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IL CASO TOBAGI, via fracchia genova

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CAT_IMG Posted on 25/5/2023, 10:27
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BISCIONE ---- IL MEMORIALE
ED COLETTI 1993

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L'assassinio Tobagi

e quella connessione con le carte di Moro


amduemila-1 29 Maggio 2020


tobagi walter moro aldo da aldomoro eudi AMDuemila






La pretesa di giustizia e verità di Benedetta Tobagi

Ieri era il giorno in cui ricorreva l'anniversario dell'uccisione di Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera, ucciso 40 anni fa, con cinque colpi di pistola, mentre usciva dalla sua casa in via Salaino, vicino al carcere di San Vittore a Milano. Aveva 33 anni. Gli sparò un commando della Brigata XXVIII Marzo, un gruppo di giovani terroristi di estrema sinistra che speravano con un’azione eclatante di farsi riconoscere dalle Brigate Rosse, il più noto gruppo terroristico italiano.

Quarant'anni dopo sono molti ancora i quesiti aperti sulle motivazioni che portarono a quell'assassinio. La figlia del giornalista, Benedetta Tobagi, da anni lotta per giungere ad una verità e ieri, la giornalista Maria Antonietta Calabrò, sull'huffingtsonpost ha ribadito la necessità di aprire gli archivi dell’antiterrorismo per approfondire lo scenario di quel delitto. In parte questo è stato fatto negli ultimi anni con la desecretazione voluta dal Governo Renzi del 2014 degli atti di Ministeri, Servizi segreti, Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza, relativi ad atti di strage e terrorismo.
Scrive la Calabrò che in quei documenti, versati alla commissione di inchiesta Moro2, si "dimostrano possibili connessioni tra l’assassinio di Tobagi e il caso Moro".

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Si circonda che Tobagi fu ucciso due mesi dopo l’irruzione nel covo brigatista di Genova in via Fracchia da parte degli uomini del generale dalla Chiesa, il 28 marzo 1980. E che proprio la strage di via Fracchia fu una degli ultimi importanti reportage di Tobagi, prima della morte.


La Calabrò mette in evidenza che Tobagi avrebbe avuto un "ruolo nella 'trattativa' milanese che Craxi instaurò durante il sequestro Moro per la salvezza dello statista Dc e che faceva perno sul generale dalla Chiesa. Una 'trattativa' distinta da quella 'romana' che coinvolse Piperno, Morucci e Faranda", e che è emersa proprio dal lavoro della Commissione Moro2.

Dell'impegno di Tobagi per salvare Moro ha parlato Umberto Giovine, ex Pse e militante nella Federazione milanese, con incarichi nell’ambito dell’Internazionale socialista e direttore di "Critica Sociale”, sentito dalla Commissione.

Un'altra traccia è data dalle parole di Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, che nel numero 1 di "Pagina" del 25 febbraio 1982, e nel periodico "Illustrazione Italiana”, n. 32, luglio 1986 riportò quanto avrebbe detto il procuratore della Repubblica di Genova


, Antonio Squadrito sull’irruzione nel covo brigatista di via Fracchia: "La verità è che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi... Soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc, al Paese”.

Purtroppo, però, quelle cartelle di Moro, che sarebbero state indicate dal magistrato, non compaiono agli atti del processo penale per la strage di via Fracchia.

E sono questi gli aspetti da cui è ripartita la Commissione Moro 2.

Nell'articolo si ricorda che anche "il presidente della Commissione Stragi (attiva fino al 2001), Giovanni Pellegrino, aveva elaborato l’ipotesi - che durante il sequestro Moro - ci fosse stato in realtà un doppio ostaggio: Moro, appunto, ma anche numerosa documentazione “sensibile” in mano alle Brigate Rosse (il memoriale completo, interrogatori...)". Elementi nuovi sarebbero poi emersi nei primi anni Duemila, quando sul Corriere Mercantile venne pubblicato un articolo con i ricordi raccolti dalla ″gente del civico 12″, tra cui quello di ″un uomo misterioso,

forse Riccardo Dura, che scavava con un piccone nell’erba alta delle aiuole”.




Sul giardino si è concentrata la Commissione Moro 2, perché "incredibilmente non trova esplicita menzione negli atti processuali, né viene evidenziato nella ricostruzione della planimetria dell’appartamento”.

E la Calabrò evidenzia come "anche lo scavo di un’ampia buca nel giardino del covo non fu riferito negli atti giudiziari del 1980,

ma è stato esplicitamente rievocato solo il 15 marzo 2017 nel corso delle dichiarazioni a Palazzo San Macuto dal pm Filippo Maffeo, intervenuto sul posto in qualità di pubblico ministero di turno, la mattina del 28 marzo 1980.

Il magistrato ha indicato con certezza il particolare che in giardino il terreno appariva smosso da poco tempo, precisando le rilevanti dimensioni dello scavo, corrispondente, a suo avviso, al volume di tre valigie di media grandezza.

Uno scavo immediato e verosimilmente mirato non poteva che scaturire dalla disponibilità di indicazioni precise. Quell′operazione dovette durare ore ed ore e terminare, appunto, prima dell’arrivo del magistrato di turno".

Altro elemento di mistero, portato in evidenza dall'articolo dell'huffingtonpost è la vicenda che riguarda Volker Weingraber (alias Karl Heinz Goldmann), un agente tedesco occidentale che operò in Italia durante il sequestro Moro e che a partire dal 1978 viveva in Italia nello stesso palazzo dove abitava Tobagi. Vi sarebbero delle informative del Sisde, desecretata dall’Aise (l’attuale servizio segreto estero) nel giugno 2017, in cui si dà atto del suo ruolo.
In particolare in un'informativa si dà atto dei suoi contatti con il terrorista Oreste Strano e un gruppo che preparava il sequestro di un imprenditore svizzero.
Tra i contatti, in un documento del 6 novembre 1978, si precisava anche che "la fonte infiltrata ha avuto contatti con Aldo Bonomi il quale gli avrebbe confermato di essere in grado di procurare armi e documenti falsi per sviluppare attività eversive″. La fonte - continua la citazione - "ritiene che Bonomi sia un provocatore e un confidente della Polizia. Sarebbe stato isolato dalle Br perché ha sempre evitato di assumersi compiti rischiosi nell’ambito dell’organizzazione”.


E in un'altra lettera del 2 novembre 1990, inviata dall’ammiraglio Martini, capo del Sismi, al capo della Polizia, prefetto Vincenzo Parisi, oggi desecretata, si svela che la fonte a cui si fa riferimento in quegli atti era proprio Weingraber.

Dalle carte emergerebbe anche che questi entrò in contatto, tramite Strano (che aveva una compagna tedesca), anche con Nadia Mantovani, "cioè la persona che aveva avuto l’incarico di battere a macchina il Memoriale Moro, e che prima del suo arresto, a Novara frequentava una radio di sinistra extraparlamentare collegata alla Rote Armee Fraktion". Piste, carte, documenti, quesiti e sospetti. Elementi che vanno approfonditi lungo il cammino per giungere alla verità.

In foto: Roma, 31 ottobre 1974. Walter Tobagi con Aldo Moro






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COLONNELLO BONAVENTURA


www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/1...-carte/1676011/



www.archivio900.it/it/articoli/art.aspx?id=5279



a morte del colonnello Umberto Bonaventura, del Sismi, occorre assegnare una protezione anche domiciliare a tutti coloro che sono a conoscenza di particolari segreti, in particolare agli agenti Ossi (operatori speciali dei servizi segreti chiamati anche Sezione K) ed a quelli della Gladio militare. A sostenerlo e' Falco Accame, presidente dell' Anavafaf (Associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle forze armate). Secondo Accame, "la deposizione del colonnello Bonaventura alla commissione Mitrokhin avrebbe certamente riportato in evidenza il contenuto delle carte di Moro rimaste segrete. E' dunque attorno a questo tema che occorre centrare l' attenzione, perche' il colonnello era certamente una delle persone che di tali carte era a conoscenza, come lo erano Pecorelli ed il generale Della Chiesa". Il segreto delle carte di Moro, rileva il presidente dell' Anavafaf, "consisteva nel fatto che nell' ambito dei servizi segreti e di Gladio esistevano degli operatori armati in contrasto con quanto previsto dalla Costituzione, tanto che due recenti atti della magistratura hanno considerato come eversive all' ordine costituzionale le operazioni degli Ossi". Di questo corpo speciale, prosegue, "erano a conoscenza persone che in essi avevano operato, come il maresciallo Vincenzo Li Causi, che mori' in Somalia colpito da una pallottola vagante, proprio prima che deponesse ad un processo. E' dunque ovvio - conclude - che la morte di Bonaventura in prossimita' di una deposizione importante non possa non far riaffiorare una serie di interrogativi che mai hanno avuto una risposta".


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LAURO AZZOLINI


https://it.wikipedia.org/wiki/Lauro_Azzolini


www.albadeifuneralidiunostato.org/tag/lauro-azzolini/






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VIA FRACCHIA 12

https://it.wikipedia.org/wiki/Irruzione_di_via_Fracchia


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www.ilsecoloxix.it/genova/2017/08/...moro-1.32077339


Due registrazioni e una fossa, un nesso tra i Br di via Fracchia e il caso Moro


ALESSANDRA COSTANTE

10 Agosto 2017 alle 08:31







Genova - Questa è la storia di due audiocassette e di una fossa scavata in un piccolo giardino.



Sono echi dal passato e secondo le carte in possesso della Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro, (ri)mettono Genova al centro della scena degli anni più bui del dopoguerra. La vicenda è quella delle Brigate Rosse genovesi, molto legate a Mario Moretti, del loro presunto coinvolgimento nel rapimento e nella prigionia del presidente della Dc e, forse, custodi di una parte del memoriale di Moro, mai ritrovato in originale.

Uno strano gioco delle carte che, a distanza di 39 anni, la commissione parlamentare di inchiesta sta ancora cercando di decifrare tra ricordi che sbiadiscono, memorie che zoppicano, ma soprattutto «lo sbarramento di chi sostiene che sul caso Moro non ci sia più niente da dire» osserva Federico Fornaro, senatore di Articolo 1- Mdp e segretario della commissione. «Agli atti della commissione ci sono documenti che saldano ulteriormente i rapporti tra i brigatisti genovesi e romani e aprono nuovi scenari sulle carte di Moro» afferma Fornaro. Ma non solo quello.

Si scopre che agli atti della commissione e quindi della «verità storico giuridica» c’è anche lo scavo, la buca di un metro per un metro, che i carabinieri del generale Dalla Chiesa fecero nel giardino del covo di via Fracchia, a Genova: «Diventa non inverosimile che sottoterra fossero nascoste le carte di cui ha parlato il giudice Carli nella sua audizione», è la suggestione che proviene dal segretario della commissione.





Voci dal passato


Il tassello iniziale è del 2015 quando la Commissione parlamentare affida al Ris di Roma l’esame di parecchio materiale: gli abiti che indossava Aldo Moro quando il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia, è stato ritrovato nel bagagliaio della Renault Rossa in via Caetani; oggetti rinvenuti nel covo di via Gradoli: spazzolini da denti, scarpe, pinzette su cui cercare il dna per confrontarlo con quello dei brigatisti condannati e capire davvero chi era stato sulla scena; una radio, una macchina da scrivere. E ci sono anche 18 audiocassette “stereo sette”, quelle in uso negli anni Settanta. Sono state ritrovate in vari covi: via Gradoli, via delle Nespole e in viale Giulio Cesare a Roma. La speranza della commissione era di trovare le tracce degli interrogatori di Moro. La voce del presidente della Dc non c’è, ma da due audiocassette repertate in viale Giulio Cesare ci sono tracce che portano a Genova. La più interessante è quella su cui, secondo il Ris, è stata incisa una voce maschile che parla “con accento piemontese o ligure”. Ecco la trascrizione: “Attenzione, messaggio n.13 delle Brigate Rosse: Aldo Moro è stato giudicato dal tribunale del popolo. Questa mattina, alle ore 12, è stato giustiziato. Potete trovare il suo corpo attorno al Forte di San Martino. Fine messaggio”. Per i carabinieri si tratta del Forte di San Martino a Genova.

La seconda cassetta, invece, è più complicata: è la registrazione dell’inizio della collaborazione con le forze dell’ordine di una donna genovese, che parla davanti «ad un uomo anonimo che vanta “conoscenze” al Ministero dell’Interno», spiega ai parlamentari Luigi Ripani, comandante del Ris di Roma. «Che indizi sono? Intanto sono documenti che interessano Genova e che vengono stranamente ritrovati a Roma e questa è già una prima cosa - osserva Fornaro - La seconda cassetta ci racconta quanto meno di una “talpa” negli ambienti investigativi, mentre la prima potrebbe essere un forte indizio che colloca i genovesi sulla scena della prigione di Moro». A sostenerlo, nel 1979, era stato il settimanale di area socialista Critica Sociale che, ad un anno dalla morte di Moro, parlava di un «cambio della guardia nel “carcere del popolo”: carcerieri “genovesi” con il compito di boia, al posto dei romani». «I rapporti tra Mario Moretti e i genovesi erano molto stretti - prosegue Fornaro - Se avessero avuto un ruolo attivo nelle ultime ore di Moro, chi dice che Moretti non avrebbe potuto affidare proprio a loro carte importanti?».



I bravi ragazzi di via Fracchia


E sull’onda delle domande che si sono poste i membri della commissione d’inchiesta si arriva così al covo di via Fracchia, a Genova, dove il 28 marzo 1980 i carabinieri fanno irruzione uccidendo quattro brigatisti. Sono Riccardo Dura “Roberto”, l’uomo che invece di gambizzare uccise il sindacalista Guido Rossa; Annamaria Ludmann “Cecilia”, la padrona di casa; e due torinesi temporaneamente trasferiti a Genova, Lorenzo Betassa “Antonio” e Piero Panciarelli “Pasquale”. Prima del blitz i carabinieri non hanno idea né di chi siano né di quanti siano i brigatisti nel covo, ma come ricorda il colonnello Michele Riccio in audizione arrivano all’appartamento su indicazione del pentito Patrizio Peci e «di un altro brigatista arrestato», «uno dei tanti componenti della banda 22 Ottobre», «...che aveva fatto sequestri e rapine per conto delle Brigate Rosse». In via Fracchia nessuno sospettava che fossero terroristi, una condomina spiegò ai carabinieri che sembravano «bravi ragazzi».

Al di là di ciò che accadde prima dell’alba di quel 28 marzo in via Fracchia, la Commissione parlamentare d’inchiesta ha puntato i suoi fari sulla buca che i carabinieri scavarono in giardino. Riccio conferma: «Li abbiamo fatti fare noi gli scavi in giardino». Per i parlamentari della Commissione d’inchiesta è la prima volta che viene ufficialmente indicato il giardino dell’appartamento di via Fracchia e, soprattutto, la buca, nascondiglio perfetto per documenti importanti e armi. «Ovviamente c’era nelle planimetrie dell’atto di compravendita della famiglia Ludmann, ma nei documenti delle indagini il giardino non c’è, non è mai indicato: una strana dimenticanza», sottolinea Fornaro.



La telefonata



Con quattro cadaveri a terra, un maresciallo gravemente ferito, e la zona di via Fracchia sostanzialmente protetta da un cordone di sicurezza entro il quale si muovono solo i carabinieri, Riccio (in quel momento capitano) nella casa della Ludmann riceve la telefonata di Dalla Chiesa che chiede: «Allora, cosa è stato trovato?». I testimoni vedono i militari trasportare fuori grandi sacchi neri: alla fine saranno più di 700 le cose repertate in via Fracchia, «compreso l’archivio dei volantini di oltre un centinaio di azioni delle Br del Nord Ovest» spiega Fornaro. Quanto ai documenti, Riccio taglia corto: «Vecchia documentazione, per lo più macerata nell’acqua», dice. Ma la Commissione d’inchiesta, invece, pensa che non fosse esattamente così. Ronzano ancora le parole pronunciate dal Procuratore di Genova, Antonio Squadrito nel 1982: «La verità? È che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi (...) e soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc e al Paese». C’è un antefatto nel blitz di via Monte Nevoso a Milano (1 ottobre 1978): lì i carabinieri trovarono carte di Moro (lettere e il cosiddetto Memoriale, ma non gli originali). «E’ plausibile che Dalla Chiesa avesse ricevuto da Andreotti l’ordine informale di recuperare tutto il materiale di Moro e che quindi nel 1980 il generale ancora fosse alla ricerca», sostiene Fornaro.

A corroborare questa tesi è l’ex magistrato della Procura di Genova Luigi Carli che durante l’audizione del 19 giugno scorso, in più punti, ammette di aver sentito parlare delle «carte di Moro in via Fracchia» nel corso di riunioni operative con i magistrati del distretto di Torino, ma di non averle mai viste nel fascicolo sull’irruzione; che «il provvedimento di sequestro e di perquisizione furono fatti dai torinesi»; e ancora: «Peci gli ha fatto i riferimenti su dove andare». E piomba la smentita di Giancarlo Caselli: «Non mi risulta nulla di quello che viene attribuito a Carli. È fuori da ogni logica che la magistratura torinese possa aver deciso l’irruzione in via Fracchia o possa essersene in qualche altro modo occupata. E ciò perché Patrizio Peci cominciò a collaborare solo dal 1 aprile del 1980». E così il gioco delle carte continua.

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https://genova.repubblica.it/cronaca/2017/...dura-173993914/




Genova, 37 anni dopo procura apre inchiesta per omicidio sulla morte di Riccardo Dura




Il covo di via Fracchia


Nel blitz nel covo delle Br in via Fracchia fu ucciso con un solo colpo alla nuca.

L'esposto di un assistente universitario all'epoca arrestato e poi prosciolto e r



GENOVA - A 37 anni di distanza dal blitz genovese nel covo Br di via Fracchia in cui vennero uccisi dai carabinieri quattro brigatisti rossi la procura della repubblica di Genova, in seguito alla presentazione di un esposto denuncia di un cittadino, ha aperto un fascicolo per omicidio "in danno di Riccardo Dura", uno dei terroristi uccisi.

"Un atto dovuto", come spiega all'Ansa il procuratore di Genova Francesco Cozzi nel confermare l'apertura del fascicolo. Che aggiunge: "Adesso valuteremo modi e tempi di eventuali accertamenti". A presentare l'esposto nei giorni scorsi, come scrive il Secolo XIX che stamane ha anticipato la notizia, è stato Luigi Grasso, ricercatore universitario che nel 1979 venne accusato di terrorismo e negli anni successivi completamente prosciolto.

"Quello di Dura è stato un omicidio volontario, venne ucciso con un solo colpo alla nuca" si legge nell'esposto presentato da Grasso. L'eventuale inchiesta sarà affidata dai magistrati ai poliziotti dell'antiterrorismo. Grasso alla decisione di presentare l'esposto è arrivato dopo una ricerca personale negli archivi giudiziari che gli ha permesso di ottenere il fascicolo di via Fracchia: in cui c'è la ricostruzione dei fatti spiegata da Michele Riccio, l'allora capitano che guidò l'assalto, uomo di fiducia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa al quale era stato affidato il compito di condurre la battaglia contro le Br. Dalla lettura di quei fatti Grasso è arrivato alla conclusione che l'uccisione del brigatista Riccardo Dura è un omicidio volontario.

Grasso aveva già manifestato i suoi dubbi su via Fracchia 19 anni fa durante la presentazione di un libro di Enrico Fenzi, docente universitario arrestato e condananto per episodi legati alla stagione brigatista.


''La vera luce sulla 'colonna' genovese delle Brigate rosse non e' stata ancora fatta - disse Grasso prendendo la parola - Il blitz del 17 maggio del '79 in cui vennero arrestati Enrico Fenzi e altre 16 persone e' stato frutto di una finta inchiesta messa in atto per favorire il permanere a Genova della 'colonna' brigatista, poi sgominata nell' 80 in via Fracchia dagli uomini del generale Dalla Chiesa''.

Grasso enunciò la sua tesi nel corso del dibattito sul libro ''Armi e bagagli'' di Enrico Fenzi, svoltosi a Genova nel convento di Santa Maria di Castello.

Grasso venne arrestato insieme al professore genovese, poi prosciolto e risarcito dallo Stato per riparare all' errore giudiziario (venne arrestato anche per il delitto Coco) nei suoi confronti. ''La vera realta' - sostenne Grasso - e' che Enrico, io e gli altri siamo stati arrestati non come brigatisti, ma per depistare le indagini.

Contesto percio' quanto scritto da Fenzi nel suo libro, che considero un buon romanzo, ma senza validita' storica''.

A queste parole Fenzi, fino a quel momento tra il pubblico, puntualizzò: ''A Grasso dico solo che non e' mai appartenuto alle Bierre, che e' stato percio' condannato ingiustamente.

Nel libro ho raccontato le cose che ho vissuto io''.

Argomenti
brigate rosse procura genova


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www.archivio900.it/it/libri/lib.aspx?id=408


ENRICO FENZI





"Troppo spesso mi sono sentito domandare: 'Perché? Perché l'hai fatto?' (curiosamente mai dagli amici). E può darsi che questo sia pure il tema nascosto di queste pagine: un lento paziente giro attorno alle risposte possibili". Così si apre uno dei primi capitoletti di "Armi e bagagli" di Enrico Fenzi, già docente di letteratura italiana presso l'Università di Genova, due volte arrestato e condannato per appartenenza alle Brigate Rosse. Tuttavia, penso che chi si accostasse a questo libro con l'intento di capire perché, perché la lotta armata in Italia, non ne caverebbe un ragno da un buco. O anche solo perché una persona dotata evidentemente quanto meno di una intelligenza normale si sia infilata in un'avventura così incredibile - nel senso di non credibile, sotto l'aspetto politico prima di tutto, ma anche umano - ne rimarrebbe probabilmente deluso.


Il racconto scorre, e scorre anche molto bene. I primi approcci con l'organizzazione, i primi volantinaggi clandestini davanti alle fabbriche, la prima azione, l'arresto, il carcere, il processo seguito dall'assoluzione. E poi di nuovo la voglia di ributtarsi nell'avventura, le riunioni con i vertici dell'Organizzazione, l'entrata in clandestinità, l'abbandono delle persone care, e infine il nuovo arresto. Il carcere...


La scrittura è accurata, colta, incisiva, sfaccettata. È un racconto bello, ma al contempo terribile. È bello perché lascia aperte mille domande, accenna, allude, evoca, non dà tagli netti, certezze. Anche nel momento della scelta iniziale, Fenzi s'interroga: "Ero affacciato su una buia voragine, mi ci stavo buttando dentro. Perché? (...) La risposta tanto vera quanto scontata sarebbe stata perché volevo combattere per un mondo migliore... (...) Tutto ciò era vero, ma ancora generico: valeva per me e per molti altri, non per me solo, lì, davanti a quei due, pronto a seguirli lungo una strada intrisa di sangue, di violenza, di terrore (...). Le risposte che mi davo erano confuse, deboli, perché non le davo con il cervello ma con il cuore...".
Eppure è un racconto terribile proprio per le stesse ragioni, perché non dà risposte, risposte a fatti che sono stati e che quindi vorrebbero una loro ragione. Perché tra questi, i più incolmabili, i più irreversibili, le morti - su qualsiasi sponda si siano date - sono effetti che ci è difficile, amaro, lasciare senza una causa.


Va subito detto che "Armi e bagagli" non è certamente un libro che vuole parlare di Storia. Non solo non è la Storia della lotta armata in Italia, ma neppure la Storia della se pur minima partecipazione ad essa di uno dei suoi attori. D'altro canto, credo sia impossibile fare Storia di sé stessi. Credo che questa nostra storia, così drammatica, pesante, che da tante estrose e plausibili premesse, sulle piazze, alla luce della fantasia e dell'ingegno, ci ha risucchiati a sé come in un gorgo nichilistico - pur avendone apparentemente tutt'altri connotati - sia ancora troppo scottante sulla nostra coscienza, per distaccarsi da noi come pelle secca e farsi Storia.


Le situazioni sono tracciate qui per brevi accenni, a volte con leggero distacco, altre con sottile umorismo, o ancora con profondo coinvolgimento, così come d'altronde capita nella vita - ferimenti, scontri di linee politiche, tensioni carcerarie, morti. Le motivazioni affiorano qua e là, disordinatamente, come foglie ingiallite spinte dal vento della casualità più che della causalità - il "tradimento" del Pci, la ristrutturazione selvaggia, la necessità di alzare lo scontro... Appena ci si avvicina al vivo di una qualche questione, il colore della descrizione distoglie la nostra attenzione dal nocciolo della stessa. Un colore sapientemente dosato, tenue, poetico, o ancora sferzante e stridente, quando è quello che ci vuole. Quasi un bisogno dell'autore di fare appello al contorno, agli oggetti, allo sfondo per non perdersi di nuovo in un incubo.


E qui probabilmente sta il problema. Le comprensibili - a mio avviso - lacune di questo "diario dalle Brigate Rosse", come recita il sottotitolo. Nell'impossibilità di trascrivere con la penna del poi le forzature ideologiche sottese alla lettura che le organizzazioni combattenti il "partito armato", facevano allora del presente, della società e dei suoi guai. Della posta in gioco sul tavolo del Potere - perché con le armi in pugno è di Potere che si tratta - e delle regole del gioco. Schemini rigidi, appiattenti. Che ritagliavano dalla complessità risposte rigide, appiattenti, e per questo terribili e crudeli. Impossibilità di trascrivere tutto questo pena una nuova condanna inferta di mano propria, pena riprecipitare con nuova gratuità in quel gorgo: pena riattaccarsi addosso quell'odore di paura e di morte emanato e vissuto. Ma soprattutto impossibilità di trascrivere tutto questo perché quel linguaggio, quella logica sono divenuti, col disinnesco del corto circuito semplificatorio, simulazioni quasi indecifrabili. È forse ancora più amaro, ma molto spesso è purtroppo così.


Qualcuno potrebbe obiettare che allora, se non si vuole rischiare "Tutta la Verità", meglio il silenzio. Forse. Anche se è vero che la Verità non è mai Tutta. O meglio, che non vi è una sola Verità.


È legittimo chiedersi, d'altro canto, se si tratti comunque qui di rimozione furba e consapevole o di naturale cesura della memoria. È difficile a dirsi. Certamente non spetta a me, anche se, personalmente, propenderei per la seconda ipotesi. Ma, comunque sia, un fatto mi pare certo: che di questa sua storia l'autore fa letteratura.


Né direi che di irresponsabilità si possa tacciare questo approccio alla conoscenza delle cose. Certamente fu più irresponsabile, nel senso immediato di fuga dalle proprie responsabilità individuali oltre che sociali, l'abbandono del terreno "di lotta" quotidiano, con i suoi invisibili movimenti, i suoi due passi avanti e due indietro, con la miopia e le scaltrezze della controparte, per quel miscuglio di piazza Rossa e di America Latina, di CIA e di Medio Oriente, che simulammo malamente, chi per un verso chi per un altro su un terreno irto di problemi - sul quale tra l'altro ci muovevamo diciamo pure con responsabilità, da anni- ma di ben altra natura.


E allora, tolta la griglia forte dell'ideologia impossibile, quello che rimane sono le persone, i contatti di pelle, gli odori, gli ambienti, le impressioni, le emozioni, le paure. Ma questa non è più storia è letteratura. D'altro canto anche la letteratura dice delle cose. Se cadiamo bene, un romanzo ci può far capire un contesto storico più di mille libri di storia. Solo, nega a priori l'oggettività del contenuto. È uno spaccato umano che non ha il dovere di dare i propri riferimenti, le proprie citazioni. L'unico dato indiscutibile è il nome dell'autore. Ma anche questo non deve dimostrare la veridicità del suo io narrante. E come tale pensiamo che "Armi e bagagli" vada letto. E che, sotto questa angolatura, possa anche dare degli spunti di conoscenza di quel fenomeno complesso che è stato il terrorismo. Fenomeno dai più diversi motori, che ci piacciano o no, e che prevedeva anche un professore che, a tempo perso, in mezzo a persone che si addestravano con le mitragliette, andava in biblioteca a preparare un saggio sul "Convivio" di Dante. Poiché questo l'autore, ci dice in un periodo, faceva.


E che prevedeva anche - come ci viene raccontato - episodi angosciosi ed emblematici come quello dell'operaio dell'Italsider che, legatosi attorno al collo, con la propria fragilità, il cappio di una ideologia fondata sulla coercizione, dopo vari maldestri tentativi, riesce a liberarsene solo stringendoselo definitivamente, una volta per tutte, in una buia cella di carcere.


Pagine di letteratura che ci colpiscono nel profondo, che non ci lasciano indifferenti.


Ma allora, ci domandiamo, perché a quei mutevoli personaggi da romanzo, che si stagliano sullo scenario del dramma, dare i nomi di persone realmente vissute? Visto che non di capatine in biblioteca per esse spesso si trattava, ma di ben altri "pranzi di gala", oggi deprecati? Poiché solo in un libro di Storia è importante sapere che Robespierre, ad esempio, fu il promotore del Terrore, mentre in un romanzo dei personaggi interessa solo ciò che essi significano, il senso che possono avere rispetto al contesto, o anche alle nostre vite.


Forse, comunque, al di là delle pecche di modestia dell'autore, al di là della buona scrittura che ci chiama complici, il pregio di questo romanzo è proprio la sua terribile assenza di risposte ai perché, la consapevolezza di non saper dare una risposta, che ci invita ancora a cercare le mille risposte possibili.
Perché ricercare la verità è un ottimo proposito, basta essere pronti a non trovarne una sola, quella che si vorrebbe. E comunque partecipare alla ricerca. E questo lo dico prima di tutti a me.Sullo stesso argomento
In biblioteca



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www.huffingtonpost.it/entry/le-car...b657fd3ccaa50e/



Le carte di Moro, la trattativa di Craxi.

Da dove ripartire per dare giustizia a Tobagi



Marco Minniti: "Nessun punto di Pil può essere scambiato con la parola libertà"


L'Europa al test dei rifugiati ucraini
Johnson vuole cacciare la Russia fuori da Swift. L'Europa no. Perchè è così importante da dividere l'Occidente
Politica
Le carte di Moro, la trattativa di Craxi. Da dove ripartire per dare giustizia a Tobagi
di
Maria Antonietta Calabrò
ANSA foto



Benedetta Tobagi, figlia dell’inviato del Corriere della Sera ucciso 40 anni fa, pone ancora oggi domande sull’assassinio del padre e sulla necessità di aprire gli archivi dell’antiterrorismo
28 Maggio 2020


Benedetta Tobagi, figlia dell’inviato del Corriere della Sera Walter Tobagi, ucciso come oggi 40 anni fa, pone alcune domande sull’assassinio del padre e sulla necessità di aprire gli archivi dell’antiterrorismo per approfondire lo scenario di quel delitto. In parte questo è stato fatto negli ultimi anni con la desecretazione voluta dal Governo Renzi del 2014 degli atti di Ministeri, Servizi segreti, Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza, relativi ad atti di strage e terrorismo.

Ho studiato gran parte di quei documenti (versati alla commissione di inchiesta Moro2) ed essi dimostrano possibili connessioni tra l’assassinio di Tobagi e il caso Moro. Quindi in base a quegli atti - dalla fine del 2018 pubblici - possiamo rispondere in prima approssimazione alla richiesta di nuova chiarezza avanzata della figlia.

Come è noto fu la Brigata “XXVIII marzo” ad uccidere Tobagi, esattamente due mesi dopo l’irruzione nel covo brigatista di Genova in via Fracchia da parte degli uomini del generale Dalla Chiesa, il 28 marzo 1980. La strage di via Fracchia fu una degli ultimi importanti reportage di Tobagi, prima della morte. Con lui furono inviati a Genova dall’allora direttore Franco Di Bella anche Antonio Ferrari e Giancarlo Pertegato.

Solo oggi però sappiamo che Tobagi - cattolico, socialista, vicino al segretario Bettino Craxi - ebbe un ruolo nella ″trattativa” milanese che Craxi instaurò durante il sequestro Moro per la salvezza dello statista Dc e che faceva perno sul generale Dalla Chiesa. Una “trattativa “ distinta da quella “romana” che coinvolse Piperno, Morucci e Faranda. Questo filone “milanese” è emerso solo negli ultimi anni grazie alle indagini della Commissione Moro2. Facendo emergere tanti fatti e circostanze che illuminano gli ultimi anni della vita di Tobagi, e forse, anche la sua morte. La conoscenza di quegli anni infatti è molto progredita, portando alla luce fatti sorprendenti, che potrebbero anche spiegare come mai nell’archivio di Villa Wanda sequestrato nel 1981 a Licio Gelli fosse conservata una copia del volantino di rivendicazione dell’assassinio di Tobagi.

L’impegno di Tobagi per salvare Moro.

Umberto Giovine, iscritto al Psi sin da ragazzo, militante nella Federazione milanese, con incarichi nell’ambito dell’Internazionale socialista e direttore di ”Critica Sociale”, ha dichiarato alla Commissione Moro 2 (tra il 2015 e il 2017) che l’input per cercare d’intervenire nella vicenda Moro per salvare la vita del sequestrato avvenne qualche giorno dopo il 16 marzo 1978, a Torino, durante il congresso del Psi. “Ebbi modo di parlare con Walter Tobagi, che conoscevo da molti anni, e mi disse che secondo lui avrei potuto e dovuto fare qualcosa attraverso Critica Sociale visto che lui personalmente, data la sua posizione al Corriere della Sera non poteva agire”, disse Giovine. “Craxi - aggiunge- in ogni caso poteva contare sull’appoggio e il contributo del generale Dalla Chiesa che era responsabile nazionale delle carceri di massima sicurezza e che in tale veste poteva muoversi anche in modo indipendente e senza specifiche autorizzazioni del Governo”. Il Corriere della Sera, il 2 aprile 1980, negli articoli che illustravano l’irruzione in via Fracchia segnalava che sarebbe stata trovata nel covo delle Br una cartellina con un appunto ”materiale da decentrare sotto terra”.

Il “tesoro” di Genova: tutte le carte di Moro.

Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, scriverà anni dopo la barbara uccisione di Tobagi, nel numero 1 di ”Pagina” del 25 febbraio 1982, e nel periodico ″Illustrazione Italiana”, n. 32, luglio 1986: ”Disse a caldo (dopo l’irruzione nel covo brigatista di via Fracchia, ndr) l’allora procuratore della Repubblica di Genova, Antonio Squadrito: La verità è che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi… Soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc, al Paese”. La rivelazione di Caprara è precisa e circostanziata. Ma di quelle trenta cartelle ″meticolosamente scritte da Aldo Moro”, indicate dal magistrato, che nel 1980 era al vertice della Procura del capoluogo ligure, non è stata trovata alcuna traccia agli atti del processo penale per la strage di via Fracchia.

I lavori della Commissione Moro 2 sono partiti da qui. La quantità e l’importanza del materiale sequestrato in via Fracchia si desumono esaminando il verbale di perquisizione e sequestro (acquisito agli atti della Commissione) che reca un impressionante elenco di 753 reperti, che certamente dal punto di vista investigativo poteva essere considerato un ″tesoro”. Tenuto conto degli interrogativi che sono nati dai parziali ritrovamenti documentali avvenuti nel covo di via Monte Nevoso a Milano (nel 1978 e nel 1990), la citata esternazione di Squadrito è apparsa meritevole di serio approfondimento, anche alla luce delle indicazioni sul ruolo che la colonna genovese guidata da Riccardo Dura, nel sequestro Moro. Già il presidente della Commissione Stragi (attiva fino al 2001), Giovanni Pellegrino, aveva elaborato l’ipotesi - che durante il sequestro Moro - ci fosse stato in realtà un doppio ostaggio: Moro, appunto, ma anche numerosa documentazione “sensibile” in mano alle Brigate Rosse (il memoriale completo, interrogatori…)

Solo agli inizi degli Anni Duemila, sono cominciati ad emergere nuovi fatti. Nell’articolo intitolato “Via Fracchia, ricordi indelebili. Quella donna in giardino, l’uomo con il piccone”, pubblicato venerdì 13 febbraio 2004, firmato da Simone Traverso sul Corriere Mercantile, storico quotidiano della città della Lanterna, vengono riportati i ricordi raccolti dalla ″gente del civico 12″, tra cui quello di ″un uomo misterioso, forse Riccardo Dura, che scavava con un piccone nell’erba alta delle aiuole”. Testimonianza questa che descrive una caratteristica peculiare del covo: la presenza anche di un giardino di pertinenza, a cui si accedeva dalla cucina e dalla sala da pranzo, e che conduceva alla parte posteriore dell’edificio. ″Un giardino che, incredibilmente – annota la Commissione Moro 2 – non trova esplicita menzione negli atti processuali, né viene evidenziato nella ricostruzione della planimetria dell’appartamento”.

Anche lo scavo di un’ampia buca nel giardino del covo non fu riferito negli atti giudiziari del 1980, ma è stato esplicitamente rievocato solo il 15 marzo 2017 nel corso delle dichiarazioni a Palazzo San Macuto dal pm Filippo Maffeo, intervenuto sul posto in qualità di pubblico ministero di turno, la mattina del 28 marzo 1980. Il magistrato ha indicato con certezza il particolare che in giardino il terreno appariva smosso da poco tempo, precisando le rilevanti dimensioni dello scavo, corrispondente, a suo avviso, al volume di tre valigie di media grandezza. Uno scavo immediato e verosimilmente mirato non poteva che scaturire dalla disponibilità di indicazioni precise. Quell′operazione dovette durare ore ed ore e terminare, appunto, prima dell’arrivo del magistrato di turno.

L’agente tedesco nella palazzina di Tobagi, le carte “segrete” di Moro.

Umberto Giovine (che ha illustrato da qualche anno il ruolo di Tobagi nella trattativa per Moro) ha anche parlato davanti alla Commissione della opaca vicenda di Volker Weingraber (alias Karl Heinz Goldmann), un agente tedesco occidentale che operò in Italia durante il sequestro Moro. Ecco, ben 6 informative del Sisde che lo riguardavano sono state desecretata dall’Aise (l’attuale servizio segreto estero) nel giugno 2017. In particolare, dagli atti del nostro servizio segreto – solo ora resi noti – risulta che Weingraber giunse a Milano nel febbraio 1978 e che si mise in contatto con diverse persone, tra cui il terrorista Oreste Strano e un gruppo che preparava il sequestro di un imprenditore svizzero.

L’informativa del 6 novembre 1978 precisava inoltre che ″la fonte infiltrata ha avuto contatti con Aldo Bonomi il quale gli avrebbe confermato di essere in grado di procurare armi e documenti falsi per sviluppare attività eversive″. La fonte – continua la citazione – ”ritiene che Bonomi sia un provocatore e un confidente della Polizia. Sarebbe stato isolato dalle Br perché ha sempre evitato di assumersi compiti rischiosi nell’ambito dell’organizzazione”.

Ma ″la fonte infiltrata″ – come risulta da un’altra lettera desecretata del 2 novembre 1990 inviata dall’ammiraglio Martini, capo del Sismi, al capo della Polizia, prefetto Vincenzo Parisi oggi desecretata – altri non era che proprio Weingraber, il quale lavorava in un’operazione congiunta del Sismi e dei servizi segreti tedesco e svizzero. Risulta inoltre che Weingraber – come confermato dal colonnello Giorgio Parisi al giudice Priore il 28 settembre 1990 e anche questo è in un documento desecretato– entrò in contatto, tramite Strano (che aveva una compagna tedesca), anche con Nadia Mantovani, cioè la persona che aveva avuto l’incarico di battere a macchina il Memoriale Moro, e che prima del suo arresto, a Novara frequentava una radio di sinistra extraparlamentare collegata alla Rote Armee Fraktion. Va pure segnalato che Weingraber alloggiò a partire dal 1978 in Italia nello stesso palazzo dove abitava Tobagi, ucciso il 28 maggio 1980. Ma poi fu lo stesso Strano a denunciare Weingraber pubblicamente come un infiltrato, dopo che al valico del Brennero vennero sequestrati a quattro cittadini tedeschi 800 fogli di documenti: ciò accadde poche settimane prima della seconda scoperta di materiale proveniente dal sequestro Moro nel covo di via Monte Nevoso 8, a Milano, nel novembre 1990”.

Walter Tobagi, odiato senza ragione Su Rai Storia il ricordo del cronista a 40 anni dalla morte














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Il delitto Tobagi e le polemiche infinite



Posted on 27 Maggio 2020

L’omidicio di Tobagi si trasformò in una resa dei conti tra differenti organizzazioni sindacali del giornalismo lombardo che vedevano contrapposti craxiani e giornalisti del Pci. Ne venne fuori una narrazione complottista che vedeva negli autori del delitto dei semplici manovali. Le tesi dietrologicche furono rilanciate dopo la scoperta delle dichiarazioni di un confidente che aveva indicato in Tobagi un possibile obiettivo e che aprirono un nuovo fronte di polemiche, stavolta tra ex appartenenti all’antiterrorismo. Davide Steccanella ripercorre dettagliatamente l’intricata vicenda
di Davide Steccanella

Tobagi targa errata

La targa sbagliata del Liceo Parini che attribuisce l’omicidio alle Brigate rosse

Nel libro Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi, 2009) Benedetta Tobagi ha scritto: «scegliendo di montare tasselli poco chiari, si possono tessere trame verosimili, ma non verificabili, oppure riesumare polemiche già consumate contando sulla memoria corta dei mezzi d’informazione». Vanamente verrebbe da dire, perché come per l’omicidio di Aldo Moro anche per quello di Walter Tobagi, guarda caso i due delitti di maggiore rilevanza mediatica tra i tanti compiuti durante i cosiddetti “anni di piombo”, non manca chi ancora oggi sostiene che sarebbero stati condannati gli esecutori e non i “mandanti” o che comunque permangano irrisolti misteri.

Nel “caso Tobagi” si verificò persino uno scontro istituzionale senza precedenti tra il Presidente della Repubblica e i membri togati del CSM che nel dicembre del 1985 si dimisero in blocco per il divieto posto da Francesco Cossiga alla fissata trattazione in seduta plenaria delle dichiarazioni rese qualche giorno prima dall’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi.



Ricapitoliamo i fatti in ordine cronologico



Walter Tobagi fu ucciso il 28 maggio 1980 e l’omicidio fu rivendicato da una sigla, Brigata 28 marzo, che pochi giorni prima, 7 maggio, aveva rivendicato il ferimento del giornalista di Repubblica Guido Passalacqua.

Il nome richiamava la data di un’operazione dei carabinieri di due mesi prima in una base genovese delle Brigate rosse in via Fracchia nel corso della quale erano morti i quattro i militanti che si trovavano al suo interno; il giorno dopo Walter Tobagi aveva scritto sul Corriere della sera un articolo dal titolo: Adesso si dissolve il mito della colonna imprendibile.


L’operazione era stata resa possibile dalle rivelazioni fatte ai magistrati torinesi dal primo brigatista pentito, Patrizio Peci, in merito al quale il 20 aprile Tobagi aveva firmato un secondo articolo dal titolo Non sono samurai invincibili.


In quello che sarà uno dei suoi ultimi scritti (l’ultimo, Senza promettere la luna, dedicato alle imminenti elezioni, sarà pubblicato il 23 maggio) si legge: «Le notizie delle ultime ore, la tragedia dell’avvocato Arnaldi a Genova o l’arresto di Sergio Spazzali a Milano, sembrano iscriversi in quel filone aperto da Peci e dagli altri brigatisti pentiti. L’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze. E forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascano non dalla paura, quanto da dissensi interni, laceranti sull’organizzazione e sulla linea del partito armato».


L’indagine affidata agli ufficiali della sezione antiterrorismo dei carabinieri di Milano Umberto Bonaventura e Alessandro Ruffino e coordinata dal Sostituto Procuratore della Repubblica Armando Spataro fu particolarmente rapida e dopo soli quattro mesi vennero arrestati tutti i responsabili.
Dai documenti d’indagine risulta che il 5 giugno viene posta sotto osservazione un’abitazione di via Solferino 34 intestata a Caterina Rosenzweig, nota agli inquirenti perché arrestata il 23 marzo di due anni prima, avendo la stessa dimenticato passaporto e guanti nel corso di un attentato incendiario alla Bassani Ticino di Venegono Inferiore (VA) rivendicato dalle Formazioni Comuniste Combattenti, nella cui base milanese di via Negroli il 13 settembre 1978 era stato arrestato Corrado Alunni.


Gli inquirenti sapevano del suo legame con Marco Barbone perché costui le aveva inviato in carcere alcune lettere e l’11 giugno dispongono l’intercettazione delle utenze telefoniche della Rosenzweig e di coloro che, oltre a Barbone, risultavano in costante contatto con lei: Paolo Morandini, Silvana Montanari e Stefano Mari.


Contemporaneamente viene disposta una perizia per confrontare la grafia che compariva sulle buste di rivendicazione di due attentati del 1979 ai giornali L’Unità e Il Corriere della sera siglati Guerriglia Rossa, con quella, che risultava identica, del manoscritto di rivendicazione di una rapina del 1978 in via Colletta reperita in via Negroli e quella, pure apparentemente simile, delle lettere inviate da Barbone alla fidanzata.


Il 5 luglio Barbone parte per il servizio militare ad Albenga e a settembre L’Espresso pubblica le dichiarazioni rese l’8 luglio dal generale Dalla Chiesa alla Commissione Moro in cui riferiva che per l’omicidio Tobagi stavano indagando su ex militanti delle FCC di Alunni e sulla base dell’esito confermativo del 16 settembre della perizia sulla sua grafia, il 25 settembre Barbone viene arrestato per la rapina di via Colletta, per evitare, diranno gli inquirenti, che messo in allarme da quell’articolo si desse alla fuga e tradotto nella caserma Porta Magenta di via Tolentino.


Il 2 ottobre Barbone interrogato nega ogni addebito, al termine il PM Spataro lo informa che è sospettato anche per l’omicidio Tobagi e gli attentati di Guerriglia Rossa, il giorno dopo chiede un incontro riservato con il generale Dalla Chiesa in caserma e il 4 ottobre verbalizza al PM i nominativi degli altri cinque componenti della 28 marzo che vengono tutti arrestati.


Si tratta di due operai e tre studenti: Paolo Morandini, 21 anni, Daniele Laus, 22 anni, ex militante nella SAP (Squadra Armata Proletaria) Sempione, Manfredi De Stefano, 23 anni, operaio IRE di Varese ed ex militante in altra SAP legata alle FCC, Mario Marano, 27 anni, e Francesco Giordano, 28 anni, entrambi ex militanti delle Unità Comuniste Combattenti di Guglielmo Guglielmi.
Morandini e Laus confessano subito (il secondo ritratterà in istruttoria) e il processo denominato Rosso-Tobagi inizia il 1° marzo 1983 e si conclude il 28 novembre dello stesso anno con la condanna dei sei imputati e la scarcerazione di Barbone e Morandini in applicazione della legge premiale n. 304 del 1982.



La campagna dell’Avanti


Sin dalla conclusione dell’istruttoria il PSI, sollecitato da alcune affermazioni dell’allora direttore del Corriere Franco Di Bella (successivamente risultato iscritto alla P2 di Licio Gelli), che riteneva che il movente dell’omicidio fosse da ricercare nell’impegno sindacale del giornalista, monta una campagna stampa su L’Avanti in cui mette in discussione la verità di Barbone, sostenendo che fosse stata concordata con la Procura in cambio dell’impunità per la fidanzata Caterina Rosenzweig, perché il testo della rivendicazione dell’omicidio appariva un elaborato troppo tecnico per non essere stato scritto da un giornalista professionista.


Il 27 maggio 1983, in occasione della campagna elettorale, il segretario Bettino Craxi (che il 4 agosto diventerà il nuovo Presidente del Consiglio) dichiara in un comizio al Castello Sforzesco che «Gli organi di polizia e la magistratura fin dal dicembre 1979 erano a conoscenza che gruppi terroristici progettavano un attentato a un giornalista milanese che la fonte confidenziale indicava in Walter Tobagi, informandoli del luogo esatto dove l’attentato sarebbe stato compiuto».


Procura e carabinieri smentiscono indignati, affermando che quando il nome di Tobagi era stato trovato nel gennaio del 1979 in una valigetta attribuibile ai Reparti Comunisti d’attacco (gruppo collegato alle Formazioni Comuniste Combattenti) al giornalista fu proposta una scorta che lui rifiutò, ma dopo le polemiche all’esito del processo per la scarcerazione di Barbone e Morandini, il 19 dicembre 1983 l’allora Ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro rivela l’esistenza di un appunto riservato del 13 dicembre 1979 in cui un carabiniere che si firma Ciondolo riporta la notizia ricevuta da una fonte confidenziale.
«Secondo il postino, il (segue il nome di un altro confidente) e gli altri avrebbero lasciato il proposito di compiere azioni in Varese ma avrebbero in programma un’azione a Milano. Costui non ha lasciato capire pienamente quale possa essere il loro obiettivo ma ha riferito al postino che si tratta di un vecchio progetto delle Formazioni comuniste combattenti. Per quanto riguarda l’azione da compiere qui a Milano e la zona nella quale il gruppo sta operando il postino ritiene che vi sia in programma un attentato o il rapimento di Walter Tobagi e la zona in cui il gruppo sta operando dovrebbe essere quella di piazza Napoli-piazza Amendola-via Solari dove il Tobagi dovrebbe abitare».


L’Avanti pubblica il documento e il carabiniere Ciondolo viene prontamente identificato nel brigadiere Dario Covolo e così pure il postino: si tratta di un ex militante varesino delle FCC, Rocco Ricciardi, arrestato il 16 novembre 1981, il quale sin dal marzo del 1979 aveva iniziato a collaborare segretamente con i carabinieri consentendo loro di arrestare nel maggio dello stesso anno a Como sette componenti di rilievo delle FCC, che di lì a poco cesseranno di esistere.
La fonte di Ricciardi in realtà non era un altro confidente, ma, come si legge nel documento, Pierangelo Franzetti, ex operaio IRE di Varese, militante nei Reparti Comunisti d’Attacco.



Quel documento era difficilmente collegabile al delitto



A quel punto, posto che meno di sei mesi dopo Walter Tobagi fu effettivamente colpito in via Solari da Barbone che aveva militato nelle FCC di cui aveva parlato Ricciardi e meno di quattro mesi dopo gli inquirenti furono già in grado di arrestarlo, si disse che non si era voluto impedire una morte annunciata e si era imbastita una versione di comodo.


In realtà, ad un’attenta lettura, quel documento non era facilmente collegabile al delitto di sei mesi dopo e tanto meno a Barbone e non perché, come disse qualcuno, ancora non poteva esistere la sigla Brigata 28 marzo (che si riferiva alla data di un fatto accaduto l’anno successivo), ma per altre ragioni.
Ricciardi si limita a dire che secondo lui il fatto che Franzetti gli avesse detto che il suo gruppo stava cessando azioni su Varese per spostarsi a Milano per un precedente progetto delle FCC poteva significare il sequestro di Tobagi, perché agli inizi del 1978 era stato uno degli obiettivi del gruppo. Ricciardi, che ben conosceva Barbone e la Rosenzweig (e proprio per il progettato sequestro Tobagi), non li nomina con riferimento al Franzetti e neppure quando, parlando di altro, cita ex militanti delle FCC (Balice, Serafini, Belloli), per cui dedurre che da quell’appunto gli inquirenti avrebbero potuto risalire al futuro fondatore della 28 marzo, ai tempi persona incensurata, appare una forzatura.


Neppure col senno di poi tuttavia, quando nel dicembre del 1983 tutte le indagini su quei gruppi si erano ormai concluse, quell’appunto appare collegabile all’omicidio di sei mesi dopo. Le successive indagini accerteranno infatti che nel dicembre 1979 il gruppo che l’anno dopo avrebbe assunto la sigla 28 marzo si era appena formato e organizzava rapine di autofinanziamento e Barbone aveva cessato da tempo ogni contatto con gli ex FCC, tanto che Ricciardi rimasto in contatto con loro nulla più sapeva di lui, né di Guerriglia Rossa né di altro. Per cui si può affermare con adeguata certezza che nel dicembre del 1979, contrariamente all’idea che si era fatta il Ricciardi, non era ancora in preparazione un attentato al giornalista del Corriere, né da parte del gruppo di Barbone né da parte di quello di Franzetti.



La querela di Spataro


Ma le polemiche non si placano e Spataro sporge querela per diffamazione contro il direttore dell’Avanti Ugo Intini, il vicedirettore Francesco Gozzano, i giornalisti Adolfo Fiorani e Piervittorio Scorti, il sociologo Roberto Guiducci e i deputati PSI Salvo Andò e Paolo Pillitteri, mentre Ricciardi scrive un memoriale dove nega di avere fatto a dicembre il nome di Barbone, ammettendo di essere stato contattato dai Carabinieri dopo l’omicidio di Tobagi: «Per parte mia mi impegnai nella ricerca di notizie sulla 28 marzo. In proposito riuscii a riferire ai carabinieri una sola voce: Marchettini mi aveva detto che un tale Manfredi che conoscevo personalmente, parlando in un bar con il Franzetti alla presenza di Marchettini stesso, aveva lasciato vagamente intendere che aveva rapporti con la 28 marzo. I CC, sempre durante l’estate, identificarono questo Manfredi per Manfredi Di Stefano ed io ne riconobbi la foto».
Nel 1985, al processo di appello (nel frattempo Manfredi De Stefano era morto il 6 aprile 1984 nel carcere di Udine) la versione di Barbone viene confermata da Marano e Laus, che, scrive Leo Valiani: «il 4 giugno in una lucida deposizione ha corretto le precedenti forzature tese a lasciar bollire nell’ambiguità l’ipotesi dei mandanti del delitto, di mani estranee e specializzate nella stesura del volantino e a diradare le possibili ombre di un coinvolgimento di Caterina Rosenzweig».


Ricciardi, intervistato il 14 giugno 1985 dall’Unità prima di deporre, dichiara: «Intendo dire tutto con chiarezza perché sono state commesse leggerezze sul mio conto anche dall’onorevole Scalfaro che ha fatto il mio nome in Parlamento, esponendomi a rappresaglie e mettendo in pericolo i miei familiari. Si è detto che avrei preannunciato l’omicidio di Walter Tobagi. Ma questo non è vero. Per conto mio percepii che Franzetti potesse parlare di Tobagi giacché nei suoi confronti c’era stato da parte delle Formazioni Comuniste Combattenti quel vecchio progetto di sequestro nel gennaio 1978. Fu una mia personale ipotesi e in questi termini la riferii ai carabinieri».


Il 7 ottobre 1985 la Corte di appello conferma la sentenza di primo grado (con sconti di pena per Marano e Laus), che diviene definitiva nell’ottobre dell’anno successivo.


Il 23 Novembre 1985 il Tribunale di Roma condanna Intini, Andò, Pillitteri, Gozzano e Fiorani per diffamazione ai danni di Spataro e il Presidente del consiglio Craxi dichiara al Tg «Faccio mie parola per parola tutte le affermazioni ed i giudizi che hanno determinato la condanna dei compagni socialisti», affermazione che apre un “caso” senza precedenti al CSM perché il 5 dicembre il Presidente della Repubblica Cossiga ne vieta la discussione determinando le dimissioni (poi rientrate) di tutti i membri togati.


In appello interviene l’applicazione della sopraggiunta amnistia con conferma del risarcimento danni a Spataro, ribadito dalla Cassazione nel 1987 e il 21 maggio 1993 il Tribunale di Milano assolve tutti gli imputati delle FCC, tra cui Barbone, Ricciardi e la Rosenzweig, per il tentato sequestro di Walter Tobagi del 1978, perché il fatto non sussiste.



Le accuse di Magosso e Arlati


La vicenda sembrerebbe finita, quando nel 2003 il giornalista Renzo Magosso e l’ex capitano Roberto Arlati pubblicano per Franco Angeli il libro Le carte di Moro, perché Tobagi che riprende le accuse ai carabinieri e il 17 giugno 2004 Magosso pubblica sul settimanale Gente un’intervista a Dario Covolo dal titolo Tobagi poteva essere salvato che accusa i superiori Ruffino e Bonaventura di avere chiuso le sue note in un cassetto e di avere subito mobbing per quel fatto.

Il 18 giugno 2004 alla Camera il deputato verde Marco Boato dichiara: «A distanza di 24 anni sono ricorrenti gli interrogativi sulle gravi omissioni da parte di ufficiali dei carabinieri dell’epoca che nascosero e non diedero seguito a una nota informativa preventiva redatta da un sottufficiale del nucleo antiterrorismo» e l’ex deputato Claudio Martelli allestisce uno speciale su Canale 5, seguito nel 2005 da Giovanni Minoli sulla RAI che dedica al “caso Tobagi” un’intera puntata di La storia siamo noi, in cui trasmette un’intervista a Covolo (da tempo traferitosi all’estero), che ribadisce la tesi del “delitto annunciato”.



Un’altra querela

Ruffino e la sorella di Bonaventura (deceduto nel 1992) querelano per diffamazione Magosso, Covolo e il direttore di Gente Umberto Brindani e nel corso del processo che si celebra avanti il Tribunale di Monza, all’udienza dell’11 luglio 2007 Dario Covolo viene esaminato come imputato di reato connesso e quando gli viene mostrato l’appunto del 13 dicembre 1979 dichiara: «ci sono degli appunti successivi a questo, dove si fa nome e cognome di quelli che devono ammazzare. O per lo meno si fa il nome e si dice: Guarda che il gruppo che sta operando dovrebbe essere la Caterina e il suo fidanzato, il suo convivente, Barbone Marco, non mi si fanno i nomi degli altri però quei nomi vengono fatti in successivi appunti».


Questi “ulteriori appunti” non verranno mai rintracciati e il 23 luglio 2007, nel corso di una conferenza a Milano dal tiolo Le verità nascoste. Il caso Tobagi, sempre Covolo dichiara: «Spiegai per tempo in un rapporto che un attentato sarebbe stato fatto nei confronti di Walter Tobagi e diedi i nomi di chi l’avrebbe compiuto. Ma non venne preso alcun provvedimento. Dopo la morte di Tobagi ho avuto una discussione molto accesa con Ruffino perché gli avevo detto che volevano uccidere Tobagi e gli avevo fatto i nomi di Marco Barbone e altri. Queste cose le ho anche ripetute come testimone al processo in corso a Monza davanti a lui. L’incredibile è che per aver fatto il mio dovere ora devo risponderne legalmente».


Il 20 settembre 2007 il Tribunale di Monza condanna Magosso e Brindani e la sentenza viene definita dal Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Franco Abruzzo «lesiva della libertà di stampa», ma nel settembre dell’anno successivo viene condannato anche Covolo, condanne tutte confermate nel 2009 in Appello e definitive nel 2010.



Le polemiche continuano, arriva anche la commissione Moro


Al termine del libro Ragazzi di buona famiglia di Fabrizio Calvi (Piemme) si legge che: «Dopo ventisette anni, il barbaro assassinio di Walter Tobagi non ha ancora smesso di far discutere – e indignare – l’Italia».


Nel 2009 Benedetta Tobagi pubblica per Einaudi Come mi batte forte il tuo cuore in cui definisce la nota di Covolo troppo «generica» per costituire prova che i carabinieri fossero stati avvertiti sei mesi prima dell’omicidio del padre e dopo avere direttamente parlato con Covolo non ritiene sia stato «perseguitato per quel documento».


Nel 2010 Armando Spataro pubblica per Laterza Ne valeva la pena in cui racconta che l’indagine sulla 28 marzo si concentrò sull’area gravitante intorno alla sigla Guerriglia rossa sia perché aveva come obiettivo il mondo della stampa sia per le identiche modalità di recapito delle rivendicazioni a mezzo posta a vari giornalisti, e che fu Ruffino a rilevare per primo l’evidente identità di grafia tra la rivendicazione della rapina di via Colletta trovata due anni prima in via Negroli e quella sulle buste di rivendicazione di Guerriglia rossa e sulle lettere di Barbone alla Rosenzweig.


Ancora una volta la vicenda sembrerebbe conclusa, ma il 19 ottobre 2016 nel corso della seduta n. 107 della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro presieduta da Giuseppe Fioroni, l’ex deputato Umberto Giovine torna a parlare della vicenda Tobagi in termini accusatori:


«Come mai Caterina Rosenzweig rimane fuori dall’inchiesta? È una cosa inaudita. La giustificazione che dette – e lo dico con nome e cognome – Armando Spataro è ancora peggio del fatto in sé. Disse che, siccome Caterina Rosenzweig apparteneva a una «famiglia bene» di Milano – una cosa che un giudice non dovrebbe neanche pensare (io sono nipote di un magistrato), figuriamoci dirla – per questo è rimasta fuori dall’inchiesta; poi questi assassini hanno avuto delle pene irrisorie. Dopo l’affare Moro questa è la cosa che mi fa più andare in bestia quando penso all’Italia, non so se qualcuno ha il potere di intervenire ex post su una cosa del genere, ma che fosse una cosa invereconda lo si capì subito, solo che noi socialisti non ci comportammo in modo intelligente. Anziché muoverci in termini di diritto e contestare ogni mossa di Spataro, la buttammo in politica».



Il flop delle nuove rivelazioni


L’ingente elaborato finale della nuova Commissione Moro non approda a particolari novità, ma il 16 gennaio 2018 i media danno ampio risalto a una conferenza stampa organizzata da Renzo Magosso presso la sala dell’associazione lombarda giornalisti di via Monte Santo in cui vengono annunciate «nuove rivelazioni sull’omicidio Tobagi». Alla conferenza è presente il Giudice Guido Salvini, il quale, pur escludendo ogni «complotto», afferma che non essendo credibile che senza la nota Covolo i carabinieri abbiano potuto mirare proprio a Barbone nella scelta del reperto grafico da comparare con quello reperito due anni prima nella base di Alunni, vi fu una iniziale sottovalutazione di quel documento e dopo l’omicidio si è voluto celare la cosa.
Il giorno dopo Il Corriere della sera, forzando non poco il contenuto di quelle affermazioni, titola: «L’ultima verità sull’assassinio di Tobagi, il giudice Salvini: ‘Si poteva salvare’», e ne seguono nuove polemiche.


In realtà, a quella conferenza non fu esibito nessun nuovo elemento rispetto a quelli già noti. L’appunto di Bonaventura a Bozzo era stato depositato nel corso del processo di Monza, come risultava da una interpellanza presentata dal Partito Radicale riportata in un articolo datato 2008 reperibile sul sito web di Franco Abruzzo, dove si legge: «In quest’ultimo processo è emerso ora un fatto nuovo, giudicato dai Radicali grave e sconvolgente. Il generale Niccolò Bozzo – è scritto nell’interpellanza dei Radicali -, all’epoca dei fatti stretto collaboratore del generale Dalla Chiesa, sentito come teste, ha presentato un documento riservato preparato dai suoi superiori, nel quale venivano date indicazioni a Bozzo per fornire, se interrogato dalla magistratura, la versione ‘concordata’ sulle indagini». La scansione dei primi atti d’indagine era già stata riferita da Spataro nel libro Ne valeva la pena di otto anni prima (pagg. 82 e ss.) e l’articolo su L’Occhio del 25 settembre 1980, dove Magosso scriveva «Preso Marco Barbone delle Br, l’informazione viene da Varese», era stato citato da Stefania Limiti in un post datato 20 ottobre 2009 leggibile sul sito Miccia Corta.


Sempre nel 2018 Zona Contemporanea pubblica Vicolo Tobagi di Antonello De Stefano, il quale ricorda che il fratello fu arrestato mentre era con lui la sera del 3 ottobre ad Arona davanti al Bar Stadio, un giorno prima quindi della data del verbale di confessione di Barbone, confermando che Manfredi conosceva Marchettini perché avevano lavorato insieme all’IRE di Varese. Nel libro compare un’intervista a Francesco Giordano che dice di avere conosciuto i membri di quel gruppo alla fine del 1979 tramite Mario Marano, con loro vennero organizzate due rapine di autofinanziamento, la prima a ridosso di Natale 1979 a Castelpalasio e la seconda nel gennaio del 1980, e la proposta di un attentato a Tobagi gli fu fatta da Barbone dopo il 28 marzo del 1980.


Il 15 agosto 2018 Antonello De Stefano rilascia un’intervista a Roberto Pietrobelli sul Fatto Quotidiano in cui dichiara: «Mio fratello non è morto per un aneurisma e qualche inquirente ha falsificato le carte. Ho aspettato così a lungo a prendere un’iniziativa ufficiale sulla morte di mio fratello, perché ho voluto studiare i 138 faldoni del processo e leggere i 220 mila documenti che essi contengono. Manfredi venne picchiato nel carcere di San Vittore e salvato dalle guardie. Poi fu trasferito a Udine. Ed è all’amministrazione penitenziaria che mi sono rivolto». Si legge nell’articolo: «Pochi giorni fa De Stefano ha scritto a Francesco Basentini, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, nonché per conoscenza al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e ai ministri della Giustizia, della Difesa e degli Interni: Mi trovo nella condizione di richiederle le cartelle cliniche del detenuto Manfredi De Stefano, mio fratello, a far data dal 3 ottobre 1980 e fino al 6 aprile 1984, data della sua morte».




Anche la corte di Strasburgo dice la sua


Passano altri due anni e il 16 gennaio 2020 la Corte di Strasburgo condanna l’Italia per violazione del diritto alla libertà d’espressione di Renzo Magosso e Umberto Brindani assegnando loro un risarcimento di 15mila euro perché, si legge nella sentenza CEDU: «Legittimamente i querelanti potevano dolersi con il brigadiere che ha fatto le affermazioni riportate nel settimanale, per contestare l’eventuale falsità o parzialità delle sue dichiarazioni. Viceversa, quanto al cronista e al direttore responsabile del settimanale, l’oggetto della contesa non poteva riguardare la verità dei fatti narrati ma solo se il cronista si fosse limitato a riportare le frasi dell’intervistato, svolgendo ragionevoli verifiche sulla sua attendibilità, e non avesse operato proprie inserzioni e considerazioni offensive sulla narrazione riferita», aggiungendo che sul punto i tribunali nazionali «non hanno fornito motivi rilevanti e sufficienti per ignorare le informazioni fornite e i controlli effettuati dai ricorrenti, che sono stati il risultato di un’indagine seria e approfondita».


Nel commentare la sentenza a lui favorevole Magosso dichiara al Dubbio: «Se hanno saputo di Barbone solo successivamente, per quale motivo sono andati a controllare? A giugno del 1980 venni contattato dal direttore del Corriere, Franco Di Bella, che mi disse: il generale Dalla Chiesa mi ha detto che ad ammazzare Tobagi è stato il figlio del nostro direttore generale Donato Barbone. Così andai a verificare con Umberto Bonaventura, che confermò la circostanza, aggiungendo di essere arrivato a Barbone tramite un manoscritto anonimo su un attentato mai avvenuto ordito dalle Fcc nel quale riconobbe la calligrafia del giovane. Non ci ho creduto, ma lui mi disse che era un’informazione sicura che veniva da Varese. Così gli chiesi di informarmi dell’arresto, cosa che fece. Su L’Occhio scrissi: preso Marco Barbone delle Br, l’informazione viene da Varese. Otto giorni prima che confessasse. Come fa la magistratura a dire che non ne sapeva nulla?».


Anche qui, fermo restando che la CEDU non ha confermato la versione di Covolo, limitandosi a stabilire che non è perseguibile il giornalista che riporta dichiarazioni altrui dopo avere svolto adeguata inchiesta (che non significa inconfutabile), si potrebbe obiettare che quanto ricorda Magosso non smentisce la versione degli inquirenti. A giugno i carabinieri erano già sulle tracce di Barbone per cui l’anticipazione di Dalla Chiesa a Di Bella è imprudente ma compatibile; l’informazione da Varese poteva riferirsi a quanto riferito da Ricciardi su De Stefano dopo l’omicidio per averlo appreso dal Marchettini e non al precedente appunto del 13 dicembre 1979; se Magosso scrive il 25 settembre che Barbone è delle BR mostra di non essere troppo informato su costui, che comunque indica come arrestato e non come l’assassino di Tobagi.

In ogni caso, questi sono i fatti e ognuno è libero di interpretarli come ritiene, ma poiché ritengo probabile che per il quarantennale dell’assassinio di Walter Tobagi la vicenda della nota Covolo verrà ripresa, pareva corretto ricostruirla.

Pubblicato in Anni 70, Lotta armata, Teorie del complotto | Contrassegnato Alessandro Ruffino, Armando Spataro, Bettino Craxi, Brigata XXVIII marzo, Caterina Rosenzweig, Ciondolo, Dario Covolo, Davide Steccanella, FCC, Formazioni comuniste combattenti, Guerriglia Rossa, Marco barbone, Renzo Magosso, Rocco Ricciardi, Umberto Bonaventura, Walter Tobagi | 1 Risposta








Edited by barionu - 21/4/2024, 21:10
 
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CAT_IMG Posted on 21/4/2024, 19:09
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