Origini delle Religioni

CASO PECORELLI, Antonio Varisco

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Mino Pecorelli




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Carmine "Mino" Pecorelli
Carmine Pecorelli, meglio conosciuto come Mino Pecorelli (Sessano del Molise, 14 giugno 1928 – Roma, 20 marzo 1979), è stato un giornalista, avvocato e scrittore italiano che nell'ambito del giornalismo si occupò d'indagine politica e sociale, e fu fondatore dell'agenzia di stampa «Osservatore Politico» («OP») che divenne poi anche una rivista. Venne assassinato a Roma in circostanze non del tutto chiarite.


Indice
1 Biografia
1.1 Le origini e la formazione
1.2 La carriera giornalistica e le inchieste
1.3 L'agguato e l'omicidio
2 L’indagine e il processo sul delitto
3 L'importanza della figura e le ipotesi sull'omicidio
4 Intitolazioni
5 Note
6 Bibliografia
7 Voci correlate
8 Altri progetti
9 Collegamenti esterni
Biografia
Le origini e la formazione
Nacque a Sessano del Molise e nel 1944, appena sedicenne in piena seconda guerra mondiale, si arruolò nel II Corpo polacco in quel periodo attivo nella sua zona, per rintracciare la madre, separata dai figli dallo sbarco di Anzio. Combatté in prima linea nella battaglia di Montecassino, e poi a Pesaro, Urbino ed Ancona.

Venne decorato, direttamente dal generale Władysław Anders, con l'onorificenza polacca della Croce al merito con le spade di bronzo.[1]

Dopo la fine del conflitto si diplomò a Roma; successivamente si trasferì a Palermo, dove si laureò in giurisprudenza all'Università di Palermo. Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta lavorò nella capitale come avvocato. Divenne esperto nel diritto fallimentare e fu nominato capo ufficio stampa del ministro Fiorentino Sullo (DC), iniziando così ad entrare nell'ambiente del giornalismo.

La carriera giornalistica e le inchieste
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Osservatorio Politico.
Nella primavera del 1967, all'età di 39 anni, Pecorelli decise di dedicarsi al giornalismo a tempo pieno. Lavorò al periodico Nuovo Mondo d'Oggi (prima mensile poi settimanale di “politica, attualità e cronaca”)[2], una rivista caratterizzata dalla ricerca e pubblicazione di scoop negli ambienti politici. Pecorelli divenne socio dell'editore Leone Cancrini. L'esperienza del settimanale fu, per lui, un trampolino di lancio. Strinse molte amicizie: alcune durarono poco, altre segnarono un passo importante nel suo curriculum.[3] L'ultimo scoop, però, non fu mai pubblicato, perché intervenne l'Ufficio affari riservati del Ministero dell'Interno che trovò un accordo per far chiudere la rivista il 2 ottobre 1968[4].

Pecorelli decise così di proseguire da solo l'attività e fondò una propria agenzia di stampa[5]: il 22 ottobre 1968 registrò presso il Tribunale di Roma la testata Osservatore Politico, con sede in via Tacito 90. OP (come fu subito chiamata) trattava di politica, in particolare di scandali e retroscena, e comunque di chi - in qualche modo - avesse qualche potere in Italia. Diffusa solo su abbonamento (come tutte le agenzie), forniva ai giornali notizie in anteprima raccolte dallo stesso Pecorelli grazie alle sue numerosissime aderenze in molti ambienti dello Stato; i lanci erano accompagnati da analisi firmate dal giornalista. La testata (il cui nome coincideva anche con le lettere iniziali di "ordine pubblico"), divenne presto molto nota ed ebbe anche una certa centralità in ambiti politici, militari e dei servizi segreti, costituendo una sorta di elitaria fonte di informazione specializzata. OP era letta dalle alte sfere militari, dai politici, dagli uomini dei servizi, dai boss della criminalità che avevano messo le mani su Roma, e non solo[6].

A dimostrazione del fatto che Pecorelli fosse un giornalista ben documentato e che pubblicava tutto, intervenne sui casi più disparati: abuso edilizio; frode fiscale, i comportamenti pubblici e privati dei politici, compresi quelli della famiglia di Giovanni Leone (presidente della Repubblica dal 1971 al 1978) e di sua moglie, Vittoria Michitto. Altri rimarcabili scandali regolarmente pubblicati su OP furono quello dell'Italpetroli, il Lockheed, il caso Sindona, il dossier "Mi.Fo.Biali" (che coinvolgeva l'ex direttore del SISDE Vito Miceli, Mario Foligni del Nuovo partito popolare e la Libia), oltre allo scoop riguardante la presenza di una loggia massonica in Vaticano pubblicato all'indomani dell'elezione di Albino Luciani al soglio pontificio.[7]

Nel marzo del 1978 Pecorelli decise di trasformare l'agenzia in un periodico regolarmente in vendita nelle edicole. Non disponendo del denaro necessario per una simile avventura editoriale, chiese più volte a personaggi di spicco finanziamenti sotto forma di acquisto di spazi pubblicitari. L'operazione editoriale stupì per il tempismo tra il primo numero del settimanale OP e la strage di via Fani a Roma, con cui iniziò il periodo dei 55 giorni del sequestro di Aldo Moro.

Il periodico si occupò a più riprese del caso Moro arrivando a fare rivelazioni come ad esempio sulla falsità del Comunicato n. 7 delle Brigate Rosse, redatto da Antonio Chichiarelli, sull'inizio delle trattative da parte del Vaticano, e sulla lettera di Moro alla moglie riguardo all'impegno di Cossiga e Zaccagnini, nonché sul fatto che Cossiga avesse saputo da Carlo Alberto Dalla Chiesa dov'era tenuto il politico e che lo si volesse morto. Pecorelli si occupò di Moro fin dalle prime minacce americane per la sua politica di apertura verso il Partito Comunista, al tempo in cui era Ministro degli Esteri. Il 1º ottobre 1978, a quasi cinque mesi dall'uccisione dello statista, i reparti speciali dell'antiterrorismo guidati dal generale Dalla Chiesa effettuarono un'irruzione nella base brigatista di via Montenevoso a Milano e il materiale trovato venne subito pubblicato dai giornali. OP alluse però alla falsità del memoriale, documento censurato preventivamente con riferimenti al premier Giulio Andreotti che sarebbero stati occultati. Dodici anni più tardi nella stessa base verrà trovata una seconda copia del memoriale di Moro con riferimenti inediti a finanziamenti della CIA alla DC, alla struttura paramilitare Gladio e appunto ad Andreotti, con l'attacco che Moro gli rivolse per il suo ruolo nella vicenda Arcaini-Caltagirone-Italcasse.

Andreotti in quel periodo fu un bersaglio privilegiato di Pecorelli ed in particolare l'ambiente (fatto di politici, industriali e faccendieri) che alimentava la sua corrente: esemplare l'episodio di una cena in cui il braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti, cercò di convincere Pecorelli, con un assegno di 30 milioni di lire, a non pubblicare un reportage sugli assegni milionari che Andreotti avrebbe girato all'imprenditore Nino Rovelli o a Guido Giannettini del SID.[8]
Pecorelli continuerà ad occuparsi delle malefatte di Andreotti, tanto che la sera in cui venne ucciso aveva già pronto un numero di OP con in copertina la sua foto con il titolo Tutti gli assegni del presidente ma dell'articolo non sono mai stati rinvenuti né il dattiloscritto né la bozza di stampa.[9]

Nel 1981 il nome di Pecorelli comparve (tessera n. 1750) tra i membri della loggia massonica deviata Propaganda 2 di Licio Gelli, che venne sciolta per iniziativa parlamentare l'anno seguente.

L'agguato e l'omicidio

L'omicidio di Mino Pecorelli
La sera del 20 marzo 1979 il giornalista fu assassinato da un sicario che gli esplose quattro colpi di pistola - uno in faccia e tre alla schiena - in via Orazio a Roma, nelle vicinanze della redazione del periodico. I proiettili, calibro 7,65, trovati nel suo corpo sono molto particolari, della marca Gevelot, assai rari sul mercato (anche su quello clandestino), ma dello stesso tipo di quelli che sarebbero poi stati trovati nell'arsenale della Banda della Magliana, rinvenuto nei sotterranei del Ministero della Sanità nel 1981.

L’indagine e il processo sul delitto
L'indagine - aperta all'indomani del delitto - seguì diverse direzioni, coinvolgendo nomi come Massimo Carminati (esponente dei Nuclei Armati Rivoluzionari e della Banda della Magliana), Antonio Viezzer e i fratelli Fioravanti. Fiorirono diverse ipotesi sul mandante e sul movente: da Licio Gelli (risultato poi estraneo ai fatti) a Cosa nostra, fino ad arrivare ai petrolieri. Franca Mangiavacca, segretaria e compagna del giornalista, confidò spaventata al portiere dello stabile di via Tacito di essere stata seguita il 6 marzo, mentre con Pecorelli raggiungeva la redazione, da uno sconosciuto che avrebbe identificato in seguito come il falsario Antonio Chichiarelli, membro della Banda della Magliana vicino a Danilo Abbruciati e responsabile del falso comunicato n. 7 delle Brigate Rosse in cui si annunciava la morte di Aldo Moro e la sua sepoltura presso il lago della Duchessa[10]. La sorella di Pecorelli raccontò che il giorno in cui fu ucciso si doveva incontrare, infatti, con una persona di nome Antonio. Il Chichiarelli (che potrebbe essere stato un informatore del giornalista e non complice dei suoi killer come si è voluto far intendere) spiegò alla moglie di conoscere il vero motivo della morte del giornalista e cioè che aveva appurato delle cose sul sequestro Moro. Poco dopo il delitto, il falsario abbandonò in un taxi un borsello con indizi che riportavano al sequestro Moro e con alcune schede dattiloscritte riguardanti il delitto Pecorelli, ma non fu mai interrogato. Verrà ucciso nel 1984 in circostanze mai chiarite.

Il pentito Walter Sordi si disse certo "della partecipazione di Giusva all'omicidio e su mandato di Licio Gelli". Tesi sostenuta anche da Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva:"Alibrandi mi disse che anche Valerio si era prestato a fare favori a quelli della Magliana uccidendo per conto della banda, insieme a Massimo Carminati, il giornalista Pecorelli". Come conseguenza di queste dichiarazioni, nel novembre del 1991 Licio Gelli e Antonio Viezzer (tenente colonnello del Sismi) furono accusati di essere i mandanti dell'omicidio e i due fratelli Fioravanti e Carminati di esserne gli esecutori ma tutti furono prosciolti.

Il 6 aprile 1993 il pentito Tommaso Buscetta, interrogato dai magistrati di Palermo, parlò per la prima volta dei rapporti tra politica e mafia e raccontò, tra le altre cose, di aver saputo dai boss Gaetano Badalamenti e Stefano Bontade che l'omicidio Pecorelli sarebbe stato compiuto nell'interesse di Giulio Andreotti il quale sarebbe stato il mandante insieme a Badalamenti e Pippo Calò. La magistratura aprì un fascicolo sul caso. In questo faldone vennero aggiunti, man mano che le indagini proseguivano e per effetto delle deposizioni di alcuni pentiti della Banda della Magliana, il senatore Andreotti, l'allora pm Vitalone, Badalamenti, Calò in qualità di mandanti, e inoltre Michelangelo La Barbera e Carminati in qualità di esecutori materiali.

Alle dichiarazioni di Buscetta si unirono quelle dei pentiti della Magliana Antonio Mancini, Vittorio Carnovale, Fabiola Moretti - che poi ritratterà - e Maurizio Abbatino. Quest'ultimo nel 2018 rivelerà che "fu Franco Giuseppucci a dirmi che a uccidere Pecorelli era stato Massimo Carminati. Mi disse che la richiesta era stata fatta da Pippo Calò a Danilo Abbruciati. Franco aggiunse che Pecorelli era un giornalista-sbirro ... che stava creando problemi a un personaggio politico [Andreotti, ndr]. Tornando indietro non direi più niente perché è da quel processo che sono iniziati tutti i miei guai. Mi ritirarono il passaporto. Avrei dovuto capire subito che certe persone non si toccano. Andreotti e Carminati non potevano essere processati insieme". Mancini disse di aver saputo da De Pedis che il giornalista era stato ucciso da Carminati e La Barbera e che, secondo quanto riferitogli da Abbruciati, la richiesta arrivò da Calò e il mandante fu Vitalone; il delitto sarebbe servito alla Banda per favorire la crescita del gruppo procurando entrature negli ambienti giudiziari e finanziari romani, ossia negli ambienti che detenevano il potere.[11] Carnovale invece raccontò di aver saputo da Edoardo Toscano che ad aver organizzato l'omicidio sarebbero stati Enrico De Pedis e Abbruciati con esecutori materiali Carminati e La Barbera il quale avrebbe poi riconsegnato l'arma a De Pedis. Il pentito, pur non ritrattando, per paura si rifiutò di deporre affidando ai giudici le dichiarazioni rese in istruttoria. Invece la Moretti, prima di "pentirsi di essersi pentita", dichiarò di aver saputo dal suo compagno Abbruciati che la pistola gli fu riconsegnata da La Barbera e che la riportò al deposito. Quando era stata scarcerata aveva ricevuto pressioni da tale Angelo, legato ai servizi segreti e in stretto rapporto con il suo ex compagno Abbruciati; due anni dopo le rivelazioni, precipitata in una grave depressione, ritratterà tutte le accuse; Abbatino dirà di essere certo del fatto che la donna fu spinta a ritrattare per poi venire protetta grazie a un accordo con i testaccini[non chiaro].[12]
Raffaele Cutolo, boss della camorra, durante il processo raccontò che, secondo quanto gli avevano raccontato il suo capozona romano Nicolino Selis e Franco Giuseppucci, la mafia non c'entrava niente ma era un fatto della Banda della Magliana: il giornalista era in combutta con la Banda e nello stesso tempo collaborava con il generale Dalla Chiesa.[13]

La tesi accusatoria prospettava quindi che il delitto fosse stato deciso da Andreotti "il quale, attraverso l'onorevole Claudio Vitalone, avrebbe chiesto ai cugini Ignazio e Antonino Salvo l'eliminazione di Pecorelli. I Salvo avrebbero attivato Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti, i quali, attraverso la mediazione di Pippo Calò, avrebbero incaricato Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci di organizzare il delitto, che sarebbe stato eseguito da Massimo Carminati e dal mafioso Michelangelo La Barbera".[14]
Il 24 settembre 1999 fu emanata la sentenza di assoluzione per tutti gli imputati "per non avere commesso il fatto". Il 17 novembre 2002, la Corte d'assise d'appello di Perugia condannò Andreotti e Badalamenti a 24 anni di reclusione come mandanti dell'omicidio, confermando invece l'assoluzione per i presunti esecutori materiali del delitto.[15] Il 30 ottobre 2003 la Corte di cassazione annullò senza rinvio la condanna inflitta in appello a Giulio Andreotti e a Badalamenti, affermandone definitivamente l'innocenza;[16] Un altro processo a carico di Andreotti, pur dichiarando i fatti prescritti, stabilirà però che questi ebbe rapporti stabili e amichevoli con Cosa nostra fino al 1980.[17]

Nel marzo 2019 la Procura della Repubblica di Roma ha disposto la riapertura delle indagini sul delitto accogliendo le richieste della sorella di Pecorelli e sulla base di una pistola Beretta 765 - sequestrata nel 1995 a Monza e di proprietà di Domenico Magnetta, membro di Avanguardia Nazionale - dalla quale potrebbero essere partiti i proiettili di marca Gevelot. Infatti l'ex terrorista nero Vincenzo Vinciguerra in un'intervista rilasciata alla giornalista Raffaella Fanelli nel dicembre del 2018 aveva raccontato di aver saputo che l'arma tenuta nel suo deposito da Magnetta era la stessa che venne usata per uccidere Mino Pecorelli. La giornalista Raffaella Fanelli, peraltro, aveva saputo della Beretta venendo in possesso di un verbale contenuto in una cartella del sequestro Moro.[18] A dicembre si verrà a sapere però che l'arma sarebbe stata distrutta nel 2013 come riportato in un verbale recuperato a Milano.[19]

L'importanza della figura e le ipotesi sull'omicidio
Carmine Pecorelli, giornalista dotato di uno spiccato senso storico, si dimostrò un profondo conoscitore della realtà politica, militare, economica e criminale italiana. Il corpus delle sue edizioni è stato oggetto di una mole impressionante di smentite (soprattutto dopo la sua morte), ma una minima parte di esse ha poi resistito in sede giudiziaria di fronte a querele o ad altri procedimenti. Si è discusso se egli avesse nelle sue analisi inviato talvolta messaggi in codice. La particolarità del lavoro che svolse, sia per gli argomenti trattati che per il modo in cui li trattò, fece sì che molte delle sue indicazioni potessero essere sinteticamente definite da altri colleghi "profezie", come ad esempio le note righe sul "generale Amen", nome dietro al quale molti hanno letto la figura del generale Carlo Alberto dalla Chiesa: sarebbe stato lui che - secondo le segnalazioni di Pecorelli - durante il sequestro Moro avrebbe informato il ministro dell'Interno Francesco Cossiga dell'ubicazione del covo in cui era detenuto (ma, sempre stando a questa ipotesi, Cossiga non avrebbe "potuto" far nulla poiché obbligato verso qualcuno o qualcosa). Il "generale Amen", sostenne Pecorelli nel 1978 senza mezzi termini, sarebbe stato ucciso; per quanto riguarda il movente, il giornalista infilò fra le colonne della sua rivista un'allusione alle lettere che Moro scrisse durante la prigionia[senza fonte].

In sede giudiziaria si è ampiamente dibattuto se Pecorelli fosse un ricattatore professionista, visto il tenore e gli argomenti della quasi totalità delle sue inchieste, ma tale tesi è stata bocciata in virtù dell'esame patrimoniale eseguito dopo il suo assassinio: il giornalista risultava perennemente indebitato con tipografie e distributori ed il suo spartano tenore di vita non poteva certo essere paragonato con quello di una persona che usava ricattare. Dopo l'omicidio di Aldo Moro, Pecorelli aveva pubblicato sulla sua rivista, nel frattempo divenuta settimanale, alcuni documenti inediti sul sequestro, come tre lettere inviate alla famiglia. La ricerca lo aveva portato a scoprire alcune verità scottanti, tanto che profetizzò anche il suo stesso assassinio[senza fonte]. Lo scrittore Giulio Cavalli a proposito del coinvolgimento di Giulio Andreotti scrisse un libro intitolato L'innocenza di Giulio, incentrato su Andreotti e cosa nostra, in cui sviscerò con particolari significativi e in parte inediti la vicenda di Pecorelli.

La morte del giornalista segnò anche la fine di OP: l'agenzia prima e la rivista poi erano alimentate esclusivamente dalle notizie che Pecorelli raccoglieva in prima persona dalle sue fonti, allocate nel mondo politico, nella loggia P2 (cui risultò affiliato egli stesso) ed all'interno dell'Arma dei Carabinieri e dei servizi segreti italiani.[20] Nel corso degli anni si sono succedute varie ipotesi, anche il coinvolgimento di Silvio Berlusconi e della stessa loggia massonica P2.[21]

Intitolazioni
Nel 2011 la piazza di Sessano del Molise, suo paese natale, è stata intitolata a Pecorelli[22].

Note
^ O.P. - OSSERVATORE POLITICO, su giovannipetta.eu. URL consultato il 31 gennaio 2019.
^ Il giornale era edito dalla società “Grandi Maestri”; direttore era Paolo Senise.
^ L'Op e Mino Pecorelli: un giornalismo tra investigazione e mistero, su tesionline.it. URL consultato il 25 gennaio 2012.
^ Il giornalismo secondo Mino Pecorelli, su minopecorelli.wordpress.com. URL consultato il 24 gennaio 2012 (archiviato dall'url originale il 19 agosto 2012).
^ Secondo alcune fonti, il giornalista chiese ai propri referenti all'interno dei servizi segreti italiani il denaro necessario.
^ Carmine “Mino” Pecorelli, 20 marzo 1979, su mediterraneocronaca.it. URL consultato il 31 gennaio 2019.
^ Raffaella Fanelli, Il delitto Pecorelli, in La verità del Freddo, 1ª ed., Milano, Chiarelettere, 2018, pp. 192-193, ISBN 9788832960389.
^ Massimo Franco, Andreotti. La vita di un uomo politico, la storia di un'epoca, Mondadori, Milano, 2010, p. 134.
^ Raffaella Fanelli, Il delitto Pecorelli, in La verità del Freddo, 1ª ed., Milano, Chiarelettere, 2018, pp. 195-196, ISBN 9788832960389.
^ Si trattava in realtà dell'opera di un millantatore che secondo Pecorelli era stata organizzata dai servizi segreti su suggerimento dell'unità di crisi capitanata da Francesco Cossiga, circondato da Claudio Vitalone e Steve Pieczenik, capo dell'ufficio per la gestione del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato americano e uomo di fiducia di Henry Kissinger.
^ "Vitalone ordinò il delitto" ed è lite in aula a Perugia
^ Raffaella Fanelli, La versione del Freddi, in La verità del Freddo, 1ª ed., Milano, Chiarelettere, 2018, pp. 65-66, ISBN 9788832960389.
^ Filmato audio Cutolo e la Banda della Magliana, su YouTube, 15 ottobre 2019. URL consultato il 14 aprile 2020.
^ Raffaella Fanelli, Il delitto Pecorelli, in La verità del Freddo, 1ª ed., Milano, Chiarelettere, 2018, pp. 199-214, ISBN 9788832960389.
^ La Repubblica/politica: Omicidio Pecorelli Andreotti condannato, su www.repubblica.it. URL consultato il 3 aprile 2016.
^ Processo Pecorelli (PDF), su archivioantimafia.org, 3 aprile 2016.
^ ArchivioAntimafia - Processo Andreotti, su www.archivioantimafia.org. URL consultato il 3 aprile 2016.
^ Angela Marino, Mino Pecorelli, riaperte dopo 40 anni le indagini sull’omicidio del giornalista che custodiva i segreti dei potenti, su fanpage.it, 5 marzo 2019.
^ Omicidio Pecorelli, distrutta arma al centro della nuova inchiesta, su adnkronos.com, 5 dicembre 2019.
^ Pecorelli, vanta numerose ed importanti amicizie in svariati settori, tra cui in quello dell'Arma dei Carabinieri della Capitale. Egli, infatti, per ottenere sia il rilascio che il rinnovo del proprio passaporto e di quelli dei familiari, nonché della donna con la quale convive "more uxorio", della propria segretaria e degli altri collaboratori, si è sempre avvalso delle sue amicizie nell'Arma dei Carabinieri, che hanno sempre provveduto in merito presso l'Ufficio Passaporti della Questura di Roma, opponendo a tergo delle relative domande i timbri dei rispettivi Comandi dell'Arma, tra i quali figurano, prevalentemente la Segreteria Particolare del Comandante Generale dell'Arma; la Legione Carabinieri di Roma - Gruppo Roma I - Nucleo Informativo; il Capitano dell'Arma dei Carabinieri Mario Mori, il Ministero della Difesa ed il Raggruppamento Unità Speciali - Distaccamento di Roma.
^ Marco Romandini, 40 anni dopo, è ora di sapere chi ha ucciso Mino Pecorelli, su wired.it.
^ Inaugurazione di piazza, su giovannipetta.eu. URL consultato il 31 gennaio 2019.
Bibliografia
Roberto Fagiolo, Chi ha ammazzato Pecorelli, Nutrimenti, Roma 2019.
Voci correlate
Banda della Magliana
Caso Moro
Giulio Andreotti
Lista di giornalisti uccisi in Europa
Memoriale Moro
OP-Osservatore Politico
Presunti rapporti tra servizi segreti italiani e criminalità
P2
Altri progetti
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Collegamenti esterni
Raccolta rivista «Osservatore Politico (PDF), su giovannipetta.eu.
In memoria di Mino Pecorelli, su leorugens.wordpress.com.
V · D · M
Antimafia in Italia
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Cosa non riuscì a pubblicare Pecorelli, per cosa venne ammazzato veramente?





Operazione Tacito: l'omicidio del giornalista Carmine Pecorelli e i legami con il Caso Moro. Perché la Procura di Roma ha riaperto l'inchiesta
di Simona Zecchi

Carmine Pecorelli (Per gentile concessione di Rosita Pecorelli)

09 Mag 2019
A 40 anni dall'omicidio del giornalista Carmine Pecorelli e in concomitanza con "i giorni di Moro" è necessario che si riapra un processo affinché se ne individuino i colpevoli e si possa arrivare ad alcune verità sui casi che hanno attraversato il fatto. Una vittima da tempo privata della dignità che questo termine comporta. A marzo del 2019 la Procura di Roma ha riaperto l'inchiesta dopo l'ultimo sigillo apposto sul caso a Perugia nel 2003. Estrema destra la nuova pista, ma le armi sono tutte "figlie" di un'unica costante.
20 marzo 1979. Con quattro colpi di pistola calibro 7.65 munita di silenziatore, poco dopo avere lasciato la redazione del settimanale Op, Osservatorio politico, viene ucciso in Via Orazio a Roma il giornalista Carmine Pecorelli. Fa in tempo, Mino, a cominciare la manovra per uscire dal parcheggio. Quando la sua auto si accosta al marciapiede, un uomo con un impermeabile bianco si china verso il finestrino e spara. I proiettili sono due di marca Fiocchi e due di marca ‘Gevelot’, abbastanza rari in Italia questi ultimi. Pecorelli è colpito in bocca, alla testa e al torace. Il suo corpo verrà trovato pochi minuti dopo, alle 20.45, riverso sul sedile anteriore della sua Citroen, con la portiera spalancata.

Il corpo risulterà poi spostato dalla stessa sua segretaria di redazione, Franca Mangiavacca, con cui era uscito dalla redazione e da cui si separerà di lì a breve. La Mangiavacca muoverà anche i bossoli dei proiettili inquinando così del tutto la scena del crimine. Un’inchiesta affidata ai magistrati di turno, dottor Mauro e Domenico Sica che provvedono subito a perquisire casa e ufficio del giornalista, porta al coinvolgimento di personaggi come Massimo Carminati, Licio Gelli, Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti, ma tutti vengono prosciolti per non avere commesso il fatto il 15 novembre 1991. L’incriminazione soprattutto di Viezzer, Fioravanti e Gelli era scattata grazie a delle dichiarazioni di un pentito di estrema destra Valter Sordi. (Sotto, la scena dell’omicidio Pecorelli tratta dal film di Paolo Sorrentino, “Il Divo”).


Un lungo processo senza colpevoli. Quella di Carmine Pecorelli, la cui figura soltanto di recente comincia a essere lentamente rivalutata, da “ricattatore delle notizie” a giornalista che rivelava fatti inediti e poco noti, notizie-bomba, è una delle storie giudiziarie italiane più lunghe. Il PM che istruì il processo nel ’96 nella sua relazione ha scritto:

«E’ stato un giornalista appassionato e sfortunato. La sua rivista era la sua vita. Il primo colpo da cui è stato raggiunto lo ha centrato alla bocca, lo ‘strumento degli infami’. Ma se fosse stato colpito alla mano, quella con cui reggeva la penna, sarebbe morto lo stesso, perché la penna era la sua vita»

Dal 1993, dopo il primo proscioglimento, anno dell’iscrizione a giudizio di Giulio Andreotti accusato di essere il mandante dell’omicidio, l’inchiesta giudiziaria passa alla procura di Perugia perché le dichiarazioni di alcuni pentiti coinvolgono il magistrato romano Claudio Vitalone fedelissimo di Andreotti. Fino al 1999 è un susseguirsi di nuove accuse, ritrattazioni e nuovi indagati. Il 24 settembre di quell’anno la Corte di Assise perugina assolve tutti gli imputati che nel frattempo oltre ad Andreotti e Vitalone erano aumentati (i boss Badalamenti e Calò, un altro mafioso Michelangelo la Barbera e lo stesso Carminati). Nel 2002, la corte d’appello di Perugia condanna a 24 anni il senatore a vita e Badalamenti mentre assolve gli altri. Infine, nel 2003 la Cassazione rimescola tutto: tutti assolti di nuovo, il caso Pecorelli resta aperto. Fino al 2019, quando grazie a un’intervista del sito Estreme Conseguenze a Vincenzo Vinciguerra -l’ex membro di Avanguardia nazionale e Ordine Nuovo in carcere a vita – e alla richiesta del legale di Rosita Pecorelli, sorella del giornalista ucciso, la procura di Roma riapre nuovamente le indagini. A indagare su quanto segnalato dall’avvocato Valter Biscotti alla Procura è ora la Digos che sta svolgendo nuovi accertamenti balistici su alcune armi sequestrate a Monza nel 1995 ad un soggetto in passato esponente di Avanguardia Nazionale, Domenico Magnetta. Si tratta, tra le altre, di una pistola Beretta 7,65 e di quattro silenziatori artigianali. Secondo quanto riferito da Vinciguerra già nel 1992, in un verbale ritrovato sempre da Estreme Conseguenze, l’arma che era stata tenuta in un deposito dal Magnetta era la stessa usata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli.

«Adriano Tilgher era preoccupato perché Domenico Magnetta lo stava ricattando. Magnetta pretendeva di essere scarcerato… minacciava di consegnare le armi che aveva avuto in deposito dal gruppo di Avanguardia nazionale. E fra quelle armi c’era la pistola usata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli».

Avanguardia Nazionale. L’organizzazione neo-fascista è stata sciolta nel 1976 dopo che una sentenza del Tribunale di Roma aveva condannato i suoi aderenti in base alla legge Scelba che vieta la ricostituzione di partiti neofascisti dal ’52 e di cui oggi si parla molto. Magnetta, oggi speaker di Radio Padania ai microfoni di Radio Padania Libera, muove i primi passi insieme al boss di “Mafia Capitale” Massimo Carminati, come spiega L’Espresso.

Magnetta ha anche fatto parte dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari), l’organizzazione armata di Valerio e Cristiano Fioravanti, e Carminati.

Alcuni punti oscuri della vicenda e il libro di Valter Biscotti Pecorelli deve morire. Le inchieste a cui aveva lavorato e stava lavorando Mino Pecorelli erano numerose – la più nota mai pubblicata e di cui emerse la bozza di copertina dopo la morte è quella relativa ad Andreotti, i famosi “Assegni del Presidente”. E i suoi rapporti con i più svariati ambienti, dalla P2 (alla quale fu anche iscritto ma che poi mise alla berlina nei suoi articoli insieme a Licio Gelli) alla magistratura, la Guardia di Finanza, i servizi segreti e i Carabinieri gli avevano attirato molte critiche e diffidenze, tanto da rendere difficile la sua collocazione nell’alveo dei giornalisti uccisi. Solo nel 2008, l’Unione dei cronisti italiani lo inserì nel libro che rievocava la vita e l’impegno di tutti i giornalisti italiani che nel dopoguerra sono stati uccisi o feriti “per la loro fedeltà all’imperativo etico professionale di riferire la verità sostanziale dei fatti”. Poi più nulla e il silenzio tornò a calare fino appunto al 2019 con la notizia dell’apertura della nuova inchiesta.

A caratterizzare l’intero procedimento giudiziario sul caso è stato l’approccio della magistratura quasi tutto improntato sui soli moventi. E’ quello che sostiene l’avvocato Valter Biscotti nel suo libro da poco dato alle stampe Pecorelli deve morire (Baldini+Castoldi 2019, pagg. 244 Euro 17,00).


Operazione Tacito – DIA identikit

Non si tratta di una inchiesta ma del resoconto che Biscotti fa della sua esperienza come legale di uno degli imputati al tempo (il boss di Cosa Nostra con tentacoli a Roma negli anni 70-80 Pippo Calò). Oggi l’avvocato rappresenta la sorella del giornalista ucciso Rosita. Nel libro anche elementi inediti o poco considerati durante il periodo istruttorio e successivamente. Come a esempio l’identikit accompagnato da un verbale che riporta la testimonianza anonima sulla presenza di un uomo visto aggirarsi nei pressi della redazione di OP in Via Tacito, quartiere Prati di Roma. Un identikit che riporta un particolare curioso: la provenienza meridionale dell’uomo. Sull’identikit torneremo presto. Il lavoro dell’avvocato Biscotti è importante, sebbene non del tutto condivisibile, per molte ragioni: il suggerimento concreto e prezioso di ricominciare dagli elementi giudiziari, dai fatti e non dai moventi; il dubbio che il pentito Tommaso Buscetta non abbia detto tutto il vero o che abbia mescolato verità e bugie vista la credibilità di cui ormai godeva; la possibilità di altre piste che sono indicate. Anche perché fare tabula rasa di un caso così complesso e manipolato resta l’unica cosa da compiere per chi vuole andare a fondo alla storia tutta.

Nell’ottobre del 1987, in piena istruttoria, succede un fatto che contribuisce a far affondare l’inchiesta. Il reperto contenente i bossoli rinvenuti sul luogo dell’omicidio viene manomesso e uno dei bossoli Gevelot sostituito. I giornali (Corriere della Sera, Il Giornale ma anche agenzie di stampa specifiche come Stampa Giudiziaria) parlano di un’azione della provvidenza visto che quel bossolo sostituito avrebbe portato alla incriminazione di Fioravanti, Viezzer e Gelli. Ma la verità è che l’azione è doppiamente depistante e vedremo perché a breve.

La questione calabrese. Preso da solo l’elemento dell’identikit può anche non voler dire nulla o poco, o può rivelarsi soltanto una suggestione tanto più che la fonte della testimonianza è rimasta anonima. A stendere il verbale sull’identikit però fu il colonnello Antonio Varisco, ucciso il 13 luglio 1979 da un commando brigatista, pochi giorni prima della scoperta di un covo nella località della Sabina non lontano dal lago della Duchessa il cui comunicato era stato usato per depistare. Particolare importante da prendere in considerazione è una delle auto utilizzate per l’agguato al colonnello che viene lasciata in via Ulpiano, a Roma, accanto a un negozio di tessuti usati la cui titolare era Ina Maria Pecchia intestataria del covo di Torre in Sabina vicino al lago che, come proverà una inchiesta di quel periodo, era frequentato da terroristi e ‘ndranghetisti: il casale di Vescovìo. La Pecchia ebbe anche una relazione sentimentale con Valerio Morucci prima che questi si legasse alla Faranda, fatto che qui riferiamo solo perché è utile a spiegare i legami con il caso.

Il 5 maggio 1978 Pecorelli fa scrivere sul settimanale OP riguardo alla pista calabrese del Caso Moro e a sequestro in corso:

«La pista calabrese e mafiosa parte dalla scoperta del covo brigatista di via Gradoli e dai documenti rinvenuti in quell’appartamento, che avrebbero resa possibile la scoperta quasi immediatamente successi-va dei due altri covi-deposito parabrigatisti di Torvaianica e di Licola, saldando in una ipotesi unica la nuova logica degli inquirenti. Infatti, immediatamente dopo la scoperta del deposito di armi ed esplosivi di Torvaianica, il sostituto procuratore Savia, che affiancava Infelisi nell’inchiesta, partiva misteriosamente per la Calabria, dove, si noti bene, si era già recato lo stesso Infelisi per un breve viaggio misterioso che il magistrato, costretto dalla stampa a giustificarlo, definì determinato da ragioni familiari».

La scia dei covi indicati da Pecorelli anticipa la consistenza della pista della ‘ndrangheta già abbastanza forte, che entra anche negli omicidi Pecorelli e Varisco. L’ultima persona che parlerà con il giornalista l’ultimo giorno della sua vita è un uomo entrato molto raramente nelle ricostruzioni riguardanti l’omicidio: Vincenzo Cafari.

«Uomo di raccordo tra imprenditori, faccendieri e politici. Agente di una società romana di assicurazioni, nei primi anni Sessanta Cafari entra nell’orbita dell’uomo politico più rampante di Reggio [Calabria]: Sebastiano Vincelli, classe 1930, messinese trapiantato in Calabria. E ne diventa ben presto segretario particolare. A soli 23 anni Cafari ottiene la carica di Commissario provinciale del Movimento giovanile della dc. Nel corso di questa cavalcata politica, Vincelli [a cui Cafari risponde] fatalmente entra in contatto con il mondo opaco delle famiglie mafiose e della massoneria. Secondo i magistrati – per conto della dc reggina – è lui il garante dell’affare multimiliardario riguardante il completamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Trasferisce miliardi dalle casse dello Stato alle casse delle cosche (fonte Mario Guarino, Poteri segreti e criminalità. L’intreccio inconfessabile tra ‘ndrangheta, massoneria e apparati dello Stato Dedalo edizioni 2004).

Sull’uomo in Parlamento si appronta anche una interrogazione. Nel 1997 fu sentito dalla Procura di Perugia negando di aver visto Pecorelli il 20 marzo, ma le testimonianze sia di uno dei collaboratori di OP, Paolo Patrizi, sia di altri contestano questa posizione.


La scena del delitto Pecorelli

Le armi della ‘ndrangheta. In un’udienza del Processo Pecorelli il boss della NCO Raffaele Cutolo che, come abbiamo scritto, ha più volte parlato del suo ruolo (mancato) nella liberazione di Moro avrà uno scambio con l’allora difensore di Claudio Vitalone, l’avvocato Carlo Taormina che cercherà di far emergere delle contraddizioni sulle sue dichiarazioni, queste:

«Mi chiese (Nicolino Selis esponente della Magliana e referente della NCO a Roma per Cutolo ndr) una pistola perché dice che dovevano ammazzare un giornalista, con il silenziatore, io non ce l’avevo, dissi: “Rivolgiti a Roma”, che Enzo Casillo, anche lui era sempre latitante, ma per poche cose, “rivolgiti ad Enzo, se non ce l’ha lui te la fai dare da Paolo De Stefano”. Punto e basta.»

Paolo De Stefano è stato il capo storico della cosca omonima, ucciso durante la guerra di mafia del 1985 – cosca ai vertici di un sodalizio di una struttura riservata. Taormina chiede conto delle date di quell’incontro con Selis, visto che Cutolo lo colloca – dopo un iniziale tentennamento – a due giorni prima che Moro fosse rinvenuto senza vita. Non si comprende come mai Taormina sottolinei la “contraddizione” fra le date e il periodo di latitanza di Cutolo (5 febbraio 1978-15 maggio 1979) visto che Cutolo ha sempre affermato che la richiesta di intervenire per liberare Moro rientra nel periodo della latitanza, così come il sequestro e l’omicidio vi rientrano e così come vi rientrano sia l’incontro con Selis (presunto incontro avvenuto il 5 maggio 78) sia l’omicidio Pecorelli (20 marzo 79). E’ un fatto che la corte da questi elementi riterrà Cutolo non credibile. Perché? Intanto è chiaro che se fosse stata davvero Cosa Nostra a intervenire per ammazzare il giornalista non avrebbe certo avuto bisogno di armi di ‘ndrangheta o di altri; è altrettanto chiaro invece che nell’arsenale rinvenuto presso il Ministero della Sanità a Roma in Via Listz, custodito da un complice che lavorava al suo interno, vi confluivano armi della Banda della Magliana e armi dei Nar che a loro volta anche si servivano della ‘ndrangheta (così come a tempo debito se ne serviranno i BR e altre organizzazioni eversive minori). E’ il collante o meglio la costante, un servizio a chi ne ha bisogno. In un’udienza del processo a Perugia, i periti balistici confermano il contenuto di una consulenza compiuta nel 1984 durante la quale vennero fatto il confronto fra i proiettili ”Gevelot”, trovati nel deposito, e quelli utilizzati per uccidere Pecorelli. Dalla perizia, basata soprattutto sullo stato di usura del punzone, ”emerge – riferisce la procura di Perugia – che i due proiettili ‘Gevelot’, utilizzati per uccidere Pecorelli provenivano dallo stesso lotto di cartucce al quale appartenevano anche i proiettili sequestrati presso il ministero della sanità’.

In alcune udienze di Perugia a parlare di coinvolgimento della ‘ndrangheta anche il pentito Giacomo Lauro che riferì di aver ricevuto l’incarico dell’omicidio presso la sede del Comando generale delle fiamme gialle a Roma. Lauro parlò di molte cose, anche di Cafari. Anche una delle armi requisite in Via Gradoli il 18 aprile del 78 (giorno della scoperta del covo di Via Gradoli e del mancato blitz in Torre in Sabina) è stata usata da camorristi, e proveniva dall’arsenale calabrese. Mentre altre armi rinvenute nel 2002 in una santa barbara di ‘ndrangheta sono sotto esame da parte della procura di Roma in riferimento al Caso Moro da un po’ di tempo. La questione dirimente che avviluppa tutto e ne spiega le contraddizioni è una: ognuno dei collaboratori credibili che ha raccontato la sua parte di verità in apparente contraddizione tra loro ha riferito ciò che era per ognuno di loro possibile riferire, ciò che per il livello che loro compete potevano sapere. La struttura riservata che ha operato nell’omicidio Pecorelli e nel Caso Moro, come in altri eventi, appartiene a un livello diverso dal resto dei collaboratori. E’ la forza dello schema utilizzato in questi casi.

Rileggendo le carte del processo e le testimonianze di Paolo Patrizi, a esempio, il più stretto collaboratore di Pecorelli, sono tre gli argomenti sui quali Pecorelli stava aspettando documenti importanti inediti: il memoriale Arcaini (Giuseppe, direttore dell’Istituto di Credito delle Casse di Risparmio italiane – Italcasse – il cui scandalo anticipò di 15 anni Tangentopoli); il memoriale di Sindona (Michele, faccendiere mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli che indagava sul sistema da lui creato nel mondo finanziario) e qualcosa di grosso che riguardava Moro e il sequestro di Via Fani. Pecorelli aveva anticipato già alcune pagine del memoriale Moro invece. Il pezzo più importante doveva arrivare da Milano – riferirà Patrizi a caldo il 22 marzo 79 agli inquirenti – da una persona che doveva venire in aereo, ma che poi prese il treno per uno sciopero. Cosa doveva portare con sé questa persona? Patrizi risponde che non lo sapeva. In effetti Pecorelli non riferiva le cose più importanti e pericolose alla redazione.

In questo lungo excursus mancano molti tasselli che è impossibile riferire tutti qui. Quelli più importanti indicanti una nuova possibile pista, però, restano fissati qui insieme alla domanda che più preme oltre a quella sul colpevole: cosa non è riuscito a pubblicare Carmine Pecorelli, per cosa è stato ammazzato veramente?



Simona Zecchi
Simona Zecchi
Simona Zecchi giornalista d'inchiesta e autrice per Ponte alle Grazie e La nave di Teseo. Scrive su Il Fatto Quotidiano e ha collaborato con la emittente televisiva europea Euronews. Ha pubblicato i libri inchiesta Pasolini, Massacro di un poeta (2015-2018) e la Criminalità servente nel Caso Moro (2018). Recente il suo saggio uscito per Marsilio sul Pasolini giornalista (2020). E' in uscita il suo terzo libro per Ponte alle Grazie.

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CAT_IMG Posted on 11/2/2022, 13:30
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Antonio Varisco, quarant’anni dopo rimane

l’interrogativo: perché proprio lui?


SEGRETI ITALIANI
Tommaso Nelli
10 Gennaio 2020
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Una storia con ancora troppe anomalie. Il 2019 da poco tramontato si è portato dietro anche la quarantennale commemorazione di Antonio Varisco, tenente colonnello dei Carabinieri presso il Tribunale di Roma, ucciso nella Capitale la mattina del 13 luglio 1979. Un delitto che seppur annoveri una verità giudiziaria – responsabilità delle Brigate Rosse e condanna, tra “Moro-bis” e “Moro-ter”, per i cinque componenti del commando omicida – si configura come una delle tante “morti sommerse” della storia d’Italia.

Ovvero una di quelle vicende che, dopo un’inziale quanto inevitabile attenzione mediatica, è scivolata nell’oblio e vi è rimasta sebbene nei suoi cieli graviti più di un interrogativo. Che nel caso dell’ufficiale dalmata (era nato a Zara il 29 marzo 1927) sono frutto delle contraddittorie ricostruzioni brigatiste, di episodi mai chiariti e d’informazioni recentemente apprese.

Varisco fu ucciso a pochi giorni dalla pensione e dal suo successivo trasferimento nel Nord Italia come responsabile della vigilanza per l’azienda farmaceutica Farmitalia-Carlo Erba. Possibile che i brigatisti, maestri del pedinamento e del reperimento informativo sulle loro vittime, non fossero a conoscenza di questo particolare? In aula prima dissero che ne erano all’oscuro salvo poi affermare che lo sapevano, ma non gli avevano dato credito. Preda di evidenti contrasti anche la decisione dell’operazione. L’inchiesta e l’eliminazione sono collocate quando dopo l’azione contro l’allora giornalista RAI Pierluigi Camilli, ammanettato dalle BR al cancello di casa con cartello al collo il 14 febbraio 1979, quando invece da compiersi entro la fine del 1978.

Fumi anche sul movente. “Boia e torturatore” e “ce le ricordiamo impegnarsi personalmente nel pestaggio in aula delle compagne Maria Pia Vianale e Franca Salerno” fu scritto nel volantino di rivendicazione con la stella a cinque punte arrivato quattro giorni dopo l’assassinio. Se già la tempistica è insolita, la celerità brigatista lo voleva il giorno stesso, quelle accuse erano infondate: il colonnello era riconosciuto dagli imputati come personaggio corretto e rispettoso; e il processo ai NAP (Nuclei Armati Proletari) nei quali militavano anche le due donne, iniziato nel maggio 1979, come unico fatto di rilievo aveva registrato la revoca degli avvocati da parte degli imputati e il rinvio delle udienze a data da destinarsi. Quindi da dove nacquero le parole delle BR? Dall’ignoranza dei fatti? Dal pretesto per trovare una qualche giustificazione alla propria furia omicida? O da altro ancora?



Davanti a un panorama così ombroso, è doveroso spostare l’attenzione sugli ultimi giorni del colonnello. Non si è mai saputo chi fosse l’uomo in abito scuro che l’11 luglio 1979, sceso da una Fiat 130 (al tempo auto ministeriale), chiese con insistenza al carabiniere Giuseppe Coderoni, in servizio presso la stazione di piazza del Popolo, se conoscesse il civico dell’abitazione di Varisco (situata a 400 metri, in via del Babuino) e se nei pressi vi fossero dei garage. Chi era quell’individuo? Perché tanto interesse? E perché rendersi così visibile per un’informazione ottenibile per vie molto più discrete?

A questo punto lecito quindi chiedersi: chi era Antonio Varisco? Una domanda che durante le indagini, forse anche per l’illimitato credito goduto dalla sua figura dentro il palazzo di Giustizia, passò in secondo piano. Fisico atletico, bella presenza, era un personaggio versatile con ottimi contatti col mondo dell’arte, della magistratura, dell’avvocatura e delle ambasciate. Ma non solo. Era anche amico di Eugenio Cefis, uno degli uomini più importanti dell’economia italiana del periodo, presidente prima dell’ENI e poi della Montedison, che, secondo quanto dichiarò in dibattimento Cristina Nosella (ultima compagna di Varisco), affittava a prezzo simbolico al colonnello la sua casa di Sperlonga per le loro vacanze.

E a conferma di questo consolidato rapporto, i due furono visti assieme in più di un’occasione nel cortile della “SNAM”, a S. Donato Milanese, alla metà degli anni Settanta. Un’informazione appresa di recente da fonte attendibile, che fa sorgere altri quesiti: quali erano la frequenza e le ragioni di quegli incontri? E uno di loro avvenne anche il giorno prima della sua morte, quando sappiamo con certezza che Varisco salì nel capoluogo lombardo? Oppure vi si diresse per altri motivi?



Infine, l’ufficiale era anche tra le principali fonti del giornalista Mino Pecorelli e amico del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Pecorelli sulla sua rivista OP – Osservatore Politico diede molto spazio al “caso Moro” all’indomani dell’agguato di via Fani la mattina del 16 marzo 1978. Dove Varisco fu uno dei primi ad arrivare. Dalla Chiesa, invece, ideò il blitz che il 1° ottobre di quello stesso anno, a Milano, sgominò il covo brigatista di via Monte Nevoso, nel quale fu recuperata parte del “memoriale Moro”. Pecorelli fu ucciso pochi mesi prima di Varisco (20 marzo 1979), Dalla Chiesa qualche anno più tardi (3 settembre 1982). Soltanto una macabra coincidenza?

Domande aperte, interrogativi irrisolti e tasselli mancanti per un mosaico che dopo quarant’anni, se si aspira a una verità storica, merita invece di essere definito. Una volta per tutte.

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Roma quarant'anni fa, venerdì 13 luglio 1979. Sono le 8,20 del mattino, e il Tenente Colonnello dei Carabinieri Antonio Varisco, proveniente dall'abitazione di via del Babuino alla guida della sua Bmw targa Roma K37128 sta percorrendo il Lungotevere Arnaldo da Brescia per recarsi al lavoro a piazzale Clodio.

Antonio Varisco, nell'Arma dal 1951, comandava dal 1976 il "Reparto Servizi Magistratura di Roma", che da qualche tempo era ospitato nella allora nuova sede del Tribunale romano. Ma da oltre vent'anni quell'ufficio, in precedenza dal nome "Nucleo traduzione e scorte del Tribunale", era saldamente nelle mani dello stesso ufficiale dei Carabinieri, avendo comandato dal 1957, appena nominato Capitano, quella che ancora si chiamava "Tenenza di Roma-Tribunali".

In quella calda mattina di 40 anni fa, da un'auto che lo seguiva con 5 persone a bordo e che poi si affiancò alla sua vettura, mentre venivano lanciati alcuni fumogeni spuntò un fucile a canne mozze da cui furono esplosi 18 colpi che uccisero l'ufficiale con inaudita ferocia. La ricerca della matrice dell'assassinio sollevò subito molti dubbi, soprattutto per l'arma usata, un fucile a canne mozze caricato a pallettoni: la modalità di un agguato più mafioso che terroristico.

Ma l'omicidio, un'ora e mezzo dopo fu rivendicato dalle Brigate Rosse con una telefonata anonima all'agenzia Ansa. Ancora tre giorni e fu fatto trovare un volantino con il caratteristico simbolo della stella a 5 punte sul quale si leggeva che Antonio Varisco era stato ucciso quale "simbolo" dello Stato, poiché ex collaboratore del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ed elemento di raccordo tra la magistratura, le forze dell'ordine e le carceri.

Nel 1982, il brigatista romano Antonio Savasta, "pentito" subito dopo il suo arresto a Padova a seguito del blitz che portò alla liberazione del Generale americano James Lee Dozier, comandante NATO nell'Europa meridionale sequestrato a Verona il 17 dicembre 1978 e per 42 giorni prigioniero dei terroristi, si proclamò autore dell'attentato.

Nel 2004, dopo la cattura, anche Rita Algranati ex moglie del brigatista Alessio Casimirri, già condannata all'ergastolo nel 1988 per l'omicidio del giudice Riccardo Palma e del Consigliere DC Italo Schettini nonché coinvolta nel rapimento di Aldo Moro, confessò la sua partecipazione all'omicidio. Rimangono sconosciuti gli altri membri del gruppo di fuoco che si suppone fosse composto appunto da almeno cinque persone, più altri possibili "fiancheggiatori".

Un attentato i cui "contorni" dopo quarant'anni sono ancora avvolti dalla nebbia. Per vent'anni e oltre il Tenente Colonnello dei Carabinieri Antonio Varisco, nato a Zara il 29 marzo 1927, si può affermare che sia stato il vero "Comandante dei Tribunali di Roma". In quel vasto periodo di ombre e di misteri irrisolti dominato dalla "strategia della tensione", dai tentativi di colpo di Stato, dal terrorismo di Destra e di Sinistra, dalle vecchie e nuove organizzazioni criminali, dalle massonerie, dai Servizi deviati, dallo spionaggio, dagli omicidi eccellenti e da una classe politica protagonista di numerosi e grandi scandali su cui il più delle volte non si è riusciti a fare piena chiarezza.

"Tonci", per le sue cinque sorelle e per i famigliari più stretti, era l'uomo che sapeva davvero tutto e conosceva tutti. Così certo non pochi i potenziali "nemici" che avrebbero visto con favore una sua "uscita di scena". Il Tenente Colonnello dei Carabinieri Varisco cadde vittima di un agguato due giorni dopo l'uccisione dell'avvocato milanese Giorgio Ambrosoli, liquidatore delle banche di quel Michele Sindona legato alla Mafia e alla P2 e otto giorni prima di quella del Capo della Mobile di Palermo Boris Giuliano assassinato da "Cosa Nostra". Investigatore, Boris Giuliano con cui Varisco aveva "contatti" e che aveva appena incontrato a Milano, impegnato nell'indagine sul bancarottiere siciliano e sulla morte di Ambrosoli. .

Per essere ucciso quando l'Ufficiale dei Carabinieri stava per lasciare l'Arma pronto ad assumere un incarico in una importante industria privata. Decisione, come avrebbero riferito poi alcuni "amici", maturata in quanto "stanco e preoccupato". Antonio Varisco è stato insignito della Medaglia d'Oro al Valor Civile alla memoria e il Comune di Roma gli ha intitolato una strada nei pressi del Tribunale penale di piazzale Clodio.












Edited by barionu - 14/2/2022, 20:23
 
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CAT_IMG Posted on 21/4/2024, 19:17
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