifici diversificati porge il destro agli scrittori per creare protagonisti e antagonisti, e disegnare le relative scenografie di maniera: Benvenuto da Imola (Comentum a Inf., XV: a cura di J. Ph. Laicata, I, Firenze 1887, p. 523) narra che Accursio si finse ammalato per poter lavorare in tranquillità al proprio apparatus e precedere nella pubblicazione i commenti del D.; se non ci fosse stata l'esegesi accursiana, tutti avrebbero utilizzato quella del D., dice, ancora nel 700, il Sarti.

La critica moderna, cioè il Savigny e il Tamassia, ha segnalato le scarse tracce dirette di questa rivalità riscontrabili nelle opere dei due maestri, come citazioni a mezza bocca e allusioni ironiche (in particolare, la frecciata del D. contro i compilatores glossarum: un'altra volta, tuttavia, i verba Accursii sono detti elegantia); quanto al valore scientifico, prolissità, mancanza di acutezza, ragionare tedioso e impacciato, e altro ancora, sono stati rimproverati dal Savigny alle Lecturae del D., e il Tamassia, manifestando "un senso di disagio intellettuale ineffabilmente grave" nell'accostarsi ad esse, ha rimesso quasi totalmente l'importanza loro nella raccolta di opinioni e notizie, di quelle ofiabe e storielle" propinate agli studenti per interrompere la noia della lezione.

Impossibile sintetizzare in poco spazio i numerosissimì argomenti che con paziente e dotta intelligenza il Tamassia venne spigolando nei commenti odofredianil egli li divise in cinque gruppi, riguardanti il linguaggio e il metodo didattico del giurista, ciò che dice dello Studio bolognese, quanto conosceva dei diritti longobardo, feudale, statutario e canonico, la sua attenzione per la vita pubblica e privata del tempo, la menzione, infine, di personaggi e fatti storici: quasi capitoli d'uno zibaldone ideale, dove sono presenti la cronaca e il romanzo, la grave meditazione e il triviale pettegolezzo. La citazione obbligatoria di alcuni brani celeberrimi sulle origini dell'università bolognese (il trasporto dei testi giuridici da Roma a Ravenna e poi a Bologna; Pepone "nullius nominis" e Irnerio primo glossatore e "lucerna iuris", ecc.), non deve farci dimenticare che l'odierna ricostruzione storica viene via via ad interessarsi di altri dicta del D. (Venezia non riconosce il diritto romano; gli studenti sono "mali pagatores"; parte delle dodici tavole sono, indecifrabili, in Laterano, ecc.), per sistemarli in contesti congrui, dove rivestono indubbia utilità di fonte.

Il problema dell'attendibilità di tali notizie ha tratti comuni con quelli proposti da ogni autore medievale. Il D. raramente sembra lavorare, almeno in questo campo, di prima mano; riprende glosse precedenti, amplificandole e deformandole in qualche misura; a sua volta è saccheggiato, inevitabilmente con fraintendimenti. Comunque è certo che considerare i suoi corsi soltanto come un formidabile centone di aneddoti appare soluzione riduttiva e inaccettabile; si avverte la necessità di un'indagine che abbandoni l'ottica delle "zeppe" collocate a caso, ed esamini il particolare "stile" del D. in un quadro più convincente, operando i collegamenti necessari con l'ambiente dove egli si trovò ad insegnare, così ricco di fermenti culturali (si pensi per esempio all'emergente scuola di notariato), e considerando attentamente, oltre alle Lecturae, le altre produzioni del D., e la vasta gamma d'interessi che da esse viene dimostrata.

Come altri civilisti, il D. guardava con una certa sufficienza alle discipline diverse dalla propria; cio non toglie che abbia scritto di diritto feudale e glossato la pace di Costanza; che dimostri un'approfondita conoscenza della legislazione statutaria di Bologna e di altri luoghi, e abbia glossato gli statuti veneti tiepoleschi; che trovino posto nella sua biblioteca, sia pur tardi (gli acquisti sono del 1256 e del 1257), due copie del Decretum, con e senza l'apparato; e che si sia servito con padronanza di molte delle forme letterarie in uso nella scuola.

Additiones, casus, repetitiones, quaestiones, tractatus e consilia, in unione con le Lecturae, formano un coacervo di materiali ricchissimo, che, rendendo possibili varie utilizzazioni, e plausibili diverse attribuzioni di paternità, determina intrecci districabili solo con fortunata pazienza, ove si voglia stilare il catalogo delle opere del Denari. Abbiamo un vero campionario di situazioni equivoche, adatte a provocare errori. A parte lo scambio d'identità con Roffredo, c'è la pretesa autorizzazione imperiale per il commento alla pax Constantiae; c'è il raffazzonamento più o meno innocente, il plagio smaccato, e l'indicazione non abbastanza controllata. Citiamo qualche caso emblematico. La Summula de libellis, stampata per la prima volta a Strasburgo nel 1510, è quasi sicuramente lavoro di Salatiele. Il Savigny, pur tenendo conto dei numerosi rinvii ad un'arsnotarie che il D. non risultava aver mai scritto, avallò una notizia derivante da Giovanni d'Andrea per confermare la paternità odofrediana. La riedizione del 1970 (dovuta a A. Grazia), mette a frutto solo tre mss. (uno bolognese, due parigini), mentre il Verzeichnis del Dolezalek ne segnala altri sette sotto il nome del D. e uno sotto quello di Salatiele: un ms. adespoto è stato identificato di recente a Praga (Kejf). Il De positionibus, stampato a Siena nel 1494 (col De ludo di G. B. Caccialupi e opere di altri giuristi), non è suo, ma si è ancora incerti tra coloro che i numerosi mss. propongono come autore; il De consiliis habendis per officiales, pubblicato fra i tractatus bartoliani a partire dal 1521, è ora ritenuto opera di Alberto da Pavia, integrata da alcune giunte del D.; il classico De tormentis gli fu attribuito anticamente, e, per certe parti di quel testo composito, un minimo di possibilità sussiste (un codice vaticano, il Lat. 2525, reca il trattato col nome di Guido da Suzzara, e poi quaestiones odofrediane attinenti); il De percussionibus, circolante in genere tra i bartoliani, è invece, come disse il Diplovatazio, con certezza ascrivibile al Denari. Fenomenologia differente hanno i problemi legati alla glossa degli statuti veneti di lacopo Tiepolo del 1242, della quale sono testimoni tre codici veneziani (più un tardo apografo ravennate); gli studi del Besta e del Cessi, stabilita tra quelli l'autorità del ms. marciano, hanno permesso di distinguere lo "strato" odofrediano, e di ravvisare in quel primo commento il disegno d'un'opera completa ed organica, dotata d'una cifra stilistica inconfondibile.

Accanto alle indicazioni provenienti dalle ricerche sulle opere, altre giungono dall'esplorazione di uno o più codici. Si possono citare l'indagine recente (Nicolosi Grassi) che ha portato all'edizione della già menzionata quaestio "quidam miles", dal parigino Lat. 4604, recante complessivamente quarantasei testi di tale tipo, dei quali solo alcuni siglati, ma tutti connessi con l'insegnamento del D.; il breve studio (Buonarnici) sul ms. 427 della Biblioteca capitolare Feliniana di Lucca, un bel codice miniato contenente l'opera feudale di Antonio da Pratovecchio e la glossa del D. alla pace di Costanza; il censimento dei mss. feudistici, con la particolareggiata analisi del MS. 2094 della Osterreichische Nationalbibliothek di Vienna (Seckel), in ordine alla comprensione della Summa in usus feudorum del D., di cui esiste una rara edizione complutense del 1584; la descrizione del miscellaneo C.O. 40 dello Statni Archiv di Olomoue (Dolezalek), testimone della Summula a D. 42, 4, cioè il De primo et secundo decreto, e del De fama.

Queste ultime operette, come il De curatore bonis dando, il De dotis restitutione e il De interdictis, compaiono sotto il nome suo in varie raccolte a stampa, speciali o generali, di monografie. Controlli incrociati della tradizione manoscritta, sulla base anche dei titoli e degli incipit, sono ora possibili grazie al Verzeichnis del Dolezalek, al quale si può senz'altro rinviare. Tale prezioso strumento ci mostra la limitatezza delle segnalazioni savigniane di mss., che si riflette sull'esatta enumerazione delle opere: non vi si trovano i casus, le repetitiones, le additiones ai testi civilistici e alla Summa Institutiones azzoniana, pur rappresentate da tanti codici (ben quindici, per le additiones al Vetus), perché passate sotto silenzio dai biografi precedenti. Il Savigny censi invece accuratamente mss. e stampe delle Lecturae, e poco si può aggiungere; prima di ricordarli, in breve, si può accennare alla notevole fortuna di questi corsi: si trovano elencati nei cataloghi degli stazionari, con un'estensione di cento pecie, quelli sul Vetus e sul Codex, di trenta, quelli sull'Infortiatum e sul Novum; spesso furono oggetto di contratti di vendita o di trascrizione (per esempio, nel 1268); talvolta si usarono per colmare le lacune presenti nelle Lecturae di altri autori (in quella sul Vetus di Jacques de Révigny, alcuni passi si riconoscono per cominciare col caratteristico esordio "Or segnori").

La Lectura sul Vetus fu stampata a Parigi e Angers, nel 1504; a Lione, nel 1519, nel 1550 C 1552; un codice completo alla Nazionale di Firenze (Grandi formati, 39, XXIX, 27), altri mss. più o meno parziali a Kassel (Murbardsche Bibliothek, 2 Mss. iurid., 3), Norimberga (Stadtbibliothek, Cent. II, 78), Parigi (Bibl. nat., Lat. 4489). Sull'Infortiatum, edita a Lione, nel 1550 e nel 1552, a Bamberga ha un testimone del solo D. 28, 2, 29. Sul Novum, edita a Lione, nel 1552, della quale non si conoscono mss. Sul Codex: edizioni di Lione, 1480; Pavia, 1495-1500 (Indice generale degli incunaboli, n. 6959-13, fino al libro IV, sconosciuta al Savigny), 1502 (data dal Savigny); Trino, 154; Lione, 1550 e 1552; mss.: oltre ai quattro dati dal Savigny, se ne conoscono ora a Durham (Cathedral Library, C, I, 12), Francoforte (Stadt-und Universitátsbibl., Bartholom., 17), Seo de Urgel (Biblioteca de la Catedral, 2042), Tarragona (Biblioteca provincial, 87), Toledo (Biblioteca de la Catedral, BC, 40,8; 40,9). Sui Tres libri: edizioni di Venezia, s.d. (segnalazione del Savigny), di Lione, 1517, e 1550; niss. a Chartres (Bibl. munic., 310) e a Madrid (Bibl. nac., 577). Infine un indice, relativo al Vetus e al Codex, fu stampato a Lione, nel 1550 e nel 1552.

La produzione letteraria passata in rassegna, tutta improntata ai ritmi e alle esigenze dell'insegnamento, ha una perfetta corrispondenza nelle notizie biografiche che collegano il nome del D. all'articolata vita dello Studio bolognese. Nessun altro professore, disse il Sarti, ebbe maggior affluenza di studenti, e si procuro, con quest'attività, pari ricchezze; in effetti, le scholae di lui e quelle di Accursio erano le dominanti, e i figli dei due grandi maestri, cioè, rispettivamente, Alberto e Francesco, erediteranno, oltre che il mestiere, la potenza economica dei padri. Sappiamo con certezza che la scuola del D. aveva anche una statio destinata alla confezione dei libri, e probabilmente egli ebbe per un certo periodo come socio, per il commercio relativo, Ardizzone di Guido da Milano, il primo ad incarnare la figura di bidello generale dell'università. Spesso i doctores prestavano denaro agli studenti, talvolta, come scrive ironicamente lo stesso D., per riempire le aule; anche lui, tuttavia, ebbe fama di usuraio, e in veste di mutuante ce lo presentano due documenti spettanti all'ultimo periodo della sua vita (nel maggio del 1265 cede a un concreditore i diritti su una somma; nel novembre dello stesso anno, tramite il suo bidello Petrizolo, presta a diversi scolari stranieri 40 soldi di grossi veneti fino alla Pasqua successiva). Quanto all'entità delle collectae, con un atto del 1269 Alberto riscosse una piccola parte d'un credito paterno di 400 lire: non se ne possono trarre tutte le indicazioni volute da alcuni studiosi, poiché non sappiamo se la somma si riferisce a più anni, e se è gravata di penalità, tuttavia l'entità cospicua, e la distanza di almeno quattro anni dalla costituzione del debito, sono elementi significativi per più versi. Ancora alle caratteristiche funzioni del dominus scolastico attiene la qualità di giudice attestata da un documento dell'agosto 1265: con lui, a dirimere una lite tra uno studente straniero e Filippone de' Pepoli, il rettore degli Oltremontani.

Nell'ambito di un'attività forense privata compare in documenti del 1242, del 1255, del 1265, come arbitro o consiliator, per liti di varia natura e importanza; egli stesso c'informa d'un suo duello giudiziaIrio col Baldovini, per una questione di una certa rilevanza in tema di rapporti patrimoniali tra coniugi.

Morì a Bologna il 3 dic. 1265, come ricorda l'iscrizione posta sul monumento costruitogli, come quello d'Accursio, dietro alla chiesa di S. Francesco. I legami con essa appaiono anche da un lascito di 75 lire, disposto per un testamento non altrimenti conosciuto, cui solo nel 1270 il figlio che ne continua l'attività e la progenie, Alberto, dà esecuzione. Le case della famiglia (in campagna erano poste nei territori di Medicina e di Arcoveggio, in città in via di Val d'Aposa, nella platea maior e in curia S. Ambrosii) avevano accolto, oltre a lui, il primogenito Riccardino e una femmina, Lazzarina: entrambi presero i voti francescani.

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Edited by barionu - 12/4/2021, 20:04
 
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