Origini delle Religioni

IL CASO MORO 3, I LIBRI

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CAT_IMG Posted on 18/3/2021, 23:35
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www.repubblica.it/rubriche/lessico...rista-36443240/


Nello scorso maggio Repubblica.it ha diffuso le riproduzioni fotografiche di alcuni appunti dei servizi segreti in merito al sequestro di Aldo Moro.

Quello che interessa l'enigmista dice: "Alle ore 7,45 dell'8 maggio 1978 è stata intercettata una conversazione radiotelefonica tra un sedicente giornalista e la redazione del GR2 nel corso della quale il giornalista stesso ha comunicato che i brigatisti avrebbero telefonato al parroco dell'Abbazia di Novarese perché rendesse noti due messaggi: il primo indirizzato alla signora Moro con la parola d'ordine "Il mandarino è marcio" [...].

Anagrammando la parola d'ordine anzidetta, la Sezione Crypto ha ricavato la frase "Il cane morirà domani" che potrebbe essere messa in relazione con la tragica conclusione della vicenda Moro".

Si trattava dell'abbazia di Novalesa (l'ortografia non è il forte dei servizi) in Val di Susa. Mi ricordo che la frase aveva impressionato Giorgio Calcagno. Giornalista culturale (della Stampa) e scrittore, Calcagno era anche curioso di enigmistica e in più, valsusino egli stesso, conosceva l'abbazia e forse anche il religioso coinvolto. Mi aveva consultato: "Ma secondo te questo anagramma non è un caso eccezionale"?

Ho cercato di illustrargli le ragioni del mio scetticismo evocando i concetti di combinatoria ed entropia e il principio di indeterminazione anagrammatica, con adeguate citazioni da Leibnitz, Prigogine e Borges.

Il punto è: se ti dico che ti manderò un messaggio criptato, anagramma del mio vero messaggio, e poi ti scrivo: teatro perché tu dovresti capire attore e non oretta o ettaro? Sarei stato più convincente se avessi pensato di sottoporgli frasi come "Moro è in mani radical" o addirittura "Ammainare il Crodino!".

Me le insegna Marco Rosa Salva, assieme a "Moro mi indica la nera" (sottinteso: pista),

"M'innamorai del Cairo" (scenario mediorientale); "Cardinale, animi Moro" (scenario vaticano). Tutti anagrammi alternativi di "Il mandarino è marcio".

La fantastica Sezione Crypto li avrà adeguatamente soppesati, a suo tempo?



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IMPOSIMATO


https://www.huffingtonpost.it/2013/07/10/f..._n_3571509.html





Edited by barionu - 8/2/2022, 21:05
 
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CAT_IMG Posted on 10/4/2021, 08:54
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https://it.wikipedia.org/wiki/Igor_Markevitch#cite_note-2

www.secoloditalia.it/2015/05/moro-...ovanni-senzani/

SECOLO D'ITALIA > CRONACA >
Moro, quei misteri mai chiariti su Igor Markevitch e Giovanni Senzani
giovedì 7 Maggio 17:10 - di





Si riaccendono i riflettori sull’enigmatica figura di Igor Markevitch, il direttore d’orchestra russo di origine ebree e naturalizzato italiano, indicato da una fonte del Sismi degna del maggior credito come uno degli uomini che interrogarono Moro.


Torna infatti in libreria il libro scritto a quattro mani da Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca – “La storia di Igor Markevič” – e riaffiorano domande rimaste incredibilmente per tanti anni senza risposta su chi fosse davvero questo personaggio eclettico e multiforme, strettamente imparentato con una delle più importanti famiglie della nobiltà romana, i Caetani, attraverso la moglie, la duchessa Topazia e finito come attore primario nella vicenda drammatica del sequestro e dell’omicidio dell’esponente democristiano assassinato dalle Brigate Rosse.


E’ oramai ampiamente assodato, secondo un rapporto del Ros dell’Arma, che fu Giovanni Senzani, il “capo” mai entrato nella vicenda Moro, a presentare Markevitch a Mario Moretti.

Markevitc, l’intermediario fra servizi segreti esteri e Br

Ma, incredibilmente, Senzani, «personaggio di levatura intellettuale e politica di gran lunga superiore a quella dei brigatisti finora noti e membro della direzione strategica brigatista all’epoca del sequestro», spiega Fasanella, pur inquisito e condannato per reati compiuti prima e dopo il sequestro e l’omicidio Moro, non è mai comparso in un’inchiesta sul caso dell’esponente Dc.

Insomma Senzani, che pure rappresenta uno snodo fondamentale nelle vicende brigatiste quanto nel sequestro e nell’omicidio Moro, – viene ricordato soprattutto per il rapimento di Roberto Peci, “colpevole” di essere fratello del pentito Patrizio Peci, che Senzani interrogò per settimane e di cui filmò minuziosamente l’esecuzione – è passato indenne in tutti i processi senza mai essere chiamato a rendere conto di quanto sapeva.
Ora la nuova Commissione d’inchiesta creata per fra luce sulla vicenda Moro potrebbe e, anzi, secondo Fasanella, dovrebbe convocare Senzani. Perché davvero sono troppe le incongruenze e i punti che non tornano.


A cominciare dalla figura di Igor Markevitch e dal ruolo che ha avuto nella vicenda Moro dove giocò da intermediario – «non da Grande vecchio», ci tiene a specificare Fasanella, – tra alcuni servizi segreti esteri di rango e le Brigate Rosse per la liberazione di Aldo Moro che era detentore di segreti Nato sensibili e in una sua lettera a Cossiga, allora ministro dell’Interno, aveva minacciato di rivelarli ai brigatisti.

Casamonica, nuovo processo in vista per il clan che si sente padrone di Roma: rischiano in 26

VaticanoVaticano nella bufera, l’ex seminarista accusa: “Il mio corpo era un oggetto, ma tutti fingevano di dormire”


La Renault 4 lasciata accanto a palazzo Caetani
Peraltro, fa notare Fasanella, «nessuno ha mai chiarito con elementi convincenti perché si scelse via Caetani per riconsegnare il cadavere di Aldo Moro».
Roma era praticamente militarizzata. C’erano posti di blocco dappertutto. Era più facile incappare in un controllo che sfuggirgli. E via castani si trovava al centro di un quadrilatero fondamentale: da una parte c’era la sede del Pci di via delle Botteghe Oscure, dal lato opposto c’era la sede della Democrazia Cristiana di piazza del Gesù.

Guarda caso via Michelangelo Caetani la strada dove fu lasciata dai brigasti rossi la Renault 4 rossa con il cadavere di Aldo Moro costeggia proprio Palazzo Caetani, dove tra l’altro due agenti del Sismi lo avevano cercato mentre era ancora in vita.
E i risultati dell’autopsia e gli esami compiuti su alcuni materiali rinvenuti sulle ruote della Renault rossa e nei risvolti dei pantaloni di Moro, hanno dimostrato che «il presidente della Dc fu assassinato non più di un’ora prima del ritrovamento del cadavere, e fu ucciso in un luogo distante non più di 40 metri da via Caetani».

Dunque Moro fu tenuto prigioniero lì vicino. Dove? Forse proprio nelle secrete sotterranee di Palazzo Caetani?
Ci sono molti, troppi, punti di contatto fra i personaggi e gli ambienti solo apparentemente lontani.

Sono gli stessi brigasti a spiegare gli inizi della loro avventura che doveva essere la continuazione ideale, ma anche operativa, della lotta partigiana. Le prime armi per i Br arrivarono proprio da lì. E Markevitch aveva partecipato alla Resistenza nelle formazioni partigiane “rosse” dei Gap.
Non solo. Un rapporto del Sismi datato 1980 recita testualmente: «Il 14 ottobre 1978 fonte del servizio segnalava che un certo Igor, della famiglia dei duchi Caetani, avrebbe avuto un ruolo di primo piano nell’organizzazione delle Br che, in particolare, avrebbe condotto tutti gli interrogatori di Moro, della cui esecuzione sarebbero stati autori materiali certi “Anna” e “Franco”.

Markevitch, torna la pista fiorentina mai percorsa fino in fondo

L’idea che si è fatta strada è che Markevitch fu la testa pensante di quell’interrogatorio che, secondo gli analisti, mostrava, nelle domande, un profilo psicologico non compatibile con quello dei brigatisti. E che, inoltre, dato che il coordinamento del sequestro fu collocato a Firenze, i brigasti furono ospitati e coordinati in una villa del capoluogo toscano nella quale, durante i primi 15 giorni del sequestro Moro, si riuniva il Comitato esecutivo dei brigatisti. Successive indagini giudiziarie hanno identificato questo immobile nel feudo Caetani La Farnia, a metà strada fra Firenze e Fiesole.

Secondo Fasanella, Igor Markevitch era sostanzialmente chiamato a gestire la vicenda per evitare «il rischio di una grave destabilizzazione degli equilibri interni italiani e internazionali» che sarebbero, appunto, derivati dai segreti Nato di cui Moro era uno dei custodi. Ma qualcosa, forse, non andò com’era previsto che andasse. Nelle ultime ore frenetiche, forse, addirittura, negli ultimi secondi di vita dell’esponente Dc, «man mano che la trattativa procedeva, ci furono passaggi di mano dell’ostaggio, a cui corrisposero anche trasferimenti fisici da un covo all’altro. Alla fine, Moro arrivò là dove avrebbero dovuto liberarlo. E dove, invece, fu assassinato».


Di qui la domanda ovvia. Ci sono elementi che la Commissione Moro potrebbe sviluppare nelle sue indagini su Igor? «Sì. Innanzitutto dovrebbe cercare di spiegare perché Moro venne assassinato, mentre invece la sua liberazione sembrava ormai certa. Quanto a Markevitch: chi gli chiese di intervenire e perché venne chiesto proprio a lui? Aveva legami con ambienti diplomatici, dell’intelligence e intellettuali che per varie ragioni avevano avuto a che fare con il terrorismo? La figura chiave per rispondere a queste domande è l’ex-brigatista fiorentino Giovanni Senzani. Bisogna ripartire da lui. E sarei davvero sorpreso – ammette Fasanella – se la Commissione parlamentare e la magistratura non avessero ancora deciso di ascoltarlo»



 
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CAT_IMG Posted on 12/11/2021, 09:16
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I GIORNI DEL DILUVIO




22 FEBBRAIO 2018


STORIA DI UN ROMANZO-SAGGIO SUI GIORNI DI MORO CHE SVELA I SEGRETI DELLE BRIGATE ROSSE. RASTRELLATO?

I giorni del diluvio, l’Anonimo [Francesco Mazzola] (Milano, Rusconi, 1985)

Un romanzo anonimo, ma che sa tutto!
Nel 1985 Rusconi pubblicò il libro I giorni del diluvio, a firma l’Anonimo. In copertina un inquietante uomo in nero invisibile in volto e sprofondato in una poltrona; il braccio destro penzoloni e una sigaretta fra le dita.

Il libro era un memoriale scritto in maniera romanzata e redatto in forma anonima che si sviluppa nei giorni delle Brigate Rosse e particolarmente del sequestro di Aldo Moro. Pieno di date, di nomi, di fatti e che descriveva circostanze esatte e attendibili.

L’autore mantenne l’anonimato anche negli anni immediatamente successivi all’uscita del libro, ma logicamente si intuiva dovesse trattarsi di qualcuno molto addentro alle faccende di Palazzo, informato dei fatti e probabilmente in una posizione privilegiata per poter accedere agli incartamenti.

Già alla fine degli anni ’80, però, il segreto della sua identità fu svelato dal giornalista Valerio Riva di Epoca che scrisse un esauriente articolo sul settimanale, in cui parlò diffusamente de I giorni del diluvio.

Il nome che venne fuori fu quello di Francesco Mazzola, ex deputato DC e Senatore della Repubblica (è scomparso nel 2014). Personaggio che stette dentro la politica a lungo, sotto diversi Governi, e che operò per conto di essi in diverse vesti. Mazzola, messo sotto pressione dalla stampa, confermò di essere effettivamente lui l’autore de I giorni del diluvio.

Il libro presentava in origine anche una fascetta editoriale gialla, molto difficile da trovare, che così recitava: Chi ha voluto eliminare l’uomo chiave del potere politico?

Di cosa parla il libro
Infatti, il libro prende forma in gran parte dagli appunti che Francesco Mazzola era solito prendere in quegli anni, e che andavano a costituire i suoi diari. Di particolare interesse sembrano essere risultati gli appunti presi durante le riunioni del comitato di crisi al Viminale; tutti i presenti – per la verità – prendevano delle note personali, al di là della verbalizzazione che redigeva d’ufficio il funzionario del Ministero dell’Interno. Ma le considerazioni personali e i dati “presi a caldo”, con frasi e commenti che a quanto pare non finivano poi sui verbali, sono quanto mai preziosi. Riletti oggi, o comunque anni dopo i fatti, possono talvolta dare una luce nuova o inedita agli episodi della storia. E una storia vista da dentro la macchina e dai palazzi, ha un valore infinitamente superiore all’inchiesta giornalistica pura e semplice, che avrà sempre una visione dall’esterno delle cose.

Assai illuminante l’intervista che nel 2007, in occasione della ristampa del libro a cura dell’editore torinese Aragno, Mazzola rilascia a Davide Gianluca Bianchi per l’Occidentale. Ne riporto qualche stralcio:

“[D] Perché ha scritto questo romanzo? [R] Fu, forse, il desiderio di esprimere pensieri e valutazioni che avrebbero potuto trovare posto in un saggio storico-politico se mi fossi sentito all’altezza di cimentarmi su quel terreno; ma non mi ritenevo capace di farlo. Fu, ancora, l’esigenza di dare voce ai sentimenti che avevo provato in modo forte ed anche doloroso ed agli interrogativi che mi avevano angosciato durante i cinquantacinque lunghissimi giorni del sequestro Moro e nei terribili anni che seguirono.”

E ancora:

“[D] In particolare a cosa miravano le B.R.? [R] Miravano ad ottenere un riconoscimento politico che, se raggiunto, avrebbe trasformato l’Italia in un altro Libano, perché era chiaro che nel momento in cui vi era sulla scena politica un “partito armato”, anche gli altri partiti sarebbero stati legittimati ad esserlo, creando così una battaglia politica manu militari, contesa in cui, peraltro, le B.R. partivano dall’enorme vantaggio di avere già questa organizzazione dalla propria nascita.”

Rastrellato?
Francesco Mazzola, in un’altra intervista, condotta stavolta da Rocco Tolfa per Il Sabato (29 febbraio 1991) parla anche della tiratura Rusconi della sua prima edizione e quello che dice lascia sbalorditi:

[D] Un’ultima domanda: quante copie ha venduto il suo libro?[R] La prima tiratura fu venduta tutta. E l’editore stranamente non ritenne di farne altre.
[D] Perché? [R] Secondo me quei libri non furono venduti tutti, furono tolti dalla circolazione.
[D] Da chi? [R] Non lo so, anche se sarei curioso di vedere se non ce ne sia per caso qualche copia negli scantinati dei nostri Servizi.

Quindi, alla base della attuale rarità di questo libro ci sarebbe un’opera sistematica di rastrellamento? L’ipotesi è a dir poco inquietante e di certo aumenta la voglia di leggere il libro e di rendersi conto se tra i nomi inventati, gli pseudonimi e i traslati ci sono forse nascosti indizi importanti che permettano di svelare segreti e misteri di uno dei periodi cruciali della nostra storia recente.




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I giorni del diluvio, di Francesco Mazzola (Torino, Nino Aragno Editore, 2007)

Nel 2007, come detto, l’editore Aragno stampa una seconda edizione del libro. Come spesso accade nel campo della compravendita di libri, la seconda edizione di I giorni del diluvio, firmata stavolta ufficialmente dal suo autore Francesco Mazzola, è diventata più rara della prima.

Mentre dell’edizione originale Rusconi 1985 appare ogni tanto qualche rarissima copia, della ristampa Aragno 2007 non pare esserci più traccia. O siamo di fronte a un secondo rastrellamento, per dirla con le parole del suo stesso autore, oppure il libro è stato veramente comprato fino all’ultima copia. E le due cose, in fondo, non differiscono di granché.



Disponibilità del libro (sempre aggiornato)



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www.corriere.it/cultura/17_settemb...6f39fca24.shtml


IN LIBRERIA PER CHIARELETTERE




«Il segreto» di Antonio Ferrari



sul caso Moro: la postfazione

Perché il romanzo è uscito trentacinque anni dopo essere stato scritto
- Caso Moro, il romanzo segreto di Francesco Cevasco
di ANTONIO FERRARI
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Antonio Ferrari, «Il segreto» (Chiarelettere, pp. 328, euro 18)


La telefonata arrivò a metà pomeriggio di una calda giornata di inizio luglio del 1981. «Ciao Ferrari, sono Salvatore Di Paola. Ti spiace fare un salto nel mio ufficio? Ti devo parlare con urgenza.» Guardai, sorpreso, i miei due colleghi inviati, Nicola D’Amico e Fabio Felicetti. Insieme condividevamo l’onore di occupare l’ufficio che fu di Dino Buzzati, al pianterreno del «Corriere della Sera», in via Solferino, dove forse nacque un suo capolavoro, Il deserto dei Tartari. Libro straordinario e fenomenale metafora sui tempi lunghi e le attese infinite che logoravano la nostra impazienza e condizionavano – noi pensavamo – la vita e la salute del giornale. «Chissà cosa vorrà l’azienda. Vado e poi vi racconto.» Salutai i colleghi, mi infilai la giacca estiva e salii le scale.




Di Paola, con il quale ero da tempo in confidenza, era un dirigente curioso, che amava il «Corriere» e non pensava soltanto ai lauti compensi della pletora di super manager dei nostri giorni. Era il numero tre del gruppo editoriale, ma praticamente era rimasto il più alto in grado, visto che l’editore, Angelo Rizzoli, e il direttore generale, Bruno Tassan Din, erano stati di fatto esautorati dopo l’esplosione dello scandalo P2.
Mi aspettava sulla porta del suo ufficio. «Vieni, Antonio, siediti. Devo dirti subito una cosa: siamo nella merda.» Lo disse senza preamboli, con brutale franchezza, strappandomi un sorriso di piena condivisione.
«Lo scandalo della P2 è devastante. Abbiamo bisogno di dare alla gente, ai nostri lettori, inequivocabili segnali di pulizia. Tu hai coraggio, ti occupi di terrorismo. Hai rischiato la pelle. Vivi con la scorta. Ecco, dovresti scrivere un saggio su questi anni devastanti».


A volte, forse per temporanea pigrizia mentale, vengo travolto dal desiderio di rifiutare sempre e comunque, anche se caratterialmente sono l’esatto contrario. «No, Salvatore. Non me la sento. Non sono pronto. È una responsabilità che va oltre le mie forze».
«Antonio, se ho pensato di chiamarti è perché so quanto ami e quanto sei legato al nostro “Corriere della Sera”. Il “Corriere”, adesso, ha bisogno di te... Non cercare scuse. Fatti venire un’idea».

Per prendere tempo, risposi: «Ci penso qualche giorno». Di Paola, determinatissimo: «Qualche giorno? Non hai capito. Tu andrai a firmare il contratto in Rizzoli domattina. Scrivi quello che vuoi».

Alla fine, lo so, la fantasia e il gusto del rischio mi hanno sempre soccorso. Anzi, quando mi lanciano il guanto della sfida, non riesco a sottrarmi.
Guardai Salvatore Di Paola. «Quello che posso fare è un romanzo, dove racconterei tutto ciò che non ho potuto scrivere perché non ne ho le prove assolute».

«Perfetto. Non voglio neppure conoscere i dettagli».

«Fermati, Salvatore. Mi devi ascoltare. Racconterò alcuni segreti che si nascondono dietro l’assassinio di un leader politico. Immagini già chi è. Non farò nomi, neppure di lui. Altererò i tempi, il luogo della strage, le decisioni delle Brigate rosse. Non è pura fantasia: intreccerò alcune confidenze che ho ricevuto da amici magistrati, preziose notizie ignorate dai giornali e indiscrezioni davvero piccanti, con una trama parallela. Ti avviso che chi leggerà capirà tutto. Te la senti? Ve la sentite? Sei sicuro?».

«Te l’ho detto e te lo ripeto. Carta bianca. Ti prendo l’appuntamento per domattina».

Credo che qualsiasi autore sarebbe stato felice di tanta generosità e di tanta fiducia. Impiegai mezz’ora per illustrare il progetto al dirigente della Rizzoli Libri, che si chiamava Piero Gelli (un caso di imbarazzante e sofferta omonimia). Firmai il contratto, che prevedeva la consegna del testo entro sei mesi. Tre giorni dopo ricevetti l’anticipo e cominciai a lavorare per rispettare i tempi. Sei mesi più tardi: consegna del libro e un sudario di silenzio. Silenzio di tomba dalla casa editrice. Nessuno chiamava. Sergio Pautasso, il responsabile della narrativa, taceva. Quando parlavo con il suo ufficio, rispondevano che si stava valutando. Ma valutando cosa? Eppure continuavo a essere ingenuamente ottimista.

Alla fine quel romanzo, che ha più di trentacinque anni, non è mai stato pubblicato, come avevano previsto gli amici ai quali l’avevo fatto leggere. Persone di cui mi fidavo, e che erano state generose: alcune di informazioni davvero scottanti, altre di preziosi consigli. «Antonio – mi dissero –, ci vogliono molto coraggio, una dose smisurata di anticonformismo e la determinazione di colpire i vari poteri per pubblicare questo libro».

Eccomi qui, trentacinque anni dopo, con i capelli bianchi ma l’intatto desiderio di condividere con i lettori (in primo luogo i giovani, che di quegli anni sanno poco o niente, ma anche i «diversamente giovani», che invece ricordano quasi tutto) una storia che oggi non fa più scandalo, come la nuova Commissione Moro, voluta da Matteo Renzi, sta ricostruendo tra mille difficoltà. La storia che non si poteva scrivere, oggi, è persino meno traumatica di quanto sta emergendo dai lavori della commissione parlamentare. Il delitto Moro fu una grande porcheria internazionale.

Devo fare un passo indietro. Anzi ne devo fare due. Il primo passo riporta all’aprile del 1979, quando il direttore del «Corriere della Sera», Franco Di Bella, mi chiese di partire subito per Padova, dove mi avrebbero poi raggiunto i colleghi Giancarlo Pertegato e Walter Tobagi. C’era stata una serie di clamorosi arresti nel mondo dell’Autonomia operaia organizzata, a cominciare dalla quasi totalità dei docenti della facoltà di Scienze politiche, a partire dal barone Toni Negri. Erano stati scoperti legami con le Brigate rosse, e si sospettavano responsabilità dirette per il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, avvenuto l’anno prima.

Il 28 aprile, a oltre venti giorni dalla retata, il sostituto procuratore della Repubblica Pietro Calogero mi ricevette, assieme ad altri colleghi. Fece il punto sull’inchiesta. Spiegò le connessioni che erano state scoperte a Parigi, presso l’istituto di ricerca Hyperion. Ci confidò che i servizi segreti francesi avevano collaborato fruttuosamente all’indagine, anche se avevano fatto sapere che la collaborazione doveva ritenersi sospesa, perché gravemente compromessa. Calogero mi guardò dritto negli occhi: «Ferrari, purtroppo il suo giornale, il “Corriere della Sera”, ci ha tradito».
Mi sembrava un’accusa infamante, incomprensibile e profondamente ingiusta. Ma prima che potessi esternare la mia reazione di corrierista doc, il giudice precisò: «Non lei, Ferrari, naturalmente. Ha letto la prima pagina del “Corriere” di quattro giorni fa? La rilegga, e ricordi quanto le ho detto».
Rammentavo il titolo, clamoroso, Secondo i servizi segreti era a Parigi il quartier generale delle Brigate rosse, e l’articolo. Ricordavo che la rivelazione dell’«uomo dei servizi» era stata raccolta da un collega che stimavo e stimo. Mi chiesi, in pochi secondi, che cosa avrei fatto io se avessi avuto quella notizia, quello scoop.

«Capisco il suo turbamento» mi disse Calogero. «Apprezzo sempre il lavoro di voi giornalisti. Ma sappiate che anche voi potete essere strumenti inconsapevoli di giochi orrendi. Se foste “consapevoli”, sarebbe davvero una tragedia per la libertà di questo paese».
Quella conversazione si sedimentò nella mia mente, ed è logico che, da quel giorno, cercai di ragionare molto più attentamente su tutto ciò che accadeva, anche su dettagli che parevano marginali. Per esempio fui molto colpito da una notizia. La scarcerazione e la scomparsa di un ricco americano, che era stato arrestato a Bologna per traffico di droga nel 1975, e che era tornato misteriosamente in libertà. In carcere si era infiltrato nelle Br e, come poi si seppe, era un uomo legato alla Cia. Si chiamava Ronald Hadley Stark. Anni dopo, nel 1985, venni a sapere anche che Stark era morto nelle Antille, in circostanze davvero particolari.

È chiaro che molte fiaccole si erano accese nella mia mente.

All’inizio del 1981, un collega de «L’Espresso» che stimavo moltissimo, Franco Giustolisi, compagno di tante missioni giornalistiche in giro per l’Italia, rientrando a Milano da Padova mi fece una strana confidenza. «Hai fegato, Antonio. Ma attento. Tu scrivi spesso che la loggia P2 si staglia dietro molte storie di terrorismo. Ho sentito che il tuo giornale non ne è estraneo».

Ricordo che reagii con insofferenza. «Anche tu, Franco! Ce l’avete proprio tutti con il “Corriere”. Non crederò mai a una cosa del genere.» Giustolisi mi sorrise, enigmatico. Cambiammo discorso.

La sera del 20 maggio 1981 ero al giornale. Credo che aspettassi due amici della redazione per un pokerino notturno. Chiacchieravamo di calcio quando, in sala Albertini, entrò un fattorino. Aveva in mano un telex. Il capo del servizio politico sbiancò. «L’elenco! Arriva l’elenco della P2.» Pokerino svanito. Tutti in fila davanti al telex, mentre la macchina vomitava, con il suo ritmo scandito da ogni lettera. Quasi mille nomi. Eravamo diventati tutti guardoni. «Hai visto chi c’è?» «Incredibile.» La lista era come una frustata. Non so quanti possano immaginare che cosa abbia voluto dire, per un amante del «Corriere», scoprire che i vertici del suo giornale erano dentro. Quasi tutti. Fu chiamato a casa il direttore, che arrivò trafelato. Vide l’elenco. Quattro parole: «Bene, si pubblichi tutto».

Al centralino del «Corriere» fioccavano telefonate notturne, nervosissime. Chi compilò quella pagina, che aveva un titolo imbarazzato, La presunta lista della Loggia P2, fece molto più degli straordinari. Molti volevano smentire subito: chi sdegnosamente, chi con rabbia, chi si affidava al giudizio della gente, chi minacciava querele. Ricordo due cose di quella notte di tregenda. La fatica dei colleghi della redazione per inserire le smentite, che suonavano ridicole, talvolta patetiche, talora grottesche. Poi l’autentica fitta di dolore per colleghi professionisti, compreso un giovanissimo talento che consideravo quasi un allievo, i quali erano andati a inginocchiarsi davanti a quel brutto ceffo di Licio Gelli. Un lercio burattinaio con disegni delinquenziali e golpisti, in Italia come in Argentina, in Uruguay e altrove. Non mi aveva sconvolto la presenza nella lista dei politici, dei generali, di tutti i capi dei servizi segreti, di alcuni magistrati. L’intero codazzo istituzionale di questo bellissimo ma slabbrato paese, abitato da troppi camerieri del potere. Lo davo per scontato. Fui fulminato dalla presenza del cantante Claudio Villa (sì, caro Reuccio, la vanità e la piaggeria fanno brutti scherzi!) e da quella del grande imitatore Alighiero Noschese, che conoscevo personalmente. Povero Alighiero, forse Gelli lo aveva utilizzato per telefonate ricattatorie. L’artista – dissero – non resse alla vergogna e si tolse la vita. Magari era vero che soffrisse di depressione.

Avendo poi seguito, a Torino, numerose udienze del processo alle Br, e avendo ammirato l’equilibrio del presidente della corte d’assise Guido Barbaro, un educato garantista che era il beniamino di noi inviati speciali, rimasi raggelato nel vedere anche il suo nome nella lista della P2. In quei momenti, mentre si spiegavano carriere fulminanti, tessevamo collegamenti inquietanti. Quella notte non dormii.
Meno di due mesi più tardi, quando fui chiamato da Salvatore Di Paola, ero ancora sotto choc, anche se nella vita ci si abitua a tutto. Il mio «Corriere» ferito era come una pugnalata alla schiena di ciascuno di noi.

Anni dopo, quando un collega tentò di far pubblicare sul nostro magazine un’intervista a Licio Gelli, mi consultai con il supervisore del settimanale, il mio migliore amico Francesco Cevasco, collega bravo e limpidissimo, che già aveva deciso di impedirne la pubblicazione senza consultare nessuno. In quanto delegato sindacale degli inviati speciali, convocai un’assemblea. «Se esce l’intervista, cari colleghi, propongo uno sciopero immediato, senza trattative e senza compromessi. A muso duro.» Ferruccio de Bortoli, all’epoca capo dell’Economia, si mise la giacca e, passando davanti all’ufficio di direzione, disse: «Se esce l’intervista, il giornale ve lo fate da soli». Il direttore Paolo Mieli fu d’accordo con noi.

L’intervista non fu pubblicata.

Ma torniamo al libro. Il tempo passava e la Rizzoli non mi dava notizie. Si erano lamentati per la lunghezza del testo. Pautasso compiva salti mortali (o quasi) per spiegarmi che c’erano «cose che non andavano». Scuse pietose. Cambiò il direttore della divisione libri. Arrivò Valerio Riva, ruvido galantuomo. Mi fece una telefonata di fuoco: «Cazzo! La scuola di Parigi. Perché non esce questo libro?». Mi venne da ridere: «Non chiederlo a me». Riva si impegnò, ma poco dopo fu allontanato. Arrivò Oreste Del Buono, che mi disse chiaramente: «Non ce la sentiamo. Mi spiace». Decisi di ritirare il mio Il Segreto. Chiesi solo l’ultima rata dell’anticipo. Una causa? Al «Corriere della Sera» e alla casa editrice Rizzoli non l’avrei mai fatta. Provai allora con altri editori.
Devo però essere sincero. Da una parte mi urtava questa tremebonda cortina da prima Repubblica, dove certe libertà non erano previste; dall’altra comprendevo le resistenze, e in qualche caso le condividevo. In realtà, con questo romanzo, ero andato – per quei tempi – ben oltre i binari della mia autonomia e del mio ruolo professionale. Ero insofferente ed ero giunto a una conclusione: non volete il libro? Me ne farò una ragione.
Cominciai la mia seconda vita professionale: inviato speciale all’estero.

Due episodi. Ero stato incaricato di partire, ancora una volta, per Parigi. Dovevo raccontare la vita da esuli dei ricercati italiani per terrorismo. Il mio direttore, Piero Ostellino, presuntuoso ma schietto e sicuramente per bene, mi disse: «Lo so, lo so che Negri non ti ama. Dice che sei una specie di carabiniere». Risposi con una battuta: «Be’, direttore, quanto onore! Meglio somigliare a un carabiniere che a Toni Negri». Tornato a casa, mi consultai con la mia compagna di allora, Agnes Spaak. Reagì con istinto protettivo: «Non mi piace, Antonio. Torna subito al giornale». E mi suggerì: «Chiedi al direttore cosa volesse dire. Insomma da dove veniva quella battuta».

Tornai da Ostellino. Mi spiegò che era arrivata una lettera di Toni Negri dalla Francia. Era indirizzata a «Fabio Barbieri, caporedattore del “Corriere della Sera”». Informazione assolutamente inesatta. Sbagliata, falsa, anche se in realtà il collega de «il mattino di Padova» e poi inviato de «la Repubblica» era stato in corsa per essere assunto nel nostro «Corriere», e qualche giornale vi aveva accennato. Un membro della segreteria di redazione, Inigo Scarpa, aveva privilegiato la carica e non il nome del destinatario e aveva aperto la lettera. Ostellino mi spiegò che era formalmente un «corpo di reato». Arrivava da un ricercato, anzi da un condannato a trent’anni di prigione. L’azienda, mi disse, «l’ha fatta consegnare al magistrato».



Domandai: «Che cosa si dice nella lettera?».
Ostellino mi rispose: «Fanfaronate. Alla fine Negri si rivolge a Barbieri per chiedergli in sostanza di non utilizzarti su questi argomenti, in nome dell’antica amicizia». Barbieri era stato infatti in Potere operaio, proprio come il professore padovano.
«Direttore, quando è arrivata la lettera?».
«Mi sembra un mese fa».
«E tu non mi hai informato?».
«Ma no, Antonio. Non c’erano minacce dirette a te».
«Piero, mi hai esposto al rischio di finire stritolato da qualche fogliaccio calunniatore...».
«Secondo me esageri».
«Al punto che domani andrò anch’io dallo stesso magistrato. Farò una dichiarazione a futura memoria.» Così feci, e chiesi che fosse messa agli atti.



Chi non ha vissuto l’atmosfera di quegli anni velenosi non può immaginare, neppur lontanamente, come si viveva e come vivevano coloro che seguivano per il proprio giornale le vicende del terrorismo. C’erano le minacce, le tensioni, le paure personali e i timori familiari, le calunnie esplicite e quelle fabbricate con le allusioni.

Nel 1980 il mio collega Walter Tobagi, che con me raccontava i mali del nostro paese, era stato ucciso da un commando di praticanti terroristi, dopo essere stato sepolto di insinuazioni. Potete quindi immaginare quanto fosse delicata una lettera di un personaggio come Toni Negri, magari ripresa e commentata dai fogli che raccoglievano pettegolezzi e spazzatura. Forse amplificata da coloro – non sapete quanti! – che allora erano estremisti dell’ultrasinistra e poi sono entrati con le fanfare nelle stanze del potere. Soprattutto di destra. Ero turbato e sconcertato dalla gravità di quell’episodio.

Due giorni dopo partii per Parigi. Incontrai Oreste Scalzone e altri espatriati sfuggiti alla giustizia italiana. Nessuno di loro amava Negri. Una sera rientrai in albergo, al Montalembert, e il portiere mi consegnò un pacco. Dentro, una pila di fotocopie e un bigliettino anonimo in francese. Lessi: «Sappiamo la disavventura che ha avuto con il suo libro Il Segreto. Vogliamo farle sapere che cosa sta per pubblicare la Rizzoli. Titolo: Il treno di Finlandia, autore: Toni Negri. Trova qui le fotocopie del testo».

Ero allibito e, direi, scandalizzato. Ne scrissi tranquillamente in un paio di articoli, contando sul fatto che nessuno sarebbe intervenuto per chiedermene ragione. Ostellino è sempre stato un vero liberale. Ovviamente, svelato il segreto, scoppiò un piccolo scandalo in casa editrice, e il libro di Negri fu scartato. Uscì, in grave ritardo rispetto ai tempi previsti, con un piccolo editore.

Mi capitò, molti anni dopo, di incontrare Fabio Barbieri a Davos per il World Economic Forum. Stavamo cenando con i colleghi al ristorante Morosani. Si parlava di amicizia. Dissi: «Fabio, tu sei mio amico da anni, ma con me non ti sei comportato da amico. So che sei stato contattato dal nostro direttore generale di allora, Luigi Guastamacchia ».


Rispose: «Sì, è vero. Ci conosciamo e frequentiamo da tempo. Lo incontrai, mi parlò della lettera di Negri e mi chiese notizie e valutazioni sul tuo conto». Lo incalzai. «E tu, amico mio, non mi dicesti nulla? Vergognati.» I colleghi presenti nel ristorante di Davos impallidirono. Il nostro Danilo Taino, eccellente giornalista, grande corrispondente, analista e soprattutto uomo verticale, tornando in albergo mi prese sottobraccio e disse: «Antonio, quel che ho sentito è davvero sconvolgente ». Fabio, senza riferirsi direttamente a quell’episodio, si mostrava pentito e dispiaciuto. Qualche tempo prima di morire (era malato e lo avevo saputo), venne a Gerusalemme con la moglie. Gli stetti vicino in questo suo pellegrinaggio in Terrasanta.
Questo è il passato.


Oggi, come vedete, Il Segreto è uscito. L’ho riletto tre volte, per riprendere confidenza con una vicenda che ha segnato la mia vita. L’ostinazione ha vinto.
«Guastafeste della memoria» mi ha definito con amicizia e simpatia l’ambasciatore Sergio Romano. Ne sono fiero. Ma c’è di più. Finirà che dovrò ringraziare chi, trentacinque anni fa, rifiutò di pubblicarlo.

Oggi il mio romanzo quasi combacia con la realtà.

© CHIARELETTERE, 2017

22 settembre 2017 (modifica il 2 ottobre 2017 | 16:50)
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Dietro le quinte del Potere.

L’enigmatico generale del SID, Nicola Falde


di Emiliano Di Marco (sito)

lunedì 29 dicembre 2014






www.agoravox.it/Dietro-le-quinte-del-Potere-L.html

Successore del colonnello Renzo Rocca all'Ufficio REI dei servizi segreti, la misteriosa personalità del generale Nicola Falde, ricostruita attraverso gli atti della Commissione d'Inchiesta sulla P2, ci permette di entrare nel sottobosco del potere dei primi anni '70, toccando alcuni dei più importanti scandali e misteri della storia italiana.

Falde: Gelli cercava un suo centro d'informazione e voleva utilizzare l'agenzia OP come suo organo. Diceva che voleva utilizzarla, ma di fatto cosa voleva fare? Una raccolta di notizie dalla periferia massonica a lui. Lui si teneva queste notizie e poi le avrebbe utilizzate. Cioè, nell'attività di Gelli si vede sempre un disegno costante di farsi un suo centro d'informazione. Praticamente, l'informazione è stata per lui un'arma operativa...

Presidente (Tina Anselmi): Generale Falde, in che senso Gelli ha fatto dell'informazione, come lei ha detto, un'arma operativa?

Falde: Chi conosce controlla e può condizionare. La conoscenza è fondamentale; un'informazione retta e giusta consentirebbe allo Stato di essere più sicuro; un'informazione deviata, come sempre quella che ha avuto lo Stato, e ne abbiamo un esempio doloroso attraverso il degrado delle istituzioni... Cioè, se lo Stato, attraverso il servizio d'informazione, invece di avere un'informazione esatta, giusta e precisa, ha informazioni deviate, naturalmente la situazione è quella che noi vediamo...

(Commissione P2, Volume VI, sedute 8 ottobre 1 novembre 1982)





Ufficiale dei servizi segreti, faccendiere, mediatore, amico dei potenti, informatore, vittima di un persecuzione politica, influencer, intossicatore ambientale oppure personaggio che perseguiva un proposito personale di vendetta; il generale Nicola Falde è forse stato tutte queste cose insieme, o nessuna. Se la sua figura è uscita fuori dal cono d'ombra del potere, lasciando uno strascico di tracce nei documenti delle commissioni parlamentari, in diversi procedimenti giudiziari, e sulla stampa, è stato principalmente perché la sua vicenda umana si è trovata, in un passaggio cruciale della storia del paese, nei pressi dei principali centri direttivi del poteri occulti, nel mezzo di uno scontro di forze che è stato decisivo per le sorti del paese, nel momento in cui la diffusione di massa di giornali, e soprattutto dei settimanali, iniziò ad essere in grado di orientare vaste porzioni dell'opinione pubblica nazionale.

In quel passaggio d'epoca, in una società in cui agivano potenze e tensioni divaricanti, cambiava sia lo statuto dell'informazione che la natura, l'organizzazione e le strategie degli apparati dei servizi. Proprio in quegli anni venne coniata la definizione "servizi deviati", per indicare ruoli e compiti che uscivano dal dettato costituzionale, mentre un altro termine prendeva piede nel linguaggio giornalistico: "depistaggio".

Nelle testimonianze lasciate dal generale Falde è riscontrabile sia la legittima preoccupazione personale che la sua fedeltà alle istituzioni venisse evidenziata limpidamente nelle vicende in cui egli stesso si è trovato coinvolto, sia l'impossibilità di negare una decisa intenzione perseguita nel volersi situare a tutti i costi in prossimità di quelle centrali del potere che gestivano uomini e risorse, nascosti dietro le quinte dello spettacolo politico-mediatico; anche quando era, a suo dire, un "militare a riposo". Tra le tante testimonianze, spesso discordanti tra loro, questa ricostruzione si basa sulle dichiarazioni dello stesso Falde, e di altri protagonisti delle vicende, rilasciate nel corso degli anni ai giornali ed agli atti della magistratura e della commissione parlamentare d'inchiesta sulla Loggia P2 presieduta dall'on. Tina Anselmi.

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La tempesta perfetta sulle attività dell'Ufficio REI di Renzo Rocca



A partire dal 1966, con la riforma dei servizi segreti che portò alla costituzione del SID (Servizio Informazioni Difesa), sotto la direzione dell'ammiraglio Eugenio Henke, l’Ufficio REI (Ricerche Economiche Industriali) dell'ex SIFAR, diretto ininterrottamente dal colonnello Renzo Rocca (dall'inizio degli anni '50 la centrale di collegamento tra i servizi ed il mondo economico e finanziario), venne fortemente ridimensionato nelle sue funzioni e nel bilancio, passando alle dipendenze dell’Ufficio D, mutando il nome in Ufficio RIS (Ricerche Speciali). L'imponente archivio della struttura venne spostato da Rocca stesso in un ufficio della FIAT di via Bissolati a Roma, dove il colonnello si era trasferito dopo aver lasciato il servizio. L'ex Ufficio REI, tra la fine del 1967 ed il 1969, fu ereditato dal colonnello Nicola Falde.



Originario di Santa Maria Capua Vetere, Nicola Falde, nato nel 1917 ed entrato nella carriera militare nel 1932 alla Nunziatella di Napoli, dopo la guerra, durante la quale fu catturato dagli inglesi e tenuto prigioniero in un campo di concentramento in India, era stato segretario particolare del potente politico fanfaniano, massone iscritto alla loggia Giustizia e Libertà, Giacinto Bosco (anch’egli di Santa Maria Capua Vetere), dal periodo in cui questi era Sottosegretario alla Difesa (1953-58), fino al 1966, quando Bosco era Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale. Tornato nei ranghi delle forze armate, Falde assunse l'incarico prima come capo della direzione dell’ufficio UISE (Euratom), nel 1966, per poi passare nell'anno successivo all'Ufficio REI del SID.

La prima riforma repubblicana dei servizi segreti coincise con lo scoppio dello scandalo sui dossier del SIFAR e con le prime indiscrezioni sul tentato golpe del generale De Lorenzo. Renzo Rocca, trovatosi al centro della tempesta politica e giornalistica, scaricato da Paolo Emilio Taviani, venne esposto agli attacchi delle opposizioni parlamentari e del generale Giuseppe Aloia, capo di Stato Maggiore della Difesa. Dallo scandalo emergeva il ruolo di Rocca nell'imponente schedatura e che l'Ufficio REI, oltre ad aver fornito protezione ed assistenza al contrabbando, effettuato il reclutamento di civili per funzioni di disturbo delle manifestazioni di piazza, finanziato organizzazioni dell'estrema destra come Ordine Nuovo e organizzato campagne diffamatorie contro le opposizioni ed i sindacati di sinistra, era anche una struttura di finanziamento occulto di correnti dei partiti politici e giornali.

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(Nella Foto: gen. De Lorenzo)
Rocca morì tragicamente nel suo ufficio di via Bissolati, il 27 giugno del 1968, con un colpo di pistola alla testa, in circostanze che non sono mai state chiarite del tutto. Lo stesso giorno il colonnello aveva ricevuto una telefonata da Nicola Falde (alle 14:15) che gli chiese un appuntamento, probabilmente per avere ulteriori spiegazioni in relazione al suo nuovo incarico all’Ufficio REI. L'appunto fu trovato annotato sulla sua agenda: “Alle 17:30, al bar delle Terme, incontro con Falde” e, per assicurarsi la puntualità, Rocca aveva avvisato il suo autista, l'ex carabiniere Luigi Jacobini. La mattina stessa il ministro Paolo Emilio Taviani, cercato telefonicamente due volte dal colonnello, si era fatto negare dalla sua segreteria.

Le indagini condotte dal giudice Ottorino Pesce, nonostante le continue invasioni di campo degli uomini del SID, che fecero sparire anche l'archivio dell'ex militare, trovarono diversi indizi che smentivano l'ipotesi del suicidio. Un mese dopo però, il procuratore generale della Corte d'Appello di Roma, Ugo Guarnera, su sollecitazione dell'ammiraglio Henke, tolse l'inchiesta al magistrato per affidarla al giudice Ernesto Cudillo (il quale tre anni dopo si rese protagonista rinviando a giudizio Pietro Valpreda ed altri anarchici per la strage di Piazza Fontana). Ottorino Pesce morì due anni dopo d'infarto, a 39 anni.



Nonostante la chiusura delle indagini per suicidio, Falde fu inseguito per anni dal sospetto di essere stato l'esecutore dell'omicidio di Rocca, ma la Commissione parlamentare di inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964 (SIFAR), presieduta dall'onorevole Giuseppe Alessi, non volle acquisire la sua deposizione. Anni dopo, nell’ambito delle indagini sulla strage di Brescia, Falde rilasciò una dichiarazione su Rocca che non aiuta certo a diradare le nebbie:

ll colonnello Rocca non aveva rapporti molto stretti con gli americani, anzi egli era più il referente della lobby informativa inglese che non di quella statunitense. Tuttavia egli manteneva rapporti con gli americani a seguito della forte influenza che D’Amato (capo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, ndr) esercitava su Henke. Preciso che quest’ultimo fatto, cioè l’influenza di D’Amato su Henke, è una mia supposizione non acclarata da dati di fatto. (deposizione di Nicola Falde a personale del ROS, 26 giugno 1995).

Pochi mesi dopo il “suicidio” dell'ex capo dell'Ufficio REI, Falde, ancora a capo dell'ex Ufficio REI, fu oggetto di ripetuti attacchi giornalistici condotti da Mondo d'Oggi, una rivista dell'editore Leone Cancrini, diretta da Paolo Senise e Franco Simeoni, entrambi legati ad ambienti di destra ed ai servizi segreti, con la quale aveva iniziato una collaborazione anche l'avvocato Carmine Pecorelli. Nell'ambito di uno scontro tra le aziende di Stato per le commesse militari, la rivista accusava il generale di patrocinare l'acquisto dei carri armati M47, già in dotazione all'Esercito italiano dagli anni '50, per favorire la commessa per la riparazione e l'assemblaggio alla Oto-Melara di La Spezia.

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In un esposto denuncia presentato alla Commissione d'Inchiesta sulla P2, il 10 agosto 1982, Falde, che riteneva Henke il vero mandante degli attacchi giornalistici, ricostruirà la vicenda relativa al contrasto sulle commesse militari facendola risalire all'autunno del 1966, in seguito all'intervento del senatore democristiano Girolamo Messeri, il quale accusò Henke ed il colonnello Rocca di contrastare le sue attività negli USA. Nello stesso anno Aldo Moro era stato allontanato dal Ministero della Difesa da Giulio Andreotti, per assegnargli quello dell'Industria. Il contrasto vedeva opposte tra loro due aziende di Stato, la Finmeccanica (IRI), di cui la Oto Melara era parte, nelle persone del presidente Salvatore Magri e del direttore generale Leopoldo Medugno, che premevano per l'acquisto, la riparazione e la riesportazione degli M47, favoriti da Henke e dal colonnello Rocca, il quale operava d'intesa con la FIAT e la Confindustria, oltre che con Magri e Medugno; dall'altra parte a premere sullo stesso obiettivo c'era l'EFIM di Pietro Sette, sostenuta dal sen. Messeri e da Aldo Moro.

Henke, uomo di fiducia di Paolo Emilio Taviani, vero dominus del SID, riuscì a trovare una mediazione grazie al gen. Giuseppe Aloia, Capo di Stato Maggiore della Difesa e, Rocca, la cui posizione in difesa degli interessi FIAT era diventata insostenibile, fu costretto alle dimissioni, dedicandosi all'attività privata per conto del gruppo torinese. In seguito anche Falde, almeno in base a quanto dichiarato da lui stesso nell'esposto-denuncia, subì un trattamento analogo a quello ricevuto da Rocca, in quanto sgradito a Paolo Emilio Taviani, all'epoca in rotta con gli esponenti DC Giacinto Bosco, Giulio Andreotti, Aldo Moro e Amintore Fanfani. (Comm. P2, volume VI, tomo XVII).



Ad acuire le fibrillazioni nei principali corpi dello Stato, i cui dirigenti erano nominati in base ai blocchi di potere dei partiti di governo, con il governo Rumor I che si reggeva con una maggioranza tripartita che vedeva alleati il Partito Socialista Unificato (PSU), nato nel 1966 dalla fusione tra PSI e PSDI, ed i Repubblicani (PRI), mentre esplodeva la contestazione studentesca ed operaia, era lo scontro di potere interno alla Democrazia Cristiana, con la scissione di Paolo Emilio Taviani ed Aldo Moro (che formò un gruppo autonomo nel partito, detto dei "morotei") nel novembre del 1968 dalla principale corrente dorotea. Il clima di contestazione si estese anche nel mondo cattolico, nel quale iniziarono a trovare spazio le prime posizioni di apertura alle opposizioni comuniste. Il clima di rinnovamento culturale spinse, nell'aprile del 1969, in un convegno a Firenze della "sinistra democristiana di base", Ciriaco De Mita a lanciare la proposta al PCI di un "patto costituzionale per affrontare i problemi del paese". Nell'XI congresso nazionale della DC del giugno 1969 si evidenziò così la frantumazione della corrente doroteta, che rimase maggioritaria con Impegno Democratico, a cui aderivano il segretario Piccoli, il presidente del Consiglio Rumor e Giulio Andreotti, ottenendo il 38.3%; con i fanfaniani di Nuove Cronache al 15,9%; gli amici di Taviani al 9,5%; ed i morotei al 12,7%; Nuova Sinistra di Fiorentino Sullo e Ciriaco de Mita ottennero il 2,6%; alla destra della DC la corrente Forze Libere di Oscar Luigi Scalfaro andò il 2,9%.

La scissione dell'area "socialdemocratica" all'interno del Partito Socialista Unificato, la quale diede vita al Partito Socialista Unitario, costrinse Mariano Rumor, nell'agosto del 1969, a varare un secondo governo, un monocolore democristiano, senza i socialisti. Nel turbolento autunno del 1969 venne approvata alla Camera dei Deputati la legge sul divorzio, con l'isolamento della DC, con i missini ed i monarchici, causando una ulteriore spaccatura nella corrente dorotea, con il tentativo di scioglimento di Impegno Democratico da parte del segretario Flaminio Piccoli e del presidente del Consiglio Mariano Rumor (decisione osteggiata da Emilio Colombo e Giulio Andreotti) per dare vita ad Iniziativa Popolare con Antonio Bisaglia. L'effervescenza delle tensioni nel paese raggiunse il suo apice con la strage di piazza Fontana del 12 dicembre del1969. La corrente dorotea, pur riassorbendo i pontieri di Paolo Emilio Taviani e continuando ad essere maggioritaria nella DC, non potè evitare la spaccatura con le dimissioni di Piccoli da segretario ed un nuovo rimpasto del governo Rumor, il 27 marzo 1970. Il governo Rumor III non riuscì a sopravvivere allo sciopero generale del luglio 1970. Il centro sinistra organico riuscì ad andare avanti fino al gennaio 1972 con il governo di Emilio Colombo, mentre la Conferenza Episcopale Italiana incoraggiava la raccolta delle firme per il referendum sul divorzio.

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(Nell’Immagine: Moro, Piccoli, Fanfani e Rumor)
Nel 1969, in seguito ai contrasti maturati con l'amm. Henke, dimessosi da ogni incarico nelle Forze Armate, il generale Nicola Falde iniziò la carriera di “giornalista” collaborando con la RAI dove ritrovò una sua conoscenza, Giancarlo Elia Valori, cameriere di cappa e spada del Vaticano, affiliato alla loggia massonica Romagnosi nel 1965 (la stessa a cui era iscritto Licio Gelli), diventato nel 1972 funzionario alle relazioni internazionali della televisione di Stato.

Sull'effettivo ruolo di giornalista di Falde alla RAI esistono pochi riscontri, mentre è rimasta una traccia della sua attività di “intossicazione ambientale” su una delle più importanti controinchieste degli anni '70. La Strage di Stato controinchiesta, edito da Samonà e Savelli nel 1970, un best-seller di 600.000 copie, incentrato sulla tesi che dietro la strage di piazza Fontana ci fosse sia Avanguardia Nazionale che il comandante Junio Valerio Borghese. Secondo una versione del neofascista Stefano Delle Chiaie (fondatore di Avanguardia Nazionale), originariamente la controinchiesta doveva essere pubblicata dalla casa editrice ED (Nuova Sinistra Editrice), la cui collana “Per l'Azione” era curata da Roberto Di Marco per conto di Giovanni Ventura, un neofascista di Ordine Nuovo, coinvolto nell'inchiesta sulla strage di Piazza Fontana, legato a Franco Freda ed all'agente del SID Guido Giannettini, che era riuscito ad camuffarsi da editore di una piccola casa editrice della nuova sinistra.

La ED chiuse i battenti nel 1970 ed il testo fu proposto dall'avvocato Di Giovanni di Soccorso Rosso e dal giornalista Marco Ligini alla Samonà e Savelli. Ventura, che rivendicò la sua collaborazione al volume in un intervento a Radio Radicale, il 15 maggio 1976, avrebbe anche continuato a mantenere contatti con il comitato di controinformazione nato intorno alla pubblicazione. Molte delle notizie del volumetto erano tratte da documenti che furono ritrovati nella cassetta di sicurezza della madre di Ventura, in compagnia di numerosi dossier di Giannettini, presso la Banca Popolare di Montebelluna. Poco prima di morire, Marco Ligini avrebbe consegnato allo storico Giuseppe De Lutiis alcuni documenti del SID riguardanti un sindacalista socialdemocratico della UIL, Adelino Ruggeri, coinvolto nell'indagine “Rosa dei Venti”, che il giornalista sosteneva di aver ricevuto da Nicola Falde. (L'Aquila e il Condor, di: Delle Chiaie, Griner, Berlenghin, pag. 123 – Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro)

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(Nella Foto: Franco Freda e Giovanni Ventura)
Nel 1971 Falde iniziò anche la collabozione con l’appena fondata agenzia Osservatorio Politico, di Mino Pecorelli, con un articolo contro Camillo Crociani, presidente di Finmeccanica (in seguito, nel 1975, coinvolto nello scandalo Lockheed), in cui veniva accusato di essere il ministro ombra della Difesa. Anche Giancarlo Elia Valori diventò oggetto degli attacchi di OP, per i suoi rapporti con Juan Domingo Peròn, in cui il dirigente della RAI veniva apostrofato con l'appellativo “Fiore di loto”. Valori chiese a Falde un incontro con Pecorelli per far cessare gli attacchi, diventando in seguito una delle sue fonti principali.

Dalla sua nascita e, fino al 1978, quando divenne rivista, OP è stato un bollettino ciclostilato di informazioni scandalistiche, chiaramente basate su fonti riservate, che veniva inviato per posta a migliaia di indirizzi di abbonati, tra questi le personalità più influenti del paese. Su impulso del generale Vito Miceli, diventato direttore del SID nel 1970, e del colonnello Fiorani, OP avviò agli inizi degli anni '70 delle spegiudicate campagne scandalistiche contro diversi personaggi ai vertici degli apparati di sicurezza, del potere economico e politico, come la campagna contro il il presidente della Repubblica Giovanni Leone, con la pubblicazione delle foto della moglie del capo dello Stato in crociera sulla nave Tiziano a Corfù, scattate dall'ufficiale del SID Antonio Maroni. Tra i vari obiettivi di Pecorelli, una particolare attenzione era rivolta al "progetto golpista e tecnocratico" dell'ex presidente dell'ENI, Eugenio Cefis, diventato capo di Montedison, uno dei più potenti ed influenti manager nell'Italia di quel periodo.

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(Nella Foto: Giacinto Bosco e Giulio Andreotti)
Intanto, nel 1971, con gli equilibri politici tenuti insieme su basi fragilissime, la tensione sociale del paese alle stelle, l'elezione del nuovo presidente della Repubblica aveva diviso inevitabilmente le correnti della DC che non trovarono l'unità sulla candidatura di Amintore Fanfani. L'impossibilità di trovare un accordo con Moro portò alla elezione di Giovanni Leone, con i voti determinanti del Movimento Sociale Italiano, causando l'uscita dal governo dei Repubblicani. La crisi si protrasse per un anno, portando alle elezioni anticipate, le quali consentirono anche di evitare il referendum sul divorzio. Con le elezioni del 7 maggio del 1972, che videro la DC attestata sul 38,7%, il governo Andreotti II nasceva con i voti di DC, PSDI e PLI, e con l'appoggio esterno del PRI, con Moro fuori da ogni incarico governativo. La formula "centrista", con l'esclusione dei socialisti, provocò le dimissioni dei rappresentanti delle correnti "Forze Nuove" e dei morotei dalla direzione nazionale della DC. Moro rimase presidente del partito con Forlani, primo segretario segretario nazionale della DC non doroteo.

Tra il mese di luglio del 1972 ed il luglio del 1973, Pecorelli, oltre a curare l'agenzia, divenne capo ufficio stampa dell’irpino Fiorentino Sullo, esponente storico della sinistra DC, allora ministro per l’attuazione delle regioni nel governo Andreotti II, mentre Giacinto Bosco venne nominato vicepresidente del CSM. Sullo, in seguito agli accordi di palazzo Giustiniani del giugno 1973, entrò poi in rotta di collisione prima con Fanfani, e poi con la nuova generazione della sinistra DC di De Mita, Mancino, Bianco e Gargani, uscendo definitivamente dal partito nel 1975 per aderire al PSDI, al termine di una campagna diffamatoria sulla sua presunta omosessualità, basata su un vecchio dossieraggio del SIFAR che risaliva al periodo in cui era stato Ministro dei Trasporti del governo Tambroni, nel 1960.

Falde diventò anche direttore di OP per pochi mesi (tra 1º dicembre 1973 al 31 marzo 1974), nel periodo in cui Pecorelli si era trasferito in Svizzera, dopo aver subito il danneggiamento a scopo intimidatorio della sua auto, tra il 7 e l'8 novembre 1973. I rapporti tra i due iniziarono però a deteriorarsi al ritorno di Pecorelli a Roma, nel febbraio del 1974. Il generale, che intendeva moderare i toni del bollettino e selezionare le notizie delle pubblicazioni, esercitando un controllo sull'agenzia, in seguito riferì alla Commissione P2 (Volume VI, sedute 8 ottobre 11 novembre 1982) che il motivo della rottura con Pecorelli fu dovuto alla sua “incontinentia pubblicandi”. In pratica Pecorelli era riuscito ad ottenere, tramite un prelato del Vicariato della Sacra Rota, il dott. Annibale Ilari, ex direttore dell'Archivio segreto della Santa Sede, dei fascicoli contenenti i verbali di annullamento dei matrimoni al Tribunale Ecclesiaistico. In piena campagna referendaria sul divorzio, OP curò così una rubrica con stralci dei verbali in cui i matrimoni erano stati annullati per “impotentia coeundi et generandi”, per “corruzione”, per “sospetto incesto”; sentenze che riguardavano la ricca borghesia e la nobiltà nera romana.

Nel 1974, stando a quanto dichiarato alla commissione P2, Falde tentò inutilmente di ottenere i finanziamenti da Mario Foligni per un suo progetto di giornale scandalistico, rifiutando l'offerta di Umberto Ortolani di dirigere l'agenzia Stefani, di sua proprietà.

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I finanziamenti occulti di OP

Per poco più di due anni, a partire da quel tempo, dettavo a Pecorelli e qualche volta al suo collaboratore, le mie note che spesso venivano riprodotte con qualche grave oltraggio alla grammatica e alla sintassi e che talvolta facevano rumore perchè ciò che è vero tale è e tale resta. In tal modo O.P. decollò e con O.P. decollò anche Pecorelli che ne fece ahimè! un foglio pazzo, terribilmente accusatorio, provocatorio.
Da qui le accuse di ricattatore, mentre gli attacchi rivolti a Cefis e ai suoi manutengoli anche all’interno del Servizio, privarono Pecorelli anche di questa fonte di finanziamento che gli perveniva attraverso Gioacchino Albanese. Era un pò la denuncia certamente donchisciottesca al Sistema. (Esposto di Nicola Falde alla commissione parlamentare d'Inchiesta sulla Loggia P2, 19 ottobre 1982)

Benché siano stati accertati i collegamenti con il SID, il finanziamento dei servizi segreti all'agenzia OP è sempre stato tenuto nascosto da Pecorelli, il quale riceveva contributi e lasciti (rigorosamente in “nero”) anche da aziende statali e parastatali, oltre che da personalità politiche, conquistandosi nel corso degli anni la fama di ricattatore, forse a sproposito.

Il 17 dicembre del 1975 sul conto corrente di OP fu liquidato un assegno di 30 milioni emesso dal Banco Ambrosiano con l'indicazione “Assfin c/speciale”, un conto corrente della finanziaria presiduta dall'on. Democristiano Giuseppe Arcaini, direttore dell'Italcasse.

Tra le note di Pecorelli, qualche anno dopo, vennero trovati alcuni appunti senza data, tra cui uno che riportava “Nicola pagato dal SID” ed un altro con scritto:

Dopo una serie di note riguardanti l'Iri e l'on. Bisaglia, il signor Mario Imperia è intervenuto di sua iniziativa, e dopo laboriose trattative da lui svolte con le parti che hanno figurato e l'avv. Pecorelli, si è giunti alla seguente intesa anche, nella parte finale, con i buoni uffici del gen. Miceli, invitato a intervenire per alcune note riguardanti il Quirinale, la presidenza del Consiglio e il Vaticano. Il gen. Miceli ha chiesto che la direzione dell'agenzia fosse assunta dal dott. Falde e che l'agenzia desistesse dallo scrivere note non amichevoli verso la presidenza del Consiglio, nei confronti dell'on. Ministro della Difesa, e venissero tralasciati argomenti di interesse personale nel settore militare, che cessassero le note polemiche nei confronti del Vaticano, del Quirinale, dell'on. Bisaglia. In cambio Pecorelli ha ricevuto 30 milioni per ripianare alcuni impegni contratti, una somma di L. 2 milioni per devoluzione mensile all'agenzia, L. 800 mila per consulenze all'Iri, verbalmente date allo stesso avv. Pecorelli; infine, sempre all'avv. Pecorelli una consulenza con lettera di una società dell'Egam per L.250 mila mensili. (Comm. P2, vol. VII, tomo XIV, pagg. 784-785)

A proposito dei finanziamenti all'agenzia OP, Falde ha affermato alla Commissione d'Inchiesta sulla P2 di aver assistito, agli inizi del 1973, alla consegna a Pecorelli di 30 milioni di lire da parte del faccendiere del SID vicino agli ambienti democristiani, Mario Imperia, il quale ha poi sostenuto di aver ricevuto il denaro dal piduista Francesco Cosentino, all'epoca segretario della Camera dei Deputati (Cosentino a sua volta, attribuì l'origine della somma ad una colletta organizzata dal presidente di Finmeccanica Camillo Crociani, quando però questi però era defunto e non poteva smentire la circostanza, a condizione che cessasse gli attacchi al presidente Giovanni Leone). L'on. Bisaglia ha sempre smentito di aver dato denaro a Pecorelli.

Altri appunti ritrovati in casa di Pecorelli riportavano invece “Dichiaro di avere versato alla agenzia OP... la somma di L.30 milioni quale sovvenzione da me personalmente sollecitata all'on. Bisaglia”; ed un altro che recitava “Vitalone ha detto... 30 milioni da Miceli”. Secondo il giornalista Enrico Fiorini, Pecorelli riceveva finanziamenti anche dall'Enel e da “Vito Miceli, all'epoca in cui il generale era capo del SID (…) mensilmente un milione di lire”. Altri soldi arrivavano dal braccio destro di Giulio Andreotti, Franco Evangelisti, il quale versava dai 3 o 4 milioni di lire al mese a Pecorelli. (Dossier Pecorelli, a cura di Sergio Flamigni, pag. 18-19). Dalle carte ritrovate nello studio del giornalista sembrerebbe inoltre che ulteriori finanziamenti arrivassero dalla Montedison e dalla Democrazia Cristiana, attraverso le figure di Flaminio Piccoli e il vicesegretario amministrativo del partito Egidio Carenini.

In un altro appunto ritrovato nel 1980, scritto su una pagina di un dossier del SID dal titolo “Guardia di Finanza”, Pecorelli aveva annotato: “La Guardia di Finanza doveva fare ispezione all’agenzia OP ed a Nicola Falde. Giudice (Ndr. Raffaele Giudice, un comandante della GdF che fu arrestato per lo scandalo del petrolio), ha fatto avvertire Falde che però si è comportato male perché ha fatto trovare la nota dei 30 milioni che Tony Bisaglia aveva dato a OP”.

L'appunto si riferiva ad una nota sul finanziamento occulto di OP ritrovata in casa di Falde nel 1974, durante una perquisizione domiciliare effettuata per ordine del giudice Tamburino, nell'ambito delle indagini sulla Rosa dei Venti. Falde, benché avvisato della imminente perquisizione dal comandante della Guardia di Finanza, Raffaele Giudice, non si preoccupò di far sparire le note che riguardavano i finanziamenti occulti di OP. Mario Foligni, ascoltato dalla Commissione P2 nel giugno del 1981, confermò che fu proprio lo stesso Falde ad accennargli che durante la perquisizione della Guardia di Finanza avesse fatto in modo che i militari trovassero il documento che attestava il passaggio di denaro da Bisaglia a Pecorelli. (Comm. P2, Volume VII, Tomo V)

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(Nella Foto: Rumor, Bisaglia, Andreotti, Donat Cattin)
Se il transito dei 30 milioni, l'unico accertato sul conto di OP, avvenne nel 1975, la nota sequestrata a casa di Falde doveva riferirsi certamente alla liquidazione di una tranche precedente, ma anche alla commissione P2 il generale non fu in grado di dare spiegazioni convincenti. Nel 1980, in una lettera inviata ai giornali, Falde avrebbe poi dichiarato che la rivista OP era stata finanziata dall’ammiraglio Henke, allo scopo di ricattare esponenti del mondo politico, dello Stato, e degli apparati di sicurezza, in quella che era una vera e propria guerra per bande. Il giorno dopo Henke smentì le dichiarazioni di Falde relativamente alla sua gestione del SID, che durò fino all'ottobre del 1970.

Il motivo dell'interruzione della collaborazione formale tra Falde ed OP sarebbe stato causato dal rifiuto del giornalista di consegnare al generale Vito Miceli il controllo completo sull'agenzia OP, nonostante i cospicui finanziamenti garantiti dal direttore del SID. Tuttavia Pecorelli è rimasto schierato con Miceli anche in occasione del suo arresto, avvenuto nell'ottobre del 1974 (coinvolto nell'inchiesta sul golpe Borghese, sulla Rosa dei Venti e sul SID parallelo), rivolgendo attacchi mirati agli uomini dell'Ufficio D del SID, diretto dal 1971 dal generale Gianadelio Maletti. Secondo gli articoli pubblicati su OP in quel periodo, Miceli era rimasto vittima di una congiura operata dai “circoli finanziari internazionali interessati a colpire colui che, per i suoi rapporti con alcuni paesi arabi era in grado di assicurare all'Italia il fabbisogno petrolifero nonostante la crisi energetica mondiale” (Dossier Pecorelli, pag. 22)

La fine del rapporto tra Falde e Pecorelli si collocò proprio nel periodo in cui nel SID entrava nella fase decisiva lo scontro interno tra il numero 1 ed il numero 2 del servizio, tra i generali Vito Miceli e Gianadelio Maletti. A partire dal novembre del 1973, nei fatti, OP era diventata una dependance del capo del SID, come dichiarato nel 1975 al giudice Priore da Maletti e, nella faida interna al SID, Pecorelli era schierato con Miceli, attaccando nel settembre del 1974 l’ammiraglio Henke, Maletti ed il Nucleo Operativo Diretto (NOD) del SID, diretto da Antonio Labruna.

In un esposto denuncia che Falde consegnò alla Commissione P2 trovò posto anche un'altra ipotesi, in nuce, ovvero che in seguito agli attacchi rivolti contro il gen. Maletti, con accuse quali di essere al servizio di Eugenio Cefis e di aver operato per favorire il regime dei colonnelli in Grecia, sia stato proprio l'ufficio D ad aver abilmente fatto passare Pecorelli come una testa di legno di Miceli, danneggiandolo verso la stamoa e verso alcuni settori politici.

Francesco Siniscalchi, uno dei pochi massoni che denunciò le attività illegali della P2, dichiarò alla Commissione P2 che aveva saputo dal generale Rossetti, che era stato in alcune riunioni nella sede della P2, a cui era presente anche Nicola Falde, che la rivista OP era stata finanziata da Gelli e da Miceli (in Comm.P2 Volume I, sedute dal 9 dicembre 1981 al 20 gennaio 1982). Anche il capitano Antonio Labruna dell'ufficio D del SID, iscritto alla P2, riferì di essere a conoscenza che OP fosse finanziata dai servizi segreti. (Comm. P2, Volume VI)

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(Nella Foto: Andreotti e Moro)
La faida nel SID

Tra il 1969 ed il 1974, tra la strage di piazza Fontana, l’inizio della stagione terroristica, i tentativi di golpe Borghese e Sogno, e la strage dell'Italicus, i servizi segreti avevano deciso di scaricare una parte dei terroristi neri, cercando di orientare le azioni eversive nella logica degli “opposti estremismi” ma, a sovraintendere quella che diventò una vera e propria guerra per bande nei corpi dello Stato, fu decisivo lo scontro politico interno alla Democrazia Cristiana.

Con gli accordi di Palazzo Giustiniani che portarono alla leadership nellla Democrazia Cristiana di Aldo Moro e Amintore Fanfani, favorevole al'ingresso dei socialisti nel governo, con l'elezione di Amintore Fanfani segretario del partito e Benigno Zaccagnini presidente della DC, nel XII congresso nazionale del giugno 1973 la sinistra DC riusciì ad estromettere la corrente dorotea ed Andreotti, il quale aveva guidato i governi centristi e di centro-destra nel 1972. Il governo Andreotti rassegnò le dimissionie e, il 7 luglio 1973, ritornò in carica il governo Rumor, con una coalizione di centro-sinistra DC, PSI, PSDI, e PRI, con Aldo Moro Ministro degli Esteri e Giulio Andreotti fuori dal governo, mentre anche il PCI, in seguito al golpe in Cile, avviava una profonda discussione sulla questione delle alleanze. Anche il governo Rumor IV ebbe vita breve e tormentata, agitato dalle tensioni sociali e dai venti di guerra sullo scacchiere mediorientale e dalla crisi energetico, e fu costretto alle dimissioni il 2 marzo 1974.

Il referendum sul divorzio del 1974 fu vissuto dalla DC come la prima grande sconfitta culturale del mondo cattolico. Il segretario della DC, Amintore Fanfani, sostenuto dalle gerarchie ecclesiastiche, aveva investito ingenti risorse del partito e tutte le sue energie per l'affermazione degli antidivorzisti e, dopo la cocente sconfitta, dovette cedere spazio ad Aldo Moro, che si proponeva come l'unico leader democristiano in grado di aprire una nuova fase di dialogo con il Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer. Il ruolo politico di Giulio Andreotti, a difesa degli interessi atlantisti, anziché indebolirsi divenne così il polo delle tensioni e delle forze degli ambienti clerico-fascisti e dei settori economico-finanziari legati agli interessi USA e Nato nel mediterraneo.

Il 12 marzo del 1974, tornato al governo come Ministro della Difesa nel governo Rumor V, Giulio Andreotti decise di utilizzare le rivalità tra i corpi dello Stato per mettere in moto una lotta di potere contro Moro. Poco dopo esplose la bomba di Piazza della Loggia, a Brescia, il 28 maggio 1974.

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Il conflitto tra le strategie, tra apparati dello Stato e pezzi di potere politico, personale ed economico, tra lealtà atlantica e costituzionale, si inasprì con ripetuti allarmi golpisti, riverberandosi all’interno della mezza dozzina di servizi segreti (i vari SIOS delle FF.AA., L’Ufficio I della GdF, l’Ufficio Sicurezza della NATO, l’Ufficio Affari Riservati del Viminale, ed i servizi occulti, come il Noto Servizio), e si scaricò sul SID dove Vito Miceli (in carica dal 18 ottobre 1970 al 30 luglio 1974), ex capo del SIOS (il controspionaggio dell'Esercito), era vicino ad Aldo Moro, apprezzato anche per aver sventato un tentativo di colpo di Stato nei confronti di Gheddafi. A dirigere l’Ufficio D del SID, il controspionaggio, (dal 15 giugno del 1971 al 30 settembre 1975), con il ruolo di numero due del SID, era stato collocato invece il generale Gianadelio Maletti, che aveva importanti collegamenti con i servizi segreti tedeschi ed israeliani, contatti con i settori progressisti della CIA, amico di Eugenio Cefis (da quando il manager era stato suo "cappellone" alla Scuola Militare di Milano), e vicino alla posizione di mediazione atlantista di Giulio Andreotti in relazione alla politica con il mondo arabo.

Benchèéentrambi i generali, ed altri protagonisti della faida interna al SID, fossero iscritti alla P2 (Maletti nel 1974, mentre i rapporti tra Miceli e Gelli risalirebbero al 1969), la faida, condotta a colpi di dossieraggi ed iniziative in cui ogni fazione cercava di creare problemi all'altra, si concluse con l'arresto del generale Miceli, nel 1974, con l’accusa di attività eversiva, nell'ambito dell'inchiesta sul “SID parallelo” e l'organizzazione eversiva “Rosa dei Venti”, e con l'arresto di Gianadelio Maletti ed il capitano Antonio Labruna, nel 1976, con l'accusa di aver tentato di favorire l'evasione di Giovanni Ventura, e di favoreggiamento personale di Guido Giannettini e Marco Pozzan nell'ambito della strage di Piazza Fontana.

In una memoria inviata nel 1993 al giudice di Bologna, Falde sostenne la tesi che Maletti era legato a Cefis, il quale gli aveva promesso la successione al generale Miceli a capo del SID.

La destituzione del generale Miceli da capo del SID comportò per Pecorelli la perdita delle fonti informative più preziose, che il giornalista cercò di compensare stringendo rapporti più stretti con il generale Enrico Mino (comandante generale dell'Arma dei Carabinieri) e con Federico Umberto D'Amato (esperto di spionaggio e dominus dell'Ufficio Affari Riservati del Viminale), entrambi affiliati alla P2. Successivamente, con la nomina di Casardi a direttore del SID, Pecorelli si rivolse proprio a Maletti. Secondo quanto riferito da Nicola Falde alla Commissione P2, Pecorelli si sarebbe legato a Maletti e Labruna, dai quali avrebbe ricevuto il dossier Mi.Fo.Biali.

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(Nella Foto: Vito Miceli)
Il Dossier Mi.Fo.Biali

Nel 1974, poco dopo l'inizio della crisi energetica causata dalla guerra dello Yom Kippur, irruppe sulla stampa lo scandalo dei petroli, in cui si delineava il ruolo della lobby dei petrolieri per influenzare la politica energetica del governo. Lo scandalo investì l'ENEL e gli amici di Cefis e Fanfani (i petrolieri Vincenzo Cazzaniga ed Attilio Monti e Giacinto Bosco), e portò al rafforzamento della lobby nuclearista in seno ai fanfaniani.

Nel settembre dello stesso anno, Giulio Andreotti (all'epoca Ministro della Difesa), chiese al successore di Miceli al SID, Mario Casardi, di indagare su Mario Foligni, in stretto contatto con mons. Marcinkus e segretario del Nuovo Partito Popolare, una formazione politica centrista che disturbava lo spazio politico della Democrazia Cristiana, sospettata di ricevere finanziamenti dal leader libico Gheddafi. Le indagini, effettuate dal colonnello Demetrio Cogliandro dell'ufficio D del SID, confluirono in un dossier segreto chiamato Mi.Fo.Biali (che sta per: Mintoff, fratello dell'allora presidente di Malta; Foligni; e l'anagramma di Libia), in cui erano riportati gli esiti delle operazioni di controllo di alcuni alti ufficiali della Guardia di Finanza, tra cui il generale piduista Raffaele Giudice, diventato comandante della GdF grazie anche ai suoi legami con il petroliere Attilio Monti, ed il colonnello Giuseppe Trisolini. Dalle risultanze dell'indagine, con intercettazioni telefoniche ed ambientali non autorizzate dalla magistratura, emergevano elementi di particolare gravità in quanto fu accertato che Mario Foligni intratteneva rapporti con Gelli, Miceli, Ortolani, con il generale Raffaele Giudice e con ambienti Vaticani, con mafiosi siciliani e con alti funzionari maltesi e libici. L'acquisto del greggio veniva effettuato a prezzi inferiori a quelli fissati dall'OPEC, lucrando sulla differenza. Una parte dei traffici veniva scambiata in armi e droga ed un'altra finiva nel finanziamento illecito dei partiti, esportando illegalmente valuta all'estero.

Il dossier, consegnato ad Andreotti, non fu fatto pervenire alla magistratura e rimase segreto, benchè una copia del documento fu rinvenuta in possesso di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, ed un'altra fu trovata nello studio-redazione di Carmine Pecorelli dopo il suo assassinio. Op, tra il novembre ed il dicembre del 1978, aveva pubblicato alcuni articoli che si riferivano a notizie contenute nel dossier.

Diversamente andò a finire con un rapporto di 56 pagine che aveva invece ad oggetto tutte le attività eversive accadute in Italia tra il 1970 ed il 1974. A partire dal 1972, il generale Maletti aveva effettuato un'indagine sul golpe Borghese, che aveva individuato anche le responsabilità degli apparati militari fino al direttore del SID, il generale Miceli. Il dossier, dopo essere stato consegnato a Miceli stesso, nell’agosto del 1974, e ad Andreotti, il quale fece “sfrondare il malloppo” di alcuni nomi, venne consegnato a Claudio Vitalone, uomo vicino ad Andreotti, pubblico ministero dell’istruttoria sul golpe Borghese, mentre sulla stampa apparivano le prime indiscrezioni. Il processo sul golpe Borghese iniziò il 30 maggio del 1977, in concomitanza con la nuova riforma dei servizi segreti.

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(Nella Foto: Gianadelio Maletti)
Il dossier Mi.Fo.Biali conteneva una serie di accuse specifiche a Falde, alcune di queste importanti, come l'aver partecipato ad un tentativo di golpe bianco con il Generale Raffaele Giudice, con il generale Favuzzi e con Mons. Bonadeo. Falde ha sempre replicato alle accuse sostenendo di essere una vittima di Maletti.

In una intercettazione telefonica tra Mario Foligni ed un certo Toni (nome in codice del maggiore Antonio Maroni), contenuta nel dossier, risulterebbe inoltre che secondo Foligni sia stato proprio Nicola Falde a fare da intermediario per Pecorelli per il finanziamento occulto di OP:

Toni: “L'articolo da pubblicare su OP è pronto?”

Foligni: “No, per fare che cosa?”

Toni: “Hai scritto su Panorama e tante altre cose. Quindi prepara un articolo e scrivi anche su OP, no?”
Foligni: “Si, ma poi bisogna dare a Pecorelli i soldi sottobanco.”
Toni: “Si, ma tu hai detto che gliene hai dati tanti.”

Foligni: “E lui, Pecorelli, lo sa?”

Toni: “Direttamente gliene hai dati?”

Foligni: “Da me Pecorelli non ha mai preso una lira. (…) E allora che parlasse con Vito Miceli”

Toni: “Va bene, ma Pecorelli non ha mai visto una lira, nemmeno attraverso Falde.”

Foligni: “Che parlasse con Vito, ma facciamo in modo che non succedano casini, se no quello, Pecorelli, chiama Falde e gli dice: tu ti sei fregato i soldi.” (Lettura di una intercettazione contenuta nel dossier Mi.Fo.Biali, Commissione P2, audizione Vito Miceli, Volume IV, sedute dal 9 giugno al 15 luglio 1982)



Alla Commissione d'inchiesta sulla P2, il maggiore Antonio Maroni dichiarò di aver conosciuto Mario Foligni nel 1975, presentatogli da Nicola Falde. Maroni fu anche candidato nelle elezioni del 1976 a Roma nella formazione politica di Foligni, il Nuovo Partito Popolare.



Il 1° agosto del 1974, l’Espresso pubblicò un articolo in cui si asseriva l’esistenza di una connection basata su attività di dossieraggio tra il generale Maletti, nome mai comparso sulla stampa fino a quella data, ed Eugenio Cefis, il potente ex presidente dell'ENI che, dopo la morte di Mattei, aveva trovato un accordo con le sette sorelle non disturbando più i loro affari in nord Africa ed in Medio Oriente, diventato poi presidente della Montedison. Cefis a partire dall’inizio degli anni ’70 aveva costituito in sistema di potere in grado di spostare gli equilibri politici, grazie alle risorse economiche ed al controllo di parte significativa della stampa nazionale. L’azione informativa sull’eversione condotta dall'Espresso non colpiva solo il SID, ma una sorta di “cospirazione del partigianato Bianco”, ovvero un asse Cefis-Cuccia-Agnelli-Fanfani, che si era saldato intorno allo sfruttamento del petrolio libico.

In quegli anni, nel '71 – '72, fra i vari attacchi di OP alcuni riguardavano anche Cefis. Vorrei ricordare che in quegli anni l'eversione era di moda, quasi. Tutti quanti ricordano che quelle proposte tecnocratiche non erano soltanto di Gelli ma anche di Cefis, non dimentichiamolo, questa è una cosa che ricordata; e Cefis in un certo momento, per me, ha costituito un punto di coagulo di forze politiche ed anche di proposta politica. Perchè mi ero preoccupato di Cefis? Che cosa mi aveva impressionato di Cefis? Che Cefis nel febbraio del 1972 va in Accademia a Modena e fa un discorso agli allievi, con quale motivazione econ quale legittimità ceramente è una cosa molto strana. E cosa dice? “Signori miei, ragazzi miei, lasciate la patria tradizionale. Noi abbiamo adesso la patria delle multinazionali. Io sono il rappresentante della patria delle multinazionali ed eccomi qua, io mi propongo come il grande orchestratore dell'avvenire nuovo e ammodernato e aggiornato del paese”. E' un discorso che è passato come acqua ed invece andava attentamente meditato circa le intenzioni di questo Cefis. (Nicola Falde alla Commissione P2, Volume VI, sedute 8 ottobre 1 novembre 1982)

Cefis tenne un discorso all'Accademia Militare di Modena il 23 febbraio 1972, pubblicato poi dal mensile "Il Successo" con l'altisonante titolo "La multinazionale ecumenica", considerato da molti osservatori dell'epoca un vero e proprio manifesto politico sulla tecnocrazia e sulle tendenze del capitalismo italiano, invitando gli allievi a prepararsi a difendere gli interessi delle grandi imprese multinazionali. Se il potere politico non si sarebbe adeguato alla capacità di tenere il passo delle multinazionali, il fulcro del discorso, si sarebbe condannato a diventare una scatola vuota e priva di valore, svuotato di senso, ed i centri decisionali non sarebbero più stati il governo ed il Parlamento, ma nelle direzioni delle grandi imprese, essendo queste di fatto una realtà politica.

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(Nella Foto: Andreotti e Cefis)
Nicola Falde, generale. Fascicolo P2 0119



"Mi hai sempre parlato di incarichi nel settore della stampa. Di fatto non c'è stato niente di niente. Una volta tu mi hai pregato di prepararti una memoria sulla repubblica presidenziale da te ritenuta come la panacea di tutti i mali. Mi hai detto che dovevi preparare uno studio ed una proposta per il Presidente Leone (…) Tu hai tra i tuoi dipendenti iscritti all'obbedienza secondo quanto tu stesso mi dicevi, ministri, direttori generali, militari di alto rango, carabinieri, pubblica sicurezza, guardia di finanza, personalità in ogni tipo di attività. Sindona ad esempio pende dalla tua volontà!” (Lettera di Nicola Falde a Licio Gelli dell'8 marzo 1976)

D'Arezzo Bernardo: Lei ha mai ritenuto Gelli pericoloso per l'ordine democratico?

Salvini: No, quello è un pragmatico, non ha ideali di nessun tipo; la sua gioia maggiore, la sua più grande soddisfazione, sarebbe stata quella di far fare la pace – mi si perdoni l'irriverenza – fra il papa e Berlinguer; è un uomo che non ha ideali, è un pragmatico puro, e con il senno di poi, ho anche compreso che difficilmente si poteva sospettare che egli desiderasse un governo forte, perchè in un governo forte i mediatori non hanno vita. (Commissione P2, Volume I, doc. XXIII, n 2-ter/1)

Nelle sue deposizioni davanti alla magistratura ed alle commissioni d'inchiesta del Parlamento, Falde ha sempre giurato solennemente sulla sua lealtà alle istituzioni repubblicane, tuttavia egli stesso ha ammesso di essere stato iscritto alla Massoneria di Palazzo Giustiniani, iniziato in “punta della spada” alla Loggia Fratelli Arvali, sin dal 20 febbraio 1968. Il suo nominativo fu inoltre ritrovato negli elenchi della P2 sequestrati a Castiglion Fibocchi, nella residenza di Licio Gelli (fascicolo 0119, riportato come “in sonno”).

Il ruolo del generale nella P2 non sembrerebbe affatto essere stato marginale in quanto, in base al verbale della direzione della P2 riunitasi il 29 dicembre del 1972, presso l’Hotel Baglioni di Firenze, presenti Licio Gelli, il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Lino Salvini, il generale Luigi De Santis, il generale Siro Rossetti, ed altri, Falde fu proposto da Gelli come addetto stampa della loggia massonica. Nella stessa riunione venne assunto il compito di approntare un elenco degli affiliati alla P2, suddivisi per funzioni assolte nel “mondo profano”, e di inviare una lettera-circolare a tutti i piduisti invitandoli a “voler fornire quelle notizie di cui possono venire a conoscenza e la cui divulgazione ritengono possa tornare utile per lottare contro il malcostume e le degenerazioni”. In pratica si trattava di raccogliere notizie di illeciti da passare poi “all’agenzia OP”. Nella lettera-circolare scritta da Gelli si legge anche la frase “Mentre siamo lieti di informarti che possiamo disporre di una nostra Agenzia Stampa (la OP di Mino Pecorelli, ndr), Ti saremmo grati se potessi, tempestivamente e riservatamente, comunicarci tutto quanto avviene nella tua Provincia, indicando dati, nomi e fatti di ogni episodio che si manifesti o che reputi darne notizia alla stampa.” (Comm. P2, Volume III, tomo I, pagg. 517-520)

La permanenza di Falde nella loggia P2, secondo quanto da lui stesso dichiarato, sarebbe iniziata nel 1971 e sarebbe durata fino al 1974, quando avrebbe sospeso il pagamento della quota annuale, nel periodo in cui Gelli fu colpito da primi scandali e quando si interruppe il rapporto con OP. Tuttavia Luigi Bisignani, nel suo libro “L’uomo che sussurra ai potenti”, riferisce che ha conosciuto Licio Gelli tramite il capo di Stato Maggiore della Difesa, Giuseppe Aloia, il quale gli presentò Nicola Falde il quale portò Bisignani nella famosa suite 127-129 del primo piano dell’hotel Excelsior di Roma, dove Licio Gelli aveva una sorta di ufficio romano. La circostanza raccontata da Bisignani è importante in quanto il giornalista (nato nel 1953) iniziò a lavorare all'Ansa dopo la laurea e nel 1976 divenne capo ufficio stampa del Ministro del Tesoro, il piduista Gaetano Stammati.

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(Nella Foto: Lino Salvini)
Gelli, che nel 1971 era stato nominato segretario organizzativo del Grande Oriente d'Italia dal Gran Maestro Lino Salvini, intendeva creare una sorta di agenzia d’informazione interna alla ricostituenda loggia P2, utilizzando oltre alle soffiate degli affiliati, anche i dossier del SIFAR trafugati dal generale Allavena, affiliato alla P2, all'epoca dello scandalo che investì il generale De Lorenzo. La Loggia P2 si configurò quindi come una sorta di struttura occulta che continuò ad effettuare il dossieraggio che veniva fatto dal Sifar, in ottemperanza agli accordi segreti con gli USA. E' del 18 gennaio del 1972 il primo riferimento (velato) della Loggia P2 su OP, in un'articolo in cui si parla di una “snella ed efficientissima organizzazione, ottimamente mimetizzata, alla conduzione della quale è preposto un personaggio del quale non possiamo rivelare l'identità essendo Egli pressochè ignoto alla quasi totalità degli iscritti militanti. Questo personaggio è l'elemento determinante delle più delicate e complesse vicende della vita politica italiana.”

La loggia P2 assunse una impronta marcatamente anticomunista, in concomitanza con la costruzione di una strategia eversiva che vedeva l'organizzazione massonica coinvolta fin dal fallito golpe Borghese dell'8 dicembre del 1970. Il nominativo di Gelli venne fatto depennare da Giulio Andreotti dal dossier del generale Maletti sul golpe Borghese, insieme a quelli di alcuni ufficiali, come l'ammiraglio piduista Giovanni Torrisi, che divenne in seguito capo di Stato Maggiore (tra il 1980 ed il 1981), e di Stefano Delle Chiaie, che nell'inchiesta risultava in rapporti con il prefetto Federico Umberto D'Amato. Ma il ruolo della P2 venne alla luce anche nelle indagini relative alla Rosa dei Venti, e sul fallito golpe di Edgardo Sogno.

Nel 1972 il Grande Oriente d'Italia aveva ottenuto, dopo 110 anni, il riconoscimento dalla Loggia Unita d'Inghilterra. Le confessioni delle logge di Piazza del Gesù e di Palazzo Giustiniani si unificarono nel 1973, già nel 1974, però, vennero alla luce i primi scandali con protagonisti affiliati alla P2, con il coinvolgimento del procuratore generale, Carmelo Spagnuolo (alla della Corte d'Appello di Roma tra il 1971 ed il 1974), e del banchiere Michele Sindona. Il Gran Maestro Salvini, temendo il coinvolgimento dl Grande Oriente d'Italia, tentò di sopprimere la loggia P2. La reazione di Licio Gelli si fece sentire attraverso OP che, il 5 ed il 6 novembre dello stesso anni, pubblicò degli articoli contro Salvini che riguardavano gli “intrallazzi” politico-affaristici del Gran Maestro.



La loggia P2 fu poi effettivamente “demolita” in un'assemblea della Gran Loggia del Grande Oriente d'Italia, tenutasi a Napoli, il 13 dicembre 1974, ma Gelli si rifiutò di consegnare le deleghe e, nel gennaio del 1975, gli attacchi a Salvini su OP proseguirono con accuse ancora più gravi. Il 20 febbraio del 1975 Gelli convocò una riunione con i piduisti Carmelo Spagnuolo, il generale Osvaldo Minghelli ed il Gran Maestro aggiunto Giovanni Bricchi, nella quale venne conferito all'avvocato massone Martino Giuffrida il compito di accusare il Gran Maestro Salvini di appropriazione indebita di denaro nel corso dell'assemblea della Gran Loggia riunita a Roma nel successivo 22 marzo all'Hotel Hilton. Nel corso di quella assemblea, Salvini, accusato pubblicamente di essersi intascato mezzo miliardo di lire, accusò il colpo e, durante una pausa dei lavori, chiese a Gelli che stazionava nella hall dell'Hotel per godersi lo spettacolo, di convenire ad un accordo di riappacificazione. Il 9 maggio 1975 il Gran Maestro Salvini firmò una lettera in cui nominava Licio Gelli Maestro venerabile della loggia P2, decretandone la ricostituzione.



Nell'agosto del 1975 la P2 iniziò a far circolare tra i propri affiliati il programma politico dello Schema R (Schema di Massima per il risanamento generale del paese), che venne presentato da Gelli e Salvini al presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Tuttavia non cessarono gli scandali che interessavano la loggia P2. Il 10 luglio del 1976 venne assassinato il giudice Vittorio Occorsio, dal neofascista di Ordine Nuovo, Pierluigi Concutelli. Occorsio aveva indagato sul Golpe Borghese, sul Piano Solo, sullo scandalo SIFAR, su Piazza Fontana, e stava dedicando le sue attenzioni investigative sui rapporti tra massoneria ed eversione. Concutelli risultò anni dopo iscritto ad una loggia massonica, la Camea, retta da Michele Barresi e frequentata da personaggi legati a Cosa Nostra.

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(Nella Foto: omicidio del giudice Occorsio)
Occorsio aveva intuito che le cifre pagate per i riscatti dei figli di Umberto Ortolani (il socio di Gelli fece rapire suo figlio Amedeo per allontanare i sospetti sui suoi legami con la criminalità), Alfredo Danesi e Giovanni Bulgari (tutti e tre iscritti alla P2), erano finiti nelle mani di Gelli. Le indagini portarono all'arresto del boss Albert Bergamelli e dell'avvocato del boss Gian Antonio Minghelli, figlio del generale Osvaldo Minghelli, e segretario organizzativo della loggia P2. Minghelli venne accusato dalla Magistratura di riciclaggio di denaro sporco proveniente dai sequestri di persona (venne poi prosciolto). Nel corso degli anni Minghelli diventò membro del gruppo di penalisti “Soccorso Nero” ed uno dei principali avvocati di fiducia della Banda della Magliana.

I nuovi scandali portarono all'attenzione dei più diffusi settimanali le attività della P2, mentre a Ginevra chiudeva i battenti per insolvenza l'ultima banca di Michele Sindona, la Finabank-banque de Financement de Genève e, sul finire dell'anno, il liquidatore Giorgio Ambrosoli riusciva ad entrare in possesso delle 4mila azioni al portatore costituenti l'intero capitale sociale della Fasco Ag (la capofila del castello di carta dell'ex impero sindoniano), costringendo questa volta Gelli a richiedere a Salvini la sospensione della Loggia P2, che venne accordata il 27 luglio del 1976. In un estremo tentativo di salvataggio del bancarottiere siciliano, diventato latitante negli Stati Uniti, Gelli arrivò anche a mobilitare gli ambienti massonici americani. I reiterati tentativi di salvataggio di Sindona culminarono poi con l'assassinio di Giorgio Ambrosoli.

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(Nella Foto: Licio Gelli)
”Chi conosce, controlla e può condizionare”

Ufficialmente Falde diede le dimissioni dalla Loggia P2, in una lettera datata 8 aprile 1976, in cui criticò Gelli per essersi circondato di uomini di estrema destra. Nel 1976, con il presidente della Repubblica Giovanni Leone investito in pieno dallo scandalo Lockheed, con l'accusa di essere il personaggio che si nascondeva dietro l'identità di Antelope Cobbler (accuse mai provate) era iniziato anche il tramonto dell'uomo politico che aveva accompagnato la carriera de generale Falde, Giacinto Bosco, passando da vicepresidente del CSM a giudice presso la Corte di Giustizia europea.

Una testimonianza di Giancarlo Elia Valori, che nel 1972 era entrato nella P2 e, di lì a poco, costituì un sodalizio con Gelli ed Ortolani, dimostrerebbe che Falde avesse effettivamente sviluppato un rapporto conflittuale con il capo della P2. Valori aveva un fratello che lavorava per l’ENI in Argentina, grazie al quale potè entrare in amicizia con Juan Domingo Peròn, ed il suo segretario José Lopez Rega. Fu proprio Valori a presentare Gelli a Peròn, spalancandogli le porte per tessere la rete piduista anche in Argentina. Nel 1973, grazie ai rapporti intessuti tra Gelli e i vertici militari argentini, il venerabile venne designato Console onorario, con tanto di passaporto diplomatico, e consigliere economico dell'Ambasciata argentina in Italia. In seguito Valori risulterà essere stato espulso dalla loggia P2, dopo essere stato consigliato da Falde di non proseguire la relazione imprenditoriale con Gelli ed Ortolani. La società di import export che i tre avevano costituito venne sciolta, e così Valori potè proseguire la sua carriera di “boiardo di Stato”, diventando presidente di Italstrade nel 1976. Grazie ai contatti di Valori in Argentima, la P2 , con Gelli e Calvi, era arrivato a controllare ben 23 testate giornalistiche del paese sudamericano, tutte schierate con la giunta militare anche durante i massacri dei desaparecidos.

I rapporti con Pecorelli rimasero invece stretti fino a poco prima dell'assassinio del giornalista, il 20 marzo del 1979, come testimoniano le sue agende, in cui sono annotati i contatti periodici con le sue “fonti”, fino all'ultimo anno di vita. Tra queste note si leggono i nomi del prefetto Umberto Federico D'Amato (106 annotazioni), di tale "Tonino" (probabilmente da identificare con Antonio Labruna: 70 annotazioni), dell generale Vito Miceli (56 annotazioni), di Nicola Falde (22 annotazioni), di Licio Gelli (46 annotazioni). Nell'ultimo mese figurano anche il colonnello del SISMI, Musumeci (2 annotazioni), e il capitano Giancarlo D'Ovidio (3 annotazioni).

Alla Commissione P2, Falde riferì di aver visto Pecorelli “un paio di mesi prima che venisse ucciso (nel gennaio 1979 ndr).

“Mi parve tranquillo e molto sicuro di sé. Pecorelli era uomo assai riservato circa le sue fonti informative...Ricordo che gli dissi, l'ultima volta che lo vidi, di calmarsi e di smetterla con la sua 'incontinentia pubblicandi' (come io la definivo scherzosamente), ammonendolo che qualcuno lo avrebbe ucciso – testualmente gli dissi che correva rischi mortali...Alla mia ammonizione Pecorelli rispose: 'Viva la libertà, me ne fotto, si campa una volta sola!'

” (Commissione P2, Volume VI, sedute 8 ottobre 1 novembre 1982)

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Edited by barionu - 25/11/2021, 15:53
 
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Moro, 35 anni tra enigma e tragedia
Una “memoria” in parte personale, ma carica di interrogativi del giornalista-teologo

Moro, 35 anni tra enigma e tragedia
GIANNI GENNARI
PUBBLICATO IL
15 Luglio 2012
ULTIMA MODIFICA
19 Luglio 2019
14:07
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A quasi 35 anni dai fatti la vicenda Moro è sempre un mistero. Qualcuno ogni tanto la rievoca, ed è come se tutto ricominciasse…Ora sul “Foglio” (14 luglio) la rievocazione di quel dramma nelle confidenze di Don Fabio Fabbri, a quei tempi segretario di mons. Cesare Curioni, Ispettore Capo presso il Ministero di Grazia e Giustizia – allora si chiamava ancora così – del settore che riguardava i Cappellani cattolici nelle carceri italiane…



E’ ormai una specie di rito, che ogni volta riapre il tutto. Già 15 anni orsono i giornali annotavano: “Scalfaro riapre il caso Moro”. L’allora Presidente della Repubblica aveva manifestato il suo scetticismo di fronte a ciò che anche allora, per una ennesima volta variante a 360 gradi, veniva presentato come “la verità sulla vicenda Moro”. In viaggio a Bari, poi a Lecce per commemorare Moro, chiedeva con forza "verità completa". Segno che non c'era ancora: lo pensava e lo diceva un uomo che è stato anche ministro dell'Interno negli anni immediatamente successivi alla tragedia, e ai vertici dello Stato da decenni. In quegli stessi giorni lo storico Pietro Scoppola affermava che forse con l'apertura dei dossier negli Usa si sarebbe venuti a saperne di più. Erano passati venti anni. Oggi sono trentacinque, e nessuno potrà negare che quella verità non c’è ancora. In realtà il "caso Moro" non è mai stato chiuso. C'è gente importante – basterà fare i nomi del sen. Pellegrino, o dell'on. Inposimato – che da anni, da decenni, afferma che non solo tutto non è chiaro, come si sostiene da qualche parte, ma che tutto è ancora nell'ombra, e che "le menti" che hanno pensato, preparato, condotto a termine - a quel termine - tutto il dramma, ancora non sono state scoperte…
Mons. Pasquale Macchi, allora segretario di Paolo VI, poi vescovo, qualche anno orsono a futura memoria ha pubblicato da Rusconi un libro su quei drammatici 55 giorni vissuti con il Papa. Egli stesso mi inviò le bozze del libro, che ancora conservo, e rievocando la vicenda e i tentativi di salvare Moro, ricorda più volte mons. Cesare Curioni, ex cappellano capo di San Vittore ed ex ispettore generale, al Ministero della Giustizia, di tutta la pastorale nelle carceri italiane. Dal libro di Macchi si capisce molto bene che ancora qualcosa di poco chiaro, nella vicenda, era rimasto, e che lo aveva subito capito anche Paolo VI. Non basta: sempre qualche anno orsono lessi con attenzione un altro libro drammatico, "Storia di un delitto annunciato", di Alfredo Carlo Moro, fratello dello statista assassinato. E' l'esposizione calma, ragionata, seria, dei dubbi su tutta la vicenda, con la competenza di un giurista congiunta alla passione di un fratello, la serenità di uno che crede nella possibilità di ricostruire la verità. In particolare mi hanno colpito, e chi leggerà questo mio scritto potrà capirlo bene, i dubbi gravissimi circa la prigione "vera" di Moro e circa il racconto stesso della sua uccisione, quella mattina del 9 maggio 1978…Tutte le pubblicazioni successive, negli anni, fino a quella di Giovanni Bianconi, e a quella magistrale di Miguel Gotor sui testi delle “lettere” di Moro, non solo non dipanano i dubbi, ma li accrescono…


Una ragione, dunque, due ragioni, tante ragioni per raccontare quello che ho vissuto, nel piccolo della mia esperienza personale. Sono stato per molti anni, fino alla sua morte, amico di mons. Cesare Curioni, che tra l’altro nel 1984 ha celebrato il mio matrimonio, e credo sia giusto parlare del suo ruolo nella vicenda. Mi muove anche – lo ho fatto altre volte, ma qui l’argomento è sviluppato nel suo contesto pieno – l’esigenza di difendere la memoria di Paolo VI, che qualcuno ogni tanto, anche a firma “cattolica”, ha accusato di “omissioni” in proposito. E con la sua memoria voglio difendere anche quella di uomini come Benigno Zaccagnini ed Enrico Berlinguer, che spesso oggi, fino sugli schermi, qualche irresponsabile accusa di “aver voluto” ad ogni costo la morte di Moro…Con loro sono stati accusati – lo so – anche uomini come Francesco Cossiga e Giulio Andreotti, ma hanno avuto il privilegio – loro – di potersi difendere di persona…


Non so quale contributo possa dare il mio racconto, come si vedrà fatto di parecchi intrecci, e probabilmente è niente o quasi, ma chi legge potrà giudicare se ne valeva la pena. Con una premessa: i “registri” di questo scritto sono molti, e diversi. Iniziano come pura memoria di fatti, poi diventano ricerca, che pare anche un po’ “gioco”, ma non perdono mai la convergenza verso un unico punto interrogativo, che attende ancora risposta, e forse l’attenderà invano.


- Un parcheggio in una strada sconosciuta: via Caetani

Una mattina piena di sole di fine aprile 1978, verso mezzogiorno: arrivai nei pressi di Botteghe Oscure, in una via laterale e trovai parcheggio, dopo vari tentativi, proprio accanto all'ingresso di un cantiere edile, a destra, presso una parete di tavole e lamiera. Portavo un biglietto, che non avevo letto, di Benigno Zaccagnini a Enrico Berlinguer, ma nel quale si parlava della vicenda di Moro, allora in pieno svolgimento. Del resto ero lì per quello…
Ebbene: al momento in cui scesi dall'auto mi sentii come avvinto a terra da una strana forza. Ne fui per qualche istante turbato. Mi scossi e andai nella sede dell’allora Pci a consegnare la busta. Allora, per una specie di silenziosa convenzione, siccome andavo spesso lì, dall’amico Tonino, per varie ragioni che non erano politiche, nessuno mi fermava o mi chiedeva i documenti. Sapevano chi ero, i portieri-vigilanti, e bastava un cenno di saluto. Trovai Tonino Tatò, e lui mi portò da Berlinguer. Pochi minuti e ripartii, con un altro biglietto. Arrivato all'auto, di nuovo la strana sensazione, forte, che mi avvinghiava in quel posto…Mi scossi ancora…


Una decina di giorni dopo esattamente lì, accanto all'ingresso del cantiere, al primo posto, fu trovata la Renault 4 rossa con il cadavere di Aldo Moro…
Avevo dunque lasciato la macchina a via Caetani, per andare a parlare di lui. Allora non sapevo neppure che quella via si chiamasse così. Lo scoprii il 9 maggio pomeriggio, appena rientrato da scuola, sugli schermi della Gbr, un'emittente locale che di sicuro poi risultò molto vicina all'entourage dell’on. Craxi. Furono i primi, loro, ad arrivare sul posto con le telecamere dell’allora collega Franco Alfano. Chissà se fu solo un caso?


Conoscevo Aldo Moro anche di persona, sebbene di sfuggita. Alla fine degli anni '60 e durante gli anni successivi avevo incontrato qualche volta, nell'ambiente di S. Ivo alla Sapienza, sede romana dei "Laureati Cattolici", anche suo fratello, Alfredo Carlo. Lui lo avevo visto parecchie volte a Messa, sulle Dolomiti, a Ziano di Fiemme, ancora con i "Laureati Cattolici", sempre il sabato sera d'estate, per 5 o 6 anni, dal '67 in poi. Scendevano da Bellamonte, sopra Predazzo, lui e la sua famiglia, Nora e figli. Ricordo Giovanni ancora quasi bambino. Dopo la Messa un saluto fuggevole. L'ultima volta che lo vidi di persona, però, fu qualche mese prima del rapimento, al cinema Golden, a via Taranto, una sera tardi, per un film di Ken Russel: "I diavoli". Con lui c'era, come sempre, il fido Oreste Lombardi. Un cenno di saluto e un sorriso: niente altro.



- Come un preannuncio per “Todo modo”, tra Sciascia e Petri


Non avevo mai pensato qualcosa di simile a quanto sarebbe avvenuto, ma nella realtà mi era successo di partecipare, senza saperlo, a quella che poi – col senno di poi – a molti è parsa come una specie di “profezia”, non in senso biblico – che è ben altro – ma nel senso corrente di anticipazione del futuro. A metà degli anni ’70 Elio Petri, un grande regista, ispirato all’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia aveva realizzato “Todo Modo”, un film che racconta in forma fantasiosa la vicenda di un uomo di potere, anche nel senso torbido della parola, che preannuncia a sé e ai suoi la fine di un’era fatta di intrighi e maneggi e ambientata ovviamente in Sicilia, in un convento-albergo in cui un gruppo di politici si riunisce come per una specie di ritiro “spirituale” – non certo in senso propriamente cristiano – a riflettere sulla crisi imminente del proprio potere e sul suo declino irreversibile…


In seguito, compiendo anche una grossa ingiustizia nei confronti della storia vera, e anche di un’intera classe politica, molti hanno voluto vedere nel film – ecco il tono “profetico” suddetto – come un anticipo della vicenda di Aldo Moro e della successiva fine della prima Repubblica…Tra l’altro, e con un tocco provocatorio preciso il protagonista del film, l’attore principale, Gian Maria Volonté, era truccato in modo che pareva richiamare proprio la figura di Moro. Ebbene: all’uscita del film ci fu grosso dibattito sul suo significato di critica al partito dominante, alla sua “crisi” di politica e di guida del Paese, segnato da poco dall’esito del referendum sul divorzio (1974) e dalle elezioni politiche e locali, a Roma, con un successo crescente dell’allora Pci. Che senso dare, a questo film? Fui chiamato a discuterne nella sede di un giornale, “Paese Sera”, a via del Tritone, nella quale misi piede per la prima volta…In seguito vi avrei lavorato per parecchi anni come vaticanista ed editorialista. Dirigeva il giornale, allora, un grande giornalista “laico” del tempo, Arrigo Benedetti. Per quanto mi riguarda credo di essere stato invitato come cattolico, prete e teologo non compiacente con la Dc di allora, a discutere dei problemi della pellicola con il Direttore stesso e con il regista Elio Petri.


All’incontro, che poi occupò due pagine del giornale, c’erano anche Alberto Moravia, scontroso e imbronciato come sempre, il ministro dello Spettacolo del tempo, il Dc Adolfo Sarti, il notissimo giornalista Vittorio Gorresio, il vicedirettore Claudio Fracassi e altri. Mi pare fosse la fine del 1976, e da poche settimane era uscita, sui giornali, anche la famosa Lettera del vescovo di Ivrea, mons. Luigi Bettazzi, ad Enrico Berlinguer. Forse era noto che ero vicino, per ragioni di ministero e di amicizia, ad un gruppo di intellettuali e politici noti come cattolici impegnati, nel Pci di allora, alla ricerca di un passaggio alla visione democratica europea e in particolare di un nuovo atteggiamento verso cattolici e Chiesa in Italia. In particolare conoscevo e stimavo Franco Rodano e Tonino Tatò, cattolici dichiarati e militanti nell’allora Pci guidato da Berlinguer, a lui molto vicini nel difficile e contrastato tentativo di coniugare la realtà ideologica e politica della Sinistra di allora con la professione esplicita della fede cristiana e cattolica. Era venuto il papato di Giovanni XXIII, che aveva introdotto non solo la distinzione tra peccato e peccatore, già nota ed evidente da sempre, ma anche quella tra ideologie filosofiche, che per loro natura restavano uguali ed eventualmente inconciliabili con la fede, e movimenti storici, che potevano avere dei cambiamenti, con conseguenze pratiche anche nei confronti di Chiesa e fede cristiana…Forse qualcuno, invitandomi a quel dibattito sul film si attendeva da me solo una frustata alla Dc di allora…Mi trovai così, giovane e quasi del tutto fuori ambiente, a confrontarmi con personaggi di quel calibro. Andò bene:– il regista era di gran valore, la trama tratta da Sciascia era avvincente, nel cast di primo piano, oltre Volonté, c’erano Marcello Mastroianni, Mariangela Melato e Mìchel Piccoli, ancor oggi in auge come “Papa” di un altro Moretti, che per fortuna nulla ha a che vedere con la vicenda Moro – riservate le giuste lodi al film come opera d’arte ebbi modo di difendere con forza la distinzione forte tra la Dc, non solo di allora, ma di sempre, e la Chiesa come tale, tra la politica degli ultimi 30 anni – allora – e il messaggio cristiano nella esperienza cattolica di quasi 2000 anni, e per far questo citai tra l’altro una bella poesia, finemente e giustamente anticlericale, ma non antireligiosa di Trilussa – “La campana de la Chiesa” – che sorprese e rallegrò molto Vittorio Gorresio, che poi ebbe modo di riportarla in un suo libro veloce e nel complesso un po’ ingiusto, “Risorgimento scomunicato”, ricordando proprio quell’incontro. Ne uscii soddisfatto, mai però avrei pensato che quella trama fantasiosa e geniale, frutto dell’arte e della maestria di Sciascia avrebbe avuto due anni dopo come una specie di appendice reale, nella quale – come vedremo di seguito – sarebbe entrato ancora il genio enigmatico di Leonardo Sciascia…Proprio lui, infatti, fu molto colpito dal dramma di Aldo Moro, e ne trasse uno stranissimo libro, “L’affaire Moro”, sul quale in seguito tornerò, e con qualche buona ragione…



- 1978: un anno cruciale. Quell’insulto di Francesca Mambro.


Il 1978 fu un anno pesantissimo, per tante ragioni e per tutti. Lo fu anche per me. Del resto erano anni duri…Già l'anno prima, 10 e 11 marzo, mi ero trovato a Bologna per una conferenza al mattino sugli ultimi anni della vita della Chiesa, dove presentai un libro appena uscito dello storico gesuita Padre Giacomo Martina, poi nel pomeriggio un dibattito all'università, proprio nelle ore degli scontri in cui fu stato ucciso lo studente Lorusso. Quella sera, alla stazione, di ritorno verso Roma, avevo visto salire sul treno, nella indifferenza di tutti, polizia compresa, giovanotti con catene, pugni di ferro, bastoni... Il giorno dopo, a Roma, ci furono scontri sanguinosi tra quei giovanotti e le forze dell’ordine… Così andavano le cose, in quei tempi.


1978, dunque. Comincio da una settimana prima del rapimento di Moro. Era mercoledì 8 marzo, festa della Donna. Quel giorno uscendo da scuola – allora insegnavo al Liceo Giulio Cesare di Roma – mi trovai in mezzo ad uno scontro tra estremisti nazifascisti di Terza Posizione, tra cui una ragazza allora sconosciuta, Francesca Mambro, accompagnata da giovanotti con catene e pugni di ferro, ed un gruppo di studenti della scuola. I neonazisti stavano picchiando una ragazzina di quarta ginnasio che non voleva che loro strappassero un manifestino della festa affisso davanti alla scuola. Mi misi in mezzo, e la Mambro mi corse addosso, furibonda, urlandomi in faccia questa frase minacciosa: "A te, prete rosso, prima o poi ti ammazziamo!" Le risposi con calma che se non si liberava dell'odio che aveva in corpo sarebbe finita male… Mi schernì urlandomi, ancora e sempre in faccia: "Sei vecchio, fai schifo!". Io avevo 38 anni, lei quasi 20. Oggi è tanto cambiata, e la penso con stima. La sua vicenda tragica cominciava allora, e il seguito fu pesantissimo, non solo per lei. Per la cronaca, nello stesso posto, davanti alla scuola, mesi dopo, fu ucciso il poliziotto Francesco Evangelista, detto Serpico, e furono gravemente feriti due suoi colleghi. Se non sbaglio la Mambro è stata poi condannata anche per quell'omicidio...


Allora si era tutti sulla breccia. Ancora per la cronaca, troppo spesso dimenticata, va ricordato che quei mesi di marzo-maggio '78 furono contrassegnati da innumerevoli attentati terroristici. 14 colpi di pistola contro Giovanni Picco(Dc) il 24 marzo, a Torino; altri il 7 aprile contro l'industriale Felice Schiavetti, a Genova; l'11 aprile, a Torino, ammazzano l'agente delle carceri Cutugno; incendi e bombe, frattanto, a Brescia, Mestre, Rovigo, Padova; il 20 aprile ucciso a Milano Francesco De Cataldo, altro agente carcerario; il 22 è ferito all'Università di Padova il prof. Ezio Riondato; il 26 a Roma il Dc Girolamo Mechelli; il 27, a Torino, il dirigente Fiat Sergio Palmieri; l'8 maggio, a Milano, il medico Diego Fava. Altri ferimenti subito dopo la morte di Moro, il 10 e 11 maggio a Milano, il 12 maggio, ancora a Milano, sparano a Tito Bernardini, segretario di una sezione Dc. Questa era l'aria che tirava, allora, e la respiravano anche coloro che si ponevano il dilemma delle trattative con i terroristi o del loro rifiuto…Con chi continuava a sparare ed uccidere, con chi diceva di rappresentare quelli che sparavano ed uccidevano, era lecito instaurare un rapporto di trattativa, un legame "politico"? Questo, e non solo la vicenda del governo Andreotti con il Pci nella maggioranza, fu lo scenario del caso Moro. E' mai possibile che la memoria di tanti sia diventata così corta, o così miope da subito, e rimanga tale a 33 anni da allora?


- 16 marzo/9 maggio. Quelle notti accanto a Zaccagnini


Dunque Aldo Moro. Appresi del suo rapimento e della strage della scorta in treno, a Firenze dall’altoparlante della Stazione. Era un giovedì, e stavo andando a Modena, alla Fondazione S. Carlo, per una tavola rotonda sul problema dell'aborto, in quei giorni discusso in Parlamento, che naturalmente saltò. Trovai Modena tutta in piazza, e tornai a Roma subito.
La stessa sera, o la sera dopo, mi telefonò la Signora Ettorina Briganti, cognata di Benigno Zaccagnini, segretario della Dc, e mi chiese di andare a trovarla con urgenza, a casa sua, a via della Camilluccia. Conoscevo da anni lei e suo marito, l’ingegner Elio Briganti, allora presidente della Fondazione Bordoni, una consociata Rai. Nella loro casa abitava, quando era a Roma, Benigno Zaccagnini, che non aveva mai voluto una casa sua a Roma, pur lavorandoci da trent'anni: diceva di essere “di passaggio”. Ettorina mi disse che in quelle ore Zaccagnini aveva bisogno di conforto spirituale e di sostegno morale, e che per questo lei e suo marito avevano pensato a me.
Cominciarono così quei due mesi. Passai con Zaccagnini tante sere e parecchie notti, pregando e parlando. Celebrammo più volte la Messa, sul tavolo di famiglia, e posso testimoniare che Zaccagnini avrebbe dato la sua vita, subito, per la salvezza di Moro. E in qualche modo l’ha data, anche per la sua morte: ha cominciato a morire allora, Zaccagnini, in quei 55 giorni di dolore e di speranza delusa. Chi ha assassinato gli uomini della scorta, e poi Moro, ha sulla coscienza anche la vita di Benigno Zaccagnini, condannato a morte al rallentatore.


Arrivai a casa Briganti la prima volta, probabilmente la sera del 17 marzo, attorno alle 22. La casa era vicinissima a via Fani, io venivo da Capannelle. In mezzo c'era tutta Roma, eppure in macchina non incontrai alcun controllo, alcun posto di blocco. Non solo: nella portineria del palazzo trovai solo due agenti che sul tavolo giocavano a carte. In un angolo c’erano due mitragliette, a tre metri di distanza.. Sarebbe stato un gioco da ragazzi disfarsi di loro e salire nella casa in cui era il segretario della Dc. Eppure in quelle ore Tv, radio e giornali parlavano di Roma a ferro e fuoco, di cavalli di Frisia, di posti di blocco…Si scrive che in quei giorni Roma fu messa a soqquadro…Per 60 giorni girai nella zona quasi tutte le sere: nessuno mai mi fermò per chiedermi i documenti. Resta, per me, una stranezza tra le tante, di quei giorni...
Torno a Zaccagnini. Mi disse più volte che non era contento di come erano andate le cose per la soluzione politica di quella crisi di governo. Neppure era convinto della composizione del nuovo governo Andreotti che proprio la mattina della strage si era presentato alla Camera. Anche un recente "rimpasto" degli organi di partito – di cui pure era lui il segretario – non lo aveva soddisfatto…Avevano combinato tutto Moro e Andreotti. Lui aveva preso la decisione, quindi, e me lo disse chiaro, di dare le dimissioni da segretario. Dunque se le Br non avessero rapito Aldo Moro, Benigno Zaccagnini, appena varato il governo Andreotti con il Pci nella maggioranza si sarebbe dimesso da segretario della Dc. Per la cronaca lo ha scritto una volta anche Enzo Biagi, nero su bianco, mai smentito da qualcuno…Zac voleva tornare a Ravenna, a fare il pediatra. Era stanco di quella politica, che aveva voluto anche lui, ma di cui troppe cose, troppe persone, troppe vicende concrete non gli piacevano. Lo aveva detto anche a Moro, e negli ultimi giorni qualche colloquio non era stato del tutto normale. Zaccagnini era inquieto, e ne aveva detto le ragioni precise: inascoltato, nel partito di cui pure era segretario e nel governo…Ma le Br rapirono Moro, e lui fu costretto a restare. In quelle condizioni le sue dimissioni divennero impossibili.


- Il falso dilemma: fermezza o trattativa. Non ci fu mai alcuno "spiraglio" credibile con le Br.


In passato ho scritto altrove, ampiamente, di quell'esperienza accanto a Benigno Zaccagnini nei 55 giorni e notti d'angoscia che seguirono il 16 marzo(cfr. "E Zac scoprì il bluff di Craxi", in "Famiglia Cristiana", n.46, 1993) per difendere la memoria di Zaccagnini – e in modo diverso, ma parallelo, anche quella di Berlinguer, e persino quella di Paolo VI – dall'infame calunnia di non aver voluto salvare Moro.


Non è vero che Zac sposò, o addirittura promosse e volle di sua iniziativa, quella che fu manicheisticamente chiamata "linea della fermezza", e altrettanto manicheisticamente opposta alla "linea della trattativa". La verità, vista dalla parte di Zaccagnini e di quelli che allora gli furono davvero accanto, senza fini di partito, senza tattiche verso l'opinione pubblica, senza altro scopo che quello di vedere sul serio cosa era possibile e lecito fare, tenendo conto di tutti i fattori in campo, e innanzitutto della vita dell'ostaggio, fu che non ci fu mai, da parte delle Br – e va aggiunto seriamente, anche di chi eventualmente, posto che ci sia stato, tirava tutti i fili della vicenda – uno spiraglio reale di apertura, non dico di trattativa, ma neppure di comunicazione credibile e sincera, che potesse far pensare, anche alla lontana, di iniziare un discorso con chi aveva criminalmente pensato, organizzato, diretto ed eseguito il rapimento di Aldo Moro con la strage della sua scorta, e si stava preparando a gestirne l'assassinio.


Ricordo qui, e nessuno smentirà, che gli stessi Br in prigione, in particolare Curcio e Franceschini, in quei giorni sotto processo a Torino, ebbero più volte a dire, per esempio proprio a monsignor Cesare Curioni, cappellano capo di San Vittore – poi ispettore generale di tutte le carceri italiane per l'assistenza religiosa, che ha passato quasi 30 anni nelle stesse carceri – che di tutta la faccenda Moro loro non sapevano niente se non dai giornali, anche se pubblicamente, nell'Aula del processo, di fronte ai giornalisti, si vantavano di averlo in mano…Lo ha dichiarato ai magistrati anche lo stesso monsignor Macchi, ex segretario di Paolo VI, che fu amico di Curioni fino alla sua morte, avvenuta nel gennaio 1996, e che celebrò di persona i suoi funerali lassù, in un paesino di montagna sopra il Lago di Como. Ci tornerò su per quanto riguarda la posizione della Santa Sede nella vicenda.


La verità è e resta che Benigno Zaccagnini sarebbe stato disponibile – se ci fosse stata qualche possibilità reale di aver salva la vita di Moro – non ad un assurdo patteggiamento da potenza a potenza, impossibile sia per ragioni politiche e giuridiche che per ovvie ragioni morali – prima tra tutte, tragica e decisiva, la strage della scorta – ma a ragionevoli proposte umanitarie…Queste ci furono anche, come vedremo subito. Ma la stessa disposizione non ci fu mai, negli assassini e forse anche a certi alti livelli istituzionali di allora, che poi si apprese inquinati da realtà come P2 e servizi deviati. E non si dovrebbe mai dimenticare che soprattutto in ambienti della diplomazia e dei servizi segreti nazionali ed internazionali uno come Aldo Moro poteva far comodo morto, per tante e diverse ragioni, convergenti anche su fronti opposti ed accanitamente in contrasto.


- Paolo VI, il Vaticano e la vicenda Moro all'epilogo.


Dunque non ci fu alcuno "spiraglio" vero verso una via concreta di salvezza per Aldo Moro. La disponibilità ad uno "spiraglio" - ricordo quante volte gli ho sentito sospirare questa parola - vale certissimamente per Zaccagnini, e vale anche altrettanto per Paolo VI. Tutte le informazioni che ho avuto, su questo argomento, le debbo proprio a mons. Cesare Curioni, grande amico di tanti anni, uomo che come nessun altro, in Italia, ha vissuto per decenni dentro le carceri italiane, da cappellano a san Vittore e poi da ispettore capo di tutte le carceri italiane per l'assistenza religiosa. Eravamo molto amici: bontà sua. Ricordo che la sera nella quale fu approvata definitivamente la legge sull’Ispettorato per l’assistenza religiosa nelle carceri italiane Don Cesare, come sempre accompagnato dal suo segretario, Don Fabio Fabbri, volle festeggiare la cosa a casa mia, in via dei Pettinari, e c’erano anche l’on. Rosa Russo Iervolino, Giglia Tedesco e Tonino Tatò…Don Cesare era stato vicino a Paolo VI fino dagli anni di Milano, e proprio Montini lo volle a quella carica ufficiale, a Roma, e lo chiamò accanto a sé anche nei giorni tremendi del dramma. Abbiamo parlato tante volte di tutta la vicenda. Non ha mai voluto, prima di morire, che si dicesse del suo ruolo…Sono passati più di 15 anni: ora è diverso.


Montini e Moro, dunque. Si conoscevano dagli anni '40. Montini stimava Moro e gli voleva bene, ricambiato. Avevano vissuto momenti difficili, insieme, a cominciare da quando Moro, appoggiato proprio dal giovane monsignor Montini, fu allontanato dalla presidenza della Fuci e sostituito con Giulio Andreotti, su proposta di mons. Giuseppe Pizzardo, poi cardinale, vicino al "partito romano" di mons. Ronca e del celebre Egilberto Martire, che nel '54 si sarebbe vantato di aver fatto "cacciare" da Roma proprio Montini, che andò a Milano. Nove anni dopo sarebbe tornato da Papa.


Dunque da Papa Giovanni Battista Montini ha vissuto il dramma dell'amico Aldo. Si è scritto tanto, in questi anni, su questo problema, spesso senza costrutto e con molta fantasia. Sul tema lo stesso segretario particolare di Paolo VI, mons. Pasquale Macchi, ha scritto un libro – “Paolo VI e la tragedia di Moro” (Rusconi ed.) – di cui ha voluto in anticipo inviarmi le “bozze”, sapendo che ero stato a modo mio al corrente di alcuni particolari della vicenda grazie alla mia amicizia con mons. Curioni. Quel libro, nella speranza di Macchi, avrebbe dovuto riuscire a far chiarezza, naturalmente esclusi i pregiudizi in malafede, come quelli di qualche cineasta che con nomi e cognomi veri costruisce vicende del tutto false. Dicono che è la libertà dell’arte…Ma è solo un vizio: e purtroppo dura fino ad oggi.


Il Papa dunque seguì con molta emozione tutta la vicenda: voleva bene a Moro, da sempre ne condivideva lo sguardo pensoso e problematico sul futuro della Dc. Del resto egli stesso era attento osservatore della crisi del partito che era stato di suo padre, e di cui aveva seguito con apprensione il calo di credibilità di fronte al mondo cattolico – si pensi alla vicenda delle Acli di Emilio Gabaglio all’inizio degli anni ‘70 – e di fronte alla realtà dei tempi in mutamento. Proprio Moro aveva pensato, per risalire la china, alla segreteria Zaccagnini, e poi all'apertura di una nuova fase. Un posto, nel cammino verso quel 16 marzo 1978 – lo si dimentica sempre – lo aveva avuto anche lo scambio di lettere di mons. Bettazzi ed Enrico Berlinguer, con i passi avanti del Pci verso una posizione di "partito non teista, non ateista, non antiteista". La formula, elaborata pochi mesi prima, frutto anche di tanti incontri per preparare il testo – cui lavorarono molto Franco Rodano e Tonino Tatò, spesso parlandone anche con me per la parte “religiosa”, che cioè toccava direttamente problemi teologici – resa pubblica nell'autunno 1977, era un passo avanti di dialogo, di tolleranza, di possibili sviluppi. Tra l’altro era il superamento delle posizioni di Gramsci – attirare il mondo cattolico per poi indurlo al “suicidio” – e dello stesso Togliatti, che fino alla fine, nel famoso “Memoriale di Yalta”, affermava che “la coscienza religiosa” era una realtà da “conoscere” e poi “superare”…Il fatto che poi tanti, nel Pci di allora e anche nel mondo cattolico, non riuscirono a coltivare quel passo avanti, non toglie il valore alle intenzioni di chi lo aveva pensato. Moro aveva seguito la vicenda con molto, pur se per lui e per tanti attorno a lui problematico, interesse.


Torniamo a Paolo VI. La tremenda notizia del rapimento dell'amico e del massacro della scorta era stata per lui una vera mazzata. Ottantenne, era agli ultimi mesi del suo cammino terreno. Del resto, se fosse dipeso solo da lui si sarebbe dimesso nel settembre del 1977, quando compì gli 80 anni, come esempio personale dell’obbedienza volontaria alla sua disposizione nella “Ingravescentem Aetatem”, proprio nei confronti dei cardinali ottantenni. Del resto Lui, Paolo VI, aveva predisposto tutto anche in quella prospettiva, e il trasferimento a Firenze di monsignor Benelli, fatto cardinale a giugno, era il segno chiarissimo del suo proposito, che poi per ragioni note qualcuno, molto interessato ad evitare quel cambiamento, una volta che “il dittatore” Benelli era stato allontanato da Roma, fece cambiare…Anche su questo in seguito ho avuto modo di scambiare alcune idee, anche per lettera, con lo stesso mons. Macchi, che incontrai per l’ultima volta a gennaio 1996 proprio ai funerali di mons. Curioni, morto all’improvviso nel paesino natale di Asso, ai confini della Svizzera.


Torniamo alla vicenda Moro. Le ripercussioni del rapimento furono forti, su Paolo VI, e lo abbatterono molto. Egli intervenne pubblicamente più volte. Il 2 aprile, domenica dopo Pasqua, a mezzogiorno aveva parlato di Moro, facendo un "appello vivo e pressante" perché "si desse libertà al prigioniero". Il 22 aprile, con mossa del tutto inattesa, e senza accordi preventivi con chiunque, fece pubblicare sull'“Osservatore Romano” che eccezionalmente anticipò l'uscita al mattino invece che al pomeriggio, la sua “preghiera agli uomini delle Br”. Ne aveva parlato la notte prima con Macchi e l'aveva scritta con lui e proprio con mons. Cesare Curioni, che sapeva informato come nessun altro sulla realtà delle carceri italiane, ed in particolare sulla situazione dei brigatisti detenuti, in quel momento sotto processo a Torino. Scrissero la preghiera insieme, e “Don Cesare” stese sotto dettatura diretta del Papa la prima bozza, se si vuole la brutta copia. Poi il Papa copiò interamente e di sua mano il testo, apportando ancora qualche piccolo cambiamento, ma quelle famose parole, "senza condizioni", vennero da sole e fin nella prima bozza, come segno della consapevolezza lucida, connaturata in un uomo come Montini, che Papa e Santa Sede non potevano entrare in faccende che riguardassero altro che la dimensione morale della vicenda. E' noto che proprio quelle parole furono usate per collocare in modo assoluto e sbrigativo il Papa su quello che fu presentato come fronte della fermezza cieca e disumana. Non era vero, ed è presto dimostrato. Sarebbe difficile spiegare, altrimenti, come mai "Civiltà Cattolica", i cui testi erano e sono sempre rivisti in Segreteria di Stato, ebbe a scrivere così, in piena vicenda Moro, quando tutto poteva essere ancora diverso: "Lo Stato e la Dc non possono cedere al ricatto dei terroristi, né scendere a trattative con essi: ciò, però, non significa che - attraverso possibili canali diversi - non si possa e non si debba far nulla per tentare di salvare la vita dell'on.le Moro"("Civiltà Cattolica", 15 aprile 1978, p. 163. La sottolineatura è mia).


E non basta. Sarebbe ancora più difficile spiegare un altro fatto, e cioè che Paolo VI non aveva rifiutato, ed anzi aveva approvato esplicitamente, l'idea di un fondo in denaro, messo a sua disposizione da personalità del mondo ebraico internazionale, come segno di gratitudine per l'azione della Santa Sede ai tempi del nazismo, e destinato a favorire eventuali "rapporti" con chi aveva allora in mano Aldo Moro. L'incarico di vedere come raccogliere questo fondo, e di trovare eventuali canali sicuri con le Br, Paolo VI lo affidò proprio a mons. Curioni. Ma i rapporti conseguenti non cominciarono neppure, per assoluta mancanza di interlocutori credibili, ed il denaro restò nelle mani dei volenterosi donatori. Resta dunque provato che per Paolo VI, in ogni caso, si doveva fare tutto il possibile per salvare Moro.


Certo: è sicuro che a Moro i suoi carcerieri dicevano che tutti, e soprattutto la Dc e la Santa Sede, lo volevano morto, e le sue lettere sono la normale reazione a questo falso messaggio. Lui era informato soltanto dai suoi assassini, che ad un certo punto gli avevano annunziato anche che di loro iniziativa gli avrebbero salvato la vita, nonostante la Dc e l'inerzia di tutti i suoi amici, ed egli nel suo "Memoriale" si dichiara di questo "profondamente grato". E’ un particolare che va tenuto presente per valutare le lettere di Moro: esse non sono di certo false, ed esprimono il suo vero pensiero di quel momento, ma di uomo informato sulla realtà solo dai brigatisti...Del resto è anche sicuro che nelle lettere ci sono, evidenti, magari in passaggi di scarso rilievo e come tra parentesi, espressioni che egli non avrebbe mai usato. Un solo esempio: Aldo Moro non avrebbe mai detto di mons. Virgilio Levi, vicedirettore dell' "Osservatore Romano", come nella lettera alla moglie, a metà aprile: “questo sig. Levi”…I veri falsari, quindi, sono stati i custodi e carnefici di Moro, che lo hanno sempre informato proponendogli soltanto quello che loro volevano, mettendolo di fronte ad invenzioni per lui dure ed atroci. Di qui certe reazioni del prigioniero, ed anche certi giudizi su persone e realtà che egli conosceva bene come diverse. A lui dicevano che Zaccagnini non lo voleva salvo, che Paolo VI non diceva nulla - lui in una lettera scrive che ha fatto "pochino" - e così si capiscono le sue reazioni in altri passi delle lettere, e si capisce anche che di fronte ad essi uno come Zaccagnini sia rimasto profondamente addolorato, cosa che avvenne anche con Paolo VI.


C'è anche un altro punto, che non andrebbe mai dimenticato, e che nessuno pare ricordare, ragionando a cose fatte sulla vicenda. E' un punto profondamente rivelatore delle intenzioni vere di chi aveva in mano Moro. Ne ha parlato anche qualche anno or sono, per la prima volta mi pare, Lanfranco Pace sul "Corriere della Sera": l'uccisione del prigioniero avvenne immediatamente non appena si delineò sul piano istituzionale per la prima volta uno spiraglio appena possibile, con alcune parole di Amintore Fanfani a favore "della vita e della libertà di ognuno", e con l'individuazione, da parte del ministro di Grazia e Giustizia, di una possibile "grazia" per la Besuschio e/o per un terrorista detenuto a Trani, e perciò subito già trasferito a Napoli. Era l'8 maggio. Non per nulla, all'alba del giorno dopo Aldo Moro fu assassinato, e fatto trovare a via Caetani.


Monsignor Pasquale Macchi ha testimoniato del dolore e del pianto rinnovato di Paolo VI. Il vecchio Papa volle essere presente, e volle parlare, levando la sua drammatica voce dolente e interrogante durante i funerali di stato, tragicamente privati anche della presenza della famiglia.
Macchi, nel suo libro in cui riporta tutti i testi delle parole di Paolo VI per Moro in quei drammatici giorni ricorda proprio il lavoro di Curioni. E proprio Curioni, personalmente, mi ha più volte parlato della vicenda, e basandosi sulla sua conoscenza del mondo dei detenuti Br e degli intrecci della malavita, mi ha manifestato tanti dubbi sulle dichiarazioni dei terroristi stessi, mentre non ha mai avuto un dubbio sul fatto che un vero e proprio canale con le Br attive non ci fu mai proprio per volontà precisa delle Br stesse – o di chi eventualmente le pilotava – che gridavano al mondo la loro disponibilità a trattare, ma si erano mosse, e si muovevano in modo assolutamente coerente con un solo scopo, quello della eliminazione fisica del detenuto, e della fine del suo disegno politico.


Per quanto ho potuto sapere, da lui, e anche da pochi accenni che allora ebbi dal cardinale Ugo Poletti, vicario di Roma, cui all'epoca comunicai i miei incontri con Zaccagnini e Berlinguer, la relazione della Santa Sede con la vicenda Moro fu questa. Posso aggiungere qualcosa, dal mio punto di vista molto personale, e quindi molto relativo e del tutto provvisorio ed opinabile, sull'eventuale ruolo di don Antonello Mennini, allora viceparroco a Santa Lucia, che tanto ha fatto scrivere, senza sua colpa, e spesso anche senza alcun fondamento reale. Egli conosceva personalmente Moro e la sua famiglia. Fu certo lo stesso Moro che lo indicò ai suoi carcerieri come possibile interlocutore, o che forse ne richiese soltanto, esaudito, i servizi religiosi. Egli nella vicenda non credo abbia avuto mai alcun incarico dalla Santa Sede, anche se è probabile che informò i suoi superiori su quanto gli era successo e sui contatti che ebbe, che non ebbero mai alcun rilievo politico. Anzi: è noto che in Vaticano parecchi videro molto male la sua attività, e che a vicenda finita, per sottrarlo alla curiosità di tanti, e forse anche a qualche possibile vendetta, fu deciso di assumerlo in Segreteria di Stato e poi di trasferirlo lontano da occhi e orecchie indiscrete. La cosa fu fatta vincendo anche le resistenze del babbo, commendatore Luigi Mennini, che come noto in Vaticano aveva un ruolo importante nello Ior. Egli è stato interrogato più volte dai giudici, e non è pensabile, anche se è stato scritto tante volte da incompetenti, che si sia trincerato dietro il "segreto confessionale". Questo infatti riguarda solo ed esclusivamente la materia della confessione stessa, per intenderci i "peccati" di chi eventualmente si fosse confessato da lui, e non certo circostanze e luoghi di eventuali incontri. Se fu portato nella prigione di Moro è del tutto verosimile che gli fu impedito di capire dove fosse, e anche quanto essa distasse dal luogo in cui fu preso in consegna. Ai giudici avrà detto quanto aveva potuto sapere. Ogni illazione sul resto è solo fantasia di chi non ha altro da scrivere. E la cosa è confermata dal suo dignitoso silenzio, sull’argomento, tenuto fino ad oggi nelle diverse mansioni ecclesiali che gli sono state affidate, tutte segno di grande fiducia e stima da parte della Santa Sede e dei vari Papi, da Paolo VI in poi.


In ogni caso, per quanto mi riguarda, alla morte di Moro seguirono alcuni altri giorni in cui fui vicino a Zaccagnini, anche in momenti dolorosi come i funerali veri e propri dell'amico, cui per il divieto della famiglia gli fu impedito di partecipare. Avvertì il peso di questo divieto – che rispettò – come una ferita profondissima, ci tenne a non far nulla che potesse acuire i contrasti con la famiglia di Moro, ma pretese con forza, ed ottenne da tutti, anche e soprattutto dal sen. Fanfani – che ci provò a più riprese – che non ci fosse qualcuno che al momento dei funerali potesse pubblicamente dissociarsi dalla condotta tenuta per responsabilità istituzionale e soprattutto per senso vero della realtà effettiva delle cose.


All'ora dei funerali di Moro celebrammo l'Eucarestia di suffragio sulla tavola della famiglia Briganti, e Zaccagnini pianse molto, in silenzio. Proprio all’inizio della celebrazione, tra l’altro, arrivò la telefonata di Fanfani che voleva andare al funerale… Zaccagnini non consentì. Era molto turbato, e con parole molto forti minacciò immediatamente la denuncia ai probiviri per l’espulsione dal partito. Fanfani obbedì, ma furbescamente a metà: non partecipò ai funerali, ma si fece trovare per primo al cimitero di Torrita, quando arrivò la bara per la sepoltura…Ho raccontato tutto questo, ampiamente, nell’articolo sopra citato di “Famiglia Cristiana”, anche con particolari interessanti dal punto di vista della piccola cronaca, soprattutto per capire ciò che allora si verificò dentro la Dc…Tra l’altro, ho anche avuto modo di parlare di altre vicende legate al caso Moro – tra cui quelle che seguono qui immediatamente – anche in una trasmissione Rai, che mi pare si chiamasse enigma, e in quella sede sono rimasto colpito dal fatto che, presentandomi ad uno dei partecipanti, ex ministro socialista molto potente, e pubblico paladino di una trattativa che in realtà fu sempre impossibile, mi sentii dire che lui, di me, sapeva già “tutto”! Segno che ero stato per lo meno “osservato”, durante quei giorni difficili…


- Quei passi "strani" delle lettere: gli anagrammi, Sciascia, il povero Bachelet, il pittore e qualche giornale.


Poteva finire lì, quel 9 maggio 1978, e invece non avevo finito di incontrarmi con la vicenda Moro. Negli anni successivi c’è stato altro. Infatti mi è capitato di venire in contatto con un gruppo di persone che sul "caso Moro" mi raccontarono qualcosa di assolutamente singolare, e per me non ancora concluso. Qui enumero solo i “fatti”, che elenco di seguito.


Primo fatto. Gli “amici” di Moro e gli anagrammi delle lettere.


Qualche tempo dopo la morte di Moro venni a sapere che un gruppo di persone, tra gli amici di Moro, si erano dati da fare immediatamente, ancora nei giorni della sua prigionia, per capire qualcosa di più sulle sue lettere e su possibili "messaggi" contenuti in esse. Sapevano, loro, e così mi hanno riferito, che Moro, soffrendo di insonnia frequente, durante le sue notti si dilettava con grande competenza di enigmistica, di rebus, di anagrammi, e pensarono di leggere con quel particolare "filtro" i testi delle lettere che arrivavano dalla prigione delle Br.


Del gruppo facevano parte parecchie persone. Tra esse per esempio il prof. Giorgio Bachelet, fratello del più noto Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, il prof. Filippo Sacconi e il Dr. Alberto Malavolti. Con loro “lavorarono” anche altri noti professionisti, e alcuni degli incontri di esame dei testi avvennero in casa di E. e G. L., miei amici, che mi informarono del fatto.


Durante gli incontri, dunque, l'attenzione era stata posta sui testi delle lettere in prospettiva di possibili anagrammi nascosti. Era un'idea bislacca per chi non avesse saputo che Moro aveva quell'abilità singolare. Per loro non lo fu. Avrebbe potuto utilizzare quelle lettere, Moro, per far sapere qualcosa al di fuori, ad eventuali anagrammisti esperti come lui? C'era, in quei testi, qualche messaggio cifrato? Con un lunghissimo e minuzioso lavorio, con le lettere dell'alfabeto separate scritte su pezzettini di carta disposti via via sul tavolo, che poi venivano conservati in un pacchetto di sigarette vuoto, il gruppo arrivò ad isolare prima una frase della lettera a Zaccagnini del 4 aprile, e poi un'altra della lettera alla Dc fatta arrivare al "Messaggero" il 29 aprile.
In ambedue i casi la frasi segnano, nel contesto, un brusco passaggio logico, ed in ambedue i casi si parla della "famiglia", interrompendo lunghi ragionamenti politici pubblici, per parlare improvvisamente del privato.

Eccole:


Dalla Lettera a Zaccagnini: "Se non avessi una famiglia così bisognosa di me, sarebbe un po' diverso".
Dalla Lettera alla Dc: "E' noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte".
Dopo tantissimi tentativi quel gruppo di amici di Moro giunse ai seguenti anagrammi, sorprendentemente convergenti:
Il primo testo: "Son fuori Roma, dove la Cassia in basso forma un'esse, vedo pini e bimbi".
Il secondo: "Le Br mi tengono prigioniero nel cottage a mattoni a sommo della valle di Formello tra Flaminia e Cassia: Aldo M."
Per precisione nel primo anagramma restava fuori una g, e nel secondo tre lettere: h, i, u.
I due anagrammi indicavano, se presi sul serio, un luogo abbastanza preciso: zona di Formello, tra Flaminia e Cassia. Quella zona è raggiungibile in meno di un quarto d'ora da via Fani, ed è ancora più vicina alla nota - adesso - via Gradoli, di cui si continua a parlare fino ad oggi.


Va aggiunto, avendo di fronte i testi autografi di Moro, che i due testi sono scritti in modo del tutto singolare, soprattutto il secondo. Moro interrompe la pagina 8 della lettera ben prima della fine del foglio, lascia un ampio spazio vuoto e comincia la pagina 9 ex abrupto con quella frase fuori contesto…



Secondo fatto. Vittorio Bachelet informò gli inquirenti.


Quel gruppo di amici di Moro, all'inizio del maggio '78,. quando le ricerche ufficiali si erano impantanate, segnalò gli anagrammi alle autorità di Polizia. In particolare fu Giorgio Bachelet che ne informò suo fratello, Vittorio, che gli assicurò di averne dato comunicazione agli inquirenti. La cosa non ebbe seguito, allora, perché arrivò il 9 maggio. Resta il fatto che proprio Vittorio Bachelet fu ucciso, il 12 febbraio 1980, da un commando Br di cui faceva parte anche Anna Laura Braghetti, una che risulta tra i "carcerieri" di Moro.


Terzo fatto. Leonardo Sciascia e il suo "Affaire Moro".

In assoluta indipendenza da quel gruppo di amici di Moro ci fu qualcun altro che nei mesi immediatamente seguenti al sequestro Moro fu colpito, nello studio minuzioso delle lettere di Moro, proprio da quelle due frasi che erano state individuate per la loro sorprendente incongruità con il contesto. Leonardo Sciascia, scrivendo il suo "L'Affaire Moro", edito da Sellerio nel 1978, solo alcuni mesi dopo i fatti, si disse innanzitutto certo che Moro nelle lettere cercasse "di comunicare qualche elemento che potesse servire ad orientare le ricerche per ritrovarlo"(p. 43) e dopo aver escluso, di suo, che ci fossero "crittogrammi, o che sia possibile decifrarle attraverso scomposizioni e ricomposizioni"(ivi) arrivò tuttavia ad isolare ed indicare proprio e solo quelle due frasi(pp. 54 e 55) per dire che in esse doveva esserci un "messaggio" essenziale che Moro voleva trasmettere a chi lo cercava. Ragiona, Sciascia, sulla evidente paradossalità delle due frasi, in cui il rapporto con la “famiglia” è presentato in un modo del tutto unilaterale, come di un bisogno "assoluto", che per chi conosceva la realtà della vita famigliare di Moro risulta evidentemente esagerato ed enfatizzato ad arte.


Quarto fatto. Freato, Cazora, e la N’drangheta


Durante gli ultimi giorni delle ricerche di Moro, esattamente il 6 maggio, alle 12.10, la polizia registrò una telefonata tra Sereno Freato, "segretario" di Moro poi molto discusso, e l'on. Benito Cazora, Dc, che riferiva dei contatti avuti con elementi della malavita calabrese per cercare indicazioni sulla prigione di Moro. Si parlava della necessità di andare a cercare Moro nei sotterranei di una villa "riparata ad arte", e del fatto che occorreva far presto, perché "ancora c'è un margine, ed è l'estremo". Tre giorni dopo Moro fu ucciso e ritrovato a via Caetani.


Quinto fatto. La vicenda arriva su "Paese Sera"


Questa storia degli anagrammi rimase sepolta nella mia memoria, dopo il racconto che me ne avevano fatto i protagonisti - che mi avevano anche regalato il pacchetto vuoto di sigarette con i pezzettini di carta serviti a cercare gli anagrammi - fino al dicembre 1986. Ero giornalista a "Paese Sera", allora, e ne parlai con il Direttore, Claudio Fracassi, che volle consultare in merito, quasi per gioco, un suo amico notissimo esperto di enigmistica, Ennio Peres, che allora come oggi si occupava professionalmente di anagrammi su varie riviste, p. es. allora sul settimanale "L'Europeo" e poi su “La Stampa”.
Ebbene, Peres all'inizio fu molto scettico, affermando che da una frase si può tirare fuori tutto ed il suo contrario, ma dopo aver studiato i testi restò davvero colpito dalla singolarità degli anagrammi, e perplesso, e allora acconsentì a parlarne sul giornale. Il 2 dicembre '86, dunque, "Paese Sera" uscì con una prima pagina ed un mio ampio servizio, non firmato, e con un pezzo dell'anagrammista Peres che raccontava della sua ricerca professionale su quei testi e del loro possibile significato indicativo del luogo della prigione. C'erano, sul fatto, l'apertura di prima pagina e dentro altre due pagine intere, ed il giorno dopo, 3 dicembre, un'altra pagina intera, con il racconto di un collega, Enrico Fontana, che era andato nella zona di Formello, a cercare l'ipotetico posto cui rimandavano i testi di Moro: descrizione dello scenario di ville, prati, pini, costruzioni ricche e modeste immerse nel silenzio e nel verde.


In redazione, allora, ci fu qualche aspettativa di riscontri. Nulla: il "presunto" scoop cadde nel vuoto totale. Nessun giornale, salvo "L'Avanti" con un trafiletto, riprese la curiosità…


Sesto fatto. Due riscontri inattesi.


In realtà quasi immediatamente quella pubblicazione su "Paese Sera" un riscontro lo ebbe. Qualche settimana dopo - fine '86/inizio '87 - arrivò in redazione a Roma, a via del Tritone, un anziano distinto signore, chiedendo degli autori di quegli articoli sugli anagrammi. Mi telefonò il leggendario “portiere” del giornale, che si era informato sull’autore del pezzo, e gli dissi di inviarlo da me.

Si chiamava Viktor Aurel Spachtholz,




e si presentò con biglietto da visita, che conservo ancora, come pittore e grafico di fama internazionale, membro dell'Accademia Goncourt di Parigi e Senatore dell'Accademia Burckhardt di Zurigo, residente da decenni in Italia, a Vettica di Amalfi. Raccontava di aver combattuto nella resistenza antinazista, poi era rimasto in Italia. Di fronte al Direttore di “Paese Sera”, Claudio Fracassi al collega ed ex direttore Piero Pratesi, che avevo subito chiamato e a me, egli disse che sulla base di quello che avevamo pubblicato era in grado di indicare la prigione di cui gli anagrammi parlavano. Secondo lui essa era nel sotterraneo della villa di un ex magistrato, importantissimo, il cui nome era comparso nelle liste della P2. Raccontò, Spachtholz, davanti a noi tre, che verso il 1976 aveva dato lezioni di pittura a questo ex magistrato nella sua villa in zona Formello, e che una volta era sceso con lui, per brindare alla fine delle lezioni, nella cantina della villa, un vero e proprio bunker fortificato. Sorpreso dallo scenario inatteso egli aveva esclamato così, "Ma questa è una prigione!", ed il padrone di casa gli aveva replicato pressappoco così: "Noi da qui incendieremo l'Italia, e la salveremo"…


Era noto che proprio Moro, presidente del Consiglio, aveva avuto forti contrasti, ufficiali, con questo magistrato, che aveva dovuto dimettersi da ogni carica in relazione alla vicenda Sindona…Il racconto di Spachtholz aveva risvolti notevoli: se il discorso cadeva su quella persona, ovvio che entrasse in gioco anche tutto lo scenario della P2, dei Servizi Segreti deviati, della infiltrazione di piduisti nel comitato incaricato proprio in quei mesi di coordinare tutto quello che riguardava la gestione delle ricerche di Moro, della sua prigione, dei suoi sequestratori, dei mandanti e degli esecutori della strage di via Fani e del rapimento…Lo Spachtholz si offrì, subito, di accompagnarci a vedere la villa, ma era tardo pomeriggio, si doveva "chiudere" il giornale del giorno dopo, e con decisione immediata l'offerta fu per il momento declinata. Ci lasciammo con l'intesa che ci saremmo risentiti…


Va aggiunto, per la cronaca, che egli poche settimane dopo morì: fu trovato morto dai vicini nella sua casa di Vettica di Amalfi. Era anziano, sicuramente, ma era anche un personaggio singolare. Ho letto anche di recente su “Storia in Rete”, una rivista che va in edicola ma soprattutto su Internet, parecchie pagine interessanti e cariche di stranezze e misteri…


Tornando a quel magistrato indicato da Spachtholz come padrone della “prigione”, tutti mi dicevano, allora, che era già morto. E invece ne parlai con un notissimo avvocato romano, il Dr. Zupo, cui mi indirizzò un conoscente comune, il Dr. Pietro Mascioli, il quale mi fece avere le fotocopie delle lettere di Moro e mi assicurò che allora, nel 1986, il soggetto era ancora vivo, rinchiuso nella sua casa presso Genova, e rifiutava di incontrare e vedere chiunque. Anche mons. Cesare Curioni, di cui ho già parlato, che per ragioni professionali lo aveva conosciuto ai tempi in cui era in carica come Ispettore generale presso il Ministero, e che aveva conoscenza di quella sua casa in zona Flaminia-Cassia, mi confermò che allora era vivo…


Ma alla pubblicazione su "Paese Sera" ci fu anche qualche altro riscontro. Ennio Peres, l'anagrammista che aveva firmato il suo pezzo da esperto di enigmistica, cominciò a trovare sulla sua segreteria telefonica messaggi singolari con ripetute minacce anonime, che si ripeterono per un po'. Di più: un notissimo personaggio presente nelle cronache dei tempi del terrorismo italiano degli anni '70, Mario Merlino, che lo conosceva da anni, incontrandolo lo prese ripetutamente in giro chiamandolo "Aldo"…
Ultimo fatto: alcuni mesi dopo il direttore di "Paese Sera" di allora, Fracassi, fu senza grandi spiegazioni pubbliche, dimesso dal suo incarico…


Settimo fatto: 1988. La pubblicazione su "Giochi Magazine" e la fine "improvvisa" della rivista.


La faccenda parve finita lì, con un buco nell'acqua, per la verità un po' torbida, ma niente altro. Fino alla primavera del 1988. In vista del decimo anniversario della morte di Moro, Ennio Peres, l'anagrammista, mi chiamò una sera al telefono e mi chiese di tornare sulla faccenda per una bellissima rivista tutta dedicata ai giochi enigmistici. Mi disse che voleva fare un servizio specifico proprio su quei testi, come per un "gioco" logico, e che era già d'accordo con la direzione della rivista, ma che aveva bisogno di un pezzo che raccontasse la vicenda degli amici di Moro, della scoperta degli anagrammi, di Sciascia, di Paese Sera e di Viktor Aurel Spachtholz con la sua indicazione della villa nella valle di Formello. Lui avrebbe provveduto a raccontare la sua ricerca professionale sugli anagrammi e la storia delle minacce alla sua segreteria telefonica, ma appunto come per un gioco: di questo si occupava la rivista.


Scrissi il mio pezzo, e per prudenza lo firmai Ersilio Quarelli. Peres scrisse il suo, ed il bel servizio, quattro pagine e foto, uscì nel numero di marzo 1988 della rivista, che aveva in copertina un bel ritratto di Gianni Agnelli, un servizio sul "Nome della Rosa" di Eco ed un annuncio: "Caso Moro: c'è un enigma nelle lettere". La rivista era al n. 3 del secondo anno di vita, ed il Direttore, Giuseppe Meroni, nella presentazione del numero cominciava parlando dell' "enigma nelle lettere di Moro", e proseguiva annunciando i prossimi numeri pieni di sorprese, di giochi, di regali per i lettori.


Nel testo pubblicato, all'ultimo momento, su consiglio dell'avvocato della Direzione, che in seguito mi dissero si chiamava Corso Bovio, Meroni aveva omesso il nome del padrone della villa indicata da Spachtholz, indicandolo soltanto come un potente ex magistrato, ma il resto era rimasto esattamente come io ed Ennio Peres avevamo scritto.


La sorpresa, per me fulminante, fu che appena il numero di "Giochi Magazine" arrivò nelle edicole, venni a sapere che non solo il giornalista Giuseppe Meroni non era più direttore del giornale dell'editore Monti, ma anche e soprattutto che la rivista era stata chiusa. Quello del marzo 1988 è stato, per quanto ne so, l'ultimo numero di "Giochi Magazine", rivista fino allora brillante e di grande successo, arrivata appena al terzo numero del suo secondo anno. Nessuno mi ha mai saputo dire perché, e se quella pubblicazione ha avuto qualche parte nella fine della rivista e nel licenziamento del Direttore. Il dubbio, tuttavia, ha del curioso. Se poi uno pensa che è noto che il nome dell'editore Monti era stato tra quelli dell'elenco famoso di Villa Wanda, della P2 di Licio Gelli, allora la curiosità aumenta…E' anche singolare, mi pare, che dopo aver pubblicato su "Paese Sera" il racconto, nel 1986, dopo averlo ripetuto su "Giochi Magazine", e infine ancora su "Paese Sera" nel 1988 nessuno mi abbia mai chiesto per anni qualche chiarimento. E' davvero così improponibile, e campata in aria, tutta questa vicenda?


Per completezza aggiungo che su "Paese Sera" io scrissi un servizio, lo stesso giorno dell'uscita in edicola della rivista, che annunciava la sua pubblicazione. Nessuna eco. Sulla rivista “Storia in Rete”, poi, il giornalista Andrea Biscaro ha scritto un articolo interessante proprio sulla vicenda di “Giochi Magazine”, ma il “busillis”, a mio parere, rimane intatto…


Verso una conclusione: tanti interrogativi non senza ragione, e nessuna risposta, finora…


E tuttavia il mio interesse per la vicenda Moro non finì neppure allora. Negli anni '80 ho scritto parecchi pezzi sulla vicenda delle Br per "Paese Sera". Ho lavorato anche, per Giovanni Minoli, e preparavo i testi di tutte le interviste "Faccia a Faccia" di "Mixer", in particolare quella ad Alberto Franceschini, e collaborai anche con Sergio Zavoli in occasione della preparazione di programmi sugli anni di piombo. La cosa mi ha portato a leggere tante pagine, a pormi ed a porre tante domande…Sono stato e sono anche amico di Giuseppe De Lutiis, il più noto esperto di storia dei Servizi Segreti: con lui abbiamo parlato tante volte della vicenda, ponendoci tante domande… Ma soprattutto con monsignor Cesare Curioni ho parlato tante volte del mistero Moro. Lui era certo che si sapeva ben poco, della vera vicenda e di tanti suoi particolari…


Insomma: da un insieme di cose lette, collegate, interrogate anche in profondità, alla ricerca di qualche nesso, ho tratto un'infinità di interrogativi che desidero mettere qui, un po' senza ordine, allo scopo di concludere questo discorso. Monsignor Curioni per esempio era convinto - e certo aveva parlato in tanti anni con tante persone, sia delle istituzioni, che incontrava essendo per lavoro nei ruoli del Ministero di Grazia e Giustizia come Ispettore Capo di tutte le Carceri italiane relativamente all'assistenza religiosa dei detenuti, sia dei protagonisti, compresi molti brigatisti in prigione - che sul cadavere di Moro ci fosse un solo colpo sparato a bruciapelo su Moro vivo, che aveva lasciato l'alone caratteristico di bruciatura e mostrava il sangue che ne era fuoriuscito, mentre tutti gli altri colpi, una decina, fossero stati sparati a distanza maggiore e dopo parecchio tempo, forse più di un'ora, e quindi non avevano né l'alone di bruciatura né il sangue. Perché? Si poteva pensare che Moro fosse stato ucciso in un luogo e poi portato altrove, dove altri avessero ripetutamente sparato su di lui, già morto, magari senza sapere che lo era, ma credendolo narcotizzato, e pensando di essere loro ad ucciderlo? Se la cosa è vera, chi ha sparato, a bruciapelo, quel primo colpo mortale? Pareva che a sparare fosse stato Mario Moretti, che disse di essere stato lui a sparare…Si è anche parlato di Maccari, o altri…Ipotesi credibili? E dove è avvenuta l’uccisione? E' certo che il covo di via Montalcini fu l'unica prigione di Moro? E la faccenda che sopra ha portato alla casa di quel magistrato, e quindi alla Loggia P2, è solo e senza alcun dubbio fantasia senza fondamento alcuno? E’ anche senza fondamento alcuno la voce che continua a correre circa un palazzo, proprio in via Caetani, con molti segreti ancora irrisolti?


Ma i dubbi non sono soltanto così esili e marginali, legati a strane storie di anagrammi e di intrecci degni di un giallo. E' del tutto senza significato che il passo decisivo che ha portato le Br alla loro storia concreta, fino al rapimento ed alla morte di Moro, fu l'arresto di Curcio e Franceschini, l'8 settembre 1974, in occasione di un appuntamento che avevano proprio con Mario Moretti ad un passaggio a livello di Pinerolo? Moretti non si presentò all'appuntamento, ed a Franceschini che qualche anno dopo gli chiese ragione del mancato appuntamento, rispose di non ricordare la ragione. In ogni caso la trappola era stata preparata da "frate mitra", Silvano Girotto, un infiltrato dei Servizi segreti che era stato presentato alle Br da Gianbattista Lazagna, ex partigiano amico di Feltrinelli, che aveva letto di lui in alcuni articoli su "Candido", diretto da Giorgio Pisanò, tessera P2, che annunciavano l'arrivo in Italia di questo "emulo di Che Guevara". Girotto fu presentato a Curcio, allora capo riconosciuto delle Br, e fu proprio Moretti che spinse per il suo ingresso all'inizio dell'estate 1974. Frate Mitra entrò, e Curcio e Franceschini furono eliminati. E' solo un caso che negli atti dell'Istruttoria del giudice Tamburino si legge che proprio all'inizio di settembre 1974, nei giorni esatti in cui avvenne l'arresto di Curcio e Franceschini a Pinerolo, il generale Vito Miceli, capo del Sid, disse a Tamburino stesso, alla presenza del pubblico ministero Nunziante, che da allora in poi non si sarebbe parlato più di terrorismo nero, ma solo di terrorismo rosso? Dunque Miceli sapeva che l'arresto di Curcio non avrebbe posto fine alle Br, ma al contrario, ne avrebbe segnato il definitivo salto di qualità? E' un fatto che da allora il capo unico delle Br fu proprio Mario Moretti. Sospetti espliciti sul rapporto tra Moretti e Girotto, sul fatto che Moretti seppe dell'agguato in anticipo e su quel mancato appuntamento grazie al quale egli non fu arrestato li ha espressi, nel suo libro "Mara, Renato e io", anche Franceschini (pp. 117-118 e altrove). Tra l'altro nel suo libro egli ricorda molti particolari sconcertanti della condotta di Moretti, in quegli anni, fino a sospettare che a lui facesse comodo che egli e Curcio restassero in prigione. Franceschini scrive anche che egli sospettò, e con lui anche il giudice Caselli, che Moretti godesse della "protezione dei Carabinieri"(p. 120). Egli ricorda anche i viaggi di Moretti in Libano, con il panfilo Papago, di cui ha più volte parlato anche Massimo Gidoni, che come skipper andò con Moretti laggiù, appunto per portare in Italia mitra e missili, e racconta di contatti ripetuti delle Br di Moretti con servizi segreti stranieri, che offrirono gratuitamente armi(p.74-75), per una strategia di "destabilizzazione dell'Italia"(p.119).


Ancora su Moretti. Al processo di Torino il giudice Moschetta affermò testualmente che "qualcuno, in ambiente qualificato, aveva interesse che le scorrerie delle Br continuassero” e che “le Br avevano un informatore all'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno"( De Lutiis, Storia dei Servizi Segreti in Italia, Ed. Riuniti, 1984, p. 247). Chi era, questo "qualcuno"? Fu un caso che tutti i componenti incaricati delle ricerche durante la vicenda Moro siano poi risultati iscritti alla P2? Questo è un fatto ormai accertato, come è accertato che tanti documenti delle ricerche di quei 55 giorni sono o spariti del tutto, o assolutamente incredibili, veri e propri depistaggi, con complicità criminali della Banda della Magliana e di altri centri delinquenziali in contatto stretto con i soliti "servizi".


In ogni caso è certo che proprio Moretti dal 1974, con l'arresto di Curcio e Franceschini, fu al centro di tutto, e soprattutto della vicenda Moro. Non per nulla proprio lui è quello che da sempre ha detto che sulla vicenda Moro tutto è noto a tutti, pur essendo stato smentito tante volte, con nuovi personaggi, come Maccari, o Nirta, o Casimirri, o altri, ma non ha mai cambiato versione. E se fosse davvero lui, l'unico a sapere tutto, insieme con quelle "menti" di cui parlò una decina di anni orsono anche l’allora presidente Scalfaro? Risulta, anche, che Moretti faceva, a più riprese, frequenti viaggi in Calabria, che sono rimasti coperti da mistero. I compagni stessi erano insospettiti da questi viaggi, che Moretti non spiegò mai a nessuno…Che andava a fare in Calabria, Moretti?


E il discorso sulla Calabria, sulla malavita calabrese, potrebbe avere anche qualche altro risvolto. Qualcuno ha parlato anche di un "enigma" Delfino, il calabrese Francesco Delfino? Va ricordato che al passaggio a livello di Pinerolo c'erano i Carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, lo stesso reparto di cui faceva parte anche Delfino, guidati dal maresciallo Felice Maritano, uno che probabilmente aveva preso accordi per l'agguato, e forse ne conosceva i retroscena. Proprio Maritano fu ucciso dai terroristi poco più di un mese dopo, il 15 ottobre 1974. Può ricordarsi anche che proprio Francesco Delfino, poi promosso generale, fu protagonista di tanti altri episodi con al centro Curcio e la vicenda Moro, tra cui la scoperta del covo della Cascina Spiotta, il 5 giugno 1975, con il conflitto a fuoco in cui fu uccisa Mara Cagol, mentre Curcio riuscì a fuggire, per essere poi definitivamente arrestato a Milano il 18 gennaio 1976. E Mario Moretti fu di nuovo e definitivamente, così, unico e indiscusso capo delle Br fino alla loro fine. Risulterebbe anche che Delfino fu a capo dei carabinieri che trovarono il covo di via Montenevoso e che in esso scoprirono il famoso "Memoriale" che fu consegnato a Dalla Chiesa, e che ebbe, come noto, altre successive vicende con sospetti di manipolazioni e di occultamenti ripetuti... E Dalla Chiesa fu ucciso nel 1982. Proprio in quegli anni Delfino fu per parecchio all'estero, ove pare abbia lavorato a contatto con vari servizi segreti. Anche la nota vicenda del sequestro Soffiantini ha fatto emergere qualche aspetto problematico della storia di Delfino, originario di una zona in cui la 'n drangheta è sovrana, in quella Calabria dei misteriosi viaggi, ripetuti, di Mario Moretti…E come non pensare al fatto che nella telefonata di Cazora e Freato, del 6 maggio 1978, riferita sopra, la malavita calabrese pareva saperla lunga sulla prigione di Moro? Ed ai collegamenti tra malavita calabrese, banda della Magliana, falso comunicato del Lago della Duchessa, tipografia dei volantini Br e altre singolari vicende? Si può ricordare che dopo parecchi anni, in occasione di una trasmissione televisiva di Michele Santoro, su Raitre, alla giornalista Maria Cuffaro che lo intervistava sulla situazione della Calabria e sulla malavita locale, il fratello di Delfino, preside in una scuola della zona nota come controllata anche dalla malavita, appena sentì un minimo accenno ai sequestri di persona, strappò di mano il microfono alla giornalista, e non volle più parlare…Vicenda Moro, Dalla Chiesa, e Pecorelli, e tanti altri misteri…Può essere soltanto fantasia, ma qualche dubbio rimane.


Un ultimo pensiero: rasserenante almeno in parte.


Non voglio concludere questa memoria anche drammatica senza un accenno di ottimismo. Ricordo quindi un altro incontro con il mite e forte insieme Benigno Zaccagnini, che negli anni seguenti ebbe un ufficio proprio nei pressi di “Paese Sera”. La cosa fu occasione di incontri vari, sempre amichevoli, fino a poche settimane prima della sua morte. Ma qui ricordo un'altra vicenda. Qualche settimana dopo la morte di Moro, quando Giovanni Leone fu ingiustamente costretto alle dimissioni, una sentii Benigno al telefono. Erano i giorni delle votazioni per il nuovo Presidente della Repubblica, e lui mi disse era molto addolorato perché gli uomini della Dc, Piccoli e altri, non volevano votare Pertini come presidente. Bettino Craxi si era convinto su quel nome, anche il Pci era d’accordo, ma c’erano i franchi tiratori Dc che sabotavano l’elezione. Era molto preoccupato, Benigno, e allora gli chiesi se a suo parere la scelta di Pertini fosse giusta e opportuna. Mi rispose che era anziano, talora irruento e imprevedibile, ma galantuomo e pulito. A me, allora, venne in mente la sua confidenza sulle dimissioni che avrebbe voluto dare lo stesso 16 marzo, dopo l’approvazione del Governo Andreotti, e che rientrarono per il rapimento di Moro, e gli dissi di botto: “tu stasera dovresti chiamare i tuoi ‘amici’ Dc e dire loro che se domani non votano Pertini tu ti dimetti!” Il giorno dopo Sandro Pertini fu eletto Presidente della Repubblica, e a parte qualche particolare critica, tutti sappiamo come la sua figura abbia onorato il nostro paese. Il mite Zac aveva fatto la sua parte anche in questa vicenda: come sempre.


Conclusione


Ho finito. Non so se questa lunga "memoria" potrà servire a qualcosa. Al di là delle singole tessere di questo piccolo e intricato mosaico, molto personale, la verità è ancora nascosta e "le menti" che probabilmente hanno diretto tutto sono ancora nell'ombra. In sostanza ha ragione chi – politici, uomini di cultura, ricercatori, storici, colleghi giornalisti illustri e soprattutto i famigliari di Moro – sostiene che ancora sappiamo ben poco, quasi nulla, della verità di una vicenda così decisiva per questi quasi 35 anni passati da allora.
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Edited by barionu - 22/5/2023, 20:18
 
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