Origini delle Religioni

il caso moro 2, CAMILLO GUGLIELMI IN VIA FANI

« Older   Newer »
  Share  
CAT_IMG Posted on 16/3/2021, 09:29
Avatar

www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=44&t=18168

Group:
Administrator
Posts:
8,422
Location:
Gotham

Status:





KAOS ED FLAMIGNI

http://kaosedizioni.com/?cat=16


Una raccolta commentata degli articoli pubblicati da “Op” (prima agenzia in abbonamento, poi settimanale in edicola) sul conto di Aldo Moro negli anni dal 1974 al 1979. Indiscrezioni, allusioni, analisi, preveggenze, ammonimenti, rivelazioni: tutti gli scritti che Mino Pecorelli, fondatore-direttore di “Op”, dedicò al leader Dc prima della strage di via Fani, durante il sequestro e dopo la morte di Moro. Scritti percorsi dall’oltranzismo atlantico e segnati dall’anticomunismo piduista, nei quali si riverberavano le faide all’interno dei servizi segreti.

Nel gennaio del 1979 Pecorelli annunciò nuove rivelazioni sul delitto Moro: «Torneremo a parlare del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbetto azzurro visto in via Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all’operazione, del prete contattato dalle Br, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse…». Ma restò un annuncio, perché il 20 marzo 1979 il direttore di “Op” venne assassinato.





-----------------------


CAMILLO GUGLIELMI


www.colarieti.it/archives/tag/camillo-guglielmi

www.peacelink.it/moro/a/47567.html


Sul conto di Steve Pieczenik, lo psichiatra, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa e superconsulente del Governo italiano ai tempi del sequestro di Aldo Moro, vi sono «gravi indizi circa un suo concorso nell’omicidio» dello statista democristiano. E’ quanto sostiene il procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli.

La controversa figura dell’esperto statunitense, che fu chiamato dall’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, a far parte del comitato di crisi istituto poche ore dopo il sequestro di Moro, è da tempo, e da molti, considerata “centrale” nella vicenda del sequestro e dell’omicidio del presidente della Dc.

Secondo il procuratore Ciancipoli nella vicenda Moro vi è traccia anche del ruolo giocato nel sequestro Moro dal colonnello del Sismi, Camillo Gugliemi (1), presente in via Fani la mattina del 16 marzo 1978 , nei confronti del quale secondo il pg «potrebbe ipotizzarsi» il concorso nel rapimento e nell’omicidio degli uomini della scorta, ma nei suoi confronti non si può promuovere l’azione penale perché è morto. Le indagini compiute dalla procura generale confermano che Guglielmi era «presente in via Fani alle ore 9 antimeridiane» o comunque «pochi minuti dopo il fatto». L’agente del Sismi, durante il processo Moro in Corte d’assise, giustificò la sua presenza lì, a quell’ora, «asserendo di doversi recare a pranzo da un collega, che abitava nelle vicinanze». Versione che il pg definisce «risibile» e che è stata smentita anche dall’amico in questione. Dunque allo stato dei fatti, anche secondo il pg Ciampoli, «restano misteriose le ragioni della presenza di Camillo Guglielmi in via Fani».

Note: (1) Sulla presenza di Camillo Guglielmi (ufficiale di Gladio) in via Fani si può leggere quanto segue.
---
Sul Secolo d'Italia, l'ex generale Paolo Inzerilli, comandante di Gladio, esclude ogni intervento nel caso Moro.

Sul Secolo d'Italia si legge: "Tutta la questione gira intorno alla figura di Camillo Guglielmi, il colonnello di Gladio, che la mattina di via Fani era nei pressi della zona dell’eccidio e del rapimento di Moro. E che resterebbe, così, fuori dalla ricostruzione, nonostante la sua accertata presenza durante l’azione brigatista. Una presenza che, fino ad oggi, è stata ritenuta non casuale. Per Inzerilli, durante il caso Moro, «Guglielmi abitava a Modena, e dirigeva i carabinieri di quella città». Non la pensa così il membro della Commissione, Gero Grassi: «Guglielmi abitava in via Stresa 117, nei pressi di via Fani, il suo nome è sull’elenco telefonico del tempo», sostiene il deputato del Pd".

Cfr. www.secoloditalia.it/2017/05/lex-c...tervenimmo-mai/

---

Sul sito "Sedicimarzo" Maurizio Barozzi scrive: «Per quanto si conosce non è possibile comprovare, al di fuori di ogni ragionevole dubbio, ipotesi dietrologiche su la presenza (a ridosso della strage e rapimento Moro), del colonnello Camillo Guglielmi (nelle vicinanze di via Fani). Deve quindi ritenersi che fu una coincidenza occasionale per ragioni private».

Cfr. www.sedicidimarzo.org/2018/02/sul-c...iceviamo-e.html


I GIORNI DEL DILUVIO

www.cacciatoredilibri.com/storia-d...se-rastrellato/

















CINEMA






Todo modo,
Buone notizie,
Scherzo del destino...
, Il caso Moro,
L’anno del terrore,
Piazza delle cinque lune,
Buongiorno notte
, Aldo Moro il presidente,
Se sarà luce sarà bellissimo,
Il divo
e Aldo Moro il professore:
il delitto Moro al cinema e in televisione (1976-2018)


Moretti:“Ogni uomo un giorno deve morire, ma non tutte
le morti hanno lo stesso significato. Io credo che
la nostra superiorità consista in questo: noi siamo
disposti a morire per le nostre idee, i comunisti
sono così."

Moro:"Anche i primi martiri cristiani. In fondo la sua
è una religione come la mia, anzi è molto più severa;
per esempio disprezza il corpo, più di quanto
facciamo noi cattolici. Un tempo il Cristianesimo era così,
ma ora non più. L'ultima crociata è del 1270, l'ultima
strega è stata bruciata in Svizzera, pensi,
alla fine del Settecento."

dialogo da Buongiorno notte

Elio Petri si ispira liberamene al romanzo (1974) di Sciascia e firma Todo modo (apr. 1976; 125 min.),


uno dei film più controversi del cinema italiano.

In uno scenario da incubo, mentre un indefinito virus sta diffondendo una temibile epidemia, i notabili democristiani (tra gli altri Ciccio Ingrassia) di chiudono nell’eremo Zafer dove, guidati dall’inflessibile don Gaetano (Marcello Mastroianni), si dedicano agli abituali esercizi spirituali. Li guida il presidente alias Aldo Moro (Gian Maria Volontè) che è accompagnato dalla moglie (Mariangela Melato) e da una sinistra guardia del corpo/autista (Franco Citti). Compare, per una breve visita, anche il politico più potente del partito, definito semplicemente

Lui, ovvero Giulio Andreotti (Michel Piccoli); appena quest’ultimo lascia il convento, iniziano le misteriose uccisioni che gettano tutti i partecipanti, rapidamente, nel panico. Giunge il commissario Scalambri (Renato Salvatori) che obbliga i democristiani a rimanere rinchiusi in quel luogo fino a quando la situazione non verrà chiarita. Nel frattempo il sicario uccide a ripetizione: cadono sotto i suoi colpi dapprima i democristiani più in vista, poi don Gaetano, e infine tutti gli altri. Al culmine di questa macelleria l’autista uccide Moro.


La pellicola attacca la classe dirigente italiana con un astio e una cattiveria particolari: l’opera risulta immediatamente scandalosa e indigeribile, come in fondo era stato Indagine (Petri, 1970); solo che Todo modo, pellicola plumbea e ripetitiva, verbosa e visionaria, non possiede la vivacità narrativa del celebre film sul commissario assassino ed è, fin dall’inizio, un fiasco commerciale. Quando poi l’opera viene sequestrata per vilipendio (circa due mesi dopo l’uscita nelle sale), anche se il procedimento giudiziario termina rapidamente con un’assoluzione, il film viene rapidamente dimenticato.


Siamo alle soglie di decisive elezioni politiche in cui il Pci trionferà, arrivando al 34% dei consensi mentre la Dc dovrà accontentarsi del 38%: dopo una lunga marcia di avvicinamento del partito di Berlinguer a quello di Moro (il famoso compromesso storico), ora la situazione prelude a un accordo di governo di fronte al quale, in genere, il cinema italiano filocomunista plaude (si veda su tutti Novecento, 1976; di Bertolucci). Petri, invece, aveva preso posizioni estremistiche fin da Indagine; con La classe operaia (1971) aveva apertamente abbracciato posizioni ribellistiche di Autonomia operaia, contro quelle “revisioniste” dei sindacati e del Pci.

Ora, nel momento più delicato della politica italiana, piazza questa “bomba mediatica” sul cammino dell’accordo politico più discusso del dopoguerra, che contava su numerosi e potenti oppositori a destra e a sinistra. Sia l’America di Nixon/Ford, sia la Gran Bretagna di James Callaghan, sia l’Urss di Breznev tramavano per far fallire quell’accordo, movimentando numerose frange estremiste e differenti servizi segreti, spesso in accordo tra loro. Il film di Petri, profondamente suggestivo e ammirevole in se stesso, fa parte di questo schieramento ostile all’accordo Dc-Pci, trovando addirittura l’appoggio finanziario della Warner Bros. americana (che lo distribuisce).


Petri riparte dal Pasolini di Salò (di cui il film riprende lo schema narrativo a stazioni e il clima oppressivo e claustrofobico) e dal celebre articolo dello scrittore friulano in cui chiedeva un processo pubblico per la Dc accusata di tutte le peggiori nefandezze, tra cui la complicità nelle stragi e nella strategia della tensione. Non a caso il sicario che sembra uccidere i notabili e soprattutto che ammazza Moro è Franco Citti, ovvero l’emblema stesso del cinema pasoliniano. Partendo da questa visione apocalittica e facendo perno essenzialmente sulla questione morale, Petri dipinge una classe dirigente malata e infantile, dedita solo a sporchi traffici votati a uno smisurato arricchimento nel totale disinteresse per il benessere della nazione.

Il presidente, figura femminea e complessata, incapace di gestire con autorevolezza la massa dei notabili, sembra solo governare con infinita pazienza un esercito di piccole e sgradevoli figure le quali sanno di potere occupare il potere in maniera anarchica e amorale in quanto protetti dal Vaticano (la figura autoritaria di don Gaetano) e dal fatto di essere insostituibili alla guida del paese (il Pci , in quanto partito di Mosca, non può accedervi). Petri coglie questa verità politica e la dipinge con colori brutali e blasfemi, creando un teatrino di marionette disgustose e inverosimili, a capo delle quali c’è la figura di Moro che costituisce, non a caso, il principale bersaglio del film.


Moro, come noto, era il principale artefice della politica di compromesso con il Pci ed era a tutti evidente che la sua eventuale scomparsa avrebbe affossato quel tipo di accordo sgradito alle superpotenze. Erano in molti a criticarlo in maniera spesso aggressiva e violenta: sulla sua rivista OP, Pecorelli (iscritto alla P2), conduceva una serrata battaglia contro il presidente, spesso intitolando articoli con giochi di parole sul fatto che Moro doveva morire (“Il santo del compromesso: vergine, martire e...dimesso”, gen. 1976; “Aldo senza speranza: morire di smentite” mar.1976 ecc.) mentre Andreotti scrive un libro sulla morte di Pellegrino Rossi (ucciso il 15 nov. 1848 mentre andava a inaugurare il proprio nuovo governo), intitolato Ore 10: il ministro deve morire (1974), titolo che Pecorelli riprende in un noto articolo su Moro (Ore 13: quale ministro deve morire, set 1974; Ore 13: il ministro deve morire, giu 1975 ecc.).

Certamente anche il libro di Andreotti poteva essere letto come una sinistra minaccia all’amico/nemico Moro, tanto più che il sequestro in via Fani finisce con l’assomigliare al delitto di Pellegrino Rossi, ucciso da estremisti, probabilmente mazziniani, che non volevano un governo di compromesso moderato a Roma, delitto politico che apre le porte alla fuga del papa e alla instaurazione della repubblica romana (1849).


Alla luce di tutto ciò, appare evidente che Todo modo non è un fulmine a ciel sereno (il testo di Sciascia non prevede la figura di Moro: accanto a un don Gaetano satanista c’è un pittore....); il problema è che mentre gli articoli di Pecorelli e le allusioni andreottiane erano messaggi in codice per pochi, il film esplode all’interno della cultura popolare e può essere realmente efficace (soprattutto se si trasformasse in un grande successo come quello di Indagine) nel condizionare almeno parte del voto politico del giugno 1976.

L’immediato boicottaggio di tutte le forze culturali, politiche e infine giudiziarie del paese condanna l’opera al silenzio (anche nei decenni successivi resterà un film quasi invisibile, fino al restauro dl 2015), con grande rabbia di Petri che vedrà la sua opera, comunque meritevole di attenzione, snobbata e relegata in un angolo come un animale infetto.


Petri e l’estremismo politico, cui in qualche modo si legava, volevano invece la morte di Moro (e di fatto anche di Berlinguer), considerato un ostacolo sul cammino”inevitabile” della rivoluzione marxista in Italia.


Il film coniuga scenari degni di un film di fantascienza (memori de La decima vittima, 1965), musiche inquietanti assolutamente perfette (di Morricone) e un atteggiamento ferocemente grottesco che discende da Indagine e da La proprietà non è più un furto (Petri, 1973) e che approda a pagine esilaranti e memorabili. Tutta la parte del cosiddetto enigma relativo alla frase di Loyola Todo modo para buscar la voluntad divina mostra un Volontè scatenato nel disegnare un inedito Moro detective, dedito ad improbabili anagrammi al fine di scoprire le future vittime del killer.

Da un lato il sicario sembra uccidere per punire i democristiani dello loro eccessiva avidità e soprattutto della loro politica statalista che invade ogni campo della economia nazionale. Dunque si potrebbe dedurre che il mondo anglofono del capitalismo privato accusa la classe politica italiana di non lasciare sufficiente spazio alle multinazionali (paradossalmente proprio quelle citate come Sim nei comunicati delle Br): “cercare la volontà divina” potrebbe essere allora proprio questo ovvero eliminare gli ostacoli al potente capitalismo angloamericano eliminando Moro, il compromesso storico e una classe politica statalista. D’altronde con tangentopoli, la nostra rivoluzione “soffice”, sarà proprio questo ad accadere: nel nuovo orizzonte, privo della minaccia comunista, la Dc non serve più e viene liquidata senza troppi scrupoli mentre le principali banche e aziende italiane vengono privatizzate (1992-94).

Cercare la volontà divina significa anche questo: permettere agli angloamericani di affermare la propria filosofia economica e ideologia, liquidando una classe politica incapace e servile nei confronti di un Vaticano arcaico, dedito ancora a ridicole pratiche di autoflagellazione (la figura di Ciccio Ingrassia) e attraversato da una omosessualità dilagante (Moro stesso viene descritto come impotente, effeminato e segretamente attratto dal mondo omosessuale), mentre il nuovo corso prevede le più ampie libertà sessuali connesse con un’economia capace di vendere qualunque prodotto, senza curarsi di inutili freni morali.

Insomma i notabili Dc hanno tutte le colpe: si attardano in posizioni clericali antiquate (gli esercizi spirituali sono il segno stesso del loro anacronismo) e antieconomiche, proteggono corruzione e deviazioni omosessuali e alcuni di loro, guidati da Moro, flirtano perfino con i comunisti, al fine di coinvolgerli nel loro sottobosco economico, sganciandoli dalla sottomissione a Mosca. I fautori dell’opposizione netta e inconciliabile tra sistemi antagonisti (capitalista e comunista) si esprime perfettamente in questa pellicola apocalittica e rabbiosa che va intesa (anche per il dispendio di energie e di denari che essa ha implicato; si pensi al superbo cast) come una esplicita minaccia alla vita di Aldo Moro.


Negli scenari dello convento Zafer risaltano inquietanti statue di legionari romani che si accaniscono sulla figura di Cristo, esaltando un’idea neopagana (anglofona) e anticristiana che poi è quella che prende corpo durante la strage e di cui si fa carico innanzitutto il sicario Citti cui va affiancato lo pseudoAndreotti. La pellicola può anche essere intesa come lo scontro tra Massoneria (esplicitamente citata nel film) anglosassone, pragmatica e neopagana e universo cattolico, intesi come il nuovo e il vecchio a confronto, nella loro eterna guerra.


L’accusa a Moro di omosessualità appare del tutto infondata (al contrario era nota la sua passione per gli anagrammi, con i quali si cimenta per risolvere il mistero della strage, anagrammi che ancora oggi cerchiamo all’interno delle sue lettere spedite dal carcere Br) e funziona come un semplice ulteriore sfregio alla persona (quando pronuncia i suoi “comizi”, Moro è accompagnato da un allusivo colore rosa antico presente nel fondale dello scenario) e, forse, un’allusione, alla omosessualità dilagante nel Papato e in particolare a Paolo VI, la cui figura viene in qualche modo adombrata in don Gaetano.

Quest’ultimo si atteggia a vero e proprio padrone della Dc ovvero incarna un potere che è, di fatto, quello del papa. La confidenza e l’antica amicizia che sembrano legare Moro e don Gaetano è pertanto un ulteriore conferma del carattere simbolico della figura di quest’ultimo quale rappresentante del capo della Chiesa. Paolo VI era stato oggetto di ripetute accuse, malignità e forse di ricatti sessuali per la sua presunta omosessualità e per i suoi presunti rapporti con figure anche note come quella dell’attore Paolo Carlini (i denigratori arrivavano a dire che la scelta del nome era stato un omaggio all’amante... ); per quanto semplici voci, va detto che Paolo VI ritenne di doverle citare e scusarsi durante un discorso pubblico (proprio nell’aprile 1976, mese di uscita di Todo Modo; egli parlò di ”cose orribili e calunniose dette sul suo conto”), finendo così col dare ancor maggiore rilievo a dicerie note solo in alcune cerchie. L’argomento è tornato di attualità recentemente, durante il processo di canonizzazione (2018) di Montini.

Nell’inferno di Todo modo due soli personaggi si distinguono dagli altri ovvero lo pseudoAndreotti, determinato e autorevole, forse il mandante della strage per conto terzi, uomo di fiducia del mondo anglosassone e il gelido sicario, estraneo agli atteggiamenti puerilmente lamentosi dei notabili democristiani: sono loro il segno dei tempi nuovi che si apriranno, una volta tolti di mezzo gli ostacoli del “vecchio mondo”. Sono i segni di un pragmatismo ateo destinato ad affermarsi su tutto il resto in cui possiamo intravedere - due anni prima di via Fani - da un lato l’opera discreta e invisibile dei servizi e dall’altro la gelida freddezza assassina delle Br.




Tre anni dopo Petri firma la sua ultima pellicola, Buone notizie (ott. 1979; 100 min.),


film enigmatico che, a un esame attento e informato, risulta essere un’inquietante continuazione di Todo modo.


Il protagonista è un uomo ordinario e senza nome (Giancarlo Giannini), pettinato come il commissario di Indagine e, come quello, portatore di idee conservatrici o quanto meno qualunquiste. E’ un funzionario televisivo che lavora in un ufficio popolato di schermi sui quali scorrono le “buone” notizie di un universo sconvolto da rapine, attentati e da misteriose epidemie, notizie che tuttavia lasciano del tutto indifferente il protagonista, simbolo di quella ampia zona grigia che, in quegli anni, rimase indifferente alle esplosioni di violenza di ogni genere senza prendere posizione per nessuno e rimanendo anzi morbosamente interessato esclusivamente a questioni individuali relative al proprio soddisfacimento sessuale (unico argomento di cui si occupa con zelo). E’ un segno cui Petri guarda con grande sconforto, quale emblema stesso del fallimento di tutta l’attività estremistica di quegli anni (Br in primis). Il contesto esterno in disfacimento, solo accennato in Todo modo, viene ora illustrato in una Roma ove i rifiuti di ammassano ovunque e la gente è iperaggressiva. Quello che conta, tuttavia, è la quantità di criptici riferimento al caso Moro. Si parte con notizie relative ad alcuni blackout telefonici ed elettrici che avrebbero favorito alcune rapine (un blackout delle linee telefoniche garantì al commando Br e amici di potere agire in maggiore sicurezza in via Fani); si parla poi di un’esecuzione avvenuta con undici colpi di pistola (come i proiettili nel corpo di Moro). Lo spettatore dunque è avvertito: il contesto è quello del rebus Moro. Poco dopo si presenta al protagonista un vecchio amico Gualtiero Milano (Paolo Bonacelli), un professore ebreo (e il ghetto ebraico romano è, fin dall’inizio, un luogo in cui si sospetta che potesse esserci una delle prigioni fondamentali di Moro, soprattutto relative agli ultimi giorni) di sinistra, vagamente somigliante al regista che chiede aiuto al funzionario televisivo: qualcuno vuole ucciderlo. L’uomo non spiega il motivo anche se si intuisce che ne sia perfettamente consapevole e chiede all’amico di conservare una misteriosa pistola. Sembra trattarsi di una Walther PPK ovvero di una delle due armi (allora introvabile) che avevano sparato allo statista democristiano (fatto di cui, ovviamente, non si parla nel film). Gualtiero, che ha una svitata moglie francese (Aurore Clement), viene rinchiuso in manicomio dove qualcuno lo uccide con gli allusivi undici (forse dodici) colpi di pistola. Gualtiero lascia al funzionario una busta con scritto “non aprire”...

Anche le presenze degli attori hanno un senso preciso: Ninetto Davoli e Paolo Bonacelli rimandano nuovamente al cinema pasoliniano (come già Todo modo) e c’è anche un’aperta citazione del finale di Salò (non a caso un film su una strage di innocenti) allorché Bonacelli e Giannini si impegnano in un ballo tutto maschile; Angela Molina, moglie del protagonista, ha appena dismesso i panni di una terrorista compagna di Gian Maria Volontè in Ogro (Pontecorvo, 1979), pellicola spagnola che racconta l’attentato al capo del governo Carrero Blanco e che parve a molti inopportuna nell’anno successivo al delitto Moro.

Petri sembra dunque volerci parlare del delitto Moro, forse del suo senso di colpa per avere “ucciso” in anticipo l’uomo politico pugliese o forse, frequentando gli ambienti dell’estremismo (l’uomo è vicino alla cerchia di Autonomia operaia fin dai tempi de La classe operaia va in paradiso, 1971) ha saputo o visto qualcosa di scottante e ora si sente in pericolo, fino al punto di lanciare complicati messaggi (soprattutto relativi alla pistola e alla esecuzione della vittima, ma potrebbero essercene altri meno immediati) a qualcuno: la busta finale del professore (che contiene decine di altre buste, da aprire in caso di sua morte) è un evidente tentativo di avvertire coloro che forse lo minacciavano, alludendo a decine di documenti imbarazzanti inviati a uomini politici di destra e di sinistra (Gualtiero al manicomio ha, come vicini di stanza, importanti politici appunto di destra e di sinistra... ).
Gli incassi del film furono modesti.

La prima pellicola a occuparsi del delitto Moro, seppure in maniera simbolica e surreale, è Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante di strada (set. 1983; 100 min.) di Lina Wertmuller.



Vi si narrano le peripezie di un potente ministro dell’interno (Gastone Moschin), vagamente somigliante a Francesco Cossiga ma, in realtà, controfigura di Moro, il quale rimane prigioniero all’interno della sua auto blindata (la stessa 130 fiat di Moro, vista in via Fani, la quale, tuttavia, non era blindata sebbene il presidente democristiano e il suo caposcorta Leonardi chiedessero da mesi, appunto, un’auto blindata... ): la modernissima chiusura ermetica, di fabbricazione giapponese, non consente all’uomo e al suo autista di uscire dalla vettura. Come in un contrappasso dantesco il ministro dell’interno, simbolo di quello stato che aveva mandato allo sbaraglio Moro negandogli l’auto blindata, diviene ora ostaggio di quel congegno. L’amico e parlamentare De Andreiis, anch’egli democristiano, lo ospita nel garage della sua lussuosa villa al Gianicolo mentre un trio di carabinieri (tra cui Renzo Montagnani) monta una ferrea guardia: nessuno deve sapere della ridicola situazione. Intanto, con molta calma e in un clima di generale lassismo, si alternano i migliori tecnici che, invano, cercano di liberare l’uomo politico. La moglie (Piera degli Esposti) di De Andreiis, invece, coltiva da anni una relazione con il terrorista Gigi Pedrinelli che, proprio in quei giorni, è evaso dal carcere (come Prospero Gallinari, uno dei presunti carcerieri di Moro) e si nasconde nei sotterranei della villa, popolata da enigmatiche statue romane (memori di quelle del convento Zafer). Non solo. La bizzarra coppia decide addirittura di preparare un volantino in cui si rivendica il sequestro del ministro dell’interno... Nel bunueliano finale tutti i personaggi di questa Italia grottesca e pirandelliana finiscono prigionieri della vettura e vengono dissolti...
Sebbene piegata a una narrazione simbolica e allusiva, spesso fiacca e monocorde, la vicenda esprime una satira coerente intorno alla tragica vicenda Moro: il De Andreiis (il nome rimanda a un affiliato P2, il giornalista Stefano De Andreis ma anche, ovviamente, ad Andreotti il quale aveva chiara simpatia per Gelli e la sua loggia), rivale del ministro democristiano verso il quale nutre soggezione e antipatia, di fatto lo tiene segregato nel proprio garage, con la complicità attiva delle forze dell’ordine e anche di un brigatista evaso, figura sbiadita e inoffensiva (quasi a esemplificazione del detto paradossale secondo cui a via Fani c’erano anche le Br) il cui legame con la ricca e insulsa signora De Andreiis testimonia della ben nota vicinanza esistente tra certa “borghesia ricca e “illuminata” e i protagonisti della lotta armata. Tuttavia, mentre De Andreiis, la moglie, i carabinieri e il brigatista sono figure necessarie ma accessorie, ciò che realmente tiene bloccato l’uomo politico è la blindatura perfetta, di manifattura straniera ovvero l’implacabile complotto internazionale dei servizi che spadroneggiano nella nostra repubblica notoriamente a “sovranità limitata”: è questo il destino in realtà poco scherzoso che attende Moro in agguato dietro l’angolo, come un brigante di strada (ossia un brigatista).

Lo sguardo della Wertmuller è cinico e leggero: gli Italiani vengono dipinti come commedianti irresponsabili, accecati dalle proprie esigenze individuali (di potere o di arricchimento) e incapaci di governare il proprio futuro.
Gli incassi furono molto modesti.




Il primo film ad affrontare di petto la tragedia di via Fani è Il caso Moro (nov 1986; 105 min.) dello specialista Giuseppe Ferrara


(già autore di Cento giorni a Palermo, 1982. sulla figura di Carlo Alberto Dalla Chiesa), basato sul libro I giorni dell’ira (1980) dell’americano Robert Katz, poi rivisto in una sceneggiatura firmata dal regista con Armenia Balducci (tra l’altro moglie di Gian Maria Volontè).
La pellicola ripercorre in maniera fedele e documentata i 55 giorni, dall’agguato di via Fani al momento del ritrovamento del cadavere in via Caetani, si attiene sostanzialmente alle risultanze del primo processo (concluso nel 1983) e mette in scena un Moro di eccezionale spessore umano e politico (Gian Maria Volontè) intorno al quale si muovono marionette senza vita ovvero i politici ridotti a manichini come in certo cinema didattico di Rossellini (soprattutto Anno Uno, 1974), e i brigatisti rappresentati come volonterosi, infervorati giovani protesi nel tentativo di migliorare una società che non li ascolta... Infatti mentre questi ultimi vengono guardati con evidente simpatia dal regista, fino al punto da prospettare una stravagante, umana sintonia con il sequestrato, i veri cattivi risultano essere gli uomini dei servizi segreti (in particolare la figura ispirata al celebre colonnello Camillo Guglielmi che era in via Fani, senza un ragionevole motivo,la mattina del 16 marzo) i quali manovrano le Br a loro insaputa e ovviamente il gelido Andreotti al quale - risulta chiaro anche se non viene detto in modo esplicito - si imputano le maggiori responsabilità nell’avere sabotato tutte le possibili vie d’uscita (ovvero le molteplici trattative in corso).

Ferrara ha certamente il merito di illuminare con spregiudicata chiarezza il ruolo dei servizi, veri protettori dei terroristi i quali ”lavorano” in favore di Andreotti e della destra democristiana senza saperlo. In questo senso il film anticipa il celebre testo di Sergio Flamigni La tela del ragno (1988) e la sua lucida visione cospirazionista. I servizi agiscono nelle sedi ministeriali a contatto con il premier ed è evidente che solo da lui essi possono ricevere il benestare per agire in quel modo terribile, di fatto affrettando l’esecuzione del sequestrato nei giorni finali. Questo è certamente il merito maggiore del film che, infatti, fu fortemente osteggiato dalla Dc.


Il ritratto dei brigatisti è però inverosimile e falso: avere ridotto a teneri idealisti, tra l’altro ridicolmente preoccupati, in modo quasi servile, del benessere del loro prigioniero, dopo che hanno trucidato la scorta di Moro senza il minimo dubbio e la minima pietà (e che continueranno a uccidere negli anni seguenti), appare una grossa ingenuità ed è uno scotto che un regista di sincera fede comunista come Ferrara paga alla propria mentalità, in un’epoca in cui l’utopia marxista è ancora in vita (seppure alle sue ultime battute). Tra l’altro i pochi indizi che abbiamo relativamente al modo in cui fu detenuto Moro, parlano di catene ai polsi (tali e quali a quelle usate dalle Br per l’armatore sequestrato Pietro Costa nel 1977, tenuto su un giaciglio per 81 giorni): così appare in un video visionato per pochi secondi da alcuni poliziotti e sequestrato nel covo di Giovanni Senzani nel 1982 (si veda il recente libro di Marcello Altamura su Senzani), video fatto immediatamente sparire e di cui, di tanto in tanto, si torna a parlare (secondo le necessità ricattatorie di qualcuno verso qualcun altro).

D’altronde la Braghetti, e in seguito l’enigmatico Germano Maccari (arrestato nel 1993, morto in carcere nel 2001) affermano di non avere mai parlato con Moro in via Montalcini e quindi tutta la ricostruzione della vita “domestica” in quell’appartamento appare oggi fasulla. Sappiamo ormai con quasi totale certezza che quella di via Montalcini è stata una commedia inscenata dai brigatisti (in accordo col Potere) per avere sconti di pena; sappiamo che Moro fu quasi certamente portato subito in via Massimi 51, poi forse a Fregene o in altra prigione sulla costa laziale e infine nel ghetto ebraico (si vedano i testi di Flamigni e Cucchiarelli sull’argomento); già allora, negli anni ottanta, tuttavia erano molte le perplessità su quel covo che Ferrara invece accetta pedissequamente.


Il regista ha certamente ragione nel proporre una manovalanza Br convinta e ingenua; egli però evita di approfondire la figura di Moretti e di una sua eventuale segreta alleanza con i servizi; in ogni caso Ferrara non afferma neanche l’opposto e lascia il capo ufficiale delle Br in una sua indefinita ambiguità. Anche la rappresentazione del garage in cui viene ucciso Moro è del tutto incongruente con il vero garage di via Montalcini che era di una grandezza standard (ci stava solo la Renault 4). Invece il garage del film somiglia a quello descritto da Cucchiarelli (testo del 2018) del ghetto ebraico, ampio e idoneo all’esecuzione.

E’ una delle ambiguità della pellicola che, a tratti, sembra volere infrangere i luoghi comuni della versione ufficiale. Ad esempio Moretti saluta gli uomini della moto Honda in via Fani, mentre il vero Moretti ha sempre detto che non c’erano Honda durante l’agguato: è un altro punto oscuro del film che, se da un lato, riduce l’agguato all’opera di soli brigatisti (più la Honda “arruolata” tra le Br), dall’altro mette in scena con puntigliosa precisione l’evento (anche se l’incrocio di via Fani appare singolarmente deserto, quasi fossimo in una mattinata di agosto e non di marzo), posizionando la Mini Morris (che da qualche anno sappiamo essere stata nella disponibilità dei servizi segreti) nell’esatto punto in cui era, alla destra della Fiat 130 di Moro, lì parcheggiata al fine di impedire la svolta a destra dell’auto del presidente. La semplice presenza di questa auto stabilisce, una volta per tutte in maniera inequivocabile, che l’azione di via Fani fu un’azione sponsorizzata da settori importanti dello Stato (quelli piduisti che, in quei mesi, detenevano il potere) animati da sicura fede conservatrice e altrettanto certa fedeltà atlantica; certo non da tutti i settori della vita politica e neppure da tutte le componenti della Dc che, come noto, era un arcipelago di correnti divise, distinte e spesso in guerra tra loro.
Le Br furono attori largamente inconsapevoli in questa tragedia: quando la protezione nei loro confronti andrà scemando (nel corso della prima metà degli “spensierati” anni ottanta) i terroristi verranno arrestati uno dopo l’altro, cominceranno a comprendere l’odioso labirinto in cui erano finiti e cercheranno di uscirne contrattando col potere il proprio silenzio (su numerose questioni essenziali, a partire dagli scritti di Moro) in cambio di sconti di pena. La posizione soccombente dei terroristi viene perfettamente illustrata dal film anche se tutti i dettagli (dal finto covo ai ritratti dei brigatisti-“boy scout”) sono imprecisi e accomodanti.

La pellicola riscosse un buon successo commerciale.

Cinque anni dopo il film americano (targato Columbia/Sony) di John Frankenheimer L’anno del terrore (The Year of the Gun; 1991;
110 min; uscita in Italia nov. 1992 )

ispirato al libro omonimo (1984; inedito in Italia) di Michael Mershaw, rovescia totalmente la visione delle Br.
Nel febbraio 1978, in una Roma lacerata da scontri di piazza, sequestri e rapine arrivano David e Alison, due giornalisti americani (Andrew McCarthy e Sharon Stone) decisi a indagare sul fenomeno delle Br. Fa loro da tramite Italo Bianchi, un ambiguo professore universitario (John Pankow) che sembra avere segreti contatti con la banda armata. Nel frattempo David, su suggerimento di un editore americano, forse della Cia, si inventa un romanzo in cui le Br rapiscono Moro; la faccenda giunge alle orecchie del capo dei terroristi, Giovanni (Mattia Sbragia; è curioso, forse non casuale, che si tratti dell’interprete di Mario Moretti nel film di Ferrara), il quale decide di eliminare tutti coloro che, in qualche modo, sono venuti a sapere di questo romanzo il quale, senza volerlo, anticipa la realtà. I terroristi, un gruppo di figure sinistre e scostanti, quasi certamente di derivazione medio-alto borghese, picchiano e ammazzano senza pietà chiunque si trovi sul loro percorso. Il film termina con l’agguato di via Fani (ritratto in maniera più generica rispetto alla ricostruzione attenta anche se incompleta di Ferrara) e con la “grazia” concessa ai due giornalisti il cui compito è documentare e amplificare le gesta delle Br.
L’anno del terrore è innanzitutto un ottimo thriller che tiene avvinti gli spettatori, sebbene racconti eventi in buona parte noti. La cosa sconcertante del film, probabilmente la ragion d’essere dell’intera operazione poco fortunata quanto a esito commerciale, consiste nel descrivere l’ambiente dei terroristi come relativo a una borghesia intellettuale, invasata dalla ideologica marxista e pronta a qualunque crimine in nome dell’utopia comunista. In particolare la figura del capo non è Moretti (che si intravede tra i terroristi di seconda fila) ma è Giovanni (non a caso, si è detto, l’attore che, altrove, interpretava Moretti) il cui aspetto fisico non può che rimandare a Giovanni Senzani, figura ambigua che tutti i processi e le Commissioni Moro si sono ben guardati dall’incolpare del sequestro Moro. Lui stesso si professa estraneo alla operazione (ma sarà l’ideatore di altri sequestri molto simili come quello dell’assessore campano Ciro Cirillo e quello di Roberto Peci, durato anch’esso 55 giorni circa e finito in maniera cruenta come quello dello statista democristiano). D’altronde anche nel celebre fumetto di Metropoli (1979) il compagno Blasco che guida le Br altri non è che Senzani. Siccome quest’ultimo era un stimato professore universitario con conoscenze ad alto livello nei ministeri italiani, nei servizi segreti militari e presso le rappresentanze americane in Italia, la sua eventuale presenza alla guida del commando di via Fani e nella delicata questione degli interrogatori di Moro, porrebbe l’intera operazione in un contesto ideale ambiguo e prossimo ai servizi segreti italiani e americani. Insomma Senzani in via Massini 51 si collocherebbe nel solco della Mini Morris parcheggiata abilmente allo stop di via Fani da persone dei servizi. D’altronde ormai da più parta nella pubblicistica si individua nel professore fiorentino un profilo adeguato a spiegare il tipo di interrogatorio particolareggiato e competente subito dal prigioniero (e documentato nel famoso Memoriale), del tutto incompatibile con le figure poco “preparate” dei brigatisti noti (da Gallinari a Moretti, dalla Braghetti a Maccari). Il film non esita a calcare la mano sull’indicazione di Senzani: nelle strade di Roma ci sono sinistri manifesti Br che mostrano l’esecuzione spietata di presunti delatori, evento pressoché fantasioso nel febbraio 1978 che però anticipa la tragedia di Roberto Peci, sequestrato e giustiziato dopo una lunga prigionia, da Senzani e da alcuni suoi sodali nel 1981.


La corrente di velata simpatia per i terroristi che attraversa le pellicole dedicate a via Fani da registi di sinistra (Ferrara, 1986; Bellocchio, 2003) è radicalmente assente in questo film americano in cui l’eroe è il tipico giornalista ingenuo, solitario e generoso che si trova stritolato in una crudele macchinazione mossa da gente disumana e fanatica, annebbiata dalle ideologie. Questi terroristi rossi non sono differenti dai tanti terroristi islamici ritratti con feroce antipatia nel cinema di Hollywood. David somiglia dunque al celebre Condor (Robert Redford) in quello che è, forse, il film più emblematico degli anni settanta (I tre giorni del condor, Pollack, 1975), trovatosi, senza volerlo, a conoscere segreti pericolosi e a divenire un bersaglio in movimento di forze occulte e spietate. Le Br di Frankenheimer si muovono agevolmente in mezzo alla borghesia illuminata di Roma (basti vedere i lussuosi ambienti in cui si aggirano) e contano su conoscenze e protezioni importanti; si intuisce la loro appartenenza a settori più o meno coperti del Potere, così come nel film di Pollack c’era una Cia segreta dentro la Cia.


Il film offre un modello interpretativo radicalmente differente, pone in imbarazzo l’universo culturale italiano (come noto egemonizzato dalle sinistre) e viene sommariamente liquidato dalla critica come una pellicola inutile e fantasiosa, girata da uno straniero che “non capisce” la realtà italiana. Invece, proprio perché nato all’infuori del contesto italiano, L’anno del terrore sembra contenere importanti rivelazioni (su Senzani come pure sulle metodologie semplicemente criminali che albergano nelle Br) che, nella penisola, tutti (destra e sinistra per motivi opposti ma, in fondo, convergenti) preferiscono non vedere.



Renzo Martinelli, già autore del coraggioso Porzus (1997), firma con Piazza delle cinque lune (mag. 2003; 125 min.), il migliore film sul caso Moro,

opera che, non a caso, si avvale della consulenza di Sergio Flamigni (probabilmente il maggiore studioso dell’argomento) e della approvazione della famiglia dello statista.

La vicenda è impostata come un thriller retrospettivo. A Siena (la città, ritratta in maniera eccessivamente turistica, occupa largo posto nell’opera, non a caso finanziata anche dalla banca del Monte dei Paschi) Rosario (Donald Sutherland), un magistrato in pensione, coadiuvato dalla ex assistente Fernanda (Stefania Rocca) e dalla ex guardia del corpo Branco (Giancarlo Giannini), indaga sul sequestro Moro. Un ex brigatista gli ha fornito un filmato in superotto dell’agguato di via Fani e perfino il Memoriale completo e autografo.

Tra minacce, rapimenti e omicidi il cammino del terzetto viene ostacolato in ogni modo da misteriosi sicari. Infine Rosario viene convocato a Roma, in Piazza delle cinque lune (dove c’è un ufficio dei servizi segreti) per consegnare ad autorità che crede affidabili il frutto delle sue ricerche; invece, come nell’enigmatico finale di Indagine (Petri, 1970), si trova di fronte un gelido schieramento di autorità al centro delle quali figura Branco...


La pellicola inizia in maniera magnifica con l’idea del filmato clandestino di via Fani in cui, tra l’altro, si dice con chiarezza che i sicari spararono anche da destra e sono ben visibili sia la coppia sulla moto honda, sia il colonnello Guglielmi. I brigatisti operano in lontananza in questo film (come in quello di Frankenheimer), si parla poco di loro presi singolarmente mentre si indaga solo sui livelli alti, si manovratori che stanno nelle stanze del potere. Certo la parte centrale del film è inutilmente verbosa e didattica: siamo di fronte a un efficace riassunto delle tesi di Flamigni, in cui si sente l’esigenza di spiegare tutto (forse troppo; perfino la storia iniziale delle Br, il passaggio dalla gestione Curcio a quella Moretti, la morte di Pecorelli ecc.) con esiti utili per una generica divulgazione di tesi, comunque, poco note ma scontate per lo spettatore informato.

Dopo questa sezione documentaristica, la storia riprende e trova un altro momento alto nel dialogo parigino tra il magistrato e l’Entità (Murray Abrahams), un passo filmico chiaramente ispirato a quello centrale di JFK (Stone, 1992), laddove il giudice Kevin Costner incontrava il misterioso uomo politico interpretato proprio da Donald Sutherland.

Con tale incisiva sequenza Martinelli illustra la “disumana” realtà della scuola Hyperion, copertura per un’agenzia della Cia che coordina gli sforzi soprattutto europei volti a frenare l’avanzata del comunismo al di qua della cortina di ferro. Si chiarisce anche la coincidenza di interessi Usa-Urss nel fermare Moro la cui politica avrebbe giustificato una differente concezione del marxismo-leninismo rispetto alla sua tesi centrale, relativa alla obbligatorietà della rivoluzione per il passaggio alla fase comunista della storia; avrebbe insomma creato un secondo polo di attrazione della Internazionale comunista e, probabilmente nel lungo periodo, uno sganciamento del Pci da Mosca. L’episodio finale (la sconfitta di Rosario) è anch’esso efficace e serve a chiarire come sia impossibile venire a capo dei misteri protetti dal potere, un potere che non esita ad ammazzare chiunque, anche una coppia di bambini (i figli di Fernanda), per mantenere se stesso in sicurezza.


Il quadro complessivo è notevole, non tanto e non solo per le poche novità aggiunte (ovviamente non si azzardano “spiegazioni” intorno al Memoriale completo che scompare subito nei labirinti del Potere; sulle lotte e i ricatti politici esplosi intorno a questo scottante documento, oggi sempre incompleto dopo i ritrovamenti del 1978 e 1990 in via Montenevoso a Milano di un testo parziale attentamente “selezionato” dai poteri occulti, si veda il definitivo studio di Miguel Gotor del 2011) quanto per il fatto che il racconto illustri con forza la consapevole certezza che è impossibile accedere alla verità da parte della gente comune.

C’è dunque un fossato incolmabile tra coloro (non pochi - duecento/trecento persone affermava lo specialista De Lutiis) che sanno e coloro che non sanno e non devono sapere. L’intera verità ufficiale sul caso Moro, quella che in parte viene confermata perfino da film (di Ferrara e Bellocchio) che si vorrebbero coraggiosi e di rottura, viene considerata da Martinelli/Flamigni come una recita fasulla volta ad accontentare masse distratte, che si accontentano di una qualunque spiegazione, anche se piena di incongruenze e inverosimiglianze. Su via Montalcini ad esempio, lo scetticismo è totale come sulla figura stessa della “sfinge” Moretti, definito un “capo anomalo” (ovvero consapevole e probabilmente complice dei servizi), ritratto peraltro sempre in lontananza.

A Martinelli non interessa la retorica sui compagni che sbagliano e sul contesto sociale che avrebbe causato la scelta armata, tematiche giustificazioniste che aleggiano nei film di Ferrara e Bellocchio; come JFK (Stone, 1991), Piazza delle cinque lune cerca solamente di svelare il complicato meccanismo criminale - in cui si fondono servizi di destra, criminalità mafiosa e manovalanza di sinistra - che ha prodotto l’annullamento di Moro e della sua pericolosa politica filocomunista dal quadro nazionale.

E’ in definitiva lo stesso quadro che si trova dietro alle stragi (piazza Fontana e piazza della Loggia) con l’unica differenza che la manovalanza è in quei casi di destra (dopo il tentativo, presto dissolto dalle indagini, di implicare Valpreda nella strage del 1969 al fine di potere attribuire la bomba alle sinistre anche se si trattava di un anarchico, lontano dall’ideologia comunista tradizionale; peraltro Cucchiarelli, ne Il segreto di piazza Fontana del 2009, ha sollevato il dubbio che gli anarchici abbiano realmente messo una bomba nella banca dell’Agricoltura, anche se pensata come dimostrativa e incruenta, una bomba che doveva esplodere a banca realmente chiusa e deserta).

Il film di Martinelli è stato un fiasco commerciale.




La complessa ed intensa pellicola Buongiorno notte (set 2003, 100 min) di Marco Bellocchio


costruisce una fantasia inquieta intorno al sequestro Moro. Ispirandosi liberamente alle memorie della brigatista Anna Laura Braghetti all’inizio l’autore sembra avvalorare la versione ufficiale (lo statista democristiano imprigionato in via Montalcini ed ucciso da Mario Moretti), ma poco a poco inserisce un numero tale di digressioni fantastiche ed allusive da rendere il contesto solo probabile, trasformandolo in un fondale per una riflessione a tutto tondo sulla storia italiana tra terrorismo, Resistenza e melodramma.

Certo nel suo complesso la pellicola delude: con la scusa di ispirarsi al testo della brigatista, probabilmente fantasioso e concordato (così lo considerano anche i massimi specialisti della caso, da Flamigni a De Lutiis a Cucchiarelli), e acconsentendo a realizzare un film su commissione per la Rai (ente che ha sempre sponsorizzato soprattutto la versione ufficiale e raramente ha dato spazio, in orari proibitivi o su reti secondarie, alle versioni alternative), pellicola che sembra anche volere essere una risposta polemica nei confronti delle tesi del coevo film di Martinelli e, in sostanza, tranquillizzante (nei confronti dell’opinione pubblica). Il regista più ribelle del cinema italiano, i cui Pugni in tasca (1965; vedi) avevano inaugurato in anticipo la stagione del ’68, si ritrova ora, sul caso Moro, in compagnia dei fautori della conservazione. Diremo però che l’autore accetta il tutto con molte riserve e finisce col corrodere dall’interno quelle tesi, in maniera subdola e criptica.

Il racconto è visto con gli occhi della giovane Braghetti rinominata Chiara (Maya Sansa), terrorista austera ma anche sensibile al brutale destino del sequestrato e si svolge quasi interamente all’interno dell’appartamento di via Montalcini. Intorno a lei Maccari e Gallinari (con nomi differenti per riaffermare una certa lontananza dalla realtà storica) appaiono, chi più chi meno, ligi alla disciplina imposta dal capo Moretti e da un misterioso direttivo nazionale. Bellocchio descrive i suoi terroristi con grande indulgenza e simpatia, come già aveva fatto Ferrara: sono “compagni che sbagliano”, infervorati dallo Zeitgeist del periodo, dal mito del marxismo-leninismo e di una rivoluzione russa immaginata attraverso le immagini dei documenti sovietici e dalla certezza di rappresentare le avanguardie di una rivoluzione alle porte. Certo conciliare questi “bravi ragazzi”, sensibili e pieni di dubbi con gli assassini spietati di via Fani e di tante altre brutali esecuzioni in strada è pressoché impossibile.

Tuttavia è il prezzo da pagare allorché si affida a registi di sinistra (spesso estrema; Bellocchio fu sempre critico anche col Pci negli anni settanta) il compito di narrare questa storia. In ogni caso l’autore ne approfitta per creare una ammirevole riflessione sulle conseguenze di quella propaganda rivoluzionaria acritica e martellante, soffocante e fasulla, importata meccanicamente nella penisola da realtà esterne assai diverse, che si era insinuata in numerose menti come in quella della giovane Chiara. Le parti migliori del racconto sono dunque quelle fantastiche, in cui il regista dà corpo alle visoni notturne della sua protagonista, totalmente immersa in un universo astratto, popolato da eroi della rivoluzione russa e vittime del fascismo della Rsi; in nome di queste astrazioni ella decide di divenire un’assassina anche se di fronte alla mitezza disarmata di Moro prigioniero il dubbio comincia a corrompere le sua certezze.

Lo smarrimento di fronte alle folle che sostengono Lama (contro di loro) e alle parole taglienti di Moro sulla loro filosofia fanatica, degna dell’epoca delle crociate cristiane, segnano la sua mente (quella di una figura simbolica di un’epoca, non quella della reale Braghetti che continuerà, anche dopo il 1978, a operare in maniera sanguinosa dentro le Br) e la portano a desiderare la salvezza per il suo acerrimo nemico, ora visto come un semplice uomo in pericolo. Insomma il fanatismo ideologico, vera malattia brigatista che non permette loro di comprendere che qualcuno li sta usando, tende a dileguare nella giovane. La sua ribellione a Moretti mette in luce anche le ambiguità di quest’ultimo e insinua, in alcune blande espressioni, che forse anch’egli è coinvolto con i piani alti del Potere. Ma in questa direzione Bellocchio non poteva spingersi troppo oltre, per non deludere la sua committenza statale e conservatrice. Egli allora si serve di qualche immagine enigmatica per alludere ai veri autori del sequestro: la più interessante è certamente quella in cui, alle spalle della protagonista che compra i giornali, compaiono affiancate e le insegne Snack Bar e Mosca insieme a un cartello relativo al Papa.

Il regista sembra dirci che le due superpotenze (Usa e Urss) sono, in modo concorde, i mandatari del crimine, affiancate ai settori più conservatori del Papato; quest’ultimo, di fatto, non fece nulla ed anzi, forse concesse, in via Massimi 51, un appartamento di proprietà dello Ior quale prima prigione di Moro, evento che, se appurato con certezza, aprirebbe scenari devastanti e complicità esplicite della destra vaticana (forse guidata dall’americano Marcinkus, già molto influente nell’era di Paolo VI).


Bellocchio prende le distanze dai suoi zelanti terroristi anche nella scelta del titolo del film, la bella poesia di Emily Dickinson il cui significato è “buongiorno orrore” e con la figura del bibliotecario, amico di Chiara ovvero un giovane che rappresenta quelle idee tradizionali di sinistra che continuavano a condannare, in modo netto, la violenza brigatista. L’ironia del regista si esercita anche su questo personaggio: l’unico spiegamento di forze dell’ordine lo vediamo impegnato nell’inseguire proprio lui (sospettato di avere disegnato un simbolo Br), figura inoffensiva ed anzi schierata con le sostituzioni, mentre in via Montalcini tutto procede nella massima tranquillità. Il sistema mostra una efficienza da parata mentre si guarda bene dal disturbare i veri brigatisti che “stanno lavorando” per il sistema come dirà, nelle ultime battute, una lacerata Chiara, nel tentativo estremo di salvare Moro.


Il rifiuto dell’orrore della “notte” trova anche una magnifica dimensione musicale con il brioso Momento musicale (pianistico, ma qui in versione sinfonica) di Schubert, composizione che commenta tutti i momenti onirico-utopici del racconto, compresa la fuga all’alba di Moro la cui “felice passeggiata”, comunque, va a infrangersi sulla immagine monolitica del palazzo dell’Eur (1942), architettura simbolica dell’era fascista. Fondamentali appaiono inoltre il perfetto utilizzo delle musiche dei Pink Floyd: il vago e poetico incipit della lunga suite Shine on You Crazy Diamonds (da Wish You Were Here, 1975, pagina che non a caso esprime rammarico e nostalgia per una figura assente) accompagna più di una volta i dubbi della protagonista mentre solo nelle ultime immagini, allorché la decisione di uccidere Moro è stata presa, l’incipit si prolunga fino a lasciar risuonare il drammatico, scolpito tema della Part III, a sottolineare l’affermarsi di un evento tragico.

Altrove l’uso del magnifico vocalizzo che domina The Great Gig of the Sky, da The Dark Side of the Moon (1973) funziona come un commosso requiem (la pagina di sapore soul affidata alla voce della cantante di colore Clare Tory, si innalza con un'intensa campata melodica la quale, nel suo faticoso salire ed inevitabile ridiscendere, comunica, con un calore degno del melodramma italiano, un sentimento di profonda tristezza) e commenta con suggestiva coerenza sconvolgenti immagini di morte (esecuzioni di partigiani, in parte riprese dal finale di Paisà di Rossellini, in parallelo con le ultime, dolenti parole di Moro). Bellocchio arriva ad avvicinare l’esecuzione dello statista a quella dei partigiani, prendendo le distanze in maniera radicale dalla lotta armata.


Il lirismo quieto e disperato dei Pink Floyd è un commento sonoro ineccepibile, che esprime il dissidio che anima una generazione insoddisfatta, tesa al cambiamento e, a tal fine, capace di intraprendere strade orribili. Inoltre tale scelta musicale possiede quasi certamente un significato nascosto: in una sequenza si rievoca una ben nota seduta spiritica durante la quale personaggi eccellenti (tra i quali compare lo stesso Bellocchio al fine di dare maggiore importanza all’episodio), interrogando uno spirito burlone sul luogo della prigionia di Moro, ottengono come risposta “la luna” (e non Gradoli).

Anche nel soundtrack dei Pink Floyd compare la luna ed essa implica un “lato oscuro” come oscuro è a tutt’oggi il luogo in cui fu realmente tenuto prigioniero il dirigente democristiano e misteriose rimangono numerose altre questioni connesse a quel rapimento (al punto che appare corretto parlare di un vero e proprio labirinto Moro). Anche con questo sottile rimando musicale il regista emiliano prende le distanze dalla comoda versione ufficiale. In definitiva egli sembra smentire il suo stesso film quale pretesa ricostruzione realistica per farne un oggetto assai più sfaccettato, allusivo e complesso.
La pellicola ottenne un buon successo commerciale.

In occasione del trentennale del delitto, Tavarelli gira per Mediaset la miniserie Aldo Moro Il presidente (mag 2008; 170 min.), un lavoro che. come si poteva immaginare, rimane fedele alla versione ufficiale in maniera ferma e implicitamente polemica. Gi attori in campo in questa ricostruzione, peraltro professionale e adeguata nell’insieme (ambientazione, recitazione, ritmo narrativo... ), sono rigorosamente due: il fronte brigatista totalmente italiano, autonomo e preparato sotto ogni aspetto (come recita il noto libro-intervista di Mario Moretti del 1994, a ribadire la curiosa “sintonia” tra terroristi e destra conservatrice impersonata, in questo caso, da Mediaset) e il livello istituzionale debole, sorpreso e incapace di reagire.

Manca qualunque collegamento tra i due fronti: mancano il colonnello Guglielmo, l’elicottero senza insegne e la Honda in via Fani, manca un qualunque controllo dei servizi su via Montalcini, ovviamente sede unica della prigione di Moro (tesi, come si è detto, screditata fin dagli anni novanta) mentre si mette in scena la goffa versione di Morucci e Faranda relativamente al triplo trasbordo del prigioniero dentro un’ingombrante cassa in differenti punti di Roma, al fine di arrivare da via Fani (nord di Roma) a via Montalcini (Magliana, zona sud). Moretti cerca perfino di spiegare (implicitamente ai “dietrologi”) che Moro non fu sequestrato nella chiesa dove si recava ogni mattina (si sarebbe evitata la strage della scorta) per svariati (e opinabili) motivi.


Nella seconda parte, relativa alla prigionia dell’uomo politico, il film diviene maggiormente problematico: appare evidente che lo stato, incarnato dal solo, gelido e potente Andreotti (al quale si contrappongono, per senso umanitario, non solo Zaccagnini e Fanfani ma perfino Cossiga) vuole che Moro esca di scena mentre sul fronte brigatista la durezza di Morucci, Faranda e Maccari nelle contestazioni alla linea dura di Moretti si ammanta di qualche lieve sospetto intorno alla buona fede di quest’ultimo. Molto poco, comunque, in una pellicola televisiva che possiamo classificare come quella più aderente alla ipocrita verità ufficiale.

Dal punto di vista filmico il lavoro si avvale degli ottimi contributi di Michele Placido (un Moro attivo e decisionista, che non fa rimpiangere Volontè) e di Marco Foschi (Moretti), mentre la seconda parte offre anche qualche spunto originale come gli scontri tra l’indisciplinato Maccari (che freme per rivedere, di tanto in tanto, la sua fidanzata) e il rigido Gallinari (conflitto documentato dalle dichiarazioni in tribunale di Maccari) e dalle indagini, ritardate ad arte dalla burocrazia filoandreottiana, sulla tipografia di Triaca, complice delle Br.

Infine il garage della esecuzione risulta nuovamente ampio e irrealistico (come già nel film di Ferrara, al quale, in definitiva, somiglia molto la fiction di Tavarelli) al fine di rendere credibile la versione dell’omicidio conclusivo di Moretti e Gallinari; pertanto il box standard della Braghetti si trasforma in una sorta di garage doppio.



Agli antipodi di tutta la produzione sul caso Moro si pone Se sarà luce sarà bellissimo (2008; 85 min.) di Aurelio Grimaldi,


pellicola semisconosciuta che sembra fosse pronta già intorno al 2004. Il film viene ospitato in alcuni festival minori per poi uscire solo in dvd.
Grimaldi sembra proporre le medesime situazioni di Buongiorno notte, viste però da un’ottica rovesciata in quanto il film evita qualunque sentimentalismo e non indulge ad alcun giustificazionismo; i personaggi sono tutti ugualmente sgradevoli ed è impossibile identificarsi con chiunque: sequestratori e sequestrato sembrano appartenere a dimensioni umane e ideologiche inconciliabili.
Grimaldi è l’unico regista a non mettere in scena l’agguato di via Fani (forse anche per ristrettezze produttive: il film si svolge tutto in interni) e a iniziare il racconto con Moro (Roshan Seth) già prigioniero in via Montalcini dove il solito quartetto di brigatisti (anche se con nomi cambiati) lo interroga con modalità scostanti e violente; i brigatisti si interrogano anche sul fatto se sia il caso di usare la tortura per estorcere a Moro segreti che egli cerca di non volere confessare. D’altro lato il sequestrato è ritratto con evidente disprezzo, come un politico potente e cinico, poi anche piagnucoloso; verso di lui l’autore, che sembra aderire a posizioni di estrema sinistra (comunque non favorevoli alla lotta armata), non mostra alcuna simpatia ed anzi lo ritiene un abile “incantatore” che aveva saputo prima annullare il Psi (negli anni sessanta) ed ora il Pci di Berlinguer. Per Grimaldi non esiste Jalta, né il divieto alle forze comuniste di accedere al potere; non esistono neppure servizi segreti invasivi e operanti dentro la realtà brigatista. In questa insolita visione, aliena da tutta la letteratura “dietrologica” che si è dipanata fin dai primi anni ottanta con esiti sorprendenti e chiarificatori, il caso Moro è il semplice contrapporsi di due realtà rigidamente divise e contrapposte: il sistema politico e i rivoluzionari comunisti, questi ultimi situati al di là dell’arco costituzionale, della vasta area controllata dal Pci e dai sindacati; vi è l’interessante struttura a storie parallele a confermare tale visione, visione che illuminando due realtà entrambe brutali e scostanti, sembra volere illustrare il celebre slogan “né con lo stato né con le Br”.
Infatti numerosi sono i militanti comunisti e sindacalisti, fedeli al marxismo che, pur mostrando poca simpatia per l’operazione brigatista, odiano la politica di Moro e vengono emarginati o espulsi da Pci e da Cgil revisionisti. Sull’altro versante invece l’ispettore Crollo (Gaetano Amato; figura in parte clonata dal già citato commissario di Indagine, 1970), a capo di una piccola banda di torturatori e in accordo con giudici compiacenti, sevizia i malcapitati (un sospettato brigatista ispirato alla figura del tipografo Triaca) per estorcere loro informazioni utili. La presenza di questa ignobile pratica fu più volte denunciata e discussa sia appunto dal detenuto Triaca, sia poi negli anni ottanta (e se si vuole si può giungere fino allo scempio della scuola Diaz di Genova, 2001) anche se una legge speciale del 1978 la ammetteva in casi eccezionali (allorché ci fosse pericolo per le istituzioni del sistema democratico). Va inoltre rilevato che Grimaldi, mentre mostra queste realtà quasi insopportabili per una persona comune (che dunque diviene consapevole del fatto che l’orrore alberga anche nelle istituzioni, un orrore che può investire chiunque, anche un innocente), si guarda bene dal pronunciarsi intorno alle pratiche terroristiche che ammazzavano a tradimento chiunque, senza dargli modo di difendersi né verbalmente, né materialmente. Il dibattito è antico e risale ai fatti della Resistenza (1943-45) quando l’ala socialcomunista difendeva questa pratica, mentre quella conservatrice (Dc, liberali e monarchici) la rifiutava. Questa violenza trasformava i terroristi degli anni settanta in giustizieri, in fondo speculari ai tanti giustizieri della cosiddetta maggioranza silenziosa (quelli esaltati nei poliziotteschi dell’epoca): in tal senso il ricorso alla tortura non è che una terribile conseguenza di una realtà politica fuori controllo nella quale, tra l’altro, non si può far valere l’indiscutibile deterrente della pena di morte (strumento non a caso tuttora presente in numerosi stati degli Usa). Possiamo affermare, come già detto altrove, che come il fascismo, nelle sue differenti accezioni (militari e non, da Mussolini a Pinochet), è un deprecabile e brutale “rimedio” (a difesa dello stato liberale di cui mantiene le fondamentali libertà personali e di iniziativa economica, pur abolendo quelle politiche) suscitato dalla ideologia comunista e che non avrebbe ragion d’essere se non ci fosse una forte e incombente minaccia marxista, allo stesso modo la pratica della tortura (segnalata durante il caso Moro per la prima volta) non avrebbe ragion d’essere senza la diffusa presenza di terroristi che ammazzano gente inerme sulla base di gratuiti giudizi politici, creando un allarme sociale che potrebbe portare a svolte politiche imprevedibili e disastrose.


E’ evidente che questa (inaccettabile) visione politica del caso Moro confligge con la presenza di servizi segreti agguerriti che avevano da tempo infiltrato le Br e che le controllavano da lontano; va detto tuttavia che lo Stato non è un monolite, bensì un arcipelago complesso in cui spesso gli abitanti delle singole isole vivono isolati, senza sapere cosa dicono e fanno i loro vicini; pertanto si può tranquillamente immaginare che le forze (minoritarie) che volevano ritrovare Moro (la sinistra democristiana innanzitutto, ma anche il gruppo di carabinieri di Dalla Chiesa, non a caso incaricato dal ministro degli interni Rognoni, di fede morotea e perfino Mino Pecorelli confidente del generale) abbia potuto accettare simili metodi che, ripetiamo, avevano allora una minima anche se discutibile copertura legale. Completano il complicato e stimolante quadro narrativo del film le vicende di una professoressa arrestata perché sostiene il solito slogan sopracitato in una assemblea di studenti e la si sospetta di qualche complicità con la lotta armata (i capi d’accusa non vengono chiariti; viene umiliata in differenti modi da Crollo) e la presenza di un’esperta americana (ispirata alla figura del famoso Priebcznick) al ministero degli interni che ordina ai politici (nel film non vengono neppure mostrati, segno del disgusto di Grimaldi per un ceto politico che si ritiene totalmente asservito agli Usa) di attenersi alla linea della fermezza, asserendo che la vita di Moro è senza importanza se confrontata alla esigenza di salvaguardare le istituzioni repubblicane.
Nell’insieme il film costituisce un documento importante poiché mostra una realtà cruda e verosimile (nei suoi dati di cronaca immediata), priva di infingimenti e di indulgenze per chiunque; mostra anche il fatto che i brgatisti seppero indagare sui segreti di stato (si parla del sostegno della Dc ai golpe sudamericani degli anni settanta, dei finanziamenti illegali alla Dc, del sostegno di Moro a faccendieri spericolati, tutti argomenti ben presenti nel Memoriale) “confessati” da un Moro che addirittura si definisce, cinicamente, un mediocre come tutti i suoi colleghi, dediti ai peggiori compromessi. Questi rivoluzionari gelidi, assorbiti da una sinistra esigenza di purezza, risultano in definitiva dei pericolosi fanatici: sebbene abbiano alcune astratte ragioni di ordine semplicemente morale (soprattutto su questioni di corruzione e indebito arricchimento), essi non hanno nessun progetto credibile e praticabile da contrapporre al sistema dei partiti (peraltro essi non citano mai l’orrendo sistema sovietico, di gran lunga peggiore di quello americano) e vivono con il forte e fondato sospetto (lo ripetono spesso) che alle masse tutto ciò non interessi minimamente poiché l’unica preoccupazione del popolo è di essere messo in condizioni di vivere dignitosamente. Il credo dei terroristi è un vangelo inutile al quale essi si sono votati come i credenti fanatici di una qualunque setta religiosa, credo che, dopo averli costretti a gesti criminali, finirà col perderli, obbligandoli a vivere un’esistenza tragica e marginale.

Di Moro si parla molto nella pregevole pellicola che Sorrentino ha dedicato a Giulio Andreotti ovvero Il divo (mag. 2008; 110 min.), opera che ottenne un buon successo commerciale.


Il regista napoletano racconta l’ultima stagione del potere andreottiano nel periodo 1989-93. L’uomo politico più potente d’Italia (interpretato da Toni Servillo) diviene presidente del consiglio per l’ultima volta e gestisce l’ordinaria amministrazione insieme agli uomini della sua corrente: Franco Evangelisti (Flavio Bucci), Paolo Cirino Pomicino, Salvo Lima e Vittorio Sbardella. L’uccisione di Salvo Lima e l’attentato di Capaci (1992) minano per sempre il sogno del politico romano di coronare la propria carriera diventando presidente della repubblica. Al contrario proprio nell’autunno 1992 inizia il suo definitivo crepuscolo: egli viene accusato sia di complicità con la mafia, sia di essere il mandante dell’omicidio Pecorelli (1979). Il racconto termina con l’inizio del processo che sancisce l’inizio di una differente stagione della vita di Andreotti e dell’Italia politica: d’ora in poi dovrà pensare anziché a comandare, a difendersi.


Sorrentino si ispira a Todo modo di cui Il divo è l’unico vero erede sia dal punto di vista stilistico, sia contenutistico. Il racconto è totalmente virato in modalità grottesche e sinistre: su Andreotti, ritratto come un concentrato di cinica malvagità e di gelida indifferenza, vengono riversate tutte le ben note accuse; dalla complicità con gli stragisti di piazza Fontana alla fredda decisione di lasciare morire Moro, dall’appoggio sfrontato alle speculazioni di Sindona fino al rapporto diretto con Riina (il famoso bacio viene messo in scena) e ai conseguenti omicidi su commissione (Ambrosoli, Pecorelli e Dalla Chiesa), numerosi dei quali volti a coprire ricatti, spesso relativi alle misteriose e introvabili carte di Moro.


La pellicola possiede un fascino sinistro: a differenza dello statico, claustrofobico Todo modo, interamente ambientato in un unico luogo, Il divo spazia su differenti piani storici e geografici, mette in scena eventi di grande forza spettacolare insieme alle loro conseguenze nelle stanze del Potere (il parlamento e gli uffici della politica), la qual cosa dona grande incisività al racconto, rafforzato da magnifiche scelte musicali.
Come sempre accade in questi casi il personaggio che si voleva “crocifiggere” risulta alla fine meno antipatico e meno condannabile di quanto creda il regista, avendo avuto l’accortezza di lasciare che quest’ultimo potesse esprimere le sue ragioni, ragioni che sono tutt’altro che incomprensibili. Mentre la corrente dei suoi alleati appare come un circo grottesco e sciocco, assai poco difendibile, la figura di Andreotti che, da solo, sembra dovere risolvere ogni problema della complicata situazione italiana, risulta quasi eroica. Solitario, schivo, privo di interesse per qualunque forma di arricchimento e di mondanità (vive in un ordinario appartamento e disdegna feste e inutili lussi), egli sembra dovere difendersi da tutto e da tutti, al fine di potere “sopravvivere” e, in parallelo, di potere garantire continuità alla repubblica. In particolare proprio le durissime parole del Memoriale di Moro rieccheggiano più volte ad accusare il protagonista di spietata disumanità e lo stesso Andreotti continua a dolersi proprio del delitto Moro come dell’unico rimorso che lo perseguita. D’altro canto però appare evidente, dal punto di vista del politico romano, che ogni gesto criminoso che ha, forse, commesso, lo ha dovuto compiere, costretto dalle circostanze. Nel punto cruciale del racconto dirà infatti: “Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. Lo stragismo per destabilizzare il Paese, provocare terrore, per isolare le parti politiche estreme e rafforzare i partiti di Centro come la Democrazia Cristiana l'hanno definita "Strategia della Tensione" – sarebbe più corretto dire "Strategia della Sopravvivenza". Roberto, Michele, Carlo Alberto, Giovanni, Mino, il caro Aldo, per vocazione o per necessità ma tutti irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta”.
Anche per ciò che riguarda la mafia Sorrentino finisce quasi per discolparlo (almeno di fronte a un pubblico lucido e insensibile alla inutile questione morale) allorché fa dire a un boss che se la Dc non si sottomette ai voleri della mafia, al sud non la voterà più nessuno e gli resteranno solo i voti del nord “dove sono tutti comunisti”. Con poche frasi il film mette a fuoco la situazione obbligata in cui si trovò il partito di governo, costretto a legarsi alla criminalità del sud la cui visione politica ordinata e patriarcale offriva un importante salvagente a un partito che altrimenti sarebbe stato travolto dal nord socialcomunista. Anche su questo punto Andreotti, più che soddisfatto del proprio operato, sembra costretto; a tratti sembra perfino un martire e certamente tale si sente.
Sorrentino crea una sorta di brillante bigino in cui tutte le accuse tipiche che si potevano rivolgere ad Andreotti vengono messe in campo (soprattutto da un moraleggiante Scalfari); però il problema non è la morale quando si affrontano le scelte politiche di fondo cui deve sottoporsi un partito di governo (altrimenti non esisterebbero, al mondo, i servizi segreti e le censure in nome della “ragion di stato”). Il problema è certo quello dei notabili corrotti: questi ci sono in tutte le epoche storiche e sotto tutti i cieli; utilizzare la sola questione morale per affossare una classe dirigente che, nel bene e nel male ha garantito quasi mezzo secolo di sostanziale pace e benessere al paese, è stupido (ma è quanto è avvenuto in Italia nel 1992-94); ed è sempre e solo questo l’addebito che le forze socialcomunste, in ogni campo (artistico o politico), hanno messo in campo contro la Dc. Sorrentino, come Petri, si dilunga su questi temi e ridicolizza oltre il lecito quella classe dirigente. Tali accuse sono inconcludenti poiché non solo non chiariscono quale sia l’alternativa reale a questa Dc e al sistema capitalistico-liberale, ma soprattutto dimenticano regolarmene di raccontare che mentre i notabili Dc (come pure Psi, Psdi ecc.) si arricchivano (forse) con ruberie, un identico flusso di denaro illegale giungeva al Pci da Mosca e arrivava in Italia al fine di traghettare, sul lungo periodo, la penisola verso il pessimo sistema politico sovietico, capace di produrre solo miseria (come dimostra inequivocabilmente la gioia sfrenata dei popoli alla caduta dei regimi dell’est e la loro rapida riconversione al sistema liberale). Prigionieri del falso pensiero “progressista” che poneva stoltamente il sistema comunista in un presunto “futuro migliore” rispetto a quello capitalista, centinaia di intellettuali ed artisti hanno continuato a sermoneggiare un falso discorso per decenni, fino al fatidico 1989 quando la storia “ha fatto dietrofront” e in pochi mesi ha annullato decenni di illusioni fasulle (si vedano, al riguardo, i fondamentali scritti di Francois Furet). Non è solo il comunismo a cadere in quel frangente: è soprattutto l’idea evoluzionistica della storia a scomparire nelle rovine dei regimi dell’est; dal 1990, a sinistra, tutti fingeranno di non ricordarsi quel verbo progressista, quella assurda visione storica dei popoli “in cammino” verso il sole dell’avvenire la sostituiranno con un altrettanto astratto e sbagliato terzomondismo con cui ci stanno ammorbando da alcuni decenni. La storia torna indietro, cancella e restaura il passato; di fronte a questo scenario anche la figura di un implacabile e cinico conservatore come Andreotti assume colori differenti, in quanto difensore di un sistema politico corretto di fronte a tutti coloro che volevano subdolamente trascinarlo verso la deriva delle democrazie popolari, anticamera di un comunismo autoritario e pauperista in cui la gente, privata delle libertà di iniziativa economica (oltre che politica), avrebbe finito per vivere come in una prigione.
Il terrorismo brigatista fu in tal senso uno degli errori più madornali del periodo: giovani intelligenti e capaci, spesso animati da una sicura idea umanitaria furono sedotti da un’ideologia grigia e violenta, furono plagiati e pensarono di unire il brivido di una vita pericolosa all’idea di essere stati investiti dalla Storia di un compito ineluttabile; dentro a questo errore di marca “evoluzionistica” - un errore che, in parte, risaliva fino al positivismo e a Darwin - hanno sprecato gli anni migliori della loro esistenza e a quelle idee alcuni di loro sono rimasti legati poiché è probabilmente troppo doloroso ammettere di essere stati ingannati da un certo Denkstil e, a volte, di avere ucciso in suo nome.
Andreotti o Moro: come dice Bellocchio (in Buongiorno notte) “ai posteri l’ardua sentenza”.

Il modesto, recente film televisivo Aldo Moro il professore (mag. 2018; 90 min.), firmato da Francesco Miccichè, alterna documentario e fiction (si analizza il rapporto tra Moro professore universitario e alcuni suoi affezionati allievi). E’ rilevante, tuttavia, perché contiene gli interventi di rappresentanti della recente Commissione Moro (2014-18) come Giuseppe Fioroni e Gero Grassi e perché, per la prima volta in un film prodotto dalla Rai, si rifiuta la versione brigatista di via Montalcini, si parla delle “altre” e assai più probabili prigioni dello statista ovvero via Massimi 51 e Fregene e soprattutto si mette in scena Moro prigioniero in un normale appartamento (con le finestre sbarrate) in cui può muoversi liberamente. Anche il vero, piccolo garage di via Montalcini (sempre rappresentato in maniera accomodante e fallace nelle altre pellicole) viene mostrato nella sua dimessa realtà, rafforzando così la convinzione che le versioni dei brigatisti relativamente al momento della esecuzione, siano solo accomodanti fantasie.

testo scritto nel giu.2019







Edited by barionu - 16/3/2022, 08:54
 
Top
CAT_IMG Posted on 4/5/2021, 14:46
Avatar

www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=44&t=18168

Group:
Administrator
Posts:
8,422
Location:
Gotham

Status:











www.sedicidimarzo.org/2018/02/sul-c...iceviamo-e.html





SUL CASO DEL COL. GUGLIELMI - RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO


Ospitiamo un articolo di Maurizio Barozzi sulla figura del Col. Guglielmi.
Il documento riflette, ovviamente, il pensiero dell' autore che è quindi l'unico responsabile delle affermazioni, dei documenti e delle foto in esso contenuti. Buona lettura.
(Agg.to 4 febbraio 2020)

RAPIMENTO MORO:

LO “STRANO” CASO DI CAMILLO GUGLIELMI


di Maurizio Barozzi

«Per quanto si conosce non è possibile comprovare, al di fuori di ogni ragionevole dubbio, ipotesi dietrologiche su la presenza (a ridosso della strage e rapimento Moro), del colonnello Camillo Guglielmi (nelle vicinanze di via Fani).

Deve quindi ritenersi che fu una coincidenza occasionale per ragioni private anche se, come vedremo, non sono del tutto campate in aria ipotesi e supposizioni di altra natura?

Ma soprattutto, il complesso di questa vicenda, non torna affatto e introduce sconcerto e perplessità».




Da diversi anni, l’Affaire Moro, si trascina dietro uno “strano caso” che, a seconda di chi lo prospetta e lo affronta, assume aspetti cospirativi e dietrologici oppure, viceversa, viene ridotto a una semplice casualità e coincidenza.

Si tratta della presenza, in ora non ben precisata, ma dicesi verso le o9,30 attorno a via Fani, dove alle ore 09,02 circa e in pochi minuti si era consumato l’agguato e il rapimento di Moro con la strage di 5 agenti di scorta, del Colonnello dei carabinieri Camillo Guglielmi, in borghese e che asserì di stare
andando a trovare un amico,

residente in via Stresa 117, in una palazzina dove alcuni anni prima aveva anche abitato con la moglie e i figli, a circa un 150 metri (meno di 100 in linea d’aria) dall’incrocio incriminato di via Fani.

Fatto sta che per i motivi che più avanti dettaglieremo, la faccenda uscita fuori solo 12
anni dopo la strage, assunse aspetti dubitativi e sconcertanti, tanto da sconfinare nella dietrologia e oltretutto a carico del colonnello Guglielmi, benché deceduto, è stato aperto ed è tuttora pendente un fascicolo presso la Procura generale della Repubblica di Roma proprio in relazione al suo ipotizzato coinvolgimento nella strage.

Riportare oggi alle sue esatte dimensioni questo caso non è compito affatto facile, ma soprattutto è necessario riassumere e fornire informazioni e notizie esatte e comprovate, visto che hanno circolato, dal 1991, quando uscì fuori la storia del Guglielmi in via Fani, fino ad oggi, tutta una serie di imprecisioni, dati inesatti o alterati.

Il fatto è che il caso Moro è talmente pieno di informazioni sbagliate o distorte, di leggende e vere e proprie bufale, che è facile si formino illazioni e sospetti di ogni genere, ma d’altro canto è anche pieno di omissioni, depistaggi, malaccorti o fraudolenti comportamenti da parte di uomini delle Istituzioni o dei Servizi di sicurezza, che ogni illazione, ogni sospetto, ogni ipotesi “cospirativa” diviene inevitabile.

L’appartenenza di tanti generali, graduati, ufficiali, e uomini dello Stato nella massonica P2, dove comunque la si pone, si era soggetti a vincoli di “fratellanza massonica” e quindi a fare e ottenere favori, ottemperare a richieste, era d’obbligo, non attestano certo uno svolgimento di quegli eventi del tutto naturale.

E meno ancora non influente era il fatto che in virtù degli esiti bellici e di accordi e protocolli successivi, nonché della nostra adesione al Patto Atlantico, i nostri vertici militari erano subordinati agli alti vertici Nato mentre, al contempo i nostri Servizi sono sempre stati in una condizione non paritaria e sfavorevole rispetto a quelli statunitensi, per esempio.

A nostro avviso è in questo contesto che vanno ricercate le ragioni di comportamenti non limpidi, dei depistaggi e peggio.

Qui poi stiamo parlando di un colonnello dei carabinieri che aveva lavorato per i Servizi, anche magari non facendone parte, che sarà poi ufficialmente nei Servizi (il Sismi) pochi mesi dopo la vicenda Moro, anche se in quel fatidico marzo 1978 non era nei Servizi, un ufficiale che aveva fatto da addestratore agli uomini delle Gladio e che la mattina dell’agguato a Moro si trovava, e la cosa non era stata detta, ma era uscita fuori da strane “confidenze” 12 anni dopo, a pochi metri dal luogo della strage.

Inevitabile tutto lo scatenarsi di congetture ed ipotesi cospirative che ne sono seguite.


Chi era Camillo Guglielmi



Camillo Guglielmi, classe 1924, al 18 novembre 1977 rivestiva nei carabinieri il grado di colonnello “a disposizione”, mentre l’11 aprile 1978, in pieno sequestro Moro, risultava collocato in ausiliaria nella “forza in congedo della regione tosco emiliana di Firenze”, così come lo attesta il suo stato di servizio che precedentemente lo definisce anche “addetto allo Stato Maggiore Difesa-Sifar” dall’agosto 1961 e poi ufficiale addetto al Sid in qualità di insegnante aggiunto di Polizia militare dal 1967 al 1968. Divenne quindi capo nucleo dell’Ispettorato censura militare del Raggruppamento unità speciali del Sid sempre con incarico di insegnante aggiunto.

Dal 1972 al 1974 è anche comandante del gruppo nuclei di sicurezza carabinieri.

Nel 1972 il capo del Sid, generale Vito Miceli, in una nota informativa, all’incarico di comandante del nucleo sicurezza, vi aggiunge la frase criptica “in contemporanea con altro incarico preminente” conseguendo “ottimi risultati”.

Se ne deduce, come rileva il giudice Carlo Mastelloni, ex giudice istruttore e dal 2014 procuratore della Repubblica a Trieste, nel suo libro “Cuore di Stato”, Ed. Mondadori 2017 (che sottolineiamo non condivide ipotesi “complottiste” sul Guglielmi e di cui parleremo più avanti), che questo ufficiale ha formato fisicamente fior di Gladiatori anche nel periodo 15 febbraio 1971 – 31 dicembre 1971 e il Miceli gli rivolge gli stessi elogi il 6 giugno 1974.

E’ bene sottolineare che all’addestramento di Gladiatori non necessariamente doveva essere preposto un ufficiale della Gladio o dei Servizi, per cui aver addestrato gladiatori non fa di Guglielmi automaticamente, un uomo di Gladio.

La giornalista Rita di Giovacchino il 13 Novembre 2014, sul blog del “Il Fatto Quotidiano” si chiese: “Chi era Gugliemi?”, e si rispose: “Un ufficiale del Sismi, in servizio presso la base Nato di Capo Marrargiu in Sardegna con il precipuo compito di addestrare i gladiatori civili e militari in operazione di “sbarco e assalto”. A rigor di ruolino di servizio la definizione non è esatta, perchè Gluglelmi entrò nel Sismi, dopo il rapimento Moro, ma nel complesso di una carriera che avendo anche risvolti di Intelligente, va vista con occhi introspettivi e non solo burocratici, la Di Giovacchino potrebbe non aver poi del tutto torto.

Il procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli trovò il nome di Guglielmi in un appunto manoscritto del generale Gianadelio Maletti del Sid, datato 13 febbraio 1973: “Camillo Guglielmi compare – scrive il pg Ciampoli – tra gli argomenti trattati nel colloquio di lavoro che lo stesso Maletti, quale direttore dell’Ufficio D del Sid, ebbe in quella data con il capo del Servizio, generale Vito Miceli”.

Il testo del messaggio è incomprensibile ai più:


«El Al: reazioni Ele/Ric/Ben Yerus», seguito da una linea di divisione e da alcune note del capo del Servizio. Riguardano lo spostamento e l’impiego di un gruppo di quattro ufficiali, probabilmente in relazione a questioni mediorientali: De Magistris, Guglielmi, Giovannelli e Giovannone.

Se ne deduce quindi che Guglielmi all’inizio degli anni ’70, “veniva impiegato dal capo del Sid in operazioni internazionali” ed essendo il suo nome accostato a quello di Giovannelli, dirigente del Centro addestramento paracadutisti (Caps), egli svolgeva “un ruolo nel campo degli addestramenti speciali”.


Ha raccontato alla nuova Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro (2014 – 2017), il procuratore militare di Padova, Sergio Dini, che proprio negli anni 1972-73 (il periodo a cui risale l’appunto su Guglielmi) vi fu una notevole insistenza da parte del generale Maletti affinché la base sarda di Capo Marrargiu (centro operativo e di addestramento della Gladio italiana) fosse posta a disposizione del personale dell’Ufficio D per lo svolgimento di “esercitazioni molto particolari”.

Tra il febbraio ’72 e il maggio ’73 sono stati effettuati quattro corsi: tre riguardanti l’uso e le tecniche degli esplosivi e un corso di guerriglia, complessivamente per una quarantina di agenti segreti.

L’ultimo corso del ’73, sia teorico che pratico, verteva sulle “forme di guerriglia urbana, la tecnica dell’imboscata, gli obiettivi e i compiti della guerriglia negli abitati e in azioni di campagna”.

Attività “particolari” per l’ufficio difesa, come sottolineava il procuratore militare Dini alla Commissione stragi, che riporta:
« Per quanto riguarda Guglielmi, nel 1965 partecipò alla prima esercitazione di personale dell’Ufficio D a Capo Marrargiu. Non c’è solo la citazione «Guglielmi presente a Capo Marrargiu», ma ci sono diversi documenti in cui viene indicato esattamente il programma del corso e, giorno per giorno, quello che è stato fatto. Si andava appunto da tecniche di imboscata e guerriglia urbana a tecniche di trappolamento ed esplosivi su materiale ferroviario».


E ancora: «Tra il personale che fu utilizzato per questi addestramenti particolari (…) vi sono i nomi di alcuni soggetti che, in qualche modo, sono stati portati alla ribalta da successive indagini su fatti eversivi”. Come “l’ufficiale Guglielmi, proprio quell’ufficiale invitato a colazione nelle immediate vicinanze di via Fani alle ore 9,30 del 16 marzo 1978» (Vedi: Sergio Dini, alla CPM2, Seduta del 7/10/2015).


Per non tralasciare nulla accenniamo anche al fatto che due perplessità sono state avanzate: la prima sul fatto che forse Guglielmi ha, si partecipato agli addestramenti di gladiatori e uomini dei Servizi, ma senza farne formalmente parte. Ma questo ci sembra poco probabile alla luce che è stato a lungo in questi servizi ricoprendo incarichi di rilievo, e comunque non cambierebbe di molto la funzione di Guglielmi pur sempre attigua alle Intelligence.


Secondo che nel corso della sua carriera è documentato ha acquisito, conoscenze tecniche definite di “antiguerriglia” ovvero guerriglia urbana, di trappolamento ecc., ma non risulterebbe, invece, che abbia mai svolto il ruolo di addestratore, visto che lo stesso Ravasio indica Alfonso e Decimo Garau gli istruttori di Capo Marrangiu. Anche qui, è poco credibile, ma se proprio lo vogliamo mettere in relazione ad un possibile ruolo avuto da Guglielmi in via Fani, le cose non cambierebbero di molto visto che tecniche di guerriglia urbana e trappolamento bastano e avanzano.


Il Guglielmi poi assunse il comando Gruppo Carabinieri dal settembre 1974 al settembre 1977 a Parma e quindi a Modena dove fino al 14 aprile 1978 è inquadrato nella Quarta brigata con sede a Modena e poi, fino al gennaio 1979 nella Regione militare in forza di congedo.


Torna quindi ufficialmente nei Servizi militari, ora Sismi, lo stesso 22 gennaio 1979 come direttore di Sezione con l’incarico di dirigere la sezione che si occupava dell’affidabilità dei dipendenti di Forte Braschi (secondo quanto riferì l’ex ministro della Difesa Cesare Previti, audito in Commissione stragi), ma il 1 luglio 1978 (quindi dopo il delitto Moro) Guglielmi, aveva preso incarichi presso il Sismi, seppur in qualità di consulente “esperto”, rapporto che si consolidò in breve tempo fino alla sua assunzione ufficiale nel Servizio segreto militare, in data, come accennato, al 22 gennaio 1979).
Guglielmi infine lasciò il Sismi il 31 dicembre dello stesso anno e sarà poi nella forza in congedo dal 1980 al 1984.


Nella sua scheda di servizio, acquisita dal procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli presso gli archivi dei Servizi di sicurezza, si illustrano i compiti e le funzioni dell’Ufficio R, Controllo e Sicurezza VII Sezione del Sismi di Guglielmi (un servizio costituito solo dall’ottobre 1978):
“Fare la scorta a importanti personaggi del Sismi, agli ospiti stranieri del Servizio, la vigilanza alla sala riunioni della Nato e alla villa del generale Santovito (allora direttore del Sismi, ndr), le indagini disciplinari, la scorta a valori di denaro del Servizio e agli aerei”.
Incarichi rilevanti, delicati, quindi per il servizio segreto militare.


Questa la ricostruzione dei ruolini di Servizio del Guglielmi, da cui, in ogni caso, appare evidente, come ha anche sottolineato la nuova Commissione Moro, che la figura del colonnello è ritenuta, a vario titolo (in virtù di esperienze pregresse e del suo successivo servizio alle dipendenze del SISMI), riconducibile ad ambienti dei servizi di Intelligence.


Guglielmi, infatti, è stato istruttore a capo Marrargiu la base di addestramento delle Gladio, e proprio nelle tecniche di guerriglia (anche lasciando perdere le imboscate), e come rivelato, nel marzo 2003 da Famiglia Cristiana, dal quotidiano Liberazione e dalla rubrica del Tg3 Primo Piano, il mese precedente (febbraio ‘78) il rapimento Moro aveva partecipato o comunque era compreso nella esercitazione, "Rescue imperator" organizzata dal Raggruppamento unità speciale-Stay Behind (cioè Gladio), poi realizzata nella notte del 12 febbraio, da cinque squadre "K" armate ed equipaggiate con materiale degli incursori del Comsubin in accordo con i carabinieri della Legione Lazio. Vi si citano luoghi (Campo Imperatore, vicino al lago della Duchessa, Magliano Sabina e il Monte Soratte).


Questo risulterebbe, dai dispacci del tempo per "Rescue Imperator", datati rispettivamente 6 e 10 febbraio 1978, dove si cita il "gruppo Guglielmi", che deve restare "in attesa del materiale" e di eventuali nuovi ordini presso il Centro addestramento guastatori di Alghero.
E’ il periodo in cui Guglielmi, ufficialmente, risultava collocato in ausiliaria nella “forza in congedo della regione tosco emiliana di Firenze”.


Alcuni hanno anche parlato di omonimia, ma senza troppo convincere e quindi se questa segnalazione documentale è corretta, il Guglielmi si troverebbe anche inserito nell’organico di una esercitazione riguardante protocolli militari di guerriglia e antiguerriglia in ambiti Atlantico e che assomiglia ad una specie di "prova generale" dell’operazione “smeraldo” di liberazione di Moro ordinata un mese e mezzo dopo da Cossiga al Comsubin il Raggruppamento Subacquei ed Incursori della Marina Militare e poi abortita.
Camillo Guglielmi morì per un attacco di cuore a gennaio del 1992.

In conclusione sul Guglielmi.


Con quanto si conosce non è possibile sostenere che il Guglielmi quella mattina, a ridosso della strage, fosse in servizio o ebbe ordini dai Servizi segreti (quali? a marzo ‘78 ancora non era entrato nel Sismi), per svolgere compiti che alcuni hanno ipotizzato di evitare la strage, altri di osservarla nei suoi particolari e qualcuno addirittura di coordinarla per agevolare il compito dei brigatisti, magari per coadiuvare certi “gladiatori” visto che il Guglielmi era esperto di tecniche di guerriglia e imboscate o ancora che il colonnello abbia fatto parte di tutto un progetto logistico, allestito attorno alla zona dell’agguato e vie di fuga, sfruttando tutti i “punti di appoggio” stanziali che si potevano avere in quella zona, ma ripetiamo tutta questa dietologia non è provabile.


Dubbi ce ne sono, e vedremo quali, ma in un tribunale, per esempio, non potrebbero trovare sostegno.
Questa faccenda, però, non è liquidabile con la sola escussione dei ruolini e stati di servizio dell’ufficiale, perché se consideriamo che non tutti gli incarichi segreti di Intelligence (e Guglielmi è stato un uomo a suo tempo addetto al Sifar-Sid) possono trovare preciso riscontro documentale, come per esempio i “lavori sporchi” che a quanto pare compiva l’Anello, alias il “noto Servizio”, un “Servizio” anomalo, supersegreto, ma non proprio fuori dalle nostre Istituzioni (vedesi: Stefania Limiti: L'Anello della Repubblica, Ed. Chiarelettere, 2009 e Aldo Giannuli: Il Noto servizio, M. Tropea Editore, 2011), non è dietrologia avanzare almeno dei sospetti.

Ma ancor più se consideriamo operazioni svolte dalla rete Gladio (Guglielmi non abbiamo prove che sia un gladiatore, ma ha comunque lavorato per le Gladio), una rete che non aveva copertura NATO, ma aveva «riferimento diretto e dipendenza» dalla CIA (i documenti infatti non recavano la classifica Nato). Anche nella nuova Commissione Moro, è stata espressa l’opinione che la struttura delle Gladio abbia operato al di là delle legittime finalità istituzionali, ricordando di aver esaminato documenti dai quali risultavano pressioni della CIA (che aveva finanziato anche il centro di addestramento di Capo Marrargiu) per far sì che Gladio potesse intervenire anche in situazioni di conflittualità interne dell’Italia. A tale genere di attività, per esempio, era connessa la cosiddetta Operazione Delfino (1966), avente come tema «insorgenza e controinsorgenza», che fu diretta da Roma (dalla sede della Sezione addestramento) e si svolse nel Triestino.


Ufficialmente la Gladio era una organizzazione genericamente segreta, ma non troppo, creata nel 1956 anche fuori dai normali canoni istituzionali, per organizzare nei paesi europei del blocco occidentale, una rete stay behind, dietro le linee, che entrasse in azione in caso di invasione del territorio.
In questo ambito, da noi non fu ovviamente mai operativa, e inquadrata dietro generali italiani, l’ultimo Paolo Inzerilli, fece solo opera di addestramento.
Non era neppure del tutto sconosciuta ai sovietici, e da noi allo stesso Pci.


Ma non è questo che qui interessa propriamente, semmai una Gladio nascosta, di “secondo livello” con gladiatori ancor più selezionati, e preposta ad attività di guerra non ortodossa, anche per impedire che i comunisti andassero al potere per via democratica.
E’ questa Gladio ultra segreta, che interesserebbe conoscere, con alcuni depositi di armi a disposizione, i Nasco e che possiamo dire dipendeva, per qualche via non appariscente, da comandi americani o atlantici.


Per edulcorare la cosa, per non dover buttare all’area tutta la credibilità istituzionale, si è inventata la favoletta, come quella dei Servizi deviati, di una “Gladio nera”. Una barzelletta, perchè i “neri”, intendendo personaggi e gruppi della destra neofascista non erano certo “autonomi”, ma tutti sotto controllo e manipolati dai nostri apparati di sicurezza e non solo nostri.


Le Gladio comunque avevano tutto un loro inquadramento particolare, non ricostruibile con le normali procedure di richiesta informativa (per esempio a suo tempo si sono fatti conoscere appena 600 nomi di gladiatori, ma la maggior e la più importante parte sono rimasti sconosciuti, mentre quelli resi noti, oltretutto, risultavano anche su con gli anni), e quindi ogni dubbio relativamente al caso Guglielmi, resta legittimo, tanto più se poi l’on. Gero Grassi, non uno qualunque, ma un membro della nuova Commissione parlamentare sul caso Moro, ha esplicitamente definito il colonnello Camillo Guglielmi: “il vice comandante generale di Gladio, settore K” (e “k” starebbe per Killer, cioè uomini preposti a sparare), pur non fornendo la documentazione da dove avrebbe dedotto questo preciso inquadramento nelle Gladio. Ma veniamo ora alla questione che qui ci interessa.


Come uscì fuori il nome di Guglielmi


Il Guglielmi venne chiamato in causa dalle rivelazioni di un tal Pierluigi Ravasio, ex carabiniere ed effettivo alla VII divisione del SISMI, qui sottoposto del Guglielmi all’Ufficio Sicurezza, rese all’On. Luigi Cipriani della allora Commissione Stragi.

Rivelazione che il Ravasio già aveva accennato nel 1987 ad un amico, Emanuele Bettini, impiegato presso la filiale di Cremona della Cassa di Risparmio di Piacenza, ma che come corrispondente collaborava a volte con la rivista “Panorama”, ma poi a dicembre del 1990 le espose anche all’On. Luigi Cipriani, di Democrazia Proletaria e membro della allora Commissione stragi.

E’ stupefacente apprendere che il Ravasio era venuto a conoscenza di tutto questo dalla stesso Guglielmi che lo aveva raccontato in presenza di altri colleghi. Questo farebbe già di per sè stesso escludere qualsiasi ipotesi di complotti o altro, ma si da il caso che non possiamo pienamente sapere, a parte i suoi racconti, perchè il Guglielmi rilasciò questa confidenza, troppe cose strane accaddero in quei tempi, per non diffidare di tutto e di tutti e forse non escludere neppure una specie di excusatio non petita per prevenire le reazioni a una notizia che ad un certo punto si sapeva, sarebbe comunque circolata.

In sintesi Pierluigi Ravasio di trentatrè anni, nato a Mapello in provincia di Bergamo, ex carabiniere paracadutista congedatosi nel 1982, passato alla professione di guardia giurata, sino al 1990 residente in Cremona poi tornato al paese d'origine, dice che era, per tradizione di famiglia, un Templare, come il padre, a sua volta ex carabiniere paracadutista aderente alla Rsi.

Ravasio si è quindi presentato come un fascista deluso.

Sembra che agli inizi del 1987 due guardie giurate dell'Ivri, tra le quali Ravasio, in servizio di fronte alla Cassa di risparmio di Piacenza, filiale di Cremona, iniziarono una discussione con un impiegato della banca riguardante la tematica dei mercenari ed i corpi speciali.
Alcuni giorni dopo, Ravasio invitò nella sua abitazione l'impiegato, Emanuele Bettini, ed in presenza della seconda guardia giurata iniziò a raccontare la propria storia, non senza avere messo in bella evidenza la propria pistola ed un fucile a pompa, che disse essere l'arma che comparirà nelle figure del Manuale del guastatore da lui stesso redatto.

Ravasio raccontò di essersi arruolato nel 1976 nel corpo dei carabinieri paracadutisti di Livorno, di essere entrato nei Gis e di avere partecipato alla repressione della rivolta nel carcere di Trani. Nel 1978, avvicinato da un ufficiale del Sismi, decise di entrare nel servizio e fu assegnato all'ufficio sicurezza interna nella VII Sezione dell'ufficio R di Roma.

Il tesserino del Sismi in fotocopia mostrato da Ravasio portava la firma di Santovito e Musumeci ed il N. 36 che, a quanto detto non dovrebbe essere casuale, ma indicare un ordine di importanza (Santovito avrebbe il N. 1), il ruolo dell'agente. Musumeci e Belmonte erano i capi dell'ufficio cui Ravasio faceva riferimento, mentre i diretti superiori erano il colonnello Guglielmi (detto Papà) ed il colonnello Cenicola.

L'ufficio era situato a Forte Braschi mentre la squadra (sei persone) con la quale Ravasio operava era stanziata a Fiumicino. Ravasio mostrò anche fotografie che lo ritraevano in divisa e armato con altri gruppi di corpi speciali (Usa, Germania, Israele), mostrò una foto in tenuta da templare in una cerimonia a Dublino e disse di essere in possesso del Nos di grado Cosmic.

Per farla breve il Ravasio avrebbe poi, a dicembre del ’90, rivelato al parlamentare Luigi Cipriani, membro della Commissione Stragi, di aver saputo che a via Fani vi era il colonnello Guglielmi, presente nell’occasione del sequestro, perché era stato attivato dal colonnello Musumeci, il quale aveva un informatore interno alle Brigate Rosse, uno studente di giurisprudenza di nome Franco (nome rimasto fantomatico). Quindi il colonnello Guglielmi era stato mandato a vedere e a controllare che cosa accadeva a via Fani.

In pratica non si trattava di torsione dai compiti istituzionali del Servizio, ma di un intervento di un infiltrato che cercava di attivarsi e controllare quel che accadeva in via Fani.

E’ facile capire che genere di grosse implicazioni poteva avere una rivelazione del genere fatta ad un parlamentare di area comunista e membro della Commissione stragi. Difficile credere che sia del tutto spontaneo e casuale

Questo comunque il racconto di Ravasio, paracadutista congedatosi nel 1982, come riportato dall’on. Cipriani:

Riferisce il Ravasio: “…di essersi arruolato nel 1976 nel corpo dei carabinieri paracadutisti di Livorno, di essere entrato nei Gis e di avere partecipato alla repressione della rivolta nel carcere di Trani. Nel 1978, avvicinato da un ufficiale del Sismi, decise di entrare nel servizio e fu assegnato all'ufficio sicurezza interna nella VII sezione dell'ufficio R di Roma (…). Musumeci e Belmonte erano i capi dell'ufficio cui Ravasio faceva riferimento, mentre i diretti superiori erano il colonnello Guglielmi (detto papà) ed il colonnello Cenicola. L'ufficio era situato a Forte Braschi mentre la squadra (sei persone) con la quale Ravasio operava era stanziata a Fiumicino. (…)

…di essersi recato diverse volte ad addestrarsi a Cala Griecas (capo Marrangiu) e di avere avuto come istruttori Alfonso (al quale è dedicato il manuale) e Decimo Garau, il primo maresciallo degli alpini, il secondo ufficiale di marina. Disse di far parte di un gruppo di quattrocento persone suddivise in nuclei di sei, il cui compito era di opporsi a sommosse interne da parte della sinistra.(…)

…disse che il suo gruppo indagò sul caso Moro e venne a conoscenza del fatto che il rapimento era stato organizzato da una banda di ex detenuti e malavitosi che agiva nella zona di Fiumicino, molto probabilmente la banda della Magliana. Venuti a conoscenza del fatto che Moro era tenuto dai malavitosi e riferito ciò ai superiori, le indagini furono fermate da un ordine proveniente da Andreotti e Cossiga, il loro gruppo sciolto ed i componenti dispersi, mentre i rapporti che quotidianamente venivano compilati furono bruciati.

… disse anche che Musumeci aveva un infiltrato nelle Br, era uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era Franco, il quale avvertì con una mezzora di anticipo che Moro sarebbe stato rapito. Uno dei superiori diretti di Ravasio, il colonnello Guglielmi - attualmente deceduto - si trovò a passare a pochi metri da via Fani, ma disse di non aver potuto fare niente per intervenire.

… Come ricompensa per il rapimento e la gestione del caso Moro, il Sismi consentì alla banda di poter compiere alcune rapine impunemente. Una avvenne nel 1981 all'aeroporto di Ciampino, quando i malavitosi travestiti da personale dell'aeroporto sottrassero da un aereo una valigetta contenente diamanti provenienti dal Sudafrica. Una seconda avvenne in una banca nei pressi di Montecitorio dove furono aperte molte cassette di sicurezza e da alcune, appartenenti a parlamentari, furono sottratti documenti che interessavano il Sismi (Vedesi: Fondazione Luigi Cipriani,
www.fondazionecipriani.it/Scritti/ilcaso.html ).

Qui dobbiamo subito fare una osservazione perché, a parte il resto, emerge la bufala di un rapimento Moro organizzato da “quelli della banda della Magliana” che, accluso al resto, mostra un racconto dove si mischia il vero, il verosimile e il falso, proprio come nelle tecniche di certi Servizi, quando vogliono mandare messaggi trasversali. Può essere il caso del Ravasio?

Non lo sappiamo, anche perché in questo caso dovremmo ritenere che “dietro” il Ravasio ci fosse un “suggeritore”.

Curioso anche il fatto che Ravasio da il Guglielmi come deceduto, quando non era affatto vero.

L’on. Cipriani, ovviamene, dopo che il Ravasio, gli conferma quanto già confidato a Bettini, espone una relazione alla Commissione parlamentare la quale segnala queste “rivelazioni” alla magistratura.

Per completare questa ricostruzione vale anche riportare altri passaggi, riportati dall’attendibile sito della Fondazione Cipriani, con la relazione redatta dal Cipriani per la commissione parlamentare, che parla di un Ravasio “fascista deluso” membro di un organizzazione di neotemplari (fantomatica?), che racconta di essere stato in Israele per addestrare militari israeliani: …in quanto esiste un'antica alleanza tra templari e Israele derivante dalla comune difesa del tempio di Salomone”.

«… iniziò a raccontare la propria storia, non senza avere messo in bella evidenza la propria pistola ed un fucile a pompa (...)
incontrato[si] nel novembre 1990 a Cremona con la giornalista Valeria Gandus, dalla quale si era fatto intervistare maneggiando una pistola di grosso calibro di marca israeliana. Successivamente nel proprio appartamento, tra fotografie e fotocopia del tesserino Sismi, Ravasio mostrò un'altra pistola marca Beretta.

… L'incontro con la Gandus era stato originato dal fatto che su Panorama era uscito un articolo che si rifaceva a quanto raccontato da Ravasio nel 1987, cosa che lo fece infuriare ma non gli impedì di farsi intervistare, salvo minacciare la giornalista se avesse fatto il suo nome.

L'ex agente del Sismi mi disse che non intendeva assolutamente essere coinvolto né dalla Commissione stragi né dalla magistratura e di avere acconsentito ad incontrarmi solo per darmi qualche informazione utile al mio lavoro, stanti le fortissime delusioni avute dalla destra politica e dai servizi segreti; ma che non desiderava io facessi il suo nome». (Vedesi: Cipriani, relazione alla CPS, link cit.).

Anche qui da notare il curioso particolare che il Ravasio, si infuria, non vuole che le sue “confidenze” siano rivelate, ma intanto concede una intervista a Panorama, pur ponendo condizioni, che non può ignorare che potrebbero essere facilmente disattese. Mah.

Tutto però venne poi a ridimensionarsi, tranne la sua effettiva appartenenza al Sismi, perché il Ravasio successivamente chiamato in causa, il 13 maggio del 1991, davanti al magistrato dott. Luigi De Ficchy, sostituto procuratore della Repubblica di Roma, per buona parte non confermò questo suo racconto.
Vi erano, inoltre, dichiarazioni di colleghi di Ravasio discordanti con quanto affermato da quest'ultimo.

Come abbiamo visto, infine, per il Ravasio, al momento delle sue confidenze all’On Cipriani, credeva che il Gugliemi fosse morto e solo quando venne convocato dal dott. De Ficchy seppe che invece era vivo, e quindi si può presumere che ritenne che il chiamato in causa lo avrebbe potuto smentire.
Emergeva quindi una manifesta ambiguità del Ravasio stesso perché non era credibile che l’On Cipriani, di cui era nota la serietà, ne avesse esagerato il racconto e c’era poi sempre il Bettini.

Il tutto comunque si venne a ridimensionare, tranne la presenza del Guglielmi in via Fani su cui si ebbe a congetturare e si venne poi anche a sapere che il Guglielmi stesso, una volta entrato in quell’Ufficio del Sismi, aveva confidato a qualche collega o sottoposto, che proprio il mattino del 16 marzo si era trovato nei pressi di via Fani, aggiungendo più o meno: “Figuratevi se lo si sapesse quanto ci potrebbero ricamare sopra i giornalisti” .

Non è peregrino pensare, se il tutto corrisponde al vero, che questa confidenza venne sentita anche dal Ravasio che poi la raccontò a modo suo, ma non possiamo neppure escludere che si è in presenza di giustificativi a posteriori per ridimensionare tutta la faccenda.


La testimonianza di Guglielmi


Il Guglielmi venne ovviamente sentito il 16 maggio 1991, tre giorni dopo il Ravasio, dal magistrato Luigi De Ficchy il quale ebbe poi a sentire anche il colonnello D’Ambrosio e ad acquisire, presso il SISMI, la documentazione relativa all’Ufficio Controllo e sicurezza cui l’ufficiale appartenne.
Ecco parte del testo della deposizione del Guglielmi a verbale:

«Per quanto riguarda il fatto che io sono passato il 16 marzo 1978 in via Fani, ricordo che quel giorno ero a Roma e che essendo stato invitato a pranzo dal Col. D'Ambrosio in via Stresa 117, passai in strade adiacenti via Fani verso le ore 9.30 del mattino.


Ho raccontato tale circostanza ai componenti del mio Ufficio Sicurezza ed evidentemente da tale fatto si è costruita ben altra situazione. Tra l'altro quando mi recai in via Stresa, non mi accorsi di nessuna situazione particolare successa in quella zona e seppi dell'onorevole Moro solo quando arrivai a casa del mio ospite Col. D'Ambrosio".



Si può ben immaginare come lasciò perplessi e quale scalpore fece la singolare rivelazione del Guglielmi che affermava di essersi recato a pranzo dal suo amico colonnello D’Ambrosio, presentandosi alle 9,30 di mattina!


Certo senza formalizzarsi poteva sempre intendersi che doveva andare a pranzo dall’amico, che ci arrivò prima, alle 9,30 ma non certo per pranzare a quell’ora. Possibile, ma in un interrogatorio, lascia alquanto perplessi.


Da notare che il colonnello D’Ambrosio, amico di famiglia del Guglielmi, doveva essere già nel Sismi o appartenente ai Servizi come riferisce l’ex giudice istruttore Carlo Mastelloni nel suo libro citato.


Il dottor De Ficchy ha dichiarato recentemente alla seconda Commissione Moro, di aver avuto la sensazione che qualcosa in quella ricostruzione non tornasse, ma che l’interesse principale delle indagini riguardava l’Ufficio Controllo e Sicurezza, che dalla documentazione risultava costituito solo nell’ottobre 1978.


Le valutazioni sulla vicenda, secondo il dottor De Ficchy, devono essere ancorate ai riscontri ottenuti dalle prove dichiarative e documentali, in assenza delle quali il magistrato non poteva avvalorare i propri dubbi e sospetti, pur se presenti.


In sede di Commissione Moro, invece, in merito alle motivazioni addotte in sede di interrogatorio dal colonnello Guglielmi per giustificare la propria presenza nella zona della strage, i deputati Grassi e Piepoli e i senatori Gotor e Cervellini hanno osservato che si trattava di una versione dei fatti incredibile, se non provocatoria, che avrebbe potuto giustificare l’incriminazione del teste per falsa testimonianza.


La testimonianza del Colonnello D’Ambrosio


Ancora tre giorni dopo, il 16 maggio 1991 è la volta di essere audito dal dott. De Ficchy, il colonnello Armando D’Ambrosio il quale in buona parte conferrmò la testimonianza di Guglielmi e vi aggiunse particolari importanti:

«“Verso le ore 09.30 è giunto presso la mia abitazione il colonnello Guglielmi Camillo con sua moglie che anni prima aveva abitato presso lo stesso stabile e con il quale ero in amicizia.

Il colonnello stette presso la mia abitazione con la moglie per tutta la mattinata e stette con noi a pranzo e poi nel pomeriggio ripartì per Modena.
Non ricordo se nel corso della mattinata si allontanò di casa per salutare altri amici o per altre ragioni. Non ricordo se il Col. Guglielmi venne presso la mia abitazione per un appuntamento datoci in precedenza. Oppure se passò senza appuntamento precedente e poi lo invitai a pranzo.

Non ricordo come mai il Col. Guglielmi venne alle 09.30, posso dire che con il Col. Guglielmi vi è una grande confidenza.

Faccio presente che alla mia abitazione si può accedere da via della Camilluccia prendendo via Stresa e passando all’incrocio con via Fani sia da via Sangemini scendendo da via Roncegno. Ricordo anche che quando arrivò il col. Guglielmi gli diedi la notizia di quanto era successo».

Comparando le due versioni, tutto sommato poi non così dissimili, il ricercatore storico Francesco M. Biscione ha però voluto osservare:
«Anche quest’ultimo [D’Ambrosio] venne interrogato confermò di aver ricevuto la visita di Guglielmi, verso le 9 del mattino, ma disse di non ricordare di averlo invitato, confermando una falla nelle spiegazioni di Guglielmi, dato per altro che le nove del mattino sono un orario inusuale per un pranzo». (Vedi: Francesco M. Biscione, “Il delitto Moro”, Editori Riuniti, 1988).

In definitiva si avanzano solo due perplessità: l’orario di arrivo in via Fani, circa alle nove di mattina, e alle 9,30 a casa dell’amico D’Ambrosio per un pranzo e la parziale smentita di D’Ambrosio che non ricordava di averlo invitato. Tutto sommato due piccole discrasie, in qualche modo spiegabili che non dovrebbero dare adito a dietrologie.

Ma ecco che la nuova Commissione di inchiesta sul caso Moro (2014 – 2017) ascolta in audizione alcuni magistrati tra cui Luigi Ciampoli, procuratore generale presso la corte di appello di Roma, non uno qualunque, che a suo tempo aveva indagato sulla lettera anonima in cui si nominava il Guglielmi quale superiore di due fantomatici agenti dei Servizi presenti in via Fani a bordo della famosa moto Honda: una vicenda rimasta poco chiarita, ma in ogni caso altrettanto poco o nulla credibile.

Per la testimonianza di D’Ambrosio, Ciampoli ha dichiarato alla Commissione

«Il colonnello Guglielmi viene identificato come una persona presente sul posto e dà giustificazione della sua presenza alle nove di mattina per un invito ricevuto dal colonnello D’Ambrosio a casa sua per pranzo.

Viste le dichiarazioni del colonnello D’Ambrosio, abbiamo appreso che non soltanto Guglielmi non era stato invitato a pranzo, ma non era assolutamente prevista la sua visita nemmeno a quell’ora. Il colonnello Guglielmi si era presentato a casa sua insalutato ospite e dopo poco, assumendo, con una dichiarazione, che doveva lasciare la sua abitazione perché doveva essere successo a Roma qualcosa di grosso, aveva abbandonato la casa del colonnello D’Ambrosio ed era andato». (Vedi: Luigi Ciampoli, CPM2, seduta del 12/12/2014).


Quindi la Commissione ascolta Luigi De Ficchy, il quale afferma:

«D’Ambrosio dice – secondo quanto ricordo – che Guglielmi si era recato da lui alle 9, che non c’era alcun invito a pranzo e che di lì a poco se n’era andato e aggiunge di non aver notato nulla». (Vedi: Luigi De Ficchy, CPM2, seduta del 24/03/2015).

Da queste stesse audizioni, qui riportate, si farebbero risaltare delle anomalia, non di poco conto, ovvero il fatto che il Colonnello Guglielmi, secondo Ciampoli: “”si era presentato a casa sua insalutato ospite e dopo poco, assumendo, con una dichiarazione, che doveva lasciare la sua abitazione perché doveva essere successo a Roma qualcosa di grosso, aveva abbandonato la casa del colonnello D’Ambrosio ed era andato”,

e secondo De Ficchy: “Guglielmi si era recato da lui alle 9, che non c’era alcun invito a pranzo e che di lì a poco se n’era andato e aggiunge di non aver notato nulla”.

Ma come abbiamo visto, dal verbale di D’Ambrosio, intanto si parla delle 9,30 e non delle 9, ed inoltre: “il colonnello stette presso la mia abitazione con la moglie per tutta la mattinata e stette con noi a pranzo e poi nel pomeriggio ripartì per Modena”. Quindi il Guglielmi non se ne era affatto andato via poco dopo.

Tanto che la stessa CM2 ha dovuto concludere scrivendo: « Nell’ambito degli accertamenti e delle acquisizioni documentali disposti dalla Commissione (e tuttora in corso), si è riscontrato che il verbale di interrogatorio del colonnello D’Ambrosio conferma le dichiarazioni del collega Guglielmi» (Vedi: CPM2, Relazione sull’attività svolta, 10/12/2015).

E naturale che queste discrasie hanno consentito a vari autori, osservatori, critici e giornalisti, di formulare considerazioni di opposta natura a seconda delle parti che sono state prese in considerazione, trattandosi oltretutto di magistrati, che forse in audizione sono andati “a braccio” senza avere per le mani i verbali, ma una attenta analisi della questione, non concede troppe illazioni.


Altri particolari sulla vicenda



Al fine di integrare e poi valutare le due testimonianze di Guglielmi e D’Ambrosio vale aggiungere alcuni particolari che si sono appurati successivamente.
Questi particolari li riassume sinteticamente il dottor Carlo Mastelloni nel suo libro citato:

«Il giorno del rapimento di Aldo Moro, Guglielmi era libero da impegni di lavoro. Non era né nell’arma, né nei Servizi, ma in Ausiliaria; come si dice “a disposizione”.
Quel 16 marzo 1978, Guglielmi era a Roma, con la moglie da almeno un giorno, anche se risiedeva ancora a Modena dove aveva lasciato l’alloggio di servizio. Si trovava a Roma per curare il rilascio di un suo appartamento da lui acquistato in zona Spinaceto, che era in affitto ad un orefice.
La mattina del sequestro era arrivato in zona via Fani, proveniente da una traversa di via della Lungara (aveva trovato alloggio per la notte con la moglie, Maria Immacolata (deceduta nel 2014) in un convento di suore.
Erano a bordo di una 124 Special T, color verde oliva che aveva percorso via della Cammilluccia diretti a via Stresa 117 dove avevano già abitato dal 1966 al 1974 (la palazzina era di proprietà dello Stato Maggiore Difesa e vi abitavano altri militari, anche dei Servizi), per andare a trovare l’amico e collega Armando D’Ambrosio.

L’edificio era a circa 100 metri in linea d’aria dall’incrocio con via Fani.

All’inizio della lunga via Fani i due coniugi si fermano in un bar per comprare un uovo di pasqua o dei dolci per l’amico che li ospiterà.
Siamo verso le ore 09,30 di mattina e sembra che il Guglielmi intravide uno strano traffico e quindi preferì fare marcia indietro riprendendo per via Stresa.
Apprende quindi della strage una volta arrivato dal suo amico.

Sembra che Guglielmi e D’Ambrosio volevano poi, dopo colazione, recarsi a trovare ex colleghi nella sede di Forte Boccea, ma questa circostanza venne negata dal D’Ambrosio.

Ancora due particolari, rivelati da Mastelloni: il Guglielmi, dopo il suo interrogatorio del 1991 con De Ficchy, chiamò il magistrato ed espresse forti rimostranze per il sospetto che il magistrato aveva fatto filtrare particolari che e lo ponevano in cattiva luce.

Infine, da certificazione della Commissione medica dell’Ospedale militare di Bologna, risultava che il 16 maggio del 1978 Guglielmi contrasse infarto miocardico (i fautori della dietrologia presupporranno che fu a causa del dolore della morte di Moro, avvenuta il 9 maggio e di chi sà quale ruolo lui aveva avuto il giorno del rapimento).

Valutazione delle testimonianze Guglielmi - D’Ambrosio


L’esame di queste due deposizioni, Guglielmi - D’Ambrosio, e gli ulteriori particolari rivelati dal magistrato Carlo Mastelloni, anche se non sappiamo come li abbia appresi, non lasciano troppi spazzi alla dietrologia, ma come vedremo, all’allargando il campo alle inevitabili considerazioni e circostanze, non sono del tutto da scartare altre situazioni che possano far sospettare un ruolo del Gugliemi in quella mattinata, di tutt’altro genere, anche se non si possono avanzare elementi comprovati.

Questo perché, comunque la si rigiri, tutta questa faccenda, “passeggiata” mattutina de Guglielmi e la moglie compresa, non è affatto chiara.
Cominciamo con il dire che la presenza della moglie, assieme al Guglielmi, induce a pensare che lo stesso, non se la sarebbe portata dietro se avesse saputo del compiere, in quell’ora, una azione cruenta e criminosa e magari dover fare qualcosa.

Secondo poi il D’Ambrosio non smentisce l’invito a pranzo, come molti hanno detto, ma dice solo di non ricordare, cosa ben diversa anche se in queste due dichiarazioni si intravede una certa ambiguità di fondo.

Per la stranezza di un ora così prematura per una visita poi finalizzata ad un pranzo, il D‘Ambrossio (che non ricordava bene la faccenda dell’invito) minimizzava, adducendo la grande familiarità che c’era tra le loro famiglie.

Premesso ed evidenziato questo, però, non si possono scartare varie altre considerazioni che pongono dei dubbi in questa vicenda.

Le enunciamo pur senza approfondirle troppo in quanto, in mancanza di sostanziali prove concrete, resterebbero sempre congetture e sospetti o al massimo prove indiziarie.

a) Perchè nel suo interrogatorio il Guglielmi, che non poteva ignorare la delicatezza della faccenda, non rivelò che era in compagnia della moglie, cosa che avrebbe prevenuto ogni altra illazione e sospetto?

b) in conseguenza del punto precedente, che lascia comunque perplessi, si potrebbe anche essere indotti a pensare che la deposizione del D’Ambrosio era stata concordata, proprio per mettere una pezza ad un racconto assurdo, ruotante attorno ad un invito a pranzo in cui ci si presentava alle ore 9,30, poco credibile.

c) A quanto sembra il Guglielmi arriva a casa D’Ambrosio verso le 9,30, quindi imprecisati pochi minuti prima si trovava all’inizio di via Fani dove, in un bar, aveva comprato un uovo di pasqua o dei dolci. Dice che si accorse solo di un certo affollamento di traffico e quindi preferì fare un pezzo di strada indietro per raggiungere da un altro lato la vicina via Stresa. Considerando che la sparatoria all’incrocio di via Fani, è avvenuta alle 9.02 e durò pochi minuti, poi ci fu la fuga delle auto dei brigatiti con Moro verso via Stresa, proprio verso il lato di strada dove trovasi il civico 117, quindi in pochi minuti l’incrocio di via Fani si riempì di gente sgomenta, eccitata e allarmata e tutto attorno si diffuse questa notizia, mentre oltretutto arrivavano auto della polizia a sirene spiegate, questo racconto ci lascia perplessi.

· Se il Guglielmi e consorte comprarono in quel bar i dolciumi, poco prima delle 9.02, sembra strano che poi ci impiegarono quasi ben 30 minuti per arrivare alla vicinissima via Stressa civico 117 e ancor più, prima dell’agguato, la via Fani non doveva essere intasata e quindi si poteva percorre normalmente. Ma invece il Guglielmi direbbe, come riporta Mastelloni, di aver notato uno strano traffico" tanto da fare marcia indietro. Questo farebbe pensare che era in atto la sparatoria giù in fondo verso l’incrocio o si era appena conclusa, ma in questo caso come è possibile che il Guglielmi non si sarebbe accorto di nulla?

· Viceversa se arrivò poco dopo, ad agguato consumato, come è possibile che tra i 10 e 20 minuti successivi, ovvero proprio verso le 9,30, quando tutto il circondario doveva parlare con grande allarme ed eccitazione di quanto avvenuto, il Guglielmi e la moglie che presumibilmente hanno imboccato via Sangemini per raggiungere via Stresa nella parte alta, proprio dove poco prima erano fuggite le auto dei brigatisti, non si accorsero di nulla e il Guglielmi sostiene invece - e il D’Ambrosio conferma - che apprese dell’agguato e rapimento di Moro, una volta arrivato a casa del suo amico?

In entrambi i casi è sinceramente poco credibile, tanto più che se fosse stato distratto, in macchina aveva anche la moglie. Ciechi, sordi e distratti?


d) Ci si chiede allora, come mai che i due amici, tutt’ora nell’arma e con su le spalle lavori di Intelligence (tra l’altro un rapimento e un agguato erano proprio materia a cui il Guglielmi non era estraneo), non sentirono, non diciamo il dovere, ma almeno la curiosità, umana e di servizio, di scendere e andare a vedere cosa era accaduto, per un evento a poche decine di metri da loro, di cui oramai tutto il quartiere parlava e radio e televisioni davano notizie senza soluzione di continuità.

Anche questo aspetto è sinceramente poco credibile.

Sommando tutte queste, sia pur divergenti, considerazioni si può forse scartare una ipotesi cospirativa devastante (partecipazione del Guglielmi al rapimento, come in qualche modo insinuava il film di Renzo Martinelli “Piazza delle cinque lune”, che aveva avuto la consulenza del senatore Sergio Flamigni), ma non del tutto un certo ruolo, magari di “controllo sul posto” sulla base di precedenti informazioni, per il quale in seguito per ragioni di opportunità e di sicurezza si era preferito tacere, per non ingenerare sospetti.

Si immagini infatti cosa sarebbe accaduto se si fosse rivelato che un ufficiale dei carabinieri, che aveva lavorato per i Servizi, si trovava a pochi passi dal luogo e dall’ora della strage.

L’obiezione che difficilmente si sarebbe mandato in quella zona il Guglielmi, il quale vi aveva abitato e quindi poteva essere riconosciuto, è un arma a doppio taglio, perché questo è vero, ma è anche vero che proprio perché ivi vi era l’amico D’Ambrosio il Guglielmi aveva una valida scusa per essere passato da quelle parti.

Si può così condividere una impressione del senatore Miguel G0tor, membro della nuova Commissione Moro, che mi venne espressa personalmente per email, secondo la quale, pur scartando ipotesi dietrologiche, si poteva presumere che il Guglielmi abbia voluto fornire una versione dell’invito a pranzo (oltretutto, aggiungiamo noi, “invito a pranzo” potrebbe essere un gergo militare per dire che “si è avuto un incarico”, tralasciando ovviamente di citare la moglie), così inverosimile al magistrato che lo interrogava, diciamo provocatoria, perché tra le righe gli voleva dire:

«Lei è un servitore dello Stato come me, io stavo lavorando ed ero lì per ragioni di ufficio che non posso verbalizzare", perché evidentemente non potevano essere rese pubbliche all'inizio degli anni ‘90, insieme con la sua funzione di allora. Il problema è un altro: se il magistrato si è fatto dire una cosa simile senza sollevare alcuna obiezione (e non dico incriminarlo per falsa testimonianza pur essendoci tutti gli estremi), vuol dire che c'era un reciproco rispetto di carattere istituzionale nel definire questo tipo di versione che si è voluto accomodare in modo tanto laboriosamente maldestro, forse proprio perché ne rimanesse traccia».

La deduzione di Gotor che pur dice di scartare elucubrazione dietrologiche lascia però il campo aperto ad una presenza del Guglielmi che in qualche modo riguarda l’agguato e quindi il colonnello qualche incarico da svolgere doveva averlo.

Ovviamente questo implica il fatto che “qualcuno” doveva sapere dell’agguato e si questa supposizione, possiamo tranquillamene dire che “si, è molto probabile, che c’era chi sapeva dell’agguato”, come indicheremo più avanti.

Quindi nessuna dietrologia, ma lasciare il campo aperto a “qualcosa” che ci sfugge e non possiamo esattamente individuare, non è poi così peregrino,


Un nostro pensiero


In conclusione: se le ipotesi cospirative o dietrologiche non sono comprovabili, vi sono però degli aspetti comunque sconcertanti,

Ecco che allora, tornando a parlare dell’ambiguità che riveste la dichiarazione del Guglielmi al dottor De Ficchy, quella di essersi recato a pranzo dall’amico D’Ambrosio presentandosi prematuramente verso le 9,30 e oltretutto tacendo il fatto che era con la moglie (prendiamo per buona questa “compagnia”, sebbene non subito accennata al magistrato), lascia perplessi.

Per prima cosa, non crediamo o comunque ci sembra molto strano, che si venne a riferire, da parte del Ravasio, quel genere di confidenze, prima ad un collaboratore di un noto settimanale (Panorama) e tempo dopo ad un deputato dell’area comunista e membro della Commissione stragi, solo perchè politicamente delusi o scontenti del proprio recente servizio nei carabinieri.

Di solito questo genere di clamorose rivelazioni si fanno per ben altri motivi e spesso ci sono dietro delle speculazioni o qualcuno che le imbecca perchè interessato al polverone che vanno a ingenerare.

Anche la deposizione del Guglielmi, con il particolare del pranzo che tante perplessità ha sollevato, lascia a pensare.

Per questa audizione, a cui il Guglielmi era stato convocato dal dott. De Ficchy, è probabile, infatti, se non dato per scontato, che il Guglielmi aveva avuto modo di ponderare la cose, magari consultarsi con i superiori che in qualche modo erano stati chiamati in causa. Che sapesse o meno che il Ravasio aveva anche ridimensionato tutta la faccenda, bastava ora che il Guglielmi, in qualche modo, fugasse del tutto ogni dubbio e la storia finiva lì.

Cosa disse invece il Guglielmi al magistrato?

Gli riferisce che quel giorno stava andando da un suo amico, il colonnello Armando D’Ambrosio, abitante in via Stresa 117, nei pressi di via Fani, perche invitato a pranzo. Avrebbe potuto tranquillamente confermare che era passat0 da quelle parti perchè andava a trovare il suo amico, ma di certo, essendosi svolto il fatto tra le 9 e le 9,30 di mattina, la storia del pranzo lasciava perplessi.

Ma ancor più tacque anche che era in compagnia della moglie, laddove questo solo particolare avrebbe prevenuto o smontato ogni ipotesi “cospirativa”.
Ed invece, inevitabili, si scatenarono dubbi e polemiche.

Comunque, tre giorni dopo, convocato dal magistrato anche il colonnello D’Ambrosio, che nel frattempo, non è da escludere, si fosse sentito con il suo amico, questi gli mise una “pezza”, dicendo che a prescindere dall’invito a pranzo che non ricordava, questi incontri tra loro erano famigliari e comunque il Guglielmi si era presentato con la moglie.

La storia quindi, per la presenza della moglie, assumeva tutta una altra dimensione, ma stranamente questo particolare è rimasto sconosciuto fino a quando non si richiese dalla nuova Commissione Moro, il relativo verbale.

A questo punto delle due l’una: o la faccenda della presenza della moglie era un invenzione nel frattempo concordata dai due amici, per mettere una pezza e sollevare il Guglielmi e il Servizio da pesanti sospetti, oppure per qualche motivo il Guglielmi non l’aveva voluta riferire, mettendosi pero’ in una imbarazzante situazione. Volutamente?

Noi che poco crediamo a certe coincidenze, possiamo solo fare una supposizione, che prescinde, perché non provabile, dal fatto che il Guglielmi quel giorno era stato inviato vicino via Fani per dare una sbirciatina a “qualcosa” che si sapeva sarebbe accaduto, o come i dietrologi dicono, si poteva anche sospettare che vi fosse stato mandato, addirittura per qualche altro compito più “impegnativo”.

Ritorniamo a quei giorni precedenti il caso Moro: ci sono pochi dubbi che settori di Intelligence e non solo, non sapessero che si stava per compiere un grave attentato in Italia.

E questo in virtù non tanto delle segnalazioni che erano arrivate da Beirut e dalla Francia o delle informative di infiltrati nelle BR (parlavano di “lavori” da fare per allestire una prigione, pur non indicando di cosa esattamente si trattasse, e si cercava “un compagno esperto in muratura” da far venire a Roma), ma in virtù della semplice deduzione che a gennaio ’78 le BR, a quanto ne sappiamo e riferito, passarono alla fase esecutiva di preparazione dell’agguato.


Questo comportò l’incarico, come documentato da testimonianze di dissociati e pentiti, che le varie brigate territoriali dovevano, tra le altre cose, anche reperire diverse auto di varie caratteristiche, se ne chiedeva almeno una decina. Questo ed altre particolarità fecero capire ai brigatisti della colonna romana, regolari e irregolari, che pur non sapevano niente del rapimento Moro, che comunque era in preparazione qualche cosa di grosso.

E questi brigatisti, tutti giovani, vivevano a contatto con tanti militanti e simpatizzanti del Movimento, centinaia di altri giovani a cui ”qualcosa” accennavano circa una imminente grossa operazione, senza poter specificare di cosa si trattasse.

Orbene i nostri apparati di sicurezza, le polizie, gli infiltrati, i confidenti, tutti avevano un orecchio in quella vasta area, nel Movimento, e non possono non aver recepito questi segnali.

A questo si aggiunga che non era difficile per “chi di dovere” mettere in relazione una grande impresa terroristica in Roma, proprio con Moro.

Si da il caso infatti che negli ultimi tempi i segnali di una certa pressione su Moro erano aumentati, la sua scorta sospettava pedinamenti, strane auto attorno e il maresciallo Leonardi aveva fatto presente ai suoi referenti queste cose.

Ma non se ne fece niente di niente, come non detto, anzi nel dopo Moro si è cercato di negare che c’erano stati questi avvertimenti e richieste da parte della scorta di Moro, per una auto blindata, ma si è sempre stati smentiti dai famigliari di Moro, dello stesso Leonardi e dell’autista Ricci che invece hanno ricordato queste preoccupazioni.

Quindi si sapeva che era in preparazione un grosso attentato a Roma ed era facile intuire che riguardasse proprio Moro.

Ed invece di infittire la sorveglianza, proprio per il 16 marzo venne soppressa la bonifica strade, un servizio curato dal Commissariato di Monte Mario, che vi impiegava due poliziotti, posti in borghese su un auto civetta che al mattino pattugliavano tutte quelle strade attigue alla Trionfale, via Fani compresa, dove abitavano molte personalità sensibili da proteggere.

Il poliziotto Adelmo Saba, il 15 marzo ‘78 venne posto incredibilmente a riposo proprio per il successivo giorno 16, con sua grande sorpresa come ha dichiarato alla seconda Commissione Moro e senza che lui lo abbia richiesto, e così avvenne per il suo collega.

Facciamo solo notare che se quella mattina fosse stata in servizio la “bonifica”, probabilmente l’auto civetta, preposta a fermare persone o auto sospette, avrebbe intercettato i brigatisti appostati all’angolo di via Fani con via Stresa e l’agguato sarebbe fallito.

Coincidenza? Possibile, anche se ci crediamo poco, ma di certo sconcertante.

Se quindi possiamo supporre che “qualcuno” sapeva dell’agguato, anche se qui bisognerebbe supporre che ne sapesse del luogo e orario, questo “qualcuno” mandò Guglielmi a “dare una occhiata”.

Noi questa ipotesi non la scartiamo.

Ma c’è un altro aspetto, che pur non riguardante il rapimento di Moro vero e proprio, e pone degli interrogativi su tutta questa vicenda Guglielmi.

E un supposizione che ci viene spontaneo fare e la esplicitiamo senza alcuna pretesa, precisando però che appunto di “supposizione” si tratta: le rivelazioni clamorose di Ravasio del dicembre ‘90, a nostro avviso non furono casualmente riesumate e divulgate così, a quel dato momento, ma che probabilmente si voleva far “scoppiare il caso”, un caso che avrebbe sollevato dubbi e polemiche a non finire. Ci viene spontaneo chiedere “a chi giovava? Perché, in genere, queste “rivelazioni” clamorose difficilmente sono casuali.

E allora possiamo anche supporre che il Guglielmi fece del suo meglio per lasciare in sospeso un forte dubbio con la frase “ero invitato a pranzo”, senza aggiungere “con mia moglie”, e questo, nel caso, ci pone nel dilemma del perchè lo fece: forse per una forma di orgoglio con il magistrato De Ficchy, ovvero per ostentare che lui era un uomo dello Stato proprio come il magistrato, e con “l’invito a pranzo”, un gergo tipico in certi casi, intendeva dire che doveva compiere una certa missione, oppure, viceversa, ha introdotto volutamente un elemento dubbioso, per mandare un messaggio a “chi di dovere”? O altro ancora?

Non lo sappiamo, poco ma sicuro però che il Guglielmi difficilmente poteva ignorare che raccontando solo di un “invito a pranzo”, dove era arrivato per le 9,30, senza nominare la moglie, avrebbe destato forti dubbi e sospetti.

Sorge quindi il sospetto che il caso Guglielmi in quel periodo mise in difficoltà una parte dei Servizi e questo forse poteva tornare politicamente comodo a “qualcuno” (forse per l’imminente “golpe” di “mani pulite”? A novembre del 1990 si sussurrava in ambienti giudiziari che con il nuovo anno quel Mario Chiesa, esponente socialista milanese, da cui partì tutta l’inchiesta “mani pulite”, da molti definita un mezzo Golpe silenzioso, sarebbe stato arrestato).

Le rivelazioni di Ravasio e la denuncia di Cipriani, potevano essere funzionali a queste vicende che di lì a poco assunsero aspetti clamorosi?

E’ una ipotesi, solo una ipotesi, extra rapimento Moro, non di più, ma vale la pena considerarla.

Per il resto comunque la mettiamo si resterà sempre nel campo delle ipotesi.

Per saperne di più:

- Giacomo Pacini: “Le altre Gladio”, Ed. Einaudi, 2014
- (A cura di) Sergio Flamigni: “Dossier Gladio”, Ed. Kaos, 2012
- G. Fasanella, C. Sestieri, Giovanni Pellegrino: “Segreto di Stato”, Ed. Einaudi, 2000






Invia tramite email
Postalo sul blog
Condividi su Twitter
Condividi su Facebook
Condividi su Pinterest
17 commenti:

Edited by barionu - 10/6/2023, 13:13
 
Top
CAT_IMG Posted on 4/5/2021, 15:46
Avatar

www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=44&t=18168

Group:
Administrator
Posts:
8,422
Location:
Gotham

Status:





www.fondazionecipriani.it/Scritti/indice.html

www.fondazionecipriani.it/Scritti/ilcaso.html


L'AFFARE MORO

Il pezzo che segue si legga con l'avvertenza che l'impiegato di banca e collaboratore di Panorama di cui si parla è Emanuele Bettini, giornalista e storico, autore di Lo stragismo da Gladio al caso Moro, nel nostro Quel Marx di San Macuto; nonché del volume La repubblica parallela, EDS 1996 ove ulteriori notizie sul caso Ravasio.



[Luigi Cipriani, Il caso Pierluigi Ravasio,

8 maggio 1991, Relazione alla Commissione stragi




" Ravasio disse che il suo gruppo indagò sul caso Moro e venne a conoscenza del fatto che il rapimento era stato organizzato da una banda di malavitosi che agiva nella zona di Fiumicino, probabilmente la banda della Magliana. Venuti a conoscenza del fatto che Moro era tenuto dai malavitosi e riferito ciò ai superiori, le indagini furono fermate da un ordine proveniente da Andreotti e Cossiga, il loro gruppo sciolto ed i componenti dispersi, i rapporti bruciati "



Pierluigi Ravasio di trentatre anni, nato a Mapello in provincia di Bergamo, ex carabiniere paracadutista congedatosi nel 1982, passato alla professione di guardia giurata, sino al 1990 residente in Cremona, attualmente tornato al paese d'origine. Per tradizione di famiglia Ravasio è un templare, come il padre a sua volta ex carabiniere paracadutista aderente alla Rsi. Ravasio si è presentato come un fascista deluso.

Agli inizi del 1987 due guardie giurate dell'Ivri -tra le quali Ravasio- in servizio di fronte alla Cassa di risparmio di Piacenza, filiale di Cremona, iniziarono una discussione con un impiegato della banca riguardante la tematica dei mercenari ed i corpi speciali. Alcuni giorni dopo, Ravasio invitò nella sua abitazione l'impiegato ed in presenza della seconda guardia giurata iniziò a raccontare la propria storia, non senza avere messo in bella evidenza la propria pistola ed un fucile a pompa, che disse essere l'arma che comparirà nelle figure del Manuale del guastatore da lui stesso redatto.

Ravasio disse di essersi arruolato nel 1976 nel corpo dei carabinieri paracadutisti di Livorno, di essere entrato nei Gis e di avere partecipato alla repressione della rivolta nel carcere di Trani. Nel 1978, avvicinato da un ufficiale del Sismi, decise di entrare nel servizio e fu assegnato all'ufficio sicurezza interna nella VII sezione dell'ufficio R di Roma.

Il tesserino del Sismi in fotocopia mostrato da Ravasio porta la firma di Santovito e Musumeci ed il n.36: che non dovrebbe essere casuale, ma indicare un ordine di importanza (Santovito ha il n.1), il ruolo dell'agente. Musumeci e Belmonte erano i capi dell'ufficio cui Ravasio faceva riferimento, mentre i diretti superiori erano il colonnello Guglielmi (detto papà) ed il colonnello Cenicola. L'ufficio era situato a Forte Braschi mentre la squadra (sei persone) con la quale Ravasio operava era stanziata a Fiumicino. Ravasio mostrò anche fotografie che lo ritraevano in divisa e armato con altri gruppi di corpi speciali (Usa, Germania, Israele), mostrò una foto in tenuta da templare in una cerimonia a Dublino. Ravasio disse di essere in possesso del Nos di grado Cosmic.

Mostrando il manuale da lui firmato, intitolato C.a.g.p.Cenni fondamentali sulle tecniche di sabotaggio ed antisabotaggio, disse di essersi recato diverse volte ad addestrarsi a Cala Griecas (capo Marrangiu) e di avere avuto come istruttori Alfonso (al quale è dedicato il manuale) e Decimo Garau, il primo maresciallo degli alpini, il secondo ufficiale di marina. Disse di far parte di un gruppo di quattrocento persone suddivise in nuclei di sei, il cui compito era di opporsi a sommosse interne da parte della sinistra.

Il gruppo era in grado di entrare in clandestinità in poco tempo e di bloccare le comunicazioni isolando intere città e zone del paese. Ravasio disse di avere iniziato il proprio addestramento a Livorno coi paracadutisti e di essere successivamente passato a Cala Griecas ed aggiunse di essere stato addestrato ad azioni di infiltrazione ed a compiere attentati all'estero. Partecipò anche all'addestramento di militari israeliani che attuarono la repressione contro i palestinesi denominata "pace in Galilea". Ciò avveniva col consenso del Sismi a che Ravasio potesse recarsi in Israele, nei confronti del quale esiste un'antica alleanza coi templari derivante dalla comune difesa del tempio di Salomone.



Il caso Moro

Ravasio disse che il suo gruppo indagò sul caso Moro e venne a conoscenza del fatto che il rapimento era stato organizzato da una banda di ex detenuti e malavitosi che agiva nella zona di Fiumicino, molto probabilmente la banda della Magliana. Venuti a conoscenza del fatto che Moro era tenuto dai malavitosi e riferito ciò ai superiori, le indagini furono fermate da un ordine proveniente da Andreotti e Cossiga, il loro gruppo sciolto ed i componenti dispersi, mentre i rapporti che quotidianamente venivano compilati furono bruciati. Ravasio venne inviato a Ciampino, dove svolgeva compiti di vigilanza sugli aerei della Cai del Sismi.

Ravasio disse anche che Musumeci aveva un infiltrato nelle Br, era uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era Franco, il quale avvertì con una mezzora di anticipo che Moro sarebbe stato rapito. Uno dei superiori diretti di Ravasio, il colonnello Guglielmi -attualmente deceduto- si trovò a passare da pochi metri da via Fani, ma disse di non aver potuto fare niente per intervenire.

Come ricompensa per il rapimento e la gestione del caso Moro, il Sismi consentì alla banda di poter compiere alcune rapine impunemente. Una avvenne nel 1981 all'areoporto di Ciampino, quando i malavitosi travestiti da personale dell'areoporto sottrassero da un aereo una valigetta contenente diamanti provenienti dal Sudafrica. Una seconda avvenne in una banca nei pressi di Montecitorio dove furono aperte molte cassette di sicurezza e da alcune, appartenenti a parlamentari, furono sottratti documenti che interessavano il Sismi.

A seguito di uno screzio avuto col capocentro CS di Milano e pochi mesi prima della scoperta degli elenchi della P2, Ravasio lasciò il Sismi per trasferirsi alla sezione anticrimine di Parma fino al 1982, data di stesura del manuale di cui s'è detto e del suo congedo. Successivamente Ravasio lavorò per un istituto di guardie private, l'Ivri, prima a Brescia e poi a Cremona dove alloggiava, ed ha svolto anche la funzione di istruttore presso il locale tiro a segno.



Come conobbi Ravasio

Nel dicembre 1990 si svolse a Cremona un dibattito sulla vicenda Gladio, alla fine del quale venni avvicinato dall'impiegato di banca al quale, all'inizio del 1987, Ravasio fece le sue confidenze. Egli mi disse che prima dell'esplodere del caso Gladio non aveva dato eccessiva importanza al racconto fattogli, ma che ora riteneva opportuno che io ne venissi a conoscenza nella mia funzione di componente della Commissione parlamentare sulle stragi e mi consegnò una copia del manuale. Incuriosito, chiesi a Ravasio -del quale avevo rintracciato il recapito telefonico- di poterlo incontrare, cosa che avvenne prima del Natale 1990 in un ristorante di Cremona.

L'ex agente del Sismi mi disse che non intendeva assolutamente essere coinvolto né dalla Commissione stragi né dalla magistratura e di avere acconsentito ad incontrarmi solo per darmi qualche informazione utile al mio lavoro, stanti le fortissime delusioni avute dalla destra politica e dai servizi segreti; ma che non desiderava io facessi il suo nome. L'incontro si protrasse per circa due ore, durante le quali Ravasio confermò sostanzialmente quanto aveva detto all'impiegato di banca, presente anche nella nuova circostanza.

Che Ravasio e il gruppo cui appartiene avesse deciso di coinvolgere la stampa nelle confessioni è dimostrato dal fatto che l'impiegato di banca è corrispondente da Cremona per il settimanale Panorama, cosa nota a Ravasio e che prima di incontrare me si era incontrato nel novembre 1990 a Cremona con la giornalista Valeria Gandus, dalla quale si era fatto intervistare maneggiando una pistola di grosso calibro di marca israeliana. Successivamente nel proprio appartamento, tra fotografie e fotocopia del tesserino Sismi, Ravasio mostrò un'altra pistola marca Beretta. L'incontro con la Gandus era stato originato dal fatto che su Panorama era uscito un articolo che si rifaceva a quanto raccontato da Ravasio nel 1987, cosa che lo fece infuriare ma non gli impedì di farsi intervistare, salvo minacciare la giornalista se avesse fatto il suo nome.

Ravasio mi disse che in quei giorni aveva visto sui giornali la foto del generale Inzerilli che aveva visto spesso a Cala Griecas come istruttore e che era noto come il signor Paolo. Mi disse che durante il proprio servizio a Ciampino fece servizio di vigilanza sugli aerei della Cai in occasione del viaggio di trasferimento del generale Dalla Chiesa da Roma a Palermo, dopo la nomina di quest'ultimo a prefetto del capoluogo siciliano. Mi disse anche di essere stato stanziato presso il Rus (raggruppamento unità speciali) ex Rud (raggruppamento unità difesa) di Roma, che disponeva anche di un centro di ascolto del Sismi dislocato sull'Aurelia al Km.42,5 allo svincolo per Ladispoli.



Alcune verifiche

Durante la sua audizione in Commissione stragi il generale Cismondi ad una mia domanda ha confermato che Alfonso e Decimo Garau erano istruttori della Gladio a Cala Griecas (capo Marrangiu), rendendo credibile il racconto fatto da Ravasio nel 1987, un periodo non sospetto. D'altro canto, recentemente il senatore Cazora ha confermato al magistrato romano che sta indagando sulle trattative condotte durante il sequestro Moro che si ebbe coscienza del fatto che il presidente della Dc fosse "custodito" dalla banda della Magliana. Del resto numerose volte Cutolo ha alluso al fatto di essere a conoscenza di molti aspetti del sequestro Moro. A tale proposito va ricordato che il suo vice Casillo era in contatto sia con la banda della Magliana, sia col Sismi e col Sisde (vedi caso Cirillo). Anche in questo caso il racconto di Ravasio ha molti elementi di credibilità.

In conclusione va aggiunto che la sera precedente il nostro incontro a Cremona, Ravasio venne fermato dalla Digos ed incriminato per il possesso di due proiettili per arma da guerra. A seguito di una perquisizione nell'abitazione dell'ex guardia giurata ex agente del Sismi, la Digos rinvenne armi (regolarmente denunciate) ed una tuta mimetica. Il prefetto di Cremona è intervenuto ingiungendo a Ravasio di consegnare il porto d'armi e di vendere le armi di cui era in possesso. Ravasio è stato rinviato a giudizio.

Torna all'indice

--------------------------------------------------------------


L'AFFARE MORO

Luigi Cipriani, Il black out dei telefoni (Stralcio da: La cosiddetta Sip parallela,

pubbl.supra sotto Stragi e strategie autoritarie)

. Il giorno 15 marzo 1978, il giorno prima del rapimento dell'on. Moro, la struttura della Sip fu posta in stato di allarme.

La spiegazione della utilità della Sip durante i cinquantacinque giorni del sequestro di Moro è data dalle disposizioni di Infelisi, di Spinella e dell'ing. Aragona.

Il comportamento della Sip, durane il sequestro e la prigionia di Moro, secondo le dichiarazioni del magistrato e dell'allora capo della Digos furono di totale non collaborazione, non un solo telefonista fu bloccato a seguito del blocco della conversazione che consente di risalire rapidamente al chiamante.

Spinella giunge ad affermare che fece due segnalazioni all'autorità giudiziaria e che la Sip doveva essere denunciata. Si badi che Spinella non fa riferimento a comportamenti di alcuni, ma si riferisce all'atteggiamento dell'azienda nei confronti degli inquirenti. La non collaborazione della Sip fu quindi funzionale agli interessi dei sequestratori di Moro.

Spinella rappresenta anche la divaricazione tra l'estrema efficienza della Sip nell'operazione che condusse all'arresto di Viscardi e la non collaborazione, per non dire sabotaggio, della Sip durante il sequestro Moro, giungendo ad affermare che gli sviluppi della vicenda Moro sarebbero stati completamente diversi se non ci fosse stato l'atteggiamento negativo della Sip.

Ricapitoliamo per ordine.

Infelisi giunge in via Fani, accerta un black-out telefonico, fa giungere immediatamente una squadra di tecnici della Sip che lo confermano. La Sip nega per ben due volte tutto ciò.

Osserviamo che l'interruzione telefonica ha una importanza notevole per i rapitori. Infatti qualche persona della zona, attirata dal rumore degli spari, avrebbe potuto affacciarsi sul luogo del delitto e segnalare telefonicamente agli organi di polizia fatti e circostanze. La struttura aveva sicuramente predisposto le modalità dell'attuazione del black-out. Il 4 aprile 1978 la polizia è in attesa di una telefonata alla redazione del Messaggero da parte dei rapitori, che fanno trovare una lettera dello statista.

La polizia predispone la derivazione delle sei linee del giornale con cavo di raccordo presso un suo locale per individuare la provenienza della telefonata per giungere a bloccare il telefonista. La telefonata arriva, ma la Digos nulla può fare perché tutte e sei le derivazioni sono interrotte. La Sip addurrà motivazioni a dir poco risibili. Oltre a questi, altri episodi sono elencati dal dott. Spinella. La lettura dell'audizione dell'ing. Aragona della Sip, inviato dall'azienda quale suo rappresentante, dimostra quanto sia difficile, a fronte di contestazioni ben precise, mentire.

Anche Aragona è pieno di "dubbi" e "incertezze". Il senatore Flamigni, anche con termini non del tutto esatti, lo interroga poi sull'esistenza di una struttura segreta esistente in Sip, allertata (anche se il senatore non spiega bene) il 15 marzo. Aragona balbetta, nega, poi ammette parzialmente. Smentirà tutto, per ordini superiori, con la risposta scritta.

Paese Sera, nel luglio 1984, pubblicò un articolo dove si faceva riferimento alla scarsa collaborazione della Sip durante il rapimento Moro. Il comunicato di risposta della Sip cerca ancora di far passare l'esistenza di una struttura preposta alla protezione degli impianti. In occasione della presentazione del governo presieduto dall'on. De Mita, l'on. Capanna, nell'aprile del 1988, nel suo discorso dinanzi alla affollata assemblea di Montecitorio che stupita ascoltava, fece presente l'esistenza della struttura Sip e dell'allertamento del 15 marzo. Nessuno reagì, nessuno rispose.





Edited by barionu - 4/5/2021, 17:15
 
Top
CAT_IMG Posted on 4/5/2021, 16:10
Avatar

www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=44&t=18168

Group:
Administrator
Posts:
8,422
Location:
Gotham

Status:







www.fondazionecipriani.it/home/ind...rallela-dossier




La cosiddetta Sip parallela. Dossier

Luigi Cipriani, La cosiddetta Sip parallela


(presentato sotto forma di relazione alla Commissione stragi nella primavera 1991)

" Le telecomunicazioni sono, per i servizi di ogni paese, uno dei cardini delle loro attività. Qui i servizi sono di casa e la Stet può comodamente mutuare privilegi in commesse militari con attività parallele della Sip. E' tra il '68 e il '69 che la Cia decide di costituire la rete occulta e quindi la Sip sta per apprestare al suo interno la nuova rete occulta "

Andreotti, il generale Ambrogio Viviani, ex capo del controspionaggio del servizio segreto, giornali che riportano le notizie sulle indagini del giudice Casson ci hanno confermato -e si tratta di conferme certamente autorevoli- che le ipotesi più volte espresse in passato, circa l'esistenza di una rete occulta e segreta, con compiti non ancora ben circoscritti, non erano frutto di fantasia.

Certamente una rete di questo tipo, per quanto se ne sa, ha bisogno di una struttura di supporto altrettanto segreta o per lo meno coperta dal segreto. Di certezze, a questo proposito, ne abbiamo una, e cioè che all'interno della Sip è stato costituito un reticolo operativo, articolato territorialmente, strutturato gerarchicamente secondo lo schema organizzativo dell'azienda: livello di direzione generale, regionale e di agenzia.

La Sip, in effetti, ha sempre avuto una certa propensione a collaborare con i servizi in modo illegale. La sua collaborazione con il Sifar per la realizzazione delle schedature attuate dal generale De Lorenzo (che si serviva di intercettazioni illegali) è dimostrata inequivocabilmente dalla circolare interna n. 54 del 6 giugno 1968. Infatti, con tredici anni di ritardo, la Sip informa le sedi operative delle proprie dipendenze che la legge n. 517 del 18 giugno 1955 ha modificato le norme per poter operare intercettazioni telefoniche.

Prima di quella legge, chiunque si fosse qualificato come agente di polizia giudiziaria aveva libertà di accesso alle centrali telefoniche per operare o ordinare intercettazioni telefoniche.



La legge del 1955 modificava tale procedura poiché rendeva obbligatorio, per gli agenti che si presentavano alla Sip per tali operazioni, l'esibizione di un decreto motivato di autorizzazione dell'autorità giudiziaria. Ci vuol poco per capire che per ben tredici anni tutto ha funzionato come se la legge non esistesse, poiché la Sip ha "dimenticato" di dare disposizioni e rendere note le nuove norme del codice di procedura penale.

La decisione della Sip non è né fortuita né casuale. Il 6 giugno 1968 è già noto che il colonnello Rocca sarà interrogato dalla Commissione parlamentare d'inchiesta che indaga sulle deviazioni del Sifar e la Sip si cautela. Il colonnello Rocca si "suiciderà" il 27 giugno 1968. Rocca, oltre ad essere il capo dell'ufficio Rei del Sifar dal 1962, era il curatore del piano di offensiva anticomunista Demagnetize e il suo nume tutelare era Thomas Karamessines, capo della sezione Cia a Roma.

Ma la datazione della circolare Sip può avere anche un altro significato. Infatti, anche secondo quanto affermato dal generale Ambrogio Viviani, già capo del controspionaggio del servizio militare, è tra il '68 e il '69 che la Cia decide di costituire la rete occulta e quindi la Sip, oltre a ragione di cautela per quanto potrebbe emergere dall'inchiesta, sta per apprestare al suo interno la nuova rete occulta.

L'estensione della circolare, in conclusione, invita il personale dell'azienda ad essere flessibile nell'adozione delle nuove norme poiché scrive "... alcuni casi particolari potrebbero dare adito ad interpretazioni diverse da quelle progettate: sarà perciò opportuno che, in tale ipotesi, si eviti di assumere atteggiamenti troppo rigidi ed intransigenti. Comunque, in presenza di casi particolari, potrete interpellarci per le vie brevi circa la condotta da tenere".

È un vero invito ad eludere la legge qualora qualcuno ne abbia la necessità: eventuali assensi saranno dati ai più dubbiosi a voce o telefonicamente (tanto da non lasciar tracce) e cioè "per le vie brevi". Questo documento costituisce una prova storica del legame esistente tra servizi e Sip.

Nel mese di maggio 1977 il sostituto procuratore della repubblica di Bologna, dottor Claudio Nunziata, avviò una inchiesta nei confronti della Sip (p.567/0/77) relativamente a dispositivi di prova di ascolto che non erano dotati dei toni acustici di inclusione come previsto dalla legge. A conclusione dell'indagine furono rinvenuti elenchi di utenze intercettate per periodi anche di 36 mesi senza notizia di alcuna autorizzazione dell'autorità giudiziaria.

Si badi che accanto al numero telefonico (esatto) era posto un nominativo di fantasia affinché i tecnici che dovevano realizzare le connessioni ignorassero l'identità degli utenti: che erano, in gran parte, partiti politici, giornalisti, operatori di vari settori.

Le telecomunicazioni sono, per i servizi di ogni paese, uno dei cardini delle loro attività. La Sip è posseduta quasi totalmente dalla finanziaria Stet, che raggruppa un notevole gruppo di società. Oltre alle telecomunicazioni Italcable, Telespazio e Sip, la Stet possiede grossi complessi per la produzione di materiale militare, quali ad esempio la Selenia, la Oto-Melara, la Vitro-Selenia, la Elsag, ecc. Qui i servizi sono di casa e la Stet può comodamente mutuare privilegi in commesse militari con attività parallele della Sip.

Fino a pochi mesi fa, presidente della Stet era Michele Principe, piduista per sua stessa ammissione. In precedenza era l'amministratore delegato della Selenia di cui in seguito divenne presidente. Principe è l'uomo della Nato nel settore delle telecomunicazioni, dove ha trascorso una vita, con compiti particolari.

Agli inizi della sua carriera è stato dirigente della segreteria Nato presso il ministro delle poste, divenendo in seguito presidente del delicatissimo organismo strategico della Nato nel settore delle telecomunicazioni Civil communications and Planning committee".

Principe entrò nelle telecomunicazioni nel 1948 e già allora iniziano i suoi legami con servizi e Nato. È l'uomo della P2 inserito nel commercio delle armi (Selenia) e nel delicatissimo settore delle telecomunicazioni. È stato responsabile della realizzazione della ragnatela delle reti occulte della telecomunicazione.

Passiamo ora ad esaminare il documento che reca l'intestazione "Po/src regolamento interno di sicurezza per la tutela del segreto". Questa struttura è collegata al Sismi: la prima copia infatti è inviata alla autorità nazionale della sicurezza. L'organizzazione amministrativa è quella tipica dei servizi. Che sia una struttura inserita nei servizi lo si desume anche dal fatto che l'autorità nazionale della sicurezza non si limita ad omologare la proposta della Sip, per quanto riguarda "l'incaricato della sicurezza", ma è il servizio che lo designa su proposta ecc.

Nel fascicolo, tra i vari compiti assegnati agli incaricati dei settori, si fa cenno alla realizzazione di collegamenti predisposti a seconda dei "vari stati di allarme" e ciò fa intendere che gli allarmi sono di diversi livelli e diversi sono i collegamenti.

Si fa riferimento inoltre alla Difesa civile. È certo che su questo punto i tentativi, come vedremo in seguito, di confondere la Protezione civile e la Protezione impianti con la Difesa civile sono molteplici.

In Sip esiste la struttura denominata Protezione e sicurezza impianti che nulla ha a che vedere con quella prevista dal documento n.1. Essa è palese e il servizio che la gestisce ha una sigla ben precisa, Sg/pi. Anche la Protezione civile è struttura palese e non occulta. Nel caso di alluvioni e terremoti, la Sip può raccordarsi con la Protezione civile per il ripristino di linee e centrali e per far ciò non ha certamente necessità alcuna di una struttura occulta.

Si è sempre saputo, per voci che circolavano, che la Sip ha predisposto un sistema di interruzione territoriale delle comunicazioni, tanto che un utente di Roma potrebbe ad esempio connettersi con il sud e non con il nord, mentre una rete parallela consentirebbe la perfetta regolarità delle conversazioni ad utenti prefissati.

Ecco perciò la "sala dei collegamenti", e "collegamenti predisposti" a "seconda dei vari stati di allarme". Anche Pecorelli, su O.P. del 19/9/74, scriveva a questo proposito (vedi all.4). Vogliamo ricordare che con il pretesto della protezione civile Scelba, Tambroni, per due volte Taviani, poi Restivo hanno tentato dal 1951 al 1970 inutilmente, perché bocciate dal Senato, di far passare leggi per la difesa civile.

È anche facilmente intuibile che la struttura occulta della Sip è funzionale e di supporto alla rete occulta di cui hanno parlato Andreotti e in particolare il generale Viviani. Questi, nell'intervista rilasciata a Radio radicale il 24 luglio 1990, tra l'altro afferma che la rete occulta fu costituita a causa della grande preoccupazione da parte americana di un cedimento degli assetti politici esistenti nel nostro paese, con il pericolo di una svolta a sinistra.

In realtà questa struttura, sempre secondo il generale Viviani, sarebbe intervenuta, nel caso si fosse verificata tale ipotesi, con i mezzi a sua disposizione. In altri termini il settore delle telecomunicazioni, importantissimo per la rete, funge da supporto indispensabile, ed ecco quindi la costituzione presso la Sip di un organismo occulto.

In proposito due interrogazioni parlamentari sono state presentate al governo rispettivamente il 6 febbraio 1987 dal sen. Flamigni e l'8 febbraio 1989 dall'on. Capanna. Le risposte date rispettivamente da Gava e da Mammì sono elusive e menzognere. Infatti alla fine il ministro risponde mentendo poiché attribuisce alla Segreteria circuiti speciali il compito della Protezione e sicurezza degli impianti, quando, come si è visto, tale struttura esiste in Sip ed è palese.

Singolare è che a capo di tale organismo sia stato posto un funzionario della Stet. Non si capisce inoltre perché un'azienda per proteggere i propri impianti dovrebbe chiedere l'autorizzazione al ministro per creare un servizio a ciò preposto. In chiusura, Gava evita accuratamente di rispondere all'ultimo quesito posto dall'interrogante.

La risposta alla seconda interrogazione è più articolata e complessa della prima e non si capisce perché Gava abbia risposto in maniera diversa. Anche qui si continua a dire cose false. Infatti nelle centrali sono attestati o transitano collegamenti delle questure, delle prefetture, dei servizi di sicurezza, delle forze armate e dei settori più delicati dello stato.

Non sono segreti i collegamenti che servono alla Protezione civile. Nella normativa si fa riferimento alla Difesa civile! Anche i collegamenti di interesse militare sono da sempre frammisti o isolati da quelli di interesse civile. In tutti i paesi saranno pianificati gli interventi, i provvedimenti da adottare in caso di eventi bellici. Qui si continua a rispondere il falso. La struttura è sorta per finalità ben diverse. Basterebbe controllare l'elenco dei vari allarmi impartiti, per capire che tutto ciò serve a ben altri scopi.

La Commissione Moro convocò in audizione l'ing. Aragona, rappresentante della Sip. Questi rispose per iscritto, escludendo l'esistenza presso la Sip di qualsiasi struttura che non fosse quella preposta alla sicurezza degli impianti, collegata con la protezione civile. Quindi perché tali reticenze? L'allegato n. 10 elenca in ordine decrescente di importanza le persone incaricate alla ricezione e diramazione di messaggi di allarme. Di quali allarmi si tratta? Queste persone che cosa avrebbero dovuto fare? Sono quasi tutti dirigenti...

(continua sub L'affare Moro col titolo: Il black out dei telefoni)







Edited by barionu - 18/5/2021, 09:42
 
Top
CAT_IMG Posted on 4/5/2021, 16:40
Avatar

www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=44&t=18168

Group:
Administrator
Posts:
8,422
Location:
Gotham

Status:





www.fondazionecipriani.it/Scritti/indice.html

www.fondazionecipriani.it/Scritti/unlibro.html

L'affare Moro, la malavita, le colpe di Cesare.

Un libro non scritto, a cura m.m.c.




Luigi Cipriani voleva scrivere un libro di controinformazione da sinistra sull'affare Moro che, a suo giudizio, non esisteva.

Un giorno ci raccontò del caso come di "una storia di autogol".

Il primo lo fece il protagonista della vicenda la cui politica aperturista, dieci anni prima della caduta del Muro, riuscì del tutto indigesta agli americani e gli procurò nel suo paese le reazioni più disparate: mentre l'estrema sinistra vedeva nell'inserimento del Pci nell'area di governo, la stabilizzazione e con essa la fine del conflitto sociale, il timore della destabilizzazione per contro costò al presidente Dc una congiura di palazzo peggio della catilinaria.

Un secondo autogol è attribuibile all'onorevole Enrico Berlinguer, sostenitore entusiasta della fermezza contro gli eversori -non capì che la fermezza non era contro di loro, ma contro Moro- e scaricato subito dopo.

Il terzo ai brigatisti, che per colpire l'uomo simbolo della normalizzazione innescarono un clima di repressione, legalitarismo, caccia alle streghe che in Italia ha pochi precedenti; e, credendo di attaccare il regime, gli fecero un favore della madonna.

Il capitalismo italiano reagì al delitto dello statista con una ventata di felicità, il rifiorire dell'attività economica, la borsa alle stelle con rialzi mai visti. Questa pompata di ottimismo, la sterzata a destra del quadro politico seguita al delitto, la quasi unanimità attorno alla politica della fermezza, le interferenze dei servizi e della mafia per giungere all'esito letale rendono l'idea di un blocco di potere tremendo che certamente trascende un "pezzo deviato" cui addossare tutte le colpe: la congiura trovò in quel blocco un contesto molto, ma molto favorevole, anche se naturalmente non tutti vi parteciparono.

Ed era un blocco che negli stessi limiti ma altrettanto certamente, poteva schiacciare la piccola armata che cominciò la vicenda, ed è lecito dubitare l'abbia chiusa.

Perché i brigatisti, anche a voler credere ad una logica militarista e "dura" avrebbero ucciso un ostaggio che aveva risposto a tutte le loro domande e che, vivo, sarebbe stato una mina vagante nel potere? Quando mai un esercito ammazza un ostaggio che il nemico non rivuole indietro vivo? E per di più con un rituale, che non era fino ad allora appartenuto loro né lo sarà in seguito, dove la vittima viene lasciata agonizzare per un quarto d'ora e crivellata di colpi quando è morta? Perché non svelare e gestire politicamente il memoriale-bomba che parlava fra l'altro di Stay-behind e che costituiva il maggiore risultato politico conseguito dalla lotta armata?



E dall'altra parte e soprattutto, come credere alla fermezza? Quando mai i democristiani sono stati fermi su qualcosa? Come mai quando viene colpito Cirillo patteggiano coi deprecati eversori? Come mai dopo il sequestro Dozier, non appena gli americani lamentano che l'Italia è un paese dove"quattro straccioni" si possono permettere di rapire un generale americano, i nostri scattano sull'attenti e liberano l'ostaggio in due secondi, senza spargere sangue? Poco dopo, i capi delle Br sono incarcerati. Non sarebbe stato altrettanto facile liberare l'onorevole Moro o sventarne il rapimento? Come credere alla straordinaria potenza dei brigatisti che avrebbero tenuto in scacco le istituzioni e i servizi segreti di mezzo mondo, povera armata Brancaleone che credeva di fare la guerra allo stato con qualche centinaio di reclute? Come credere che chi si copriva dietro la fermezza, i servizi segreti italiani e la Cia stessero con le mani in mano, aspettando che Moretti si mettesse d'accordo con Faranda sulla decisione da prendere? E questo quando in tutta la vicenda, da via Fani a via Gradoli al litorale romano ai tentativi dei malavitosi gli apparati repressivi, come è successivamente emerso, hanno avuto ogni possibilità di arrivare ai rapitori?

Su interrogativi di questo tenore, con la spregiudicatezza di chi poteva permettersi di non stare "né con le Br né con lo Stato", Luigi Cipriani costruì la sua ipotesi del "sequestro in due fasi". Dalla parte del potere, inizialmente bastò un attivo laissez faire, impedire che i sequestratori fossero intercettati: il blak out dei telefoni, il reparto del Sismi allertato presso via Fani che non intervenne, la messinscena di Gradoli e quant'altro venne fatto o venne omesso per evitare con cura il ritrovamento del prigioniero. Ma da un certo momento in avanti, quando diviene chiaro che Moro racconta ai suoi rapitori, per avere salva la vita, scandali e segreti di stato, non bastano più né la regia politica né il laissez faire per garantire i catilinari: occorre impedire che i brigatisti liberino l'ostaggio, come è logico aspettarsi, e divulghino le informazioni acquisite. L'esito non è scontato, occorre sottrarre loro ostaggio e memoriale. La catena di ammazzamenti legati a quest'ultimo, a fronte del mancato utilizzo da parte dei rapitori e delle loro improbabili spiegazioni, sarà d'altronde la prova più vistosa dell'irrealtà della versione di stato, tutta costruita sul memoriale Morucci e la reità confessa dei brigatisti. E se quest'ultima costituisce ormai un ostacolo insormontabile all'emersione di una verità più plausibile nelle aule giudiziarie, non lo è per tentare una diversa lettura storica degli eventi: la storia offre altri casi in cui la verità degli sconfitti collima con quella dei vincitori.

Cipriani ebbe il tempo e l'occasione di occuparsi del caso Moro nell'inverno 90-91, a partire dall'incontro col gladiatore Ravasio. Sulla scorta delle rivelazioni di quest'ultimo, si era messo a ripensare i diversi indizi che portano alla presenza malavitosa, nella quale vedeva la chiave di volta per spiegare i cosiddetti misteri della vicenda, e il successivo passaggio di mano: il tiratore scelto che spara quasi tutti i colpi andati a segno contro la scorta, un professionista della 'ndrangheta, mentre i brigatisti sparano più o meno all'impazzata; il rullino che lo ritrae, sparito dall'ufficio del magistrato; le strane pallottole di via Fani, possibile "pacco" tirato a Moretti da un alleato scomodo e, al tempo stesso, possibile "segnale" a chi doveva intendere; le dichiarazioni degli amici di Moro, della famiglia che parlano di una presenza delinquenziale; la certa interferenza della banda della Magliana, l'assassinio di Tony Chichiarelli, ricattatore incauto; il comunicato della Duchessa, qualcosa di più di un depistaggio o di una "prova generale" secondo la versione più diffusa ma fuorviante, perché il comunicato viene dall'interno del rapimento e pertanto trova una più verosimile spiegazione in una pressione della malavita sulle Br, seguita dal passaggio di mano; le dichiarazioni del giornalista Mino Pecorelli -l'allusione molto significativa a coloro che Curcio credette"occasionali alleati"che avrebbero gestito realmente il rapimento- e il suo ammazzamento successivo; la strana cellula Roma sud che fa messaggi cifrati e in puro stile malavitoso, possibile copertura di questo diverso elemento mai investigato dagli inquirenti; le dichiarazioni a Repubblica del senatore Giovaniello, amico dello statista che parla esplicitamente della consegna di Moro alla criminalità comune; e quant'altro segue. E si era convinto che i brigatisti, non avendo la forza di compiere da soli un'azione cui connettevano il rilancio del movimento armato, si fossero alleati con la malavita, rimanendo impigliati nel gioco dell'alleato più forte, o sottomessi con l'esito che conosciamo: l'esito spettacolare-la R4 rossa a piazza del Gesù- in cambio della rinuncia a una gestione "politica" che la collaborazione di Moro aveva reso possibile. I capi delle Br avrebbero trasformato così "la disfatta in vittoria" secondo un copione militaresco; poi continuarono a tacere la verità magari per non ammettere, oltre ad un rapporto politicamente imbarazzante, che l'attacco al cuore dello stato si era tramutato nel suo contrario, con un colossale autogol. In realtà avrebbero consegnato l'ostaggio alla malavita e obbedito al divieto di gestire il memoriale, per poi mentire e depistare su tutto quanto portava alla compromissione avvenuta.

Luigi non ha fatto in tempo a scrivere il suo libro, che si sarebbe intricato a considerare altri soggetti intervenuti nella vicenda, il puntello alla Dc della fermezza fornito dal Pci di Enrico Berlinguer come dal Vaticano che rinunciò a svolgere un qualsivoglia ruolo indipendente o mediatorio; la intromissione dell'agente Cia Ronald Stark; le vicende connesse dell'uccisione di Dalla Chiesa e del giornalista Pecorelli; le conseguenze del delitto politico che più di ogni altro cambiò la faccia del Paese sia per i diversi equilibri che si disegnarono nel potere, sia soprattutto per la feroce repressione che ne seguì contro tutto e tutti come uno schiacciasassi.

Di questo libro non scritto possiamo offrire solo i primi passaggi negli interventi che seguono. Una lettura intelligente e attenta al quadro politico come ai rapporti di forza fra i soggetti diversi intervenuti nella vicenda. Una versione lontana non solo dalla verità di stato ma altresì da molta informazione confusa, basata su scoop e riproposizione continua di "misteri" che apparentemente la contesta e finisce il più delle volte per fornire al regime strumenti ulteriori di depistaggio: come soprattutto l'esasperazione della rilevanza degli infiltrati che erano, invece, figure del tutto marginali o la tesi della "eterodirezione" della Cia sulle Br: costruzioni immaginifiche proposte dalla 'scuola dei misteri' che servono a deviare lo sguardo dai partiti e dalle istituzioni, sempre visti da questo filone come oggetto e mai soggetto di complotto. Quella di Cipriani era una lettura più vicina semmai alle categorie analitiche della storiografia ufficiale più elegante, fornite dalla Commissione stragi fin dalla X Legislatura: la schizofrenia della politica di ordine pubblico seguita nei confronti del terrorismo che alterna fasi reprimenti e fasi omissive, il laissez faire degli apparati nella vicenda, la contestazione della "sindrome di Stoccolma" di cui sarebbe stato preda l'onorevole Moro, i primi dubbi sulla politica della fermezza, l'attenzione al memoriale.

La "pista malavitosa" però, pure presa in considerazione (cfr. la relazione del sen.Granelli a chiusura dell'XI Legislatura) viene chiusa in tutta fretta nella proposta dell'attuale presidente della Commissione, il senatore Pds Pellegrino. Come pure è stato chiuso nel silenzio stampa il procedimento penale sulle ricerche della prigione di cui parla Luigi negli interventi d'appresso: troppo scomodo? Altrettanto significativo è il fatto che il nostro compagno ebbe, dopo gli interventi parlamentari sul caso Moro, minacce di morte e non trovò alcuno spazio, giornalistico o radiofonico, per esporre le opinioni che aveva maturato. La "pista malavitosa" è un tabù perché porta dritta al potere politico.

Così, mentre partiti e stampa hanno applaudito la performance del dissociato Germano Maccari, improbabile quanto l'errore procedurale che lo manda libero e destinata a chiudere il caso con lo scaricamento definitivo di ogni responsabilità sui brigatisti, sono i pentiti e i collaboranti di mafia, in altro contesto, a raccontare squarci assai più interessanti. Diversamente dalla confusa informazione precedente, Buscetta e i suoi compari hanno evidenziato in modo chiaro e diritto all'opinione pubblica le zuffe sanguinose sul memoriale e la resistenza della Dc a riavere indietro vivo il suo presidente, realizzando così la previsione di Luigi Cipriani: "Non sarà la sinistra a trovare la verità sul caso Moro".

Torna all'indice





Edited by barionu - 10/2/2022, 19:43
 
Top
CAT_IMG Posted on 12/11/2021, 09:01
Avatar

www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=44&t=18168

Group:
Administrator
Posts:
8,422
Location:
Gotham

Status:





--------------



www.cacciatoredilibri.com/storia-d...se-rastrellato/





s-l1600









I GIORNI DEL DILUVIO




22 FEBBRAIO 2018


STORIA DI UN ROMANZO-SAGGIO SUI GIORNI DI MORO CHE SVELA I SEGRETI DELLE BRIGATE ROSSE. RASTRELLATO?

I giorni del diluvio, l’Anonimo [Francesco Mazzola] (Milano, Rusconi, 1985)

Un romanzo anonimo, ma che sa tutto!
Nel 1985 Rusconi pubblicò il libro I giorni del diluvio, a firma l’Anonimo. In copertina un inquietante uomo in nero invisibile in volto e sprofondato in una poltrona; il braccio destro penzoloni e una sigaretta fra le dita.

Il libro era un memoriale scritto in maniera romanzata e redatto in forma anonima che si sviluppa nei giorni delle Brigate Rosse e particolarmente del sequestro di Aldo Moro. Pieno di date, di nomi, di fatti e che descriveva circostanze esatte e attendibili.

L’autore mantenne l’anonimato anche negli anni immediatamente successivi all’uscita del libro, ma logicamente si intuiva dovesse trattarsi di qualcuno molto addentro alle faccende di Palazzo, informato dei fatti e probabilmente in una posizione privilegiata per poter accedere agli incartamenti.

Già alla fine degli anni ’80, però, il segreto della sua identità fu svelato dal giornalista Valerio Riva di Epoca che scrisse un esauriente articolo sul settimanale, in cui parlò diffusamente de I giorni del diluvio.

Il nome che venne fuori fu quello di Francesco Mazzola, ex deputato DC e Senatore della Repubblica (è scomparso nel 2014). Personaggio che stette dentro la politica a lungo, sotto diversi Governi, e che operò per conto di essi in diverse vesti. Mazzola, messo sotto pressione dalla stampa, confermò di essere effettivamente lui l’autore de I giorni del diluvio.

Il libro presentava in origine anche una fascetta editoriale gialla, molto difficile da trovare, che così recitava: Chi ha voluto eliminare l’uomo chiave del potere politico?

Di cosa parla il libro
Infatti, il libro prende forma in gran parte dagli appunti che Francesco Mazzola era solito prendere in quegli anni, e che andavano a costituire i suoi diari. Di particolare interesse sembrano essere risultati gli appunti presi durante le riunioni del comitato di crisi al Viminale; tutti i presenti – per la verità – prendevano delle note personali, al di là della verbalizzazione che redigeva d’ufficio il funzionario del Ministero dell’Interno. Ma le considerazioni personali e i dati “presi a caldo”, con frasi e commenti che a quanto pare non finivano poi sui verbali, sono quanto mai preziosi. Riletti oggi, o comunque anni dopo i fatti, possono talvolta dare una luce nuova o inedita agli episodi della storia. E una storia vista da dentro la macchina e dai palazzi, ha un valore infinitamente superiore all’inchiesta giornalistica pura e semplice, che avrà sempre una visione dall’esterno delle cose.

Assai illuminante l’intervista che nel 2007, in occasione della ristampa del libro a cura dell’editore torinese Aragno, Mazzola rilascia a Davide Gianluca Bianchi per l’Occidentale. Ne riporto qualche stralcio:

“[D] Perché ha scritto questo romanzo? [R] Fu, forse, il desiderio di esprimere pensieri e valutazioni che avrebbero potuto trovare posto in un saggio storico-politico se mi fossi sentito all’altezza di cimentarmi su quel terreno; ma non mi ritenevo capace di farlo. Fu, ancora, l’esigenza di dare voce ai sentimenti che avevo provato in modo forte ed anche doloroso ed agli interrogativi che mi avevano angosciato durante i cinquantacinque lunghissimi giorni del sequestro Moro e nei terribili anni che seguirono.”

E ancora:

“[D] In particolare a cosa miravano le B.R.? [R] Miravano ad ottenere un riconoscimento politico che, se raggiunto, avrebbe trasformato l’Italia in un altro Libano, perché era chiaro che nel momento in cui vi era sulla scena politica un “partito armato”, anche gli altri partiti sarebbero stati legittimati ad esserlo, creando così una battaglia politica manu militari, contesa in cui, peraltro, le B.R. partivano dall’enorme vantaggio di avere già questa organizzazione dalla propria nascita.”

Rastrellato?
Francesco Mazzola, in un’altra intervista, condotta stavolta da Rocco Tolfa per Il Sabato (29 febbraio 1991) parla anche della tiratura Rusconi della sua prima edizione e quello che dice lascia sbalorditi:

[D] Un’ultima domanda: quante copie ha venduto il suo libro?[R] La prima tiratura fu venduta tutta. E l’editore stranamente non ritenne di farne altre.
[D] Perché? [R] Secondo me quei libri non furono venduti tutti, furono tolti dalla circolazione.
[D] Da chi? [R] Non lo so, anche se sarei curioso di vedere se non ce ne sia per caso qualche copia negli scantinati dei nostri Servizi.

Quindi, alla base della attuale rarità di questo libro ci sarebbe un’opera sistematica di rastrellamento? L’ipotesi è a dir poco inquietante e di certo aumenta la voglia di leggere il libro e di rendersi conto se tra i nomi inventati, gli pseudonimi e i traslati ci sono forse nascosti indizi importanti che permettano di svelare segreti e misteri di uno dei periodi cruciali della nostra storia recente.




i-giorni-del-diluvio-ristampa-175x300


I giorni del diluvio, di Francesco Mazzola (Torino, Nino Aragno Editore, 2007)

Nel 2007, come detto, l’editore Aragno stampa una seconda edizione del libro. Come spesso accade nel campo della compravendita di libri, la seconda edizione di I giorni del diluvio, firmata stavolta ufficialmente dal suo autore Francesco Mazzola, è diventata più rara della prima.

Mentre dell’edizione originale Rusconi 1985 appare ogni tanto qualche rarissima copia, della ristampa Aragno 2007 non pare esserci più traccia. O siamo di fronte a un secondo rastrellamento, per dirla con le parole del suo stesso autore, oppure il libro è stato veramente comprato fino all’ultima copia. E le due cose, in fondo, non differiscono di granché.



Disponibilità del libro (sempre aggiornato)






Edited by barionu - 12/11/2021, 09:17
 
Top
CAT_IMG Posted on 18/8/2022, 19:15
Avatar

www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=44&t=18168

Group:
Administrator
Posts:
8,422
Location:
Gotham

Status:























----------------



https://icalabresi.it/fatti/giustino-de-vu...rese-aldo-moro/



Giustino De Vuono, un legionario di Scigliano per Aldo Moro




Una delle piste meno battute delle indagini sulla morte del leader Dc porta a un piccolo centro in provincia di Cosenza. E al figlio di un barbiere con una mira infallibile, alti prelati e giornalisti dai rapporti oscuri. Fino a una salma sparita e riapparsa a centinaia di chilometri di distanza




Tra i tanti misteri del delitto Moro e dell’agguato di via Fani, quello che riguarda Giustino De Vuono resta uno dei più inquietanti, forse anche perché apre piste mai esplorate fino in fondo. Queste piste potrebbero portare oltre le dinamiche tipiche dell’eversione, soprattutto rossa, e al di fuori dei centri nevralgici, le grandi aree industriali, in cui operavano i gruppi di terroristi.
Potrebbero portare, rispettivamente, alla criminalità organizzata (e a certi settori deviati dello Stato) e alla Calabria.

Il rapimento di Aldo Moro: troppa potenza per dei dilettanti

Il commento più forte sull’agguato di via Fani proviene da un calabrese famoso, di cui è innegabile l’elevato spessore politico e culturale: Franco Piperno.
L’ex leader di Potere Operaio parlò di “geometrica potenza” a proposito dell’azione con cui il gruppo di fuoco delle Brigate rosse sterminò la scorta di Aldo Moro senza fare neppure un graffio all’illustre prigioniero.

de-vuono-via-fani-aldo-moro
De Vuono (a sinistra) e Nirta (a destra) a via Fani
Su quest’agguato restano importanti alcune dichiarazioni di Alberto Franceschini, fondatore e leader storico delle Br, che a suo giudizio non potevano avere la preparazione militare idonea per mettere a segno un “colpo” come quello del 16 marzo 1978. Gli unici a loro agio con le armi, secondo Franceschini, sarebbero stati Mario Moretti e Valerio Morucci. Ma le perizie su via Fani parlano chiaro: per far fuori i cinque uomini della scorta furono sparati circa 91 proiettili da tre armi diverse. Oltre 40 di questi colpi, tutti andati a segno, proverrebbero da una sola arma. Troppo, anche per persone addestrate.

giustino-de-vuono-aldo-moro
La foto segnaletica di Giustino De Vuono
Leggi anche...
fratelli-bandiera-martirio-esempio-non-furono-folli-ma-eroi
Il martirio e l’esempio: cosa resta dei fratelli Bandiera?
scalfari-calabrese-origine-libertario-addio-papa-repubblica
Un po’ calabrese e cosmopolita: Scalfari, l’ultimo re della carta stampata
alarico-statua
Operazione Alarico: il flop dei nazisti e il bis dei cosentini
Dopo poche ore, le forze dell’ordine fanno girare alcune foto segnaletiche. Una di queste riguarda Giustino De Vuono, detto “lo Scannato” o “lo Scotennato”.

E questa foto ha un riscontro importante in un’altra foto, presa a via Fani proprio la stessa mattina dell’agguato: vi sono ritratte due persone, una identificata in Antonio Nirta, boss di San Luca in Aspromonte. L’altra ricorda De Vuono.

Giustino De Vuono, da legionario a killer

Il motivo per cui gli inquirenti sospettano di De Vuono in relazione ad Aldo Moro è un altro. Nato a Scigliano, a circa 40 km da Cosenza nel 1940, Giustino De Vuono è il figlio irrequieto di un barbiere.ì

Così irrequieto che a un certo punto lascia il paese per arruolarsi nella Legione straniera. Fa ritorno, così raccontano i suoi compaesani quattro anni dopo. È sempre irrequieto, ma è più forte e determinato. Soprattutto, ora spara da Dio.
Uno così, in Calabria può avere molte opportunità. Soprattutto come killer.


Giustino De Vuono legionario

Infatti, De Vuono partecipa a rapine, rapimenti ed estorsioni. Ed entra ed esce di galera. Ma anche dall’Italia: si reca spesso in Sudamerica, dove fa la spola tra Uruguay e Brasile. La sua specialità, secondo gli esperti e i testimoni dell’epoca, sono le armi automatiche, che maneggia con gran precisione. Una precisione che gli consente di “firmare” i suoi delitti con una raggiera di colpi attorno al cuore delle vittime.

Questa “firma” sarebbe apparsa anche sul cadavere di Moro. E avrebbe consentito a don Cesare Curioni, l’ispettore dei cappellani penitenziari che seguiva la trattativa per liberare Moro su incarico di papa Paolo VI, di riconoscere De Vuono come killer.

Questo stando alla testimonianza di don Fabio Fabbri, il vice di don Curioni, riportata da Giovanni Fasanella nel suo Il puzzle Moro (Chiarelettere 2018).



Il sequestro e la pista calabrese


Ma dove porta questa pista? Alle agenzie specializzate in contractors? Alla criminalità organizzata? O a entrambe? Di sicuro arriva in Calabria, come dichiarò durante il processo per il delitto Pecorelli nel 1997 l’ex deputato siciliano Benito Cazora, incaricato dai vertici della Dc di avviare dei contatti informali con la malavita calabrese, molto attiva a Roma negli anni ’70. Cazora dichiarò ai magistrati di Perugia che un calabrese, conosciuto come Rocco, avrebbe indicato al questore di Roma il rifugio di via Gradoli.

Lo stesso Rocco, inoltre, avrebbe offerto il suo aiuto proprio a Cazora. Questa testimonianza riporta a De Vuono, che sarebbe stato identificato da alcune persone proprio a via Gradoli, travestito da uomo delle pulizie…
Ma per conto di chi avrebbe agito De Vuono, di cui non risultano grandi passioni politiche, se non una generica simpatia per l’eversione di sinistra?




Mino-Pecorelli


Ad ogni buon conto, l’ipotesi De Vuono è presa sul serio anche da Mino Pecorelli, che scrisse in un celebre articolo

del suo settimanale Op a 16 gennaio 1979:


VERGOGNA BUFFONI !
«Posso solo dire che il legionario si chiama De e il macellaio si chiama Maurizio». Dove Maurizio è il nome di battaglia con cui Mario Moretti era conosciuto nelle Br.

Inutile dire che Pecorelli, ammazzato due mesi dopo il suo articolo sibillino, esibiva una conoscenza dei fatti superiore a quella degli altri giornalisti (tra l’altro, gli si attribuisce la conoscenza della versione completa del memoriale di Moro) che tutt’oggi risulta stupefacente e indicativa dei suoi rapporti col mondo dei servizi…



De Vuono dal Sud America a via Fani per Aldo Moro?

L’unico punto debole di questa ricostruzione, comunque suggestiva, proviene da un rapporto del Sismi, secondo cui l’ex legionario De Vuono all’epoca del sequestro di Aldo Moro si trovava in Sudamerica. Questo rapporto è confermato dalla polizia del Paraguay, che lo considera presente sia nel proprio Paese sia in Brasile.

Tuttavia, ciò non avrebbe impedito al supercecchino di spostarsi, anche in incognito, e di essere a Roma nei momenti clou del sequestro: cioè l’agguato di via Fani e l’uccisione dello statista, della quale si autoaccusò Moretti.




via-fani-scorta
La scena dell’agguato di via Fani
La fine misteriosa di Giustino De Vuono


De Vuono sparì dall’Italia e fu arrestato nel 1983 in Svizzera, dove si trovava sotto falsa identità

. Avrebbe passato i successivi dieci anni in galera a Caserta, dove sarebbe morto nel 1994. Il condizionale è quasi un obbligo, perché della sua tomba a Caserta non si trovò traccia.

Ma, dato curioso, la sepoltura è stata trovata a Scigliano, senza che sia emersa la documentazione relativa allo spostamento della salma.

È l’ultimo mistero di un tiratore formidabile…







Edited by barionu - 19/8/2022, 14:52
 
Top
CAT_IMG Posted on 1/12/2023, 20:33
Avatar

www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=44&t=18168

Group:
Administrator
Posts:
8,422
Location:
Gotham

Status:














--------------------------------




www.lettera43.it/sequestro-moro-i-...BptiXb4XcuCIx6s


CRONACA
PALERMO
ROMA




27/12/15
Fabrizio Colarieti
Sequestro Moro, i sospetti sui servizi in otto punti

Il ruolo del colonnello Guglielmi. Gli intrecci tra il bar Olivetti e l’intelligence. L’Immobiliare Gradoli e i legami col Sisde. Ecco su cosa indaga la Commissione.


Sono molti i fronti e gli spunti investigati, legati al possibile ruolo giocato dai servizi segreti nel caso Moro, nella lunga relazione di metà mandato presentata recentemente dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’assassinio dell’ex presidente della Dc.
In più punti del voluminoso documento i membri dell’organismo presieduto da Giuseppe Fioroni, dopo un anno di audizioni e consulenze, tornano a sottolineare numerose ambiguità e misteri che da sempre incrociano la strada dell’affaire Moro.


Strane presenze, auto sospette e luoghi che avrebbero un significato diverso rispetto a quanto finora scritto. Tutti elementi su cui, a parere dei parlamentari, anche la magistratura potrebbe tornare a indagare, provando così a riscrivere un pezzo di storia.






1. Le carte straniere top secret: per analizzarle serve il consenso dei servizi
Segreto e servizi segreti sono alcune delle parole che più si ripetono nella relazione, a partire dalle informazioni provenienti dalle intelligence straniere di cui la Commissione vorrebbe entrare in possesso.


Un patrimonio di informazioni particolarmente consistente e tuttora inesplorato che, tuttavia, per essere consultato e analizzato, richiede una complessa procedura di declassifica e il consenso, non scontato, dei servizi di sicurezza che hanno redatto i singoli atti.
DOCUMENTI DI 007 AMERICANI E ISRAELIANI. Dentro le veline degli 007 americani, francesi e inglesi, ma anche russi e israeliani, potrebbero esserci elementi inediti e forse anche decisivi per arrivare alla verità su uno dei misteri più longevi della storia repubblicana.





2. Il colonnello Guglielmi: l’addestratore di Gladio nei pressi di via Fani


Nel corso delle audizioni sono emersi riferimenti sulla presenza del colonnello Camillo Guglielmi, soprannominato “Papà”, nei pressi di via Fani in un orario prossimo a quello della strage.
La presenza dell’ufficiale, in forza al Sismi, il servizio segreto militare, ufficialmente in epoca immediatamente successiva al sequestro di Aldo Moro, è posta in relazione anche rispetto al ruolo di una motocicletta Honda avvistata da diversi testimoni oculari nel luogo dell’agguato.
ALIBI CONFERMATO. Nel 1990 Pierluigi Ravasio, anch’egli agente del controspionaggio militare, aveva inoltre riferito al parlamentare Luigi Cipriani che il colonnello era stato attivato dal Sismi proprio in riferimento al sequestro.
Interrogato nel 1991 dal magistrato Luigi De Ficchy, l’ufficiale del controspionaggio dichiarò che la mattina del 16 marzo 1978, in un orario coincidente con quello dell’agguato, si trovava nei pressi di via Fani perché, verosimilmente, invitato a pranzo, in via Stresa, dal suo collega Armando D’Ambrosio, che poi confermò il suo alibi.
LA PROCURA INDAGA. Il deputato Sergio Flamigni, già membro delle Commissioni d’inchiesta sul caso Moro e sulla P2, di Guglielmi scrisse che era «uno dei migliori addestratori di Gladio, esperto di tecniche di imboscata, che lui stesso insegnava nella base sarda di Capo Marrargiu dove si esercitavano anche gli uomini di Gladio».
E, non a caso, l’organizzazione Gladio è uno dei fronti investigativi su cui sta lavorando molto la Commissione.
Sul ruolo di Guglielmi, e anche in relazione al suo ipotizzato coinvolgimento nella strage, benché sia deceduto nel 1992, è tuttora aperto un fascicolo della Procura generale della Repubblica di Roma.


3.
Le società di Barbaro: non confermati i legami con l’intelligence


Un’altra presenza sulla quale sono stati avanzati dubbi e sospetti è quella del cosiddetto uomo con il cappotto color cammello, identificato nel signor Bruno Barbaro.
Cognato del generale Fernando Pastore Stocchi, un’ufficiale del Sid, il servizio informazioni difesa, che era stato anche a capo della base Gladio di Capo Marrargiu e stretto collaboratore del generale Vito Miceli.
UN ATTEGGIAMENTO ‘AUTORITARIO’. Barbaro era titolare di un’azienda che aveva sede in via Fani, sopra al bar Olivetti. Svolgeva attività commerciali, tra i suoi clienti figuravano il Policlinico Gemelli di Roma, ma anche la Banca d’Italia e il Senato, e aveva diversi uffici, uno dei quali in via Fusco, a Monte Mario, che affacciava su via Pineta Sacchetti, a un paio di chilometri in linea d’aria da Forte Braschi, il quartier generale del servizio segreto militare.
I sospetti su Barbaro, a carico del quale indaga tuttora anche la Procura generale di Roma, come nel caso di Guglielmi, riguardano il suo atteggiamento nei luoghi della strage, definito da alcuni ‘autoritario”. In particolare un testimone oculare, l’ingegner Alessandro Marini, ha riferito di averlo visto coprire con un giornale il cadavere di un uomo della scorta di Moro impugnando addirittura una paletta.
Barbaro si era riconosciuto nella persona con il cappotto color cammello di cui aveva parlato il teste Marini in un’intervista trasmessa nel 1993 dal programma “Il rosso e il nero” e aveva contattato la redazione del programma rilasciando poi un’intervista al Tg3.
UN PASSATO DA PARTIGIANO. Oggi 86enne è stato rintracciato e nuovamente sentito dalla Commissione Fioroni alla quale ha spiegato di non essersi mai presentato alle autorità prima del 1994, in quanto, nell’immediatezza dell’agguato di via Fani, aveva rilasciato un’intervista al settimanale Epoca su ciò che aveva visto. Barbaro ha ricostruito in maniera coerente quanto accaduto il 16 marzo 1978 spiegando che quella mattina, intorno alle 9, era uscito dalla sua casa di via Madesimo 40 (vicino a via Fani), per recarsi nel suo ufficio al civico 109 di via Fani, dove aveva sede la società Impresandtex srl, della quale era amministratore.
L’uomo ha inoltre aggiunto che quella mattina, mentre si stava recando in ufficio, sentì alcuni spari di mitra, che riconobbe subito in virtù del suo passato partigiano; si avvicinò con molta cautela, dopo aver fatto passare alcuni minuti; e coprì il corpo dell’agente Raffaele Iozzino con un giornale preso dall’Alfetta della scorta; provò a prestargli soccorso, ma venne allontanato da una persona molto agitata, giunta a bordo di un’Alfetta e con in mano una paletta della polizia.
Quanto al cognato, Barbaro ha affermato che i suoi rapporti con il generale Pastore Stocchi non erano stretti e nessun riscontro è stato finora trovato in merito ai possibili rapporti tra l’intelligence e le sue società.




4. I funzionari della scientifica: presenze sospette da via Fani a via Carini


Una terza presenza anomala riguarda un presunto funzionario dei servizi che compare in alcune foto che dimostrerebbero che era stranamente presente nell’immediatezza di eventi di straordinaria importanza: il 16 marzo 1978 in via Fani, il 9 maggio 1978 in via Caetani, in occasione del rinvenimento del cadavere di Moro, e verosimilmente anche il 3 settembre 1982, in via Carini, a Palermo, dopo l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e di sua moglie Emanuela Setti Carraro.
GLI ACCERTAMENTI DELLA COMMISSIONE. La Commissione ha svolto accurate indagini nel tentativo di individuare l’uomo accertando, almeno in due circostanze, che non si tratta della stessa persona.
L’uomo ritratto in via Fani è Giuseppe Pandiscia, un funzionario della polizia scientifica, quello ritratto a Palermo è Antonino Wjan, anch’egli dirigente della scientifica, mentre non è stato possibile identificare l’uomo che si intravede nella foto scattata in via Caetani vicino alla Renault 4 in cui fu trovato il corpo dello statista.



5. L’Austin Morris in via Fani: gli intrecci societari con il Sisde


Accertamenti sono stati compiuti anche su alcune autovetture che la mattina del 16 marzo 1978 erano parcheggiate in via Fani e che, secondo alcune fonti, potrebbero aver favorito l’azione dei terroristi.
La prima di esse è l’Austin Morris Mini Clubman Estate targata Roma T50354, che quella mattina era parcheggiata sul lato destro di via Fani, a ridosso dell’incrocio con via Stresa, in una posizione che di fatto avrebbe ostacolato eventuali manovre di fuga della Fiat 130 di Moro.
Dalle indagini è emerso che l’autovettura era di proprietà dell’immobiliare romana Poggio delle rose srl ed era utilizzata da uno dei suoi soci, Patrizio Bonanni, al quale venne restituita pochi giorni dopo la strage con una fiancata danneggiata dai colpi sparati dal commando.
Bonanni, sentito dalla Commissione, ha riferito che la sera del 15 marzo aveva parcheggiato la vettura in quella posizione e si era recato in un appartamento di cui aveva la disponibilità in uno stabile di proprietà dell’Enpaf.
IL RUOLO DELL’IMMOBILIARE GRADOLI. Quanto ad eventuali contatti o rapporti tra Bonanni o la società immobiliare Poggio delle rose con organismi di intelligence, la Commissione ha riscontrato che la sede dell’immobiliare coincideva con quella della Fidrev Fiduciaria e Revisione srl, una società che da molti anni ne seguiva la contabilità e la gestione.
La Fidrev, a sua volta legata all’Immobiliare Gradoli, proprietaria di alcuni appartamenti nello stesso stabile di via Gradoli dove durante il sequestro fu scoperto un covo Br, a partire dal 1978 curava i conti e la gestione delle società di copertura del Sisde, il servizio segreto civile.
Sulla Fidrev e sulle immobiliari Poggio delle rose e Gradoli stanno indagando tuttora, e anche su incarico della Commissione Moro, gli investigatori dello Scico della Guardia di Finanza.



6
. La Mini Cooper: accertamenti sul proprietario Tullio Moscardi


La Commissione indaga anche su un’altra autovettura che la mattina del 16 marzo era parcheggiata in via Fani, sul lato sinistro, di fronte al bar Olivetti.
Si tratta della Mini Cooper targata Roma T32330, di proprietà del signor Tullio Moscardi, ora deceduto, che all’epoca dei fatti risultava residente in via del Corso.
L’auto era stata aperta dagli artificieri.
Moscardi all’epoca aveva un appartamento in via Fani, al civico 109, dove abitava insieme alla sua futura moglie, Maria Iannaccone.
POSSIBILI LEGAMI CON L’INTELLIGENCE. La coppia, in pieno sequestro Moro, aveva raccontato ai carabinieri di aver notato, affacciandosi dal terrazzo negli istanti successivi all’agguato, un uomo coperto con una sorta di passamontagna, con abito nero, alto circa un metro e ottanta, atletico ed armato di mitra.
Anche sul conto di Moscardi erano stati avanzati sospetti su possibili legami con l’intelligence, ma gli accertamenti finora compiuti hanno escluso rapporti diretti con i servizi di sicurezza.



7.
Le moto sul luogo dell’agguato: in sella quattro soggetti mai identificati


La Commissione suppone la presenza in via Fani di due motociclette con in sella quattro soggetti mai identificati, due dei quali sono anche sospettati di avere legami con l’intelligence, stando alle dichiarazioni rilasciate all’Ansa da un ex investigatore dell’antiterrorismo.


La presenza della moto Honda, si legge nella relazione, va riletta con ulteriore attenzione: «Una sentenza definitiva ha assunto che gli ignoti a bordo della moto Honda di cui parlò subito l’ingegner Alessandro Marini si siano resi responsabili di tentato omicidio ai suoi danni».


E si può supporre, sulla base agli elementi raccolti fino ad ora dalla magistratura e dalla stessa Commissione Moro, che una moto fosse presente al momento della strage nella parte superiore di via Fani, prendendo la fuga verso via Stresa, ed un’altra indugiò sul luogo dell’agguato.


DUE TESTIMONI OCULARI. La Commissione, sulla vicenda, ha anche ascoltato due testimoni oculari, mai sentiti in precedenza, oltre a Marini. Si tratta di Giovanni De Chiara, che abitava in via Fani 106 e che vide allontanarsi su via Stresa una motocicletta con a bordo due persone, una delle quali aveva sparato verso qualcuno.


La seconda testimone è Eleonora Guglielmo, allora ragazza alla pari presso l’abitazione di De Chiara, la quale ha riferito di aver udito qualcuno che gridava ‘achtung, achtung‘ e scorto una motocicletta di grossa cilindrata, con due persone in sella, che seguiva un’auto, sulla quale era stato spinto un uomo all’interno, in direzione opposta verso via Stresa. Secondo la Guglielmo il passeggero aveva capelli di colore scuro, con una pettinatura a chignon e un boccolo che scendeva, dunque poteva essere una donna.


UN UOMO ARMATO DI MITRA. Ci sono poi le dichiarazioni dell’agente di polizia, quella mattina fuori servizio, Giovanni Intrevado, che vide avvicinarsi a via Fani una motocicletta di grossa cilindrata con due uomini a bordo, di età tra i 25 e i 30 anni, ambedue senza casco e uno armato di mitra. La moto si avvicinò lentamente, i due scrutarono le auto della scorta di Moro e i cadaveri a terra e poi svoltarono a sinistra, in via Stresa, allontanandosi rapidamente. In quello stesso momento, un altro testimone, Gherardo Nucci, vide una persona salire a bordo di una motocicletta che si allontanò dirigendosi in via Stresa, direzione Trionfale.


Così come i coniugi Francesco Damato e Daniela Sabbadini riferirono che all’incrocio tra via Trionfale e via Fani, tra le 8.20 e le 8.30, c’erano tre uomini, due dei quali in divisa, accanto a una moto, che deviavano il traffico impedendo alle auto di imboccare via Fani.



8. Il bar Olivetti: sede di un inedito intreccio di interessi


Un altro misterioso aspetto, su cui si sta concentrando la Commissione parlamentare d’inchiesta, è la possibilità che le Brigate Rosse scelsero via Fani perché il Bar Olivetti, davanti al quale avvenne la carneficina, era sede di un inedito intreccio di interessi.


La Commissione, in particolare, sta scandagliando l’ipotesi che il titolare del bar possa essere stato in relazione o con i servizi di sicurezza o con le forze dell’ordine.
Alcuni testimoni riferirono, infatti, che il bar, nonostante fosse in liquidazione, non era affatto chiuso in quelle settimane e la mattina del 16 marzo, come invece è stato ripetuto negli ultimi 37 anni.


L’INCHIESTA SUL TRAFFICO DI ARMI. Il titolare, Tullio Olivetti, era un personaggio molto noto agli ambienti investigativi per essere stato coinvolto in un’inchiesta su un traffico internazionale di armi e di valuta falsa (aveva riciclato 8 milioni di marchi tedeschi provento di un sequestro avvenuto in Germania), da cui uscì indenne ma con il pesante sospetto che in realtà fosse un collaboratore di apparati istituzionali.


Il suo nome compare anche negli elenchi delle persone presenti a Bologna nei giorni antecedenti la strage alla stazione del 2 agosto 1980.


Olivetti fu sottoposto anche a una perizia psichiatrica eseguita dal “professore nero”, Aldo Semerari, l’ambiguo criminologo legato alla camorra e alla Banda della Magliana, assassinato nel 1982.


Archivi
Chi siamo
Note Legali
Preferenze Privacy
Tagfin Srl
Sede Legale: Via dell'Annunziata, 7
20121 Milano (MI)

Numero di partita IVA e numero d'iscrizione al Registro Imprese 11673800964 del Registro delle Imprese di Milano.

Registrazione della testata giornalistica Lettera43 presso il Tribunale Ordinario di Milano, il 27/09/2010 al numero 512






Edited by barionu - 1/12/2023, 21:18
 
Top
CAT_IMG Posted on 21/4/2024, 19:06
Avatar

www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=44&t=18168

Group:
Administrator
Posts:
8,422
Location:
Gotham

Status:


cip
 
Top
8 replies since 16/3/2021, 09:29   299 views
  Share