Origini delle Religioni

DIES LUSTRICUS

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CAT_IMG Posted on 29/1/2021, 08:32
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Traduzione della nostra ROXI !








Dies Lustricus

fonte

[Nell’antica Roma il Dies Lustricus (giorno della “lustrazione” o giorno della “purificazione”) era una cerimonia tradizionale di assegnazione del nome, in cui un neonato veniva purificato e gli veniva assegnato un praenomen (nome personale o primo nome). Questo si verificava l’ottavo giorno per le bambine ed il nono per i bambini, una differenza che Plutarco spiega notando che: ”è un fatto che le femmine crescono, e raggiungono la maturità e la perfezione prima dei maschi”.

Finché non cadeva il cordone ombelicale, solitamente il settimo giorno, il neonato era considerato “più come una pianta che come un animale”, come dice Plutarco [a].

La cerimonia del Dies Lustricus era perciò rimandata fin quando il cordone ombelicale, l’ultimo collegamento tangibile con il corpo della madre, non fosse caduto ed il bambino fosse visto “non più come una parte del corpo della madre, ma in possesso di una esistenza indipendente”, che giustificava il ricevere un nome suo proprio e quindi un destino suo proprio.

Il giorno era celebrato con una festa di famiglia. La dea dell’infanzia, Nundina, presiedeva all’evento, e si supponeva che la dea Nona determinasse la durata della vita di una persona. Prima della cerimonia i neonati non erano considerati parte della famiglia, anche se il padre li aveva sollevati durante un tollere liberum [Il tollere liberum - tollere = sollevare, liberum = bambino - era un'antica tradizione romana in cui un uomo raccoglieva un neonato da terra e lo sollevava in aria per mostrare la sua accettazione come parte della sua famiglia].

Nel Dies Lustricus erano invocati i Fata Scribunda. I “Fati Scritti” si riferiscono probabilmente ad una cerimonia in cui si metteva in forma scritta il nuovo nome del neonato, forse in una cronaca di famiglia.

Per i Romani, l’assegnazione del nome era importante come la nascita. Ricevere il praenomen inaugurava il bambino come individuo con un suo proprio fato. Il nome del bambino poteva essere deciso in anticipo nei giorni precedenti. In casi rari, ai bambini il nome veniva dato prima della cerimonia, per esempio si ricorda di un bambino chiamato Simplicius che morì lo stesso giorno in cui nacque, e che forse visse soltanto un'ora.

Il giorno poteva anche essere quello in cui il bambino riceveva la bulla, l’amuleto protettivo che veniva messo via quando il ragazzo passava nella età adulta.

La pratica fu diffusa nell'Impero Romano d'Occidente fino alla tarda antichità. Questa tradizione era familiare anche ai cristiani che sembrano averne incorporato alcune parti nella loro vita.

NOTE

[a] Vedi anche Aulo Gellio, Notti attiche 16.16, che cita Varrone nel dire che nel grembo materno i bambini sono più simili agli alberi che a un essere umano.
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Edited by barionu - 18/1/2023, 09:34
 
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CAT_IMG Posted on 29/1/2021, 09:45
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GRAZIE ROXI ! <3 <3 <3






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RIPORTO ANCHE WIKI iTALIA

https://it.wikipedia.org/wiki/Lustratio#:~...iali%20bruciati.

La lustratio (lustrazione), o lustrum, è un'antica cerimonia di purificazione effettuata tramite il lavaggio con acqua o l'aspersione di acqua mediante rami di lauro o di olivo o mediante uno strumento chiamato aspergillum.

L'effetto di purificazione era ritenuto connesso anche al fumo di alcuni materiali bruciati. Alla cerimonia erano connessi anche sacrifici di animali, che nel rito percorrevano un percorso intorno alla persona o all'oggetto da purificare.

Nell'uso della Grecia antica la cerimonia avveniva da parte di un privato o di una città per purificarsi da un crimine commesso ovvero per la purificazione di un luogo sacro che fosse stato contaminato.

Nella religione romana la cerimonia assicurava invece la benedizione e la protezione della divinità, senza legame con una colpa commessa: venivano purificati i campi (cerimonia degli Arvali) o le greggi (Palilia, compreso un sacrificio alla dea Pales). Gli eserciti romani venivano purificati prima della partenza per le campagne militari e la cerimonia veniva ripetuta negli accampamenti prima delle battaglie.

La stessa città di Roma veniva purificata con una cerimonia di lustratio in caso di prodigi e calamità e regolarmente ogni cinque anni, al momento in cui i censori quinquennali avevano compiuto il censimento e abbandonavano la propria carica. Da qui deriva il significato di lustro per indicare un quinquennio.

La cerimonia, compiuta la prima volta dal re Servio Tullio dopo che ebbe condotto il primo censimento, comportava il sacrificio dei suovetaurilia (si sacrificavano un maiale, o sus, una pecora, o ovis, e un toro, o taurus) e si svolgeva nel Campo Marzio, dove la popolazione si radunava e gli animali da sacrificare venivano condotti per tre volte intorno all'assemblea radunata.

Nell'antica Roma, una cerimonia di purificazione con l'acqua avveniva anche otto o nove giorni dopo la nascita di un bambino: in quel giorno, detto dies lustricus, tutti coloro che avevano toccato la madre si lavavano solennemente le mani e si imponeva il nome al neonato[1][2].






Abluzioni sacre nelle religioni antiche




Il termine battesimo si applica propriamente soltanto a quello di Giovanni (detto perciò il Battista) e al battesimo cristiano.[2] L'abluzione a scopo espiatorio e lustratorio si trova comunque praticata in molte religioni, specialmente nei riti di iniziazione.

Nelle sette che praticavano culti misterici si entrava a far parte attraverso un rito che i greci chiamarono "battesimo" dal termine βαπτίζω ("baptìzo"), ovvero "immergo": "l'iniziato, dopo un periodo di indottrinamento, veniva immerso in una vasca contenente acqua lustrale che, cancellando tutte le colpe del passato, gli permetteva di ricevere come premio la vita eterna se avesse rispettato le regole della fede che aveva abbracciato. I primi a praticare il battesimo furono i sacerdoti egiziani della dea Iside. Le cerimonie battesimali, anche se praticate in nome di divinità diverse, si somigliavano tutte. Lo stesso rito celebrato in Egitto per la dea Iside veniva ripetuto in Frigia per Attis, a Babilonia per il dio Marduk, in Grecia per Dioniso e Demetra e in Persia per il dio Mitra."[17] Accomunate così da uno stesso rituale e da uno stesso fine, quello di assicurare ai propri seguaci la resurrezione, tutte queste divinità si trovarono nel pieno di una competizione per la supremazia, volta a fare di ciascuna la dominatrice su tutto il Medio Oriente tra il V e il VI secolo a.C.

I primi a praticare forme simili al battesimo furono i sacerdoti egiziani della dea Iside. Questa pratica riservata al principio ai Faraoni, concessa poi ai grandi sacerdoti e quindi ai dignitari politici e agli ufficiali, fu infine estesa a tutti, compresi i ceti più umili. In seguito al successo politico-sociale riportato dagli egiziani, nel giro di pochi secoli tutte le religioni del Medio Oriente, sostenute dai vari imperialismi, si ritrovarono a praticare forme di abluzioni sacre. Nel rito legato al culto del dio Attis, mentre l'iniziato veniva immerso nell'acqua lustrale, il sacerdote recitava: «Tu sei rinato e da questo momento farai parte del mondo degli eletti a cui sono aperte le porte dell'eternità».

Nell'antica Grecia, dopo la nascita del neonato si effettuavano riti di purificazione (che prevedevano tra l'altro l'immersione in acqua del bambino e il lavaggio delle mani delle levatrici), quindi si celebrava la festa delle Anfidromie. Nell'antica Roma, alcuni giorni dopo la nascita si celebrava il dies lustricus: tutti coloro che avevano toccato la madre eseguivano la lustratio mediante un solenne lavaggio delle mani, quindi si dava il nome al bambino.







Edited by barionu - 9/2/2021, 11:58
 
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CAT_IMG Posted on 9/2/2021, 11:53
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Plutarco 'antropologo': le Quaestiones Romanae

tesi di dottorato di Claudia Piazzini

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Le Quaestiones Romanae costituiscono l’ennesima testimonianza della centralità che Roma riveste nella riflessione storiografica e filosofica dello scrittore di Cheronea.


Il greco Plutarco, che soggiorna a lungo nell’Urbe e riceve persino la cittadinanza romana, a più riprese esplora la storia e la cultura dei dominatori latini, mettendo il loro mondo a confronto con il proprio: un raffronto che costituisce la struttura stessa delle Vite Parallele, e che più volte anima i trattati del corpus dei Moralia.





Come segnala il titolo greco, negli Aitia Romanika Plutarco si propone di spiegare le cause, le origini remote di una serie di usi romani che, per la loro stranezza o per una forte differenza rispetto alla cultura greca, potevano suscitare curiosità o risultare di difficile comprensione agli occhi dei greci colti a cui la raccolta si indirizzava. Il carattere asistematico dell’opera ne ha decretato la scarsa fortuna negli studi della critica.

Pochi sono gli studiosi che hanno rivolto finora la loro attenzione alle Quaestiones Romanae: classificate tra gli scritti eruditi di Plutarco, si è guardato in genere ad esse come ad un’opera di antiquaria, certamente utile per la conservazione di notizie soprattutto riguardo alle pratiche cultuali romane, ma di scarso peso nell’ambito della produzione dell’autore; una raccolta di aneddoti e curiosità da avvicinare al Septem sapientium convivium o ai nove libri delle Quaestiones conviviales, testimonianza della vastità degli interessi dello scrittore di Cheronea.

L’etichetta di ‘trattato di antiquaria’ ha portato le Quaestiones Romanae a condividere il destino di tante altre opere della stessa categoria: quello di essere saccheggiate e ripetutamente citate (magari nelle note a pie’ di pagina) da chi si occupa di antichistica romana, dagli archeologi e dagli studiosi di religione, senza diventare mai protagoniste, oggetto cioè di uno studio sistematico, di uno sguardo d’insieme.




Quando, soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, si è prestata attenzione a questo singolare trattato, pressoché unica direzione di studio intrapresa è stata quella della ricerca delle fonti di cui Plutarco si servì, direttamente o indirettamente, per la sua opera di ‘erudizione’.

Thilo dedicò nel 1853 la sua tesi di dottorato in filologia classica alla ricerca dei probabili prestiti di Plutarco da Varrone; un obiettivo ripreso, quasi trent’anni dopo, da Glaesser.

L’altro nome su cui si è insistito è quello di Giuba, il re letterato della Mauritania spesso citato da Plutarco, ma di cui sappiamo ben poco: i soli frammenti conservatici sembrano rinviare ad un’opera di tipo lessicografico, nella quale l’autore poneva forse a confronto parole greche e latine, anticipando quella tendenza alla comparazione che percorre anche le Quaestiones Romanae.

La discussione sulle fonti continua ad occupare ampio spazio anche nel commento di Rose, dell’ormai lontano 1924 ma tuttora punto di partenza essenziale per ogni studio sulla raccolta. Dopo questa data infatti l’interesse per le Quaestiones Romanae sembra esaurirsi: dobbiamo attendere il 1999 per vedere pubblicata una nuova edizione dell’opera, tradotta e commentata assieme alle Quaestiones Graecae dai francesi M. Nouilhan, J. Pailler e P. Payen; e nel 2002 le Quaestiones Romanae fanno finalmente la loro comparsa nella collana “Les Belles Lettres”, a cura di Jacques Boulogne.

Entrambe le edizioni francesi non aggiungono tuttavia materiali ed osservazioni significative rispetto allo studio di Rose.




Un commento breve, che miri essenzialmente a ricercare le fonti di Plutarco ed a suggerire alcuni passi paralleli sull’argomento discusso, tradisce nei lavori fin qui citati l’ovvio presupposto interpretativo che le Quaestiones Romanae siano un’opera di antiquaria.

Quest’ultima definizione, normalmente adottata a partire dalla classificazione dei Moralia di Ziegler, risulta del tutto condivisibile se si valorizzano nelle Quaestiones Romanae l’eterogeneità dei contenuti, la frequente arcaicità dei costumi analizzati e la tendenza a soffermarsi sul particolare piuttosto che descrivere una cerimonia nel suo complesso. Ma l’erudizione non è che una delle componenti di questo singolare trattato. Partendo dal titolo greco della raccolta, si potrebbe parlare infatti anche di opera eziologica: il termine Aitia indica che Plutarco non si accontenta di descrivere ai suoi compatrioti un costume romano (“i Romani fanno questo”), ma vuole soprattutto spiegarne le cause, le origini (“i Romani fanno questo perché…”).



Il ruolo del filosofo di Cheronea non è così per noi quello di un semplice testimone di alcuni importanti aspetti dell’antica civiltà romana, quanto piuttosto quello di un interprete: la notizia dal passato non ci arriva, come accade solitamente, nuda e semplice, ma corredata di una o più spiegazioni, che Plutarco poteva attingere dalle sue svariate letture o formulare personalmente, sulla base delle sue riflessioni.

Riflessioni di un ‘antico’, e come tali estremamente preziose per noi moderni che tentiamo di ricostruire le coordinate culturali della civiltà classica. La nostra indagine sul mondo romano si trova così ad essere preceduta e guidata da quella di un osservatore che certo a quel mondo era più vicino di noi. Rispetto ad altri studiosi ‘dall’esterno’ del popolo romano, che si occupano di narrare la storia di Roma soffermandosi occasionalmente su usanze che suscitano la loro curiosità (è il caso ad esempio di Dionigi), Plutarco imposta a priori la sua opera proprio come ricerca sui significati dei singoli costumi.




La mera notizia di antiquaria in questo modo si arricchisce, si amplifica, in un ventaglio di possibili soluzioni del problema rivelatrici, ciascuna, di un particolare meccanismo del pensiero antico.

Ma torniamo al nostro problema di ‘genere’. Prendendo in considerazione l’aspetto formale delle Quaestiones Romanae (il cui impianto retorico fisso prevede una domanda introdotta dal modulo dia ti, cui segue una serie di possibili risposte, nella forma di interrogative disgiuntive), Italo Gallo classifica la raccolta come Problemata Literatur, filone letterario diffuso nelle scuole di filosofia ed in particolare nel Peripato. Ora, l’originalità di Plutarco nell’utilizzare questo modello formale consiste nell’applicarlo ad una cultura diversa dalla propria: i contorni dell’opera di antiquaria e di pura erudizione si complicano nella misura in cui interviene da parte dell’autore una componente che potremmo definire ‘etnografica’. L’operazione di Plutarco è per molti aspetti l’operazione di un antropologo. Il mondo greco e quello romano infatti, pur presentando tra sé indubbi collegamenti e similarità, costituiscono comunque due culture diverse, ed è sulla diversità che lavora l’antropologo; e questa collocazione dello scrittore all’esterno della cultura indagata gli consente di formulare come problemi alcuni aspetti del costume, del rituale e della vita quotidiana che un Romano probabilmente non vedrebbe come tali.



A condurre questa indagine sul mondo romano è inoltre una figura di letterato tutt’altro che comune: un greco colto erede, testimone e interprete del grande patrimonio della cultura classica, ma allo stesso tempo buon conoscitore di Roma, in virtù dei suoi soggiorni nella città e della frequentazione di una cerchia di amici dell’élite politico-intellettuale. Una personalità a cavallo tra i due mondi, in grado meglio di ogni altro di notare somiglianze e differenze tra le due culture. Plutarco è dunque capace nella sua ricerca di intuizioni felici dovute alla sua familiarità col mondo romano, ma allo stesso tempo è passibile di errori, di fraintendimenti nella lettura delle fonti latine, di schemi di interpretazione rivelatori di un’ottica pur sempre greca.
A partire da questa definizione delle Quaestiones Romanae come opera di ‘antropologia’ (le virgolette sono d’obbligo, quando si applica al mondo antico una categoria di pensiero moderna), la tesi di dottorato si propone essenzialmente di analizzare i caratteri della raccolta restituendo centralità alle osservazioni ed alle scelte dell’autore, allo scopo di ricostruirne e tracciarne il ‘metodo d’indagine’. Una prima osservazione merita senza dubbio la selezione del materiale da parte di Plutarco. Le questioni sono state da tempo raggruppate secondo quattro tipologie tematiche fondamentali: il rituale, la parentela, le istituzioni e il calendario. Ma i meccanismi di elaborazione delle domande si rivelano assai più complessi. Se ci chiediamo quali ‘molle’ fanno scattare l’interesse di Plutarco verso un certo costume, arriviamo infatti a visualizzare cinque meccanismi fondamentali:


- Proibizione: un numero elevato di questioni è formulato al negativo o contiene verbi che esprimono divieto: l’antropologia di Plutarco è rivolta di preferenza a quelli che potremmo definire, con termine moderno, i tabù, le proibizioni che colpiscono la società romana nel suo complesso o singole figure religiose quale il Flamen Dialis.


- Eccezione: rilevata una certa regola, Plutarco si sofferma sulle sue apparenti deviazioni: se tutti i sacerdoti possono essere esiliati o deposti, non così l’augure, che mantiene a vita la sua carica (q. 99).


- Opposizione: riguarda molto speso l’asse maschile/femminile: uomini e donne si vestono e si comportano differentemente in occasione dei funerali dei genitori (q. 14); in giorni diversi cade il loro dies lustricus, la cerimonia di imposizione del nome (q. 102).


- Anomalia: Plutarco si propone di spiegare casi che sembrano andare contro un modo di pensare comune, una ‘regola antropologica’ di vasta diffusione: così l’avis sinisteria, l’uccello proveniente dalla sinistra e considerato di buon auspicio, viola palesemente il principio della preminenza della parte destra (q. 78).


- Specializzazione: concerne spesso le denominazioni linguistiche: quale moneta in particolare è detta lucar (q. 88); quale differenza corre tra la qualifica di patres e quella di patres conscripti (q. 58).

Un’analisi attenta meritano anche le risposte che Plutarco elenca per ogni problema. Nella successione delle disgiuntive le soluzioni vengono proposte dall’autore secondo un ordine di ‘probabilità’. Le preferenze date da Plutarco ad una spiegazione saranno indicatrici del modo di procedere dello studioso, dei criteri organizzativi del suo metodo d’indagine; ma anche le risposte da lui scartate come meno probabili o addirittura rifiutate come assurde (ipotesi che Plutarco poteva aver trovato nelle sue fonti o forse addirittura raccolto oralmente nel suo soggiorno a Roma) potranno permettere di scoprire aspetti importanti della mentalità antica, e specificamente i processi con cui il pensiero antico creava ed elaborava le sue radici, le cause da porre all’origine delle proprie istituzioni.

L’ordine delle soluzioni, i passaggi attraverso cui si snoda la riflessione di Plutarco, restano invece in ombra nei commenti alle Quaestiones Romanae, tesi unicamente all’individuazione ed alla discussione della ‘risposta giusta’, della soluzione corretta alla domanda proposta. Sarebbero invece da evidenziare anche in questo caso i ‘binari’ su cui si muove Plutarco: la preferenza data alle cause etiche (per cui un costume si trasforma spesso in un insegnamento codificato); la ridotta presenza di racconti e personaggi (che costituivano il modello più tradizionale di eziologia), relegati frequentemente nelle prime risposte e visti come la ‘soluzione romana’ del problema; il richiamo costante alla Grecia come metro di raffronto, in un’antropologia che gioca spesso sulle somiglianze più che sulle differenze.

Quest’ultimo aspetto è stato messo bene in luce dai recenti studi di Jacques Boulogne, che ha il merito di aver riportato l’attenzione della critica sulle Quaestiones Romanae. Nella sua lettura del testo l’antropologia di Plutarco viene tuttavia ridotta ad operazione politica e propagandistica: più volte la raccolta viene presentata come un’opera finalizzata a descrivere con accenti lusinghieri i mores romani, allo scopo di spingere i compatrioti di Plutarco a meglio tollerare il giogo politico dei dominatori, oppure (posizione complementare alla precedente) a dimostrare la ‘grecità’ della cultura romana, le radici greche di religione, istituzioni, modelli di pensiero del popolo romano, in un programmatico tentativo di appropriazione della cultura dell’altro.



La nostra ricerca ha dunque l’obiettivo primario di tracciare i caratteri dell’antropologia di Plutarco, mostrandone gli stimoli, gli strumenti, i meriti ed i limiti. A questa parte di carattere generale seguirà una sezione in cui saranno oggetto di un’analisi più approfondita le questioni riguardanti il matrimonio, nell’ambito delle quali si cercherà di distinguere quanto della ricostruzione di Plutarco è autenticamente ‘romano’, quanto è invece spia di un modo di pensare greco, e quanto infine appartiene alla visione personale ed ideale che Plutarco più volte traccia del rapporto tra marito e moglie, ad esempio nei Coniugalia Praecepta.




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LA NASCITA NEL MONDO CLASSICO



L’ingresso nella vita e nella società




di Tullia Pasquali Coluzzi e Luisa Crescenzi





Il momento più importante del percorso umano è quello del passaggio dal seno materno al seno della famiglia, ma è anche il più difficile, tanto che la sua pericolosità, sottolineata oggi dal detto popolare “Lascia il fuoco ardente e corri dalla partoriente”, veniva percepita già dai primitivi: al momento del parto uomini armati presidiavano la porta della capanna e con sonagli vari tenevano lontani gli spiriti malvagi.

La donna greca e quella romana partorivano sedute, generalmente, su una sedia con un’apertura a mezza luna nel fondo; la levatrice poteva, così, intervenire manualmente, durante la fase dell’espulsione, per favorire la dilatazione del collo dell’utero, per tagliare il cordone ombelicale (con una lama, come suggeriva il medico orientale del II secolo dc., Sorano di Efeso, o con attrezzi più contaminanti, come frammenti di

vetro o di canna) e, infine, per raccogliere il neonato.

Se la sedia non aveva braccioli sui quali la partoriente potesse fare forza, si posizionava dietro di lei un’assistente della levatrice per sorreggerla (posterior).

Assisteva alla nascita, per raccogliere il frutto del parto, una donna anziana chiamata in greco maia, in latino obstetrix .colei che sta davanti… Che il suo ruolo rivestisse grande importanza lo afferma Platone: la levatrice deve essere «intelligente, pronta di memoria, attiva, robusta, pietosa, sobria, paziente» e Muscione, scrittore bizantino, proponeva a costei una sorta di decalogo e cioè: «tranquillizzare le partorienti, esortarle a spingere verso il basso trattenendo il respiro». Le ostetriche, come ci precisa Marinella Corridori, provenivano probabilmente dall’Oriente ellenistico molto più progredito nell’arte medica esercitata anche dalle donne.



Ce lo testimonia un’iscrizione funeraria del I-II secolo ac. dedicata ad una donna medico, tale Mousa, e conservata nel museo di Istanbul. Esse percepivano una somma per nulla disprezzabile ma erano guardate con una certa diffidenza come persone che, non controllate dagli uomini, potevano procurare aborti oppure introdurre dolosamente nella famiglia un bastardo aiutando la donna a fingere una gravidanza. Nel mondo antico il neonato che, secondo arcaiche credenze, proveniva dall’aldilà, per essere accolto nella famiglia doveva essere liberato dalla sua natura demonica con vari riti iniziatici. Ad Atene ciò avveniva in un arco di tempo che andava dal quinto al decimo giorno dalla nascita, durante la cerimonia chiamata Amphidromia (gr. Amphì “ intorno” – dromos “corsa”): il padre o le due donne che avevano fatto da levatrici, sollevato il bambino e tenendolo tra le braccia, correvano per tre volte intorno al focolare pronunciandone il nome.



Il fuoco aveva per gli antichi una funzione rigeneratrice e, nel caso di neonati mitici, serviva per una sorta di rito di iniziazione. Nell’inno omerico A Demetra, la dea, tentando di dare l’immortalità al figlio del re Celeo, lo immerge nella fiamma ma è impedita dal portare a termine l’operazione dalla madre di lui terrorizzata. Se il padre non compiva l’atto di sollevare il figlio, condannava lo sfortunato – più spesso la femmina – ad un destino di schiavitù e di prostituzione. Di ciò erano talvolta responsabili le stesse levatrici che denunciavano le malformazioni invalidanti dei neonati. Ma è anche esposti per vari motivi sulle acque o sui monti, sono stati consegnati dalla tradizione biblica o mitica a una fama straordinaria: Mosè, Paride, Ciro il Grande, Romolo e Remo e altri.



Essi vivono a contatto con la natura, allattati spesso da animali selvatici o da povere donne e emarginati dalla società civile a cui ritornano dopo avere rapidamente acquisito abilità straordinarie. Per la nascita di un figlio i greci adornavano i battenti delle porte con ghirlande di ulivo, se maschio, o con bende di lana, se femmina; questi elementi erano legati rispettivamente al mondo virile e a quello muliebre. Anche a Roma il neonato veniva deposto in terra dall’ostetrica che ne aveva in precedenza constatato la sanità; il pater familias aveva la facoltà di riconoscerlo con l’atto di sollevarlo invocando la dea Levana e di prenderlo in braccio (tollere liberos da cui il nome Tullio o Tullia .riconosciuto. e quindi .amato. dal padre), o di esporlo.



Per la femmina ci voleva qualcosa di più per essere accolta in seno alla famiglia: il pater familias doveva ordinare di allattarla e, mentre comportava una sanzione esporre un maschio o la primogenita, il reato di abbandono delle bimbe nate successivamente non veniva contemplato dalla legge; che le raccoglievano era un ottimo investimento avviarle alla prostituzione o alla schiavitù. Subito dopo la nascita, il neonato veniva lavato, per tergerlo dal sangue materno, con acqua e sale o con vino, come usavano fare gli spartani9, o, come facevano i greci, bagnandolo con rugiada, e ungendone con l’olio il corpo, gli occhi e le narici per aumentarne il vigore. I romani mettevano sulle labbra la mola salsa (potrebbe questo rito richiamare quello del sale usato, prima della riforma del rito romano, durante il battesimo, sale che nella simbologia biblica è utile farmaco che preserva dalla corruzione, segno di sapienza e di ospitalità). Il cordone ombelicale, cosparso di miele o di sale, ricoperto con tessuto imbevuto di olio o di strutto, veniva stretto da una fascia.




Quando esso cadeva, si metteva sull’ombelico una rondella di piombo tenuta ferma da una striscia di stoffa. L’uso della fasciatura per proteggere il corpicino da malformazioni e da cattive posture risaliva a tempi lontani: nel santuario di Vulci, in Etruria, sono state trovate, come ex voto, statuine in terracotta di neonati avvolti da bende a spirale, col capo coperto e con la bulla apotropaica attaccata al collo; nel museo archeologico di Atene una statuetta rappresenta un piccino avvolto da un panno tenuto ben stretto da un lungo nastro che gira intorno al corpo (particolare curioso: la fasciatura lascia scoperto il culetto per permetterne la pulizia); inoltre monete romane ci mostrano infanti, stretti da fasce, in braccio alla dea del parto, Giunone Lucina. Ma, come testimonianze di un tempo ancora più lontano, ci restano rozze statue osche, provenienti da un santuario e conservate nel museo archeologico di Capua; raffigurano la dea della fecondità Mater Matuta con in grembo più neonati in fasce.




Furono offerte da madri antiche in voto per una desiderata o ottenuta nascita. Le fasce dei figli dei ricchi romani erano talvolta di colore rosso porpora forse per motivi apotropaici; dopo qualche tempo, ne erano liberate le braccia con la priorità di quello destro perché il piccolo non diventasse mancino, cosa molto temibile. Il suddetto Sorano di Efeso prescriveva nel suo trattato Perì epidèsmon (Sulle fasciature), fornito spesso di pratici consigli, che la fasciatura fosse di lana; il corpicino doveva essere preventivamente unto ben bene di olio, poi dovevano essere stretti nelle fasce prima le braccia separatamente, poi il busto, e infine le gambe una per una e poi unite; il tutto, coperto da un fasciatore dai piedi al collo, doveva essere ancora fermato da una lunga benda girata intorno a spirale.



Nove giorni dopo la nascita per il maschio e otto per la femmina (primordia), si procedeva, anche per le persone che avevano assistito al parto, alla purificazione attuata con l’acqua (dies lustricus corrispondente al rito greco dell.Amphidromia). Al rito presiedeva la dea Nundina (nome proveniente appunto da nono die). In tale occasione il neonato era ammesso solennemente nella comunità e riceveva il nome (triplice se maschio, unico se femmina); per lui si invocavano i Fata preposti al destino. Fino a quel momento la puerpera e il piccolo venivano protetti da tre uomini che, impersonando le divinità Intercidona, Pilumnus e Deverra, tenevano lontano dalla soglia Silvano, rozza divinità dei boschi: la prima colpiva la soglia con una scure, il secondo con un pestello, la terza la spazzava. Lo strano rito aveva evidenti fini apotropaici ed era messo da Varrone Reatino in connessione con l’arcaico mondo agricolo: «Gli alberi si potano col ferro, il farro si tritura col pestello, poi si ammucchia con la scopa».




Era uso che si recassero al piccino doni in tale quantità da far sostenere a quel maligno di Giovenale che «una moglie sterile è molto apprezzata da amici e parenti10». Erano o graziosi oggettini da attaccare al collo o giocattoli costituiti da bamboline, amuleti vari, specie sonaglini di terracotta in forma di animaletti con all’interno un sassolino (crepundia da crepo “risuono”); servivano, oltre che da trastullo, ad allontanare, una volta a contatto con la pelle, gli spiriti11 e, talvolta, da riconoscimento per i bimbi esposti. Costituiva un regalo apotropaico anche un pendente col numero 13 che aveva . e ha tuttora . una duplice valenza: protettiva se attaccato al collo, del tutto negativa se riguardante i convitati. L’appartenenza alla classe sociale dei liberi era sottolineata dalla bulla, amuleto di forma sferica, in oro per i ricchi, in cuoio per i poveri, che, nel rito di passaggio per il compimento della maggiore età celebrato durante le feste dei Liberalia, veniva dai ragazzi abbandonato, insieme alla toga pretesta, e dedicato alle divinità curotrofe (nutrici di bambini). A tale proposito lo storico greco Plutarco sostiene che questo amuleto aveva una sua valenza morale perché suggeriva la purezza dei ragazzi liberi che non doveva essere offesa. In seguito poterono indossare la bulla anche i figli dei liberti.




Solo per i maschi troviamo testimonianza della bulla. Nei corredi funebri delle femmine, invece, sono state rinvenute le pupae, bamboline di avorio o di osso dall’aspetto di piccole adulte (talvolta con gli arti, del tutto o parzialmente, snodabili) che avevano, secondo alcuni, virtù apotropaiche. Ne troviamo qualche esemplare anche nel Museo Nazionale Romano (la più famosa è quella della tomba di Grotta Rossa dove fu trovata la mummia di una bambina). Esse, ornate spesso di miniature di gioielli, venivano dedicate a Venere dalle ragazze che si accingevano al matrimonio. Molti dei ninnoli erano di ambra, resina fossile conosciuta fin dal neolitico e apprezzata nel mondo antico per la sua trasparente bellezza e per proprietà magiche e terapeutiche che vengono ricordate anche da Plinio il Vecchio.



Nel mondo classico l’ambra, come principio di vita e fecondità, veniva collegata con la figura della Dea Mater. D’altronde, fino ai nostri tempi si è creduto al potere apotropaico dell’ambra contro mali, come le affezioni delle vie respiratorie e contro gli incubi notturni per i quali si usava anche cospargere le tempie dei neonati con olio, oppio, aceto e seme di papavero. Bisogna ricordare che nel mondo antico, e poi in quello moderno, in campo umano erano attribuiti poteri di magia apotropaica nei confronti dei loro protetti anche alle levatrici e alle nutrici. Ad Atene veniva dedicata una certa attenzione al mondo dell’infanzia nel secondo giorno delle Antesterie, feste che celebravano tra febbraio e marzo il vino nuovo e la fine dell’inverno. In un rito di conferma, molto importante per il cittadino ateniese, bimbi di tre anni, incoronati di fiori, ricevevano in dono anforette (choes) su cui erano rappresentate scenette infantili.





www.aracne-galatina.it/la-nascita-nel-mondo-classico/

Modificato da barionu - 9/2/2021, 11:50

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CAT_IMG Posted on 19/12/2023, 18:28
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