Origini delle Religioni

RATTIMIRO BULGHERONI

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CAT_IMG Posted on 19/11/2020, 20:27
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LA TRADUZIONE PERDUTA DEL

NECRONOMICON




di Giuseppe Lippi












Nell'aprile 1952 chiudeva i battenti, per un misto di difficoltà economiche, complicazioni giuridiche e cause più strettamente legate alla crisi del gruppo di cui era portavoce, la rivista parigina Cahiers Noirs, che era stata fondata vent'anni prima da Claude Lussìnat. L'ultimo numero si distingueva per avere in copertina dove di solito campeggiava la sola testata, in viola su fondo nero la dicitura:

Sur le Maitre Giulio Camillo Delminio, par Rattimiro Bulgheroni.



Si trattava del breve saggio (otto pagine) in cui un oscuro corrispondente italiano della rivista di magia presentava un ritratto in chiave eterodossa dell'umanista e letterato rinascimentale nato a Portogruaro verso il 1485. La tesi di Bulgheroni era che l'attività magica e cabalistica di Delminio ne avesse influenzato l'opera letteraria, anche se in modo solo parzialmente evidente, e che comunque fosse stata quella il suo principale accomplissement, mentre la produzione poetica o teorica sarebbe del tutto marginale rispetto a essa.

L'idea che Delminio fosse un grande mago non era certo nuova; ma Bulgheroni, dopo aver fatto riferimento alla sua nota attività alchemica, e dopo avergli senz'altro attribuito « la création in vitto du premier homunculus », citava un breve passaggio della biografiache Marco Scotto scrisse alla fine del secolo XVI in cui si legge che il cabalista non trascurò le fonti di studio islamiche, e che dal mondo arabo riportò « I preziosi insegnamenti di un maestro ingegnosissimo, Abdul Azhared di Sanaa » (1).

(1) È la trascrizione corretta del nome arabo: Azhared, e non Alhazred, come poeticamente si è invece permesso Lovecraft.



Bulgheroni afferma che l'alchimista veneto conobbe senz'altro il Necronomicon, e che anzi ne tentò una versione in volgare. A quest'affermazione seguono alcune brevi considerazioni cronologiche che sembrano suffragare quest'ipotesi: verso il 1550 apparve in Italia, e fu stampata a Roma, la versione greca di Teodoro Fileta, che però già da tempo circolava in edizioni limitate e mi-noscritte nei circoli esoterici della penisola.

È convinzione di Bulgheroni che l'editore e curatore dell'edizione romana, Francesco Guiduccio, fosse strettamente legato a Delminio, e che in un primo momento fosse stato da lui spronato a leggere e studiare l'opera. Quando il libro apparve (per l'esattezza nel 1548, come Mare Michaud è riuscito a stabilire) l'alchimista veneto era scomparso da soli quattro anni.


Nella biografia di Marco Scotto, Guiduccio è effettivamente definito « il corrispondente più regolare » di Delminio, che verso la fine della sua esistenza risiedeva in Milano al servizio del Mar-chese del Vasto: secondo Bulgheroni lo stampatore romano ebbe fra le mani la traduzione italiana che Delminio aveva fatto del Necronomicon, ma se poi pubblicò il testo greco fu « per preciso legato del suo Maestro ».

Quando il breve saggio dei Cahìers Noirs si chiude molti interrogativi restano aperti: chi fu effettivamente Delminio? Come venne a conoscenza del Necronomicon e in che modo lo tradusse? Per quale ragione chiese a Guiduccio di non pubblicare la sua traduzione? E infine: è essa reperibile, oggi, o è andata perduta come buona parte degli scritti esoterici delminiani?

Sebbene la fonte ufficiale più autorevole a proposito dell'alchimista di Portogruaro rimanga la biografia dello Scotto, due altri volumi servono a un miglior inquadramento del suo tempo e della sua opera: I neoplatonici del Rinascimento di Arturo Boffa (Laterza, 1929) e il monumentale Magie Lore in Western Highbrow Culture edito dall'Oxford University Press nel 1965.

Lo Scotto ci fornisce l'anno di nascita di Delminio, che forse è il 1485, ma che bisogna prendere con beneficio d'inventario per-ché ciò che interessava l'antico biografo era porre in rilievo certe coincidenze spettacolari e perlomeno strane atte a suffragare la « leggenda » sorta intorno al personaggio già in quegli anni. Ora, il 1485 fu un anno specialissimo per Portogruaro (2), come Marco Scotto non manca di far osservare.

(2) Vedi: G. POLIAZIANI, Rist. veti,, voi. IX, 1666.

In febbraio nacquero due gemelli siamesi che vengono descritti come dèmoni: occhi rossi, pelle bianchissima, capelli fulvi sul cranio, unghie nere, ma soprattutto piedi biforcuti (3).

(3) Molti neonati venivano accusati di avere il pie' biforcuto nel Friuli
medioevale e rinascimentale; in realtà i rapporti medici più illuminati par
lano di estrema separazione dell'alluce dalle altre dita o al massimo di cur
vatura dell'alluce, dovuta spesso a una deformazione ossea causata dall'ec
cesso di calcare presente nell'acqua bevuta dalle gestanti.


In marzo un meteorite di notevoli proporzioni cadde ad alcuni chilometri dal centro abitato, scavando un cratere profondo sei metri da cui si levò per tre notti di seguito « uno detestabilissimo lezzo, e si sprigionò un colore che nessuno sapeva definire ». In maggio scoppiò quella che si credette avventatamente un'epidemia di vaiolo , ma la storia medica della regione ha dimostrato che si trattò solamente di una forma non grave di scrofolosi e i più solerti abitanti della città si recarono nel cimitero giurando di aver udito « i morti mastichare », scoperchiarono diciassette tombe e, avendo trovato svariati cadaveri in stato d'inspiegabile conservazione, ne trafissero il cuore con altrettanti paletti, secondo la credenza che il morto masticante, o vampiro, è portatore di vaiolo e peste (4).

(4) Per questo vedi pure: A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni
de' spiriti, e sopra i vampiri o i redivivi d'Ungheria, di Moravia ecc, in
Venezia, 1756; nonché il raro De masticatione mortuorum in tumulis di
Michel Rauff.



Ma in settembre accadde l'avvenimento più inspiegabile di tutti: il sottosuolo della regione fu scosso per due settimane da violenti boati sotterranei, anche se non restano cronache di sismi o altre calamità naturali, e Scotto pretende che alcuni abitanti della città per scongiurare quei rumori si recassero di notte oltre le porte cantando inni non cristiani, per la qual cosa, come riferisce, « tre dottori e dodici signori mercanti furono condannati alla gogna ». Le entità che quegli sventurati cercavano di propiziarsi erano, sempre stando al biografo di Delminio, Belial e logge Sotote.


Il 1485 è poi naturalmente anche l'anno di uno dei più celebri processi per stregoneria nel Friuli, anche se Scotto stranamente non lo riferisce (5).

(5) Per questo vedi: MARGARET MURRAY The God of thè Witches, Oxford
University Press (tr. it.: Il dio delle streghe, Ubaldini, Roma 1972).


Fin da giovanissimo Delminio fu versato negli studi umanistici, dimostrando una profonda conoscenza delle lingue classiche e orientali. Scotto lo dipinge, ma è di nuovo per star dietro alla leggenda, come un ragazzo che a diciannove anni superava di statura qualunque gentiluomo e cavaliere nel Friuli, aveva lunghi capelli neri che gli scendevano sulle spalle, un volto forte e ossuto, fieri occhi ardenti e un naso aquilino lunghissimo. Se con la luce che gli brillava nello sguardo dimostrava un'assoluta padronanza della volontà e dell'intelletto, con le mani lunghe, molto magre riusciva benissimo in qualunque attività pratica: era un formidabile schermidore, un ottimo tiratore con l'arco, un bravissimo tessitore (poiché fin da fanciullo aveva considerato la filatura « un'arte che della vita dispiega lo svolgimento »), e, pare, un amante fuor dell'ordinario. Scotto lo ritrae come un Casanova cinquecentesco, anche se un cronista francese, Jacques Dubrillard,lo tratta invece come un eremita misogino allorché deve dipingerne il soggiorno alla corte di Francesco I (6).

(6) Vedi: Henry Klem, che cita Jacques Dubrillard in La France et
la Renaissancs obscure, Editions de Philosophie, Parigi 1964.

E' probabile tuttavia che nei francesi ci fosse un certo inte-resse a screditare il « mago » proprio per Ì suoi troppi successi in campo sentimentale. È rimasta relativamente famosa la lettera di un'alta dignitaria della corte di Francesco I, Marie Laven, che così si lamenta:

« II (Delminio) m'avait promis une absolule ftdelité et dédition, mais j'ai découvert qu'il sorts de sa chambre quand la lune est haute pour réjoindre une cocotte de nude beante, celle qui appellent 'la sorcière', et qu'ils foni l'atnour d'une facon bestiale et très peu chrétienne. Mon coeur est seni avec sa jealousie » (7).

(7 Egli (Delminio) mi aveva fatto promessa di assoluta fedeltà e dedizione, ma ho scoperto che di notte, quando la luna è alta, esce dì sua camera per raggiungere una sgualdrina di nessuna beltà, quella che chiamano 'la strega', e che fanno l'amore in modo bestiale e assai poco cristiano. Il mìo cuore è solo con la sua gelosia a (Marie Laven, Documents
de France, a. IX voi. IV).




Quasi a ratificare la diffusa opinione sulla crudeltà del casanova viene la credenza popolare secondo cui Delminio avrebbe stretto in gioventù un patto col Diavolo per ottenere tutte le donne che desiderava. Questo particolare è negato da Scotto con un certo compiaciuto disprezzo, e si capisce perché, ma nei Neoplatonici del Rinascimento Boffa si esprime così:

«È impossibile stabilire fino a che punto l'esaltazione mistica e spirituale nei rappresentanti 'oscuri' di questo filone confinasse con la vera e propria demonologia... tuttavia... si può fare per tutti il caso di G. C. Delminio, la cui reputazione si fece pessima con gli anni a Venezia e a Portogruaro, ma che fin da giovane era stato ritenuto un adepto dì forze oscure, specialmente al fine dell'incantamento amoroso. Del resto l'autore incriminato non fece nulla per dissuadere i suoi contemporanei da questa convinzione, ma semmai l'alimentò » (8).

(8) A. BOTTA, op. cit., pag. 317.

È probabile che con l'ultima affermazione Boffa intenda riferirsi soprattutto a quelle considerazioni, contenute nelle annotazioni sopra le rime del Petrarca, in cui Delminio si esprime con .ambiguità a proposito del sentimento di trepidazione amorosa, lasciando trasparire un'aura di superiorità invincibile nei confronti della donna, che non sarebbe oggetto degno di troppe cure. Vale la pena soffermarsi un momento su questo aspetto della perso¬nalità delminiana, e meravigliarsi che da un lato potesse espri¬mersi con tanto cinismo e dall'altro concepire versi come questi:

Donna, altro messaggero non ho che inviarvi io possa per cui osi il mio cuore presentarvi, Fuorché la mia canzone, se vorrete cantarla.


In realtà Delminio sentì profondamente il trasporto verso il femminile anche inteso in senso simbolico, e non disprezzo mai le sue amanti. È vero però che tenne un contegno di sicurezza ostentata nei loro confronti, come se fosse certo di non poterle perdere, e che esse dipendessero in tutto da lui.

Sull'argomento della pena d'amore si espresse eloquentemente: è evitabile se l'uomo è forte, ma se vogliamo deliziarci anche di quella « dulcia tristia », facciamolo senz'altro: a patto di restare sempre padroni della situazione. Fu questa fiducia incrollabile, questa certezza nella possibilità di dominare. le passioni a indurre il sospetto nei contemporanei. In realtà Delminio non ostentava arroganza, voleva piuttosto parafrasare un'evoluzione spirituale.

Ma la fantasia popolare si accese quando una donna di Venezia, Letizia Costantinide, che da lungo intratteneva relazioni col Maestro, fu vista scomparire dalla circolazione senza che il suo amante volesse rivelare nulla in proposito.

Una sera, racconta Marco Scotto con l'aria di riferire un'assurda calunnia, poco prima dell'imbrunire si udì un alterco venire dal palazzo di Delminio, e poi un sottile lamento che durò fin quasi al levarsi della luna. Infine, poco dopo che il sole era sceso dietro l'orizzonte, da una delle finestre della torre si affacciò una donna, che spinse tutto il corpo in fuori, in modo che i passanti credettero volesse suicidarsi.
Ma quella donna possedeva un paio di grandi ali, anche se non aveva più le braccia, e con esse spiccò il volo scomparendo oltre l'orizzonte tra orribili versi d'uccello. Gli astanti giurarono che si trattasse di Letizia, anche se con la luce incerta sarebbe stato difficile giudicarlo, e gridarono che « il Dottore » (cioè Delminio) l'aveva fatta impazzire e le aveva amputato gli arti. Altri, più esplicitamente, dissero che l'aveva convinta a vendersi al Demonio e che questi l'aveva trasformata in strega.

E quasi certamente un'esagerazione — o, se si vuole, una triste metafora — del suicidio cui andò incontro la Costantinide. Ma, siccome non esistono più prove, la leggenda di stregoneria è tutto quello che ci rimane di un dramma mai chiarito.

Fatto sta che, nonostante la sua influenza e le sue ottime conoscenze, dopo questo episodio Delminio dovette abbandonare la casa e cominciare una serie di peregrinazioni; il palazzo non venne venduto, ma lasciato ad un giovane cugino originario di Pirano, il quale lo esplorò sistematicamente e che ci ha lasciato una preziosa catalogazione del materiale trovato (9).

(9) Oggi custodita privatamente a Venezia, coll. Dei Brioschi.



Tra queste cose si ricordano; molti strumenti geografici; mappe e curiosi disegni di paesi che secondo il giovane beneficiario « non esistono su la Terra»; manoscritti inediti dello stesso Delminio (tra cui l'abbozzo di un'opera progettata, mai compiuta, che doveva intitolarsi Teatro, intesa in senso retorico a rappresentare la fonte di ogni dottrina, e fornire quasi meccanicamente la scienza ad ogni uomo senza alcuna fatica, secondo un'illusione che sarebbe stata pure di Giordano Bruno); una vastissima biblioteca in latino, greco e arabico e una considerevole quantità di corrispondenza, buona parte della quale scritta nel linguaggio crittografico che Delminio adoperava nelle epistole di Dottrina, termine con cui talvolta designa l'Alchimia.

Fra le lettere non cifrate, e che dunque luì era in grado di leggere, il giovane di Pirano (che si chiamava Clemente Amine) ne trovò una di una giovane donna piemontese, che si firmava Margherita, e che scriveva in sostanza parole d'amore; fra queste però (poiché sì trattava di un'iniziata) compare a un tratto un periodo che attrasse l'attenzione del curioso Clemente:

« Onde ti priego di non più studiare le carte dell'Arabo, poiché sono di conoscenza malevola, e il greco Fileta che le tradusse compì altri errori. La follia prende a troppo almanaccarvi, e a nulla conseguenza portano le Impetrazioni, che non sia di natura bassissima. Contra-rio a ogni cammino è il Necronomico » (10).

(10) Coll. Dei Brioschi.

Sull'identità di Margherita sono state fatte varie ipotesi; Marco Scotto afferma che abitava a Intra, sul Lago Maggiore, dov'era nata, e che da sola governava una casa grande e quieta a specchio dell'acqua; la dipinge come un'iniziata a conoscenze proibitive, data l'epoca, per una donna, ed è forse per questo che si sente in dovere di chiamarla « striga » (maga) in due punti, ma non con connotazioni spregiative.

Era una donna bellissima che Delminio aveva conosciuto in un primo viaggio a Milano e anche l'unica che gli sarebbe rimasta vicina — con la corrispondenza, l'amicizia — per tutta l'esistenza. In un documento perduto, ma che Scotto conosceva, Delminio la descrive bassina, della statura che fa deliziose le giovani donne; i capelli erano lunghissimi e leggermente crespi, di modo che si gonfiavano facilmente: il loro colore era chiaro, ma non biondo: «come paglie, fieni, felci», dice il suo amante in un brano riportato integralmente.

Aveva gambe piccole sotto le cosce ben tornite, e occhi molto lunghi, e una bocca curva e rossa. Delminio si chiese quante altre donne adoperino il rosso che lei sa darsi alle labbra, di una tinta che non ha mai veduto.

Fu lei a riceverlo dopo la partenza dal Veneto, e ad ospitarlo a Intra per un periodo probabilmente lungo. Marco Scotto scrive forse uno dei capitoli più affascinanti — ma più romanzeschi — dell'intera biografia a proposito di questo periodo: i due amici scendevano alla sera verso le oscure acque del lago e osservavano le costellazioni di cui erano entrambi esperti, e dal disegno che li colpiva di più traevano spunto per un sonetto, quasi sempre a sfondo magico. Delminio amava la pace, ma, fresco della lettura dei frammenti greci del Necronomicon, faceva strane considerazioni sul giorno in cui « le stelle tornerebbero nella Vecchia Posizione », e paventava ciò che sarebbe accaduto agli uomini.

Margherita lo rimproverava per quelle letture — sebbene a sua volta possedesse una parte della traduzione di Teodoro Fileta — e lo consolava dicendogli che quel giorno lontano essi non lo avrebbero mai visto. Allora una malinconia desueta vinceva il mago, che si struggeva di non saperla immortale (a questo argomento dedicò qualche verso) e dichiarava che il vero fine della sua Opera non poteva essere altro che assicurare una vita eterna a Margherita. Tra parentesi, in quel periodo egli compì importanti esperimenti sulla creazione dell'omuncolo o uomo artificiale, e si applicò con dedizione allo studio dell'immortalità. Un poeta milanese del XIX secolo, Augusto Terzani, conobbe e si innamorò di una Margherita di Intra e sostenne in qualche delirante sonetto che dunque Delminio era riuscito nello scopo di renderla eterna (11): e del resto se ne ricordò poi Carlo Dossi.

(11) AUGUSTO TERZANI, A Margherita in Le Rime dell'Immortalità, Milano 1899.

Come e perché l'umanista/mago decidesse di abbandonare quell'idillio e passare in Francia non è del tutto chiaro, ma forse fu all'epoca di una malattia di Margherita, che soffriva di visioni e riteneva il suo lago intensamente popolato di spettri; certo i due promisero di rivedersi entro breve tempo, e continuarono a scriversi per tutto il periodo che il Maestro trascorse alla corte di Francesco I.

Attraverso questa corrispondenza — quasi tutta dispersa in collezioni private, ma ben riassunta nel Magie Lore in Western Hìghbrow Culture — appaiono evidenti le trasformazio-ni che l'ambiente francese operò su Delminio: si fece più sensibile all'influenza cabalistica e si avvicinò con interesse ben più che accademico alle conoscenze antichissime cui rimandava la traduzione di Teodoro Fileta.

Secondo l'amabile « striga » di Intra, a Parigi il suo amico potè vedere una copia manoscritta della versione a-raba del libro, Al Azif. È difficile decidere se ciò sia stato veramente possibile, o se Delminio non si vantò — avendo già co minciato a lavorare sul testo greco — per imprimere un marchio di maggior attendibilità alla sua traduzione. Come si sa, infatti, solo tre copie del testo arabo sarebbero sopravvissute al suo autore, Abdul Azhared. Non è impossibile però che proprio uno dei più strani personaggi del secolo, il cabalista Olivier Heyquem, fosse riuscito a far transitare per la sua casa il testo segreto ed a mostrarlo all'italiano, che era con lui ancora in ottimi rapporti.

Debbo ancora una volta alla cortesia di Enrico Fulchignoni l'invio dell'unico documento rimasto della corrispondenza « scientifica » fra G.C. Delminio e Heyquem, che risale ai primi mesi della permanenza parigina e già dimostra l'interesse ritualistico, oltre che letterario, portato dal nostro verso il complesso di credenze riassunte nel Necronomicon:



« Parigi, 1 maggio.
Fratello, a lungo lavorai a riportare Indietro ciò che
credono Perduto, e la notte addietro pronunciai le pa
role che richiamano logge Sotote, e per la Prima Vol
ta vidi la Faccia di cui Parla Ibn Schacabac nel
E mi disse che il Salmo III del Liber Damnatus conteneva la Chiave: col Sole in Quinta Casa, Saturno in Terza, traccia il Pentagramma del Fuoco, e recita tre volte il Nono Verso. Questo ripeti ogni Calendimaggio e ogni Vigilia d'Ognissanti, e la Cosa crescerà nell'Esterne Sfere. E dal Seme degli Antichi Uno nascerà, che tornerà indietro, pur non sapendo Ciò che Vuole... » (12).


(12) La traduzione in italiano moderno è nostra.


Evidentemente Delminio descriveva in dettaglio all'amica Margherita queste esperienze, perché lei lo ammonì ripetutamente di abbandonare la fallacia del Liber Damnatus (il Necronomicon evidentemente), inconciliabile con ogni altro testo di elevazione;ma egli le rispose che « dove c'è l'abisso, l'alto e il basso non contano più, e solo la conoscenza importa » (13).

13) Citato in Magie lare, cit., pag. 364. Il testo inglese, desunto da fonti originali, suona: « Where is thè abyss, Vpward and Downward are meanin-gless: Knowledge is remarkable indeed ». E un poco più avanti il mago confessa: « The Abyss is where Yogge Sothothe dwells, and he's a blind daemon whose force we can sense on Earth only when profoundly asleep. But you Margaret, do not worry: Beings from Outer Spheres are not in-terested in what we consider our Soul ». È curioso che una frase quasi del tutto identica sia stata scritta nel 1599 da John Dee, nella corrispondenza col dottor Edmund Felton.

La credenza che sia possibile, da parte del mago, riportare in essere le entità primeve oggi dormienti, o addirittura generarle (si veda la suggestiva allusione ai « semi ») ispirerà non solo Delmi-nio, ma più tardi John Dee (1527-1608), l'altro grande traduttore moderno del Necronomicon. L.M. Lombardi Satriani, da esperto di storia delle religioni, osserva come l'idea che si possa richiamare, o anche alimentare la divinità non è affatto nuova, e come l'idea dei « semi » di Delminio trovi una curiosa corrispondenza in certe credenze oceaniche e dell'Isola di Pasqua; il Necronomicon viene da cultura e ambiente arabico: colà, l'idea di « seme » che germoglia nelle « Esterne Sfere » parrebbe indicare una traccia di rapporto familiare con la divinità.

La traduzione di Delminio fu quasi certamente finita prima del ritorno in Italia, perché il soggiorno francese si protrasse più del previsto; egli la sottopose ad una revisione di Heyquem, ma secondo Marco Scotto tra i due scoppiò una grave divergenza, in parte alimentata da una donna, che si sarebbe conclusa in un duello se la sera precedente lo scontro il cabalista francese non avesse trovato la morte fra le braccia della cortigiana, Haydée Mismas. Delminio tornò in Italia non molto tempo dopo, ancora profondamente innamorato di Haydée, che era stata la causa di non poche sue traversie; due mesi dopo la partenza dell'alchimista ella trovò comunque la morte a causa di un incubo che la perseguitava da lunghissimo tempo.

La prima tappa del nuovo soggiorno italiano di Delminio fu Intra, dove Scotto racconta che la gente lo costrinse ad allontanarsi allorché cominciò a mettere in pratica gli insegnamenti dei suoi grimori; se si trattasse anche del Necronomicon (che l'alchimista aveva intitolato Libro volgare de' Morti E delle Cose Credute Perdute) non è sicuro, ma stupirebbe il contrario.

La genteudiva, a sentir Scotto, « tremori notturni, romori sotterranei, vedea colori senza nome nel cielo e sul Lago »; Margherita cadde vittima d'un attacco di febbri, e dopo averle prestato alcune cure « meravigliose » l'umanista, che da tempo si fregiava del titolo di Dottore (in medicina, benché fosse un semplice guaritore spontaneo) la lasciò per andare a Milano. Qui si sistemò al servizio del Marchese del Vasto, che apprezzava l'astrologia, la cabala e le doti taumaturgiche, ma aborriva la magia e a stento tollerava la collezione di grimori del suo protetto (14).

( 14 ) La quale, a quell'epoca, ammontava a oltre sedicimila fra mano
scritti, in folio e edizioni a stampa correnti


Sei mesi più tardi Clemente Amino moriva nella casa di Portogruaro, che tornava così libera per il suo padrone. I particolari del decesso sono raccapriccianti, ma bisogna cercare negli annali di storia veneta per trovarne traccia, poiché Marco Scotto ne tace (15):

(15) Bull. Hist. Ven. CXI, 1568.

perseguitato dall'ossessione di « una cosa alata, femminile », che durante la notte avrebbe avvolto la casa nelle sue ali nere isolandola dal resto dell'universo, il giovane piranense dapprima accusò attacchi di violenta claustrofobia, e infine cominciò a provare difficoltà di respirazione all'approssimarsi delle tenebre. Una notte infine rimase stroncato da un vero e proprio accesso d'asfissia.

Nel Concilio di Medicina di Portogruaro (1550) il caso veniva ricordato ancora come esemplare, e descritto con dovizia di particolari nonostante gli anni trascorsi: l'oscurità era, per l'ossesso, fonte di sofferenze fisiche e spirituali; la presenza di un cappellano, che era bastata a fugare gli attacchi di claustrofobia, non bastò più a trattenere quelli d'asma, o « brevità di respiro »; Clemente parlava di un'arpia immensa, non generata da questa Terra o da uno dei mondi infernali, ma da Sfere Esterne governate da « Quelli di Prima », che opprimeva la sua dimora e il suo petto dal crepuscolo all'alba del mattino successivo.

Se, nonostante la difficoltà di respirazione, lui riusciva ad addormentarsi, il mostro gli divorava lentamente una parte dell'intestino, facendolo risvegliare fra atroci dolori. La nemesi ebbe fine, con la morte del paranoico, quattro mesi dopo essere iniziata. Il rifiuto da parte di Delminio di recarsi a visitare il parente (adducendo scuse) fu interpretato dai più come la prova che l'occultista non era estraneo agli incubi di suo cugino, e questa è una prova in più della fama ambivalente del personaggio, che qualcuno considera degnadella sua natura ambivalente: umanista e occultista, dottore e stregone, alchimista e invasato, capace d'amore e tormentatore. Ma purtroppo dietro tanta anedottica è ormai impossibile ricostruire un'autentica personalità, al di là dei tratti sommari che abbiamo indicato.

Dopo la morte di Amino la casa di Portogruaro non fu occupata, come ci si sarebbe attesi, dal Dottore o dalla sua leggiadra compagna Margherita: evidentemente la sistemazione milanese era così felice che Camillo Delminio decise di rimanere nella capitale lombarda, chiamandovi anzi l'amica. Lei non accettò di venirvi stabilmente, ma il popolino mormorava che avesse mezzi tutti suoi per spostarsi immediatamente dalla non lontanissima Intra. Nella villa di Portogruaro si udirono, con il passare dei mesi, rumori sempre più strani e ripetitivi: come se effettivamente qualcuno abitasse la dimora dell'occultista.

Rattimiro Bulgheroni specula, nei Cahiers Noirs, che forse Delminio

« Aveva cominciato a nutrire ciò che aveva richiamato dall'Abisso, o Esterne Sfere; aveva coronato di successo il piano di una vita (della parte più bizzarra e misconosciuta, almeno, della sua vita) e aspettava che la Cosa alchemica, l'essere preternaturale avesse l'età e la forza di uscire pel mondo » (16).


(16) R. BULGHERONI: Sur le Maìtre Giulio Camillo Delminio, in Cahiers Noirs, mars-avril 1952, Paris, Lecouture; oggi: Bibliothéque Nationale. La traduzione è nostra.

Bulgheroni è una figura particolare, e su ciò ci soffermeremo in chiusura; nondimeno ha ragione nel sottolineare che la paura dell'alchimista e dei suoi dèi neri alimentò in quegli anni uno dei più suggestivi e confusi intrecci di dicerie dell'intera regione.

Quanto all'uomo che desiderava l'immortalità, che aveva creato Vhomunculus e condotto una delle vite più avventurose e ambigue dei suoi difficili tempi, morì a Milano quasi in solitudine nel 1544, dopo una senescenza precoce, una serie di malattie inspiegabili e sconosciute (che lo privarono, tra l'altro, della sua virilità) e tormentato dai rimorsi. Di questo fa fede, oltre alla conclusione dell'esaltata biografia di Scotto, una lettera-testamento del 1543 indirizzata a due sole persone: Margherita e l'editore romano Francesco Guiduccio, in cui Delminio proibisce espressamente di rendere nota la sua traduzione del Libro volgare de' Morti, e prega Dio che « lo 'nfame Necronomico stesso » venga « purgato, escluso alla conoscenza, allontanato dai libraii » e perfino dagli istituti di sapere (lui che, come ha dimostrato Bulgheroni, nel 1540 aveva proposto agli Accademici dell'Università di Bologna di custodire una copia della sua versione manoscritta) (17).

(17)È probabile che Scotto avesse tutto l'interesse a mostrare un pen
timento finale e una riconciliazione con l'ortodossia religiosa del suo idolo,
ma il documento appena citato, e altri custoditi presso la Biblioteca
di Palazzo Sormani in Milano, attestano effettivamente uno stato d'animo
angoscioso, e qualche volta dichiaratamente rammaricato. Si tratta comun
que di testi piuttosto confusi, talvolta crittografati, la cui chiave non è
sempre facile sciogliere; come non è semplice separare le parti « dottrina
rie » da quelle autobiografiche concepite dall'alchimista morente.



Tormentato da visioni apocalittiche, il Dottore chiuse gli occhi urlando — secondo gli astanti — che temeva di cadere, e « di continuare a cadere per l'eterno » (18).

(18) Non citato dallo Scotto, ma riferito, in base a testimonianze giuridiche dell'epoca, in / neoplatonici del Rinascimento, cit.

Questi i fatti, su cui ben pochi si erano finora soffermati; poiché però attualmente non esistono copie della traduzione delminia-na resta da chiedersi su che prove si basi la convinzione che essa sia realmente avvenuta. La fonte principale è l'opera di Rattimiro Bulgheroni, {1900-1964), tipico mezzemaniche romano: un impiegato del Ministero del Tesoro che, in quasi trentacinque anni di attività, scrisse oltre duecento fra saggi, monografie e raccolte di testimonianze su quello che lui chiamava « il mondo dell'occulto ».

Lavorava prevalentemente di sera, dopo otto o anche nove ore d'ufficio, e naturalmente alla domenica e negli altri giorni festivi; divenuto un discreto bibliografo studiò prima il francese, poi, con le facilitazioni dovute alla guerra, il tedesco; nel 1933 aveva rinunciato a sposarsi per devolvere tutti i suoi averi, e naturalmente tutto il tempo libero, allo studio e alla scrittura.

Venne regolarmente pubblicato su Luce e Ombra, e l'editore milanese Bocca gli accettò il manoscritto di una ricerca in tre tomi sui Misteri delle necropoli etrusche; redazionalmente l'opera fu però abbondantemente sforbiciata, fino ad apparire in un unico esile tomo nel gennaio 1949 (sei anni dopo la consegna del manoscritto, a causa delle difficoltà belliche).

Contrariato, Bugheroni sospese allora l'ingente lavoro cui si stava sobbarcando per realizzare i previsti seguiti di quel lavoro: Misteri delle necropoli neogreche e Misteri delle necropoli romane.


Compì le prime ricerche su Delminio nel1935, ma continuò l'impresa sino a oltre il 1950, quando fu praticamente certo dì avere ragione: l'esoterista rinascimentale aveva tradotto il Necronomicon. Egli basava questa convinzione su due fatti: le allusioni contenute nella biografia di Marco Scotto e i carteggi e la corrispondenza privata del Maestro. A onore di Bulgheroni va detto che, prima delle sue ricerche, a ben pochi sarebbe venuto in mente di correlare questa non chiara materia.

La biografìa di Scotto non parla mai del Necronomicon, ma solo del « maestro ingegnosissimo », l'arabo Abdul Azhared, e del fatto che Delminio ne conobbe e ne riportò gli insegnamenti. Quanto alla traduzione, è molto ambiguo: da un lato sembra far intendere chia-ramente che il Libro volgare de' Morti deriva da Al Azif — o dalla sua versione greca —, dall'altro, soprattutto per timore dei rigori ecclesiastici, contamina i resoconti in proposito con incredibili metafore, passaggi oscuri e deviazioni dall'argomento principale (19).

(19) Nonostante queste precauzioni il libro di Marco Scotto, concepito
intorno al 1570, rimase a lungo allo stadio di manoscritto, e quando fu edito nel 1579 si ebbe il biasimo de] Papa Gregorio XIII che lo riteneva propalatore di » fatti estranei al buon comportamento dei cristiani »; suscitò inoltre una vivace disputa fra gli intellettuali ortodossi e i più spregiudicati a proposito delle reali inclinazioni e capacità di Delminio.


Bulgheroni non si perse d'animo: rintracciò innanzitutto il carteggio tra l'occultista e l'editore romano Guiduccio (custodito quasi per intero in biblioteche vaticane) e in cambio di uno scru-poloso lavoro di catalogazione ottenne libero accesso alla raccolta.

In quattro delle lettere da lui riportate alla luce {la C, la P, la V e la CV secondo la sua numerazione) è esplìcitamente menzionato il lavoro di traduzione che il Maestro stava compiendo in Francia, la revisione apportatavi da Heyquem prima della rottura, le difficoltà incontrate sul testo greco (« non chiaro », secondo il traduttore) e l'offerta di Delminio all'Università di Bologna di custodire una copia del manoscritto.

In una quinta lettera, 2P, vi è poi il divieto fatto a Guiduccio di pubblicare la traduzione italiana (è la stessa da cui abbiamo stralciato poco sopra)(20)

(20) Sul motivo della proibizione, a parte l'eventuale pentimento circa il contenuto del grimorio, si sono fatte varie ipotesi. Bulgheroni sostiene che se Delminio aveva effettivamente visto a Parigi una copia dell'originale arabo era stato in grado di eliminare dalla sua traduzione quegli "errori" commessi da Fileta nella versione greca, a cui accenna anche la sua corrispondente di Intra, e di ottenere quindi un prodotto più fedele ma anche più « pericoloso ».

A questa teoria si è obiettato (ad es. da parte del Fojer) che all'epoca di Delminio era comunque in circolazione da poco meno di un secolo un'altra traduzione, latina, a firma di Olas Wormius; Bulgheroni sostenne sempre che:

1) Delminio non entrò mai in possesso di quella versione;

2) che, secondo la testimonianza di un lettore più che degno di fede, Monsignore Augusto Deprà, che fu tra i compilatori dell'Index librorum prohibitorum del 1557, la traduzione di Wormius era imperfetta, poco precisa e assolutamente manchevole rispetto a quella greca, allora più celebre in Italia.

La tesi del o pentimento » delminiano resta da dimostrare; alcuni studiosi moderni che hanno seguito il lavoro di Bulgheroni — Mistral, De Veistre — sostengono che alla base del divieto ci furono anche ragioni pratiche. Delminio aveva raggiunto un parziale accordo con uno stampatore francese, Xavier Basset, per far uscire la sua traduzione in Francia, in un'edizione anonima. De Veistre ha riportato alla luce una parte del carteggio fra i due nel 1968, e sostiene che Basset fece un'unica edizione — in italiano — intorno al 1547-48. Non esclude quindi la possibilità di ritrovare, oltre ai manoscritti del Dottore, anche esemplari a stampa della sua fatica. Per tutto questo si veda: JEAN-PIERRE DE VEISTRE, La conceptìon cosmìque de la magie, Hachette, Parigi 1970.

Bulgheroni dimostrò anche inconfutabilmente che tutte le volte in cui nel testo di Scotto si nomina il Liber Damnatus questo non è altri che il Necronomicon. Infine, fu il primo studioso ad avere accesso alla collezione privata Dei Brioschi, di Venezia, dove sono conservate alcune delle più importanti epistole delminiane, anche qui con evidenti riferimenti alla traduzione. Il vero svantaggio del lavoro bulgheroniano — pur filologicamente ineccepìbile — sta nella scarsità delle pubblicazioni seguite alle sue scoperte: sì deve anzi ritenere che il breve saggio dì otto pagine apparso nell'ultimo numero dei Cahiers Noirs sia il solo studio reso di pubblico dominio dopo oltre quindici anni di ricerche.

Certamente la concisione giocò un brutto tiro al saggista romano, ma uno ancora peggiore gliene preparò la sorte. È quasi certo che nella versione originale il suo testo fosse lungo quasi il doppio ma stretta nelle morse di esigenze editoriali pressanti la redazione tagliò o sunteggiò nella traduzione una parte non trascurabile di materiale. Il resto degli studi rimane ancora allo stadio di manoscritto o raccolta di appunti fra le carte dello scomparso Bulgheroni, il quale intanto è diventato a sua volta oggetto di studio.

Solo ora gli esecutori della sua proprietà letteraria hanno consegnato i manoscritti inediti alle Edizioni Atanòr di Roma, che cureranno entro l'anno un volume dedicato al più che singolare personaggio.

L'attendibilità di ricercatore del Bulgheroni è cosi confermata da Giorgio Manganelli, che lo conobbe poco prima della morte:

« Era un uomo schivo, assolutamente eccentrico in ogni abitudine; scriveva e leggeva schermando fino all'inverosimile lampadine e sorgenti di luce, sicché si può affermare che lo facesse al buio. Con gli uomini parlava molto poco, ma era prodigo di consigli verso gli animali, e specialmente i gatti randagi del suo quartiere la borgata di San Basilio.
Conosceva perfettamente il greco e il latino, e, fra le lìngue moderne, francese e tedesco li leggeva regolarmente. Era un filosofo autodidatta ma perfettamente preparato, un provetto bibliografo e un erudito conoscitore di storia delle tradizioni, specie per il verso che riguarda l'occulto e il magico.
Ha compiuto studi importantissimi di regionalistica, e mi auguro che presto i suoi manoscritti trovino un editore e un pubblico: interesserebbero almeno una mezza dozzina di scienze umane. Prima di morire, esprimeva un solo desiderio: conoscere l'arabo medievale abbastanza bene da leggere un grimoire scritto a Damasco neil'VIII secolo, e intitolato Al Azif. A patto, aggiungeva sorridendo, di rintracciarne una copia » (21).

(21)GIORGIO MANGANELLI, E un filosofo? No, uno stregone, in Tempo,
Milano, 10 febbraio 1973 pagg. 44-47. L'articolo ricordava anche, con partecipazione, la scomparsa di Bulgheroni avvenuta in circostanze tanto misteriose da renderle romanzesche. Il 4 febbraio 1964 il ricercatore solitario sparì dalla sua casa e non fu più visto da nessuno fino al 7 ottobre dellostesso anno, epoca in cui fu ritrovato morto — ma solo da pochi giorni — in una casa colonica abbandonata presso Tarquinia. Le cause del decesso non sono mai risultate chiare, anche se il certificato di morte depositato all'Anagrafe di Roma parla di trombosi ad effetto letale.



Ma se la traduzione è stata effettuata, come dai documenti esistenti appare certo, dove può trovarsi?

Risponde L.M. Lombardi Satrianì:

« L'opera magica di Delminio, come quella di altri cabalisti e pensatori eterodossi del Rinascimento, fu sottoposta a traversie secolari, e non bastò la fama di letterato e il rivestimento di pensiero neoplatonico a salvarla. Cosi, tra le menzogne, i camuffamenti crittografici, i finti o i veri pentimenti e le auto da fé e naturalmente l'inclemenza degli anni e le tergiversazioni delle seconde e terze mani non pochi di quei documenti scomparvero per sempre. Non è detto però che non riappaiano: nel caso di Deminio per tante opere perse ne restano molte integre, e molta corrispondenza si è salvata (non tutta decifrata, giova dirlo). Nel momento in cui i fili di queste conoscenze si riannoderanno, o un caso fortuito porterà alla luce nuove testimonianze, uomini ingegnosi sapranno approfittarne senz'altro, e allora vedremo forse la più famosa di queste rarità: il Libro volgare de' Morti, traduzione chiacchierata da quattro secoli del Necronomicon di Abdul Azha-red » (22).

(22) Intervista in Corriere della Sera, Milano, 16 agosto 1979.




REPERTORIO

www.lazonamorta.it/lazonamorta2/?p=51974

www.mediamystery.it/2020/07/27/il-...ile-misantropo/

www.ilpuntosulmistero.it/il-necrono...berto-volterri/









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CAT_IMG Posted on 31/12/2021, 12:29
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LA TRADUZIONE PERDUTA DEL

NECRONOMICON




di Giuseppe Lippi












Nell'aprile 1952 chiudeva i battenti, per un misto di difficoltà economiche, complicazioni giuridiche e cause più strettamente legate alla crisi del gruppo di cui era portavoce, la rivista parigina Cahiers Noirs, che era stata fondata vent'anni prima da Claude Lussìnat. L'ultimo numero si distingueva per avere in copertina dove di solito campeggiava la sola testata, in viola su fondo nero la dicitura:

Sur le Maitre Giulio Camillo Delminio, par Rattimiro Bulgheroni.



Si trattava del breve saggio (otto pagine) in cui un oscuro corrispondente italiano della rivista di magia presentava un ritratto in chiave eterodossa dell'umanista e letterato rinascimentale nato a Portogruaro verso il 1485. La tesi di Bulgheroni era che l'attività magica e cabalistica di Delminio ne avesse influenzato l'opera letteraria, anche se in modo solo parzialmente evidente, e che comunque fosse stata quella il suo principale accomplissement, mentre la produzione poetica o teorica sarebbe del tutto marginale rispetto a essa.

L'idea che Delminio fosse un grande mago non era certo nuova; ma Bulgheroni, dopo aver fatto riferimento alla sua nota attività alchemica, e dopo avergli senz'altro attribuito « la création in vitto du premier homunculus », citava un breve passaggio della biografiache Marco Scotto scrisse alla fine del secolo XVI in cui si legge che il cabalista non trascurò le fonti di studio islamiche, e che dal mondo arabo riportò « I preziosi insegnamenti di un maestro ingegnosissimo, Abdul Azhared di Sanaa » (1).

(1) È la trascrizione corretta del nome arabo: Azhared, e non Alhazred, come poeticamente si è invece permesso Lovecraft.



Bulgheroni afferma che l'alchimista veneto conobbe senz'altro il Necronomicon, e che anzi ne tentò una versione in volgare. A quest'affermazione seguono alcune brevi considerazioni cronologiche che sembrano suffragare quest'ipotesi: verso il 1550 apparve in Italia, e fu stampata a Roma, la versione greca di Teodoro Fileta, che però già da tempo circolava in edizioni limitate e mi-noscritte nei circoli esoterici della penisola.

È convinzione di Bulgheroni che l'editore e curatore dell'edizione romana, Francesco Guiduccio, fosse strettamente legato a Delminio, e che in un primo momento fosse stato da lui spronato a leggere e studiare l'opera. Quando il libro apparve (per l'esattezza nel 1548, come Mare Michaud è riuscito a stabilire) l'alchimista veneto era scomparso da soli quattro anni.


Nella biografia di Marco Scotto, Guiduccio è effettivamente definito « il corrispondente più regolare » di Delminio, che verso la fine della sua esistenza risiedeva in Milano al servizio del Mar-chese del Vasto: secondo Bulgheroni lo stampatore romano ebbe fra le mani la traduzione italiana che Delminio aveva fatto del Necronomicon, ma se poi pubblicò il testo greco fu « per preciso legato del suo Maestro ».

Quando il breve saggio dei Cahìers Noirs si chiude molti interrogativi restano aperti: chi fu effettivamente Delminio? Come venne a conoscenza del Necronomicon e in che modo lo tradusse? Per quale ragione chiese a Guiduccio di non pubblicare la sua traduzione? E infine: è essa reperibile, oggi, o è andata perduta come buona parte degli scritti esoterici delminiani?

Sebbene la fonte ufficiale più autorevole a proposito dell'alchimista di Portogruaro rimanga la biografia dello Scotto, due altri volumi servono a un miglior inquadramento del suo tempo e della sua opera: I neoplatonici del Rinascimento di Arturo Boffa (Laterza, 1929) e il monumentale Magie Lore in Western Highbrow Culture edito dall'Oxford University Press nel 1965.

Lo Scotto ci fornisce l'anno di nascita di Delminio, che forse è il 1485, ma che bisogna prendere con beneficio d'inventario per-ché ciò che interessava l'antico biografo era porre in rilievo certe coincidenze spettacolari e perlomeno strane atte a suffragare la « leggenda » sorta intorno al personaggio già in quegli anni. Ora, il 1485 fu un anno specialissimo per Portogruaro (2), come Marco Scotto non manca di far osservare.

(2) Vedi: G. POLIAZIANI, Rist. veti,, voi. IX, 1666.

In febbraio nacquero due gemelli siamesi che vengono descritti come dèmoni: occhi rossi, pelle bianchissima, capelli fulvi sul cranio, unghie nere, ma soprattutto piedi biforcuti (3).

(3) Molti neonati venivano accusati di avere il pie' biforcuto nel Friuli
medioevale e rinascimentale; in realtà i rapporti medici più illuminati par
lano di estrema separazione dell'alluce dalle altre dita o al massimo di cur
vatura dell'alluce, dovuta spesso a una deformazione ossea causata dall'ec
cesso di calcare presente nell'acqua bevuta dalle gestanti.


In marzo un meteorite di notevoli proporzioni cadde ad alcuni chilometri dal centro abitato, scavando un cratere profondo sei metri da cui si levò per tre notti di seguito « uno detestabilissimo lezzo, e si sprigionò un colore che nessuno sapeva definire ». In maggio scoppiò quella che si credette avventatamente un'epidemia di vaiolo , ma la storia medica della regione ha dimostrato che si trattò solamente di una forma non grave di scrofolosi e i più solerti abitanti della città si recarono nel cimitero giurando di aver udito « i morti mastichare », scoperchiarono diciassette tombe e, avendo trovato svariati cadaveri in stato d'inspiegabile conservazione, ne trafissero il cuore con altrettanti paletti, secondo la credenza che il morto masticante, o vampiro, è portatore di vaiolo e peste (4).

(4) Per questo vedi pure: A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni
de' spiriti, e sopra i vampiri o i redivivi d'Ungheria, di Moravia ecc, in
Venezia, 1756; nonché il raro De masticatione mortuorum in tumulis di
Michel Rauff.



Ma in settembre accadde l'avvenimento più inspiegabile di tutti: il sottosuolo della regione fu scosso per due settimane da violenti boati sotterranei, anche se non restano cronache di sismi o altre calamità naturali, e Scotto pretende che alcuni abitanti della città per scongiurare quei rumori si recassero di notte oltre le porte cantando inni non cristiani, per la qual cosa, come riferisce, « tre dottori e dodici signori mercanti furono condannati alla gogna ». Le entità che quegli sventurati cercavano di propiziarsi erano, sempre stando al biografo di Delminio, Belial e logge Sotote.


Il 1485 è poi naturalmente anche l'anno di uno dei più celebri processi per stregoneria nel Friuli, anche se Scotto stranamente non lo riferisce (5).

(5) Per questo vedi: MARGARET MURRAY The God of thè Witches, Oxford
University Press (tr. it.: Il dio delle streghe, Ubaldini, Roma 1972).


Fin da giovanissimo Delminio fu versato negli studi umanistici, dimostrando una profonda conoscenza delle lingue classiche e orientali. Scotto lo dipinge, ma è di nuovo per star dietro alla leggenda, come un ragazzo che a diciannove anni superava di statura qualunque gentiluomo e cavaliere nel Friuli, aveva lunghi capelli neri che gli scendevano sulle spalle, un volto forte e ossuto, fieri occhi ardenti e un naso aquilino lunghissimo. Se con la luce che gli brillava nello sguardo dimostrava un'assoluta padronanza della volontà e dell'intelletto, con le mani lunghe, molto magre riusciva benissimo in qualunque attività pratica: era un formidabile schermidore, un ottimo tiratore con l'arco, un bravissimo tessitore (poiché fin da fanciullo aveva considerato la filatura « un'arte che della vita dispiega lo svolgimento »), e, pare, un amante fuor dell'ordinario. Scotto lo ritrae come un Casanova cinquecentesco, anche se un cronista francese, Jacques Dubrillard,lo tratta invece come un eremita misogino allorché deve dipingerne il soggiorno alla corte di Francesco I (6).

(6) Vedi: Henry Klem, che cita Jacques Dubrillard in La France et
la Renaissancs obscure, Editions de Philosophie, Parigi 1964.

E' probabile tuttavia che nei francesi ci fosse un certo inte-resse a screditare il « mago » proprio per Ì suoi troppi successi in campo sentimentale. È rimasta relativamente famosa la lettera di un'alta dignitaria della corte di Francesco I, Marie Laven, che così si lamenta:

« II (Delminio) m'avait promis une absolule ftdelité et dédition, mais j'ai découvert qu'il sorts de sa chambre quand la lune est haute pour réjoindre une cocotte de nude beante, celle qui appellent 'la sorcière', et qu'ils foni l'atnour d'une facon bestiale et très peu chrétienne. Mon coeur est seni avec sa jealousie » (7).

(7 Egli (Delminio) mi aveva fatto promessa di assoluta fedeltà e dedizione, ma ho scoperto che di notte, quando la luna è alta, esce dì sua camera per raggiungere una sgualdrina di nessuna beltà, quella che chiamano 'la strega', e che fanno l'amore in modo bestiale e assai poco cristiano. Il mìo cuore è solo con la sua gelosia a (Marie Laven, Documents
de France, a. IX voi. IV).




Quasi a ratificare la diffusa opinione sulla crudeltà del casanova viene la credenza popolare secondo cui Delminio avrebbe stretto in gioventù un patto col Diavolo per ottenere tutte le donne che desiderava. Questo particolare è negato da Scotto con un certo compiaciuto disprezzo, e si capisce perché, ma nei Neoplatonici del Rinascimento Boffa si esprime così:

«È impossibile stabilire fino a che punto l'esaltazione mistica e spirituale nei rappresentanti 'oscuri' di questo filone confinasse con la vera e propria demonologia... tuttavia... si può fare per tutti il caso di G. C. Delminio, la cui reputazione si fece pessima con gli anni a Venezia e a Portogruaro, ma che fin da giovane era stato ritenuto un adepto dì forze oscure, specialmente al fine dell'incantamento amoroso. Del resto l'autore incriminato non fece nulla per dissuadere i suoi contemporanei da questa convinzione, ma semmai l'alimentò » (8).

(8) A. BOTTA, op. cit., pag. 317.

È probabile che con l'ultima affermazione Boffa intenda riferirsi soprattutto a quelle considerazioni, contenute nelle annotazioni sopra le rime del Petrarca, in cui Delminio si esprime con .ambiguità a proposito del sentimento di trepidazione amorosa, lasciando trasparire un'aura di superiorità invincibile nei confronti della donna, che non sarebbe oggetto degno di troppe cure. Vale la pena soffermarsi un momento su questo aspetto della perso¬nalità delminiana, e meravigliarsi che da un lato potesse espri¬mersi con tanto cinismo e dall'altro concepire versi come questi:

Donna, altro messaggero non ho che inviarvi io possa per cui osi il mio cuore presentarvi, Fuorché la mia canzone, se vorrete cantarla.


In realtà Delminio sentì profondamente il trasporto verso il femminile anche inteso in senso simbolico, e non disprezzo mai le sue amanti. È vero però che tenne un contegno di sicurezza ostentata nei loro confronti, come se fosse certo di non poterle perdere, e che esse dipendessero in tutto da lui.

Sull'argomento della pena d'amore si espresse eloquentemente: è evitabile se l'uomo è forte, ma se vogliamo deliziarci anche di quella « dulcia tristia », facciamolo senz'altro: a patto di restare sempre padroni della situazione. Fu questa fiducia incrollabile, questa certezza nella possibilità di dominare. le passioni a indurre il sospetto nei contemporanei. In realtà Delminio non ostentava arroganza, voleva piuttosto parafrasare un'evoluzione spirituale.

Ma la fantasia popolare si accese quando una donna di Venezia, Letizia Costantinide, che da lungo intratteneva relazioni col Maestro, fu vista scomparire dalla circolazione senza che il suo amante volesse rivelare nulla in proposito.

Una sera, racconta Marco Scotto con l'aria di riferire un'assurda calunnia, poco prima dell'imbrunire si udì un alterco venire dal palazzo di Delminio, e poi un sottile lamento che durò fin quasi al levarsi della luna. Infine, poco dopo che il sole era sceso dietro l'orizzonte, da una delle finestre della torre si affacciò una donna, che spinse tutto il corpo in fuori, in modo che i passanti credettero volesse suicidarsi.
Ma quella donna possedeva un paio di grandi ali, anche se non aveva più le braccia, e con esse spiccò il volo scomparendo oltre l'orizzonte tra orribili versi d'uccello. Gli astanti giurarono che si trattasse di Letizia, anche se con la luce incerta sarebbe stato difficile giudicarlo, e gridarono che « il Dottore » (cioè Delminio) l'aveva fatta impazzire e le aveva amputato gli arti. Altri, più esplicitamente, dissero che l'aveva convinta a vendersi al Demonio e che questi l'aveva trasformata in strega.

E quasi certamente un'esagerazione — o, se si vuole, una triste metafora — del suicidio cui andò incontro la Costantinide. Ma, siccome non esistono più prove, la leggenda di stregoneria è tutto quello che ci rimane di un dramma mai chiarito.

Fatto sta che, nonostante la sua influenza e le sue ottime conoscenze, dopo questo episodio Delminio dovette abbandonare la casa e cominciare una serie di peregrinazioni; il palazzo non venne venduto, ma lasciato ad un giovane cugino originario di Pirano, il quale lo esplorò sistematicamente e che ci ha lasciato una preziosa catalogazione del materiale trovato (9).

(9) Oggi custodita privatamente a Venezia, coll. Dei Brioschi.



Tra queste cose si ricordano; molti strumenti geografici; mappe e curiosi disegni di paesi che secondo il giovane beneficiario « non esistono su la Terra»; manoscritti inediti dello stesso Delminio (tra cui l'abbozzo di un'opera progettata, mai compiuta, che doveva intitolarsi Teatro, intesa in senso retorico a rappresentare la fonte di ogni dottrina, e fornire quasi meccanicamente la scienza ad ogni uomo senza alcuna fatica, secondo un'illusione che sarebbe stata pure di Giordano Bruno); una vastissima biblioteca in latino, greco e arabico e una considerevole quantità di corrispondenza, buona parte della quale scritta nel linguaggio crittografico che Delminio adoperava nelle epistole di Dottrina, termine con cui talvolta designa l'Alchimia.

Fra le lettere non cifrate, e che dunque luì era in grado di leggere, il giovane di Pirano (che si chiamava Clemente Amine) ne trovò una di una giovane donna piemontese, che si firmava Margherita, e che scriveva in sostanza parole d'amore; fra queste però (poiché sì trattava di un'iniziata) compare a un tratto un periodo che attrasse l'attenzione del curioso Clemente:

« Onde ti priego di non più studiare le carte dell'Arabo, poiché sono di conoscenza malevola, e il greco Fileta che le tradusse compì altri errori. La follia prende a troppo almanaccarvi, e a nulla conseguenza portano le Impetrazioni, che non sia di natura bassissima. Contra-rio a ogni cammino è il Necronomico » (10).

(10) Coll. Dei Brioschi.

Sull'identità di Margherita sono state fatte varie ipotesi; Marco Scotto afferma che abitava a Intra, sul Lago Maggiore, dov'era nata, e che da sola governava una casa grande e quieta a specchio dell'acqua; la dipinge come un'iniziata a conoscenze proibitive, data l'epoca, per una donna, ed è forse per questo che si sente in dovere di chiamarla « striga » (maga) in due punti, ma non con connotazioni spregiative.

Era una donna bellissima che Delminio aveva conosciuto in un primo viaggio a Milano e anche l'unica che gli sarebbe rimasta vicina — con la corrispondenza, l'amicizia — per tutta l'esistenza. In un documento perduto, ma che Scotto conosceva, Delminio la descrive bassina, della statura che fa deliziose le giovani donne; i capelli erano lunghissimi e leggermente crespi, di modo che si gonfiavano facilmente: il loro colore era chiaro, ma non biondo: «come paglie, fieni, felci», dice il suo amante in un brano riportato integralmente.

Aveva gambe piccole sotto le cosce ben tornite, e occhi molto lunghi, e una bocca curva e rossa. Delminio si chiese quante altre donne adoperino il rosso che lei sa darsi alle labbra, di una tinta che non ha mai veduto.

Fu lei a riceverlo dopo la partenza dal Veneto, e ad ospitarlo a Intra per un periodo probabilmente lungo. Marco Scotto scrive forse uno dei capitoli più affascinanti — ma più romanzeschi — dell'intera biografia a proposito di questo periodo: i due amici scendevano alla sera verso le oscure acque del lago e osservavano le costellazioni di cui erano entrambi esperti, e dal disegno che li colpiva di più traevano spunto per un sonetto, quasi sempre a sfondo magico. Delminio amava la pace, ma, fresco della lettura dei frammenti greci del Necronomicon, faceva strane considerazioni sul giorno in cui « le stelle tornerebbero nella Vecchia Posizione », e paventava ciò che sarebbe accaduto agli uomini.

Margherita lo rimproverava per quelle letture — sebbene a sua volta possedesse una parte della traduzione di Teodoro Fileta — e lo consolava dicendogli che quel giorno lontano essi non lo avrebbero mai visto. Allora una malinconia desueta vinceva il mago, che si struggeva di non saperla immortale (a questo argomento dedicò qualche verso) e dichiarava che il vero fine della sua Opera non poteva essere altro che assicurare una vita eterna a Margherita. Tra parentesi, in quel periodo egli compì importanti esperimenti sulla creazione dell'omuncolo o uomo artificiale, e si applicò con dedizione allo studio dell'immortalità. Un poeta milanese del XIX secolo, Augusto Terzani, conobbe e si innamorò di una Margherita di Intra e sostenne in qualche delirante sonetto che dunque Delminio era riuscito nello scopo di renderla eterna (11): e del resto se ne ricordò poi Carlo Dossi.

(11) AUGUSTO TERZANI, A Margherita in Le Rime dell'Immortalità, Milano 1899.

Come e perché l'umanista/mago decidesse di abbandonare quell'idillio e passare in Francia non è del tutto chiaro, ma forse fu all'epoca di una malattia di Margherita, che soffriva di visioni e riteneva il suo lago intensamente popolato di spettri; certo i due promisero di rivedersi entro breve tempo, e continuarono a scriversi per tutto il periodo che il Maestro trascorse alla corte di Francesco I.

Attraverso questa corrispondenza — quasi tutta dispersa in collezioni private, ma ben riassunta nel Magie Lore in Western Hìghbrow Culture — appaiono evidenti le trasformazio-ni che l'ambiente francese operò su Delminio: si fece più sensibile all'influenza cabalistica e si avvicinò con interesse ben più che accademico alle conoscenze antichissime cui rimandava la traduzione di Teodoro Fileta.

Secondo l'amabile « striga » di Intra, a Parigi il suo amico potè vedere una copia manoscritta della versione a-raba del libro, Al Azif. È difficile decidere se ciò sia stato veramente possibile, o se Delminio non si vantò — avendo già co minciato a lavorare sul testo greco — per imprimere un marchio di maggior attendibilità alla sua traduzione. Come si sa, infatti, solo tre copie del testo arabo sarebbero sopravvissute al suo autore, Abdul Azhared. Non è impossibile però che proprio uno dei più strani personaggi del secolo, il cabalista Olivier Heyquem, fosse riuscito a far transitare per la sua casa il testo segreto ed a mostrarlo all'italiano, che era con lui ancora in ottimi rapporti.

Debbo ancora una volta alla cortesia di Enrico Fulchignoni l'invio dell'unico documento rimasto della corrispondenza « scientifica » fra G.C. Delminio e Heyquem, che risale ai primi mesi della permanenza parigina e già dimostra l'interesse ritualistico, oltre che letterario, portato dal nostro verso il complesso di credenze riassunte nel Necronomicon:



« Parigi, 1 maggio.
Fratello, a lungo lavorai a riportare Indietro ciò che
credono Perduto, e la notte addietro pronunciai le pa
role che richiamano logge Sotote, e per la Prima Vol
ta vidi la Faccia di cui Parla Ibn Schacabac nel
E mi disse che il Salmo III del Liber Damnatus conteneva la Chiave: col Sole in Quinta Casa, Saturno in Terza, traccia il Pentagramma del Fuoco, e recita tre volte il Nono Verso. Questo ripeti ogni Calendimaggio e ogni Vigilia d'Ognissanti, e la Cosa crescerà nell'Esterne Sfere. E dal Seme degli Antichi Uno nascerà, che tornerà indietro, pur non sapendo Ciò che Vuole... » (12).


(12) La traduzione in italiano moderno è nostra.


Evidentemente Delminio descriveva in dettaglio all'amica Margherita queste esperienze, perché lei lo ammonì ripetutamente di abbandonare la fallacia del Liber Damnatus (il Necronomicon evidentemente), inconciliabile con ogni altro testo di elevazione;ma egli le rispose che « dove c'è l'abisso, l'alto e il basso non contano più, e solo la conoscenza importa » (13).

13) Citato in Magie lare, cit., pag. 364. Il testo inglese, desunto da fonti originali, suona: « Where is thè abyss, Vpward and Downward are meanin-gless: Knowledge is remarkable indeed ». E un poco più avanti il mago confessa: « The Abyss is where Yogge Sothothe dwells, and he's a blind daemon whose force we can sense on Earth only when profoundly asleep. But you Margaret, do not worry: Beings from Outer Spheres are not in-terested in what we consider our Soul ». È curioso che una frase quasi del tutto identica sia stata scritta nel 1599 da John Dee, nella corrispondenza col dottor Edmund Felton.

La credenza che sia possibile, da parte del mago, riportare in essere le entità primeve oggi dormienti, o addirittura generarle (si veda la suggestiva allusione ai « semi ») ispirerà non solo Delmi-nio, ma più tardi John Dee (1527-1608), l'altro grande traduttore moderno del Necronomicon. L.M. Lombardi Satriani, da esperto di storia delle religioni, osserva come l'idea che si possa richiamare, o anche alimentare la divinità non è affatto nuova, e come l'idea dei « semi » di Delminio trovi una curiosa corrispondenza in certe credenze oceaniche e dell'Isola di Pasqua; il Necronomicon viene da cultura e ambiente arabico: colà, l'idea di « seme » che germoglia nelle « Esterne Sfere » parrebbe indicare una traccia di rapporto familiare con la divinità.

La traduzione di Delminio fu quasi certamente finita prima del ritorno in Italia, perché il soggiorno francese si protrasse più del previsto; egli la sottopose ad una revisione di Heyquem, ma secondo Marco Scotto tra i due scoppiò una grave divergenza, in parte alimentata da una donna, che si sarebbe conclusa in un duello se la sera precedente lo scontro il cabalista francese non avesse trovato la morte fra le braccia della cortigiana, Haydée Mismas. Delminio tornò in Italia non molto tempo dopo, ancora profondamente innamorato di Haydée, che era stata la causa di non poche sue traversie; due mesi dopo la partenza dell'alchimista ella trovò comunque la morte a causa di un incubo che la perseguitava da lunghissimo tempo.

La prima tappa del nuovo soggiorno italiano di Delminio fu Intra, dove Scotto racconta che la gente lo costrinse ad allontanarsi allorché cominciò a mettere in pratica gli insegnamenti dei suoi grimori; se si trattasse anche del Necronomicon (che l'alchimista aveva intitolato Libro volgare de' Morti E delle Cose Credute Perdute) non è sicuro, ma stupirebbe il contrario.

La genteudiva, a sentir Scotto, « tremori notturni, romori sotterranei, vedea colori senza nome nel cielo e sul Lago »; Margherita cadde vittima d'un attacco di febbri, e dopo averle prestato alcune cure « meravigliose » l'umanista, che da tempo si fregiava del titolo di Dottore (in medicina, benché fosse un semplice guaritore spontaneo) la lasciò per andare a Milano. Qui si sistemò al servizio del Marchese del Vasto, che apprezzava l'astrologia, la cabala e le doti taumaturgiche, ma aborriva la magia e a stento tollerava la collezione di grimori del suo protetto (14).

( 14 ) La quale, a quell'epoca, ammontava a oltre sedicimila fra mano
scritti, in folio e edizioni a stampa correnti


Sei mesi più tardi Clemente Amino moriva nella casa di Portogruaro, che tornava così libera per il suo padrone. I particolari del decesso sono raccapriccianti, ma bisogna cercare negli annali di storia veneta per trovarne traccia, poiché Marco Scotto ne tace (15):

(15) Bull. Hist. Ven. CXI, 1568.

perseguitato dall'ossessione di « una cosa alata, femminile », che durante la notte avrebbe avvolto la casa nelle sue ali nere isolandola dal resto dell'universo, il giovane piranense dapprima accusò attacchi di violenta claustrofobia, e infine cominciò a provare difficoltà di respirazione all'approssimarsi delle tenebre. Una notte infine rimase stroncato da un vero e proprio accesso d'asfissia.

Nel Concilio di Medicina di Portogruaro (1550) il caso veniva ricordato ancora come esemplare, e descritto con dovizia di particolari nonostante gli anni trascorsi: l'oscurità era, per l'ossesso, fonte di sofferenze fisiche e spirituali; la presenza di un cappellano, che era bastata a fugare gli attacchi di claustrofobia, non bastò più a trattenere quelli d'asma, o « brevità di respiro »; Clemente parlava di un'arpia immensa, non generata da questa Terra o da uno dei mondi infernali, ma da Sfere Esterne governate da « Quelli di Prima », che opprimeva la sua dimora e il suo petto dal crepuscolo all'alba del mattino successivo.

Se, nonostante la difficoltà di respirazione, lui riusciva ad addormentarsi, il mostro gli divorava lentamente una parte dell'intestino, facendolo risvegliare fra atroci dolori. La nemesi ebbe fine, con la morte del paranoico, quattro mesi dopo essere iniziata. Il rifiuto da parte di Delminio di recarsi a visitare il parente (adducendo scuse) fu interpretato dai più come la prova che l'occultista non era estraneo agli incubi di suo cugino, e questa è una prova in più della fama ambivalente del personaggio, che qualcuno considera degnadella sua natura ambivalente: umanista e occultista, dottore e stregone, alchimista e invasato, capace d'amore e tormentatore. Ma purtroppo dietro tanta anedottica è ormai impossibile ricostruire un'autentica personalità, al di là dei tratti sommari che abbiamo indicato.

Dopo la morte di Amino la casa di Portogruaro non fu occupata, come ci si sarebbe attesi, dal Dottore o dalla sua leggiadra compagna Margherita: evidentemente la sistemazione milanese era così felice che Camillo Delminio decise di rimanere nella capitale lombarda, chiamandovi anzi l'amica. Lei non accettò di venirvi stabilmente, ma il popolino mormorava che avesse mezzi tutti suoi per spostarsi immediatamente dalla non lontanissima Intra. Nella villa di Portogruaro si udirono, con il passare dei mesi, rumori sempre più strani e ripetitivi: come se effettivamente qualcuno abitasse la dimora dell'occultista.

Rattimiro Bulgheroni specula, nei Cahiers Noirs, che forse Delminio

« Aveva cominciato a nutrire ciò che aveva richiamato dall'Abisso, o Esterne Sfere; aveva coronato di successo il piano di una vita (della parte più bizzarra e misconosciuta, almeno, della sua vita) e aspettava che la Cosa alchemica, l'essere preternaturale avesse l'età e la forza di uscire pel mondo » (16).


(16) R. BULGHERONI: Sur le Maìtre Giulio Camillo Delminio, in Cahiers Noirs, mars-avril 1952, Paris, Lecouture; oggi: Bibliothéque Nationale. La traduzione è nostra.

Bulgheroni è una figura particolare, e su ciò ci soffermeremo in chiusura; nondimeno ha ragione nel sottolineare che la paura dell'alchimista e dei suoi dèi neri alimentò in quegli anni uno dei più suggestivi e confusi intrecci di dicerie dell'intera regione.

Quanto all'uomo che desiderava l'immortalità, che aveva creato Vhomunculus e condotto una delle vite più avventurose e ambigue dei suoi difficili tempi, morì a Milano quasi in solitudine nel 1544, dopo una senescenza precoce, una serie di malattie inspiegabili e sconosciute (che lo privarono, tra l'altro, della sua virilità) e tormentato dai rimorsi. Di questo fa fede, oltre alla conclusione dell'esaltata biografia di Scotto, una lettera-testamento del 1543 indirizzata a due sole persone: Margherita e l'editore romano Francesco Guiduccio, in cui Delminio proibisce espressamente di rendere nota la sua traduzione del Libro volgare de' Morti, e prega Dio che « lo 'nfame Necronomico stesso » venga « purgato, escluso alla conoscenza, allontanato dai libraii » e perfino dagli istituti di sapere (lui che, come ha dimostrato Bulgheroni, nel 1540 aveva proposto agli Accademici dell'Università di Bologna di custodire una copia della sua versione manoscritta) (17).

(17)È probabile che Scotto avesse tutto l'interesse a mostrare un pen
timento finale e una riconciliazione con l'ortodossia religiosa del suo idolo,
ma il documento appena citato, e altri custoditi presso la Biblioteca
di Palazzo Sormani in Milano, attestano effettivamente uno stato d'animo
angoscioso, e qualche volta dichiaratamente rammaricato. Si tratta comun
que di testi piuttosto confusi, talvolta crittografati, la cui chiave non è
sempre facile sciogliere; come non è semplice separare le parti « dottrina
rie » da quelle autobiografiche concepite dall'alchimista morente.



Tormentato da visioni apocalittiche, il Dottore chiuse gli occhi urlando — secondo gli astanti — che temeva di cadere, e « di continuare a cadere per l'eterno » (18).

(18) Non citato dallo Scotto, ma riferito, in base a testimonianze giuridiche dell'epoca, in / neoplatonici del Rinascimento, cit.

Questi i fatti, su cui ben pochi si erano finora soffermati; poiché però attualmente non esistono copie della traduzione delminia-na resta da chiedersi su che prove si basi la convinzione che essa sia realmente avvenuta. La fonte principale è l'opera di Rattimiro Bulgheroni, {1900-1964), tipico mezzemaniche romano: un impiegato del Ministero del Tesoro che, in quasi trentacinque anni di attività, scrisse oltre duecento fra saggi, monografie e raccolte di testimonianze su quello che lui chiamava « il mondo dell'occulto ».

Lavorava prevalentemente di sera, dopo otto o anche nove ore d'ufficio, e naturalmente alla domenica e negli altri giorni festivi; divenuto un discreto bibliografo studiò prima il francese, poi, con le facilitazioni dovute alla guerra, il tedesco; nel 1933 aveva rinunciato a sposarsi per devolvere tutti i suoi averi, e naturalmente tutto il tempo libero, allo studio e alla scrittura.

Venne regolarmente pubblicato su Luce e Ombra, e l'editore milanese Bocca gli accettò il manoscritto di una ricerca in tre tomi sui Misteri delle necropoli etrusche; redazionalmente l'opera fu però abbondantemente sforbiciata, fino ad apparire in un unico esile tomo nel gennaio 1949 (sei anni dopo la consegna del manoscritto, a causa delle difficoltà belliche).

Contrariato, Bugheroni sospese allora l'ingente lavoro cui si stava sobbarcando per realizzare i previsti seguiti di quel lavoro: Misteri delle necropoli neogreche e Misteri delle necropoli romane.


Compì le prime ricerche su Delminio nel1935, ma continuò l'impresa sino a oltre il 1950, quando fu praticamente certo dì avere ragione: l'esoterista rinascimentale aveva tradotto il Necronomicon. Egli basava questa convinzione su due fatti: le allusioni contenute nella biografia di Marco Scotto e i carteggi e la corrispondenza privata del Maestro. A onore di Bulgheroni va detto che, prima delle sue ricerche, a ben pochi sarebbe venuto in mente di correlare questa non chiara materia.

La biografìa di Scotto non parla mai del Necronomicon, ma solo del « maestro ingegnosissimo », l'arabo Abdul Azhared, e del fatto che Delminio ne conobbe e ne riportò gli insegnamenti. Quanto alla traduzione, è molto ambiguo: da un lato sembra far intendere chia-ramente che il Libro volgare de' Morti deriva da Al Azif — o dalla sua versione greca —, dall'altro, soprattutto per timore dei rigori ecclesiastici, contamina i resoconti in proposito con incredibili metafore, passaggi oscuri e deviazioni dall'argomento principale (19).

(19) Nonostante queste precauzioni il libro di Marco Scotto, concepito
intorno al 1570, rimase a lungo allo stadio di manoscritto, e quando fu edito nel 1579 si ebbe il biasimo de] Papa Gregorio XIII che lo riteneva propalatore di » fatti estranei al buon comportamento dei cristiani »; suscitò inoltre una vivace disputa fra gli intellettuali ortodossi e i più spregiudicati a proposito delle reali inclinazioni e capacità di Delminio.


Bulgheroni non si perse d'animo: rintracciò innanzitutto il carteggio tra l'occultista e l'editore romano Guiduccio (custodito quasi per intero in biblioteche vaticane) e in cambio di uno scru-poloso lavoro di catalogazione ottenne libero accesso alla raccolta.

In quattro delle lettere da lui riportate alla luce {la C, la P, la V e la CV secondo la sua numerazione) è esplìcitamente menzionato il lavoro di traduzione che il Maestro stava compiendo in Francia, la revisione apportatavi da Heyquem prima della rottura, le difficoltà incontrate sul testo greco (« non chiaro », secondo il traduttore) e l'offerta di Delminio all'Università di Bologna di custodire una copia del manoscritto.

In una quinta lettera, 2P, vi è poi il divieto fatto a Guiduccio di pubblicare la traduzione italiana (è la stessa da cui abbiamo stralciato poco sopra)(20)

(20) Sul motivo della proibizione, a parte l'eventuale pentimento circa il contenuto del grimorio, si sono fatte varie ipotesi. Bulgheroni sostiene che se Delminio aveva effettivamente visto a Parigi una copia dell'originale arabo era stato in grado di eliminare dalla sua traduzione quegli "errori" commessi da Fileta nella versione greca, a cui accenna anche la sua corrispondente di Intra, e di ottenere quindi un prodotto più fedele ma anche più « pericoloso ».

A questa teoria si è obiettato (ad es. da parte del Fojer) che all'epoca di Delminio era comunque in circolazione da poco meno di un secolo un'altra traduzione, latina, a firma di Olas Wormius; Bulgheroni sostenne sempre che:

1) Delminio non entrò mai in possesso di quella versione;

2) che, secondo la testimonianza di un lettore più che degno di fede, Monsignore Augusto Deprà, che fu tra i compilatori dell'Index librorum prohibitorum del 1557, la traduzione di Wormius era imperfetta, poco precisa e assolutamente manchevole rispetto a quella greca, allora più celebre in Italia.

La tesi del o pentimento » delminiano resta da dimostrare; alcuni studiosi moderni che hanno seguito il lavoro di Bulgheroni — Mistral, De Veistre — sostengono che alla base del divieto ci furono anche ragioni pratiche. Delminio aveva raggiunto un parziale accordo con uno stampatore francese, Xavier Basset, per far uscire la sua traduzione in Francia, in un'edizione anonima. De Veistre ha riportato alla luce una parte del carteggio fra i due nel 1968, e sostiene che Basset fece un'unica edizione — in italiano — intorno al 1547-48. Non esclude quindi la possibilità di ritrovare, oltre ai manoscritti del Dottore, anche esemplari a stampa della sua fatica. Per tutto questo si veda: JEAN-PIERRE DE VEISTRE, La conceptìon cosmìque de la magie, Hachette, Parigi 1970.

Bulgheroni dimostrò anche inconfutabilmente che tutte le volte in cui nel testo di Scotto si nomina il Liber Damnatus questo non è altri che il Necronomicon. Infine, fu il primo studioso ad avere accesso alla collezione privata Dei Brioschi, di Venezia, dove sono conservate alcune delle più importanti epistole delminiane, anche qui con evidenti riferimenti alla traduzione. Il vero svantaggio del lavoro bulgheroniano — pur filologicamente ineccepìbile — sta nella scarsità delle pubblicazioni seguite alle sue scoperte: sì deve anzi ritenere che il breve saggio dì otto pagine apparso nell'ultimo numero dei Cahiers Noirs sia il solo studio reso di pubblico dominio dopo oltre quindici anni di ricerche.

Certamente la concisione giocò un brutto tiro al saggista romano, ma uno ancora peggiore gliene preparò la sorte. È quasi certo che nella versione originale il suo testo fosse lungo quasi il doppio ma stretta nelle morse di esigenze editoriali pressanti la redazione tagliò o sunteggiò nella traduzione una parte non trascurabile di materiale. Il resto degli studi rimane ancora allo stadio di manoscritto o raccolta di appunti fra le carte dello scomparso Bulgheroni, il quale intanto è diventato a sua volta oggetto di studio.

Solo ora gli esecutori della sua proprietà letteraria hanno consegnato i manoscritti inediti alle Edizioni Atanòr di Roma, che cureranno entro l'anno un volume dedicato al più che singolare personaggio.

L'attendibilità di ricercatore del Bulgheroni è cosi confermata da Giorgio Manganelli, che lo conobbe poco prima della morte:

« Era un uomo schivo, assolutamente eccentrico in ogni abitudine; scriveva e leggeva schermando fino all'inverosimile lampadine e sorgenti di luce, sicché si può affermare che lo facesse al buio. Con gli uomini parlava molto poco, ma era prodigo di consigli verso gli animali, e specialmente i gatti randagi del suo quartiere la borgata di San Basilio.
Conosceva perfettamente il greco e il latino, e, fra le lìngue moderne, francese e tedesco li leggeva regolarmente. Era un filosofo autodidatta ma perfettamente preparato, un provetto bibliografo e un erudito conoscitore di storia delle tradizioni, specie per il verso che riguarda l'occulto e il magico.
Ha compiuto studi importantissimi di regionalistica, e mi auguro che presto i suoi manoscritti trovino un editore e un pubblico: interesserebbero almeno una mezza dozzina di scienze umane. Prima di morire, esprimeva un solo desiderio: conoscere l'arabo medievale abbastanza bene da leggere un grimoire scritto a Damasco neil'VIII secolo, e intitolato Al Azif. A patto, aggiungeva sorridendo, di rintracciarne una copia » (21).

(21)GIORGIO MANGANELLI, E un filosofo? No, uno stregone, in Tempo,
Milano, 10 febbraio 1973 pagg. 44-47. L'articolo ricordava anche, con partecipazione, la scomparsa di Bulgheroni avvenuta in circostanze tanto misteriose da renderle romanzesche. Il 4 febbraio 1964 il ricercatore solitario sparì dalla sua casa e non fu più visto da nessuno fino al 7 ottobre dellostesso anno, epoca in cui fu ritrovato morto — ma solo da pochi giorni — in una casa colonica abbandonata presso Tarquinia. Le cause del decesso non sono mai risultate chiare, anche se il certificato di morte depositato all'Anagrafe di Roma parla di trombosi ad effetto letale.



Ma se la traduzione è stata effettuata, come dai documenti esistenti appare certo, dove può trovarsi?

Risponde L.M. Lombardi Satrianì:

« L'opera magica di Delminio, come quella di altri cabalisti e pensatori eterodossi del Rinascimento, fu sottoposta a traversie secolari, e non bastò la fama di letterato e il rivestimento di pensiero neoplatonico a salvarla. Cosi, tra le menzogne, i camuffamenti crittografici, i finti o i veri pentimenti e le auto da fé e naturalmente l'inclemenza degli anni e le tergiversazioni delle seconde e terze mani non pochi di quei documenti scomparvero per sempre. Non è detto però che non riappaiano: nel caso di Deminio per tante opere perse ne restano molte integre, e molta corrispondenza si è salvata (non tutta decifrata, giova dirlo). Nel momento in cui i fili di queste conoscenze si riannoderanno, o un caso fortuito porterà alla luce nuove testimonianze, uomini ingegnosi sapranno approfittarne senz'altro, e allora vedremo forse la più famosa di queste rarità: il Libro volgare de' Morti, traduzione chiacchierata da quattro secoli del Necronomicon di Abdul Azha-red » (22).

(22) Intervista in Corriere della Sera, Milano, 16 agosto 1979.





 
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