Origini delle Religioni

ALCHIMIA

« Older   Newer »
  Share  
CAT_IMG Posted on 10/8/2023, 18:31
Avatar

www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=44&t=18168

Group:
Administrator
Posts:
8,427
Location:
Gotham

Status:





https://it.wikipedia.org/wiki/Nomenclatura_chimica


GILLES


https://it.wikipedia.org/wiki/Gilles_de_Rais








ALESSANDRO VOLTA LA PILA


https://it.wikipedia.org/wiki/Pila_di_Volta

https://library.weschool.com/lezione/pila-...uirla-5936.html



-------------------------


LANTANIDI


https://it.wikipedia.org/wiki/Lantanoidi





-------------------------


www.grappa.com/ita/grappa_dettagli...s=1/idsezione=2


BIRINGUCCIO



https://ia800207.us.archive.org/29/items/s...sa00pregoog.pdf

https://it.wikipedia.org/wiki/Alessio_Piemontese

https://it.wikipedia.org/wiki/Sangue_di_dr...%20usi%20simili.

www.imss.fi.it/milleanni/cronologia/crchim/chim1400.html




BIRINGUCCI, Vannoccio

di Ugo Tucci - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 10 (1968)


Condividi

Pubblicità
BIRINGUCCI (Bernigucio), Vannoccio



Figlio di Paolo di Vannoccio e di Lucrezia di Bartolomeo, nacque a Siena, dove fu battezzato il 20 ott. 1480.


Suo padre fece parte dell'ufficio dei "viarii", che era preposto alla rete stradale cittadina e ai ponti e alle strade, e ne 1504 era "operaio" delle muraglie del palazzo comunale. Non sappiamo nulla del corso dei suoi studi, che l'Ugurgieri qualifica essenzialmente matematici; essi, tuttavia - anche se non raggiunsero l'eccellenza di quelli del suo contemporaneo Giorgio Agricola e per quanto Benedetto Varchi, suo intimo amico, parli di lui "come quegli il quale avea molta pratica e non molta scienza" - debbono essere stati di discreto livello, quale se non altro poteva convenirsi ad un giovane di famiglia insignita della "civiltà" cittadina. È probabile che, come il suo concittadino Giovanni Sfortunati, autore del Nuovo Lume - libro de arithmetica (Venezia 1545), li abbia condotti alla scuola dei Moreschi e del carmelitano Bernardino Landucci.

Ma molto presto egli fece pratica nelle miniere di ferro di Boccheggiano, appartenenti a Pandolfo Petrucci, signore di Siena, e più tardi gli fu affidata la direzione di una miniera argentifera sul monte Avanza, in Carnia, che mantenne fino a quando, nel 1508, ebbero inizio le ostilità fra Venezia e l'imperatore Massimiliano. Per conoscere i metodi che vi erano usati, aveva compiuto due viaggi in Germania, e dopo la chiusura della miniera visitò Sbozzo (Schwaz?), Pleiper (Bleiberg), Innsbruck, Alla (Hall), Arottimberg (Rattenberg) e numerosi centri minerari italiani. Soggiornò anche a Milano, dove prese grandissimo interesse alle fornaci per la fabbricazione dell'ottone. In questi anni dovrebbero collocarsi i suoi soggiorni a Ferrara, al servizio di Alfonso I d'Este, e a Venezia.

Il B. tornò poi a Siena e fu inviato dal Petrucci a sovrintendere alle miniere di Bocchiaggiano: qui ebbe modo di apportare numerosi perfezionamenti, in particolare alla messa in opera dei mantici.

Sempre godendo della protezione dei Petrucci, per i quali parteggiava, sebbene la sua famiglia fosse del Monte dei Riformatori, nel 1513 venne nominato "operaio" dell'armeria del Comune e in quello stesso anno ebbe l'incarico d'innalzare archi trionfali in onore del cardinale di Gurk, che passava per la città insieme col duca Francesco Sforza. Il 3 febbr. 1514, in società con Alessandro Vigni, ottenne l'appalto della zecca senese per cinque anni, ma nel 1515 fu costretto a fuggire insieme con Borghese Petrucci e i suoi fautori, sotto l'accusa di aver alterato, per istigazione di lui e con la correità dell'orefice Francesco Castori, la lega delle monete coniate. A detta di Sigismondo Tizio, cronista contemporaneo e avversario politico della sua fazione, si sarebbe accertato che borghese aveva intascato cinquanta ducati d'oro al mese e i suoi complici quaranta. Contumace al processo penale istruito a suo carico, l'anno seguente il B. fu dichiarato ribelle (il suo socio Alessandro Galgani fu invece assolto) e condannato al bando come traditore della Repubblica.

Soggiornò a Roma, a Napoli e, nel 1517, in Sicilia. A Roma - sempre secondo il Tizio - per le sue brighe sarebbe nato uno scontro fra Borghese Petrucci e il fratello di lui Alfonso, conclusosi col ferimento del primo. Indebolitasi la posizione dei Petrucci in seguito alle macchinazioni contro Leone X, il B. si portò con altri fuorusciti a Urbino per chiedere l'appoggio del duca per cacciare da Siena il cardinale Raffaele Petrucci, signore della città. Fu perciò rinnovato il bando contro di lui, ma nel 1523 poté rientrare a Siena col figlio minore di Pandolfo Petrucci, Fabio, dopo che venne accolta benevolmente dalla Balìa una sua lettera. Ottenuta la revoca del bando, fu reintegrato nel possesso dei beni sequestrati e nell'ufficio di "operaio" dell'armeria comunale; il 7 genn. 1525 si assicurò il privilegio della fabbrica del salnitro per tutto il territorio senese, con l'obbligo di consegnarne una parte al comune a un prezzo convenuto.

Qualche tempo dopo Fabio gli affidò la missione di accompagnare a Siena Caterina di Galeotto de' Medici, sua sposa, ma mentre egli si trovava a Firenze una rivolta popolare cacciò il Petrucci, il quale fu seguito in esilio dagli aderenti alla fazione dei Noveschi. Invano il B. aveva tentato di opporsi, trattando coi Medici e col cardinale Silvio Passerini e cercando di raccogliere milizie. Esortato a rientrare a Siena dal nuovo signore della città, Alessandro Bichi, non accolse l'invito, così che fu di nuovo dichiarato ribelle e subì la confisca dei beni, il 20 maggio 1526, mentre era a Roma (una sua lettera autografa, diretta a un Bortolo di Girolamo, mastro falegname, per lavori di riparazione ad una sua casetta a Siena, porta la data del 25 maggio); l'11 agosto gli fu rinnovato il bando, per aver partecipato con gli altri fuorusciti senesi allo sfortunato assalto di Porta Camollia (21-25 luglio), durante il quale egli aveva diretto il fuoco delle artiglierie contro il torrazzo della castellaccia di Camollia. Tornò allora a Roma, donde si mosse per trattare con quei Noveschi che, ritiratisi nel castello di Montebenichi, tentavano di rientrare a Siena.

Non sappiamo con esattezza che cosa abbia fatto negli anni seguenti, che il Romagnoli e il Mieli, senza spiegare su quale base, suppongono egli abbia trascorso in Germania in viaggio d'istruzione. Nel 1529 lo troviamo al servizio di Firenze, assediata dagli Imperiali, impegnato nella fabbricazione di artiglierie, in particolare dell'"archibuso di Malatesta", una gigantesca doppia colubrina del peso di diciottomila libbre, "di braccia undici e mezza d'un gitto solo", con la culatta a testa d'elefante (egli scriverà di non aver mai fuso artiglierie senza ornarle di figure d'uomini o d'animali o simili). Nominato il 7 maggio dai fiorentini Dieci di Balìa procuratore delle artiglierie, gettò cannoni, mezze colubrine e falconetti, calibrandoli mediante la trapanatura.

Nel medesimo anno, composte le inimicizie fra i partiti, tornò in patria. Nel primo bimestre del 1531 fece parte del Magistrato della città per l'ordine dei Riformatori e nel 1535 successe a Baldassarre Peruzzi come architetto e capomastro dell'opera del duomo; nel 1536 fu chiamato a pronunciare un lodo d'indole artistica in una vertenza fra gli Arduini e il Sodoma.

Il 18 dic. 1534, con suo motu proprio, il papa gli aveva affidato le cariche di capitano dell'artiglieria e di fonditore, che prima erano ricoperte da Antonio Rossi da Città di Castello e dal genovese Vincenzo Joardi. Una lettera del 1536 di monsignor Claudio Tolomei lo sollecitava a trasferirsi a Roma per curare i suoi interessi in quella città. Qui morì improvvisamente nell'agosto 1537: il 7 "stava in caso di morte" e in un mandato di pagamento del 19 risulta già defunto.

Non ci è rimasto nulla dei suoi bronzi e delle altre opere di fonditura, che dovettero probabilmente essere disfatti per reimpiegarne il metallo (si pensi alla statua di Giulio II di Michelangelo, che nel 1511 venne fusa per farne cannoni): il "Liofante" impiegato a Firenze nel 1529 fu demolito nella torre di Livorno poco prima del 1544.

Ebbe due figli, Alessandro, che legò il suo nome agli ultimi avvenimenti politici della Repubblica, e Camillo, il quale lo seguì a Roma e più tardi - nel 1556 - figura tra i membri del supremo Magistrato senese. Suo padre, Paolo, che nel 1498 si era sposato una seconda volta con Lisabetta di Filippo Boninsegni, che gli portò in dote 1000 fiorini, morì a Siena nel 1512. Dei due fratelli del B., Bartolomeo, nato nel 1483, e Francesco, si hanno poche notizie.

Tre anni dopo la morte del B., nel 1540, venne pubblicato a Venezia, un suo trattato,De la Pirotechnia, sulla tecnica delle lavorazioni a fuoco.

L'opera si compone di dieci libri, suddivisi in capitoli. Il primo - che tratta "De tutte le minere in generale" - si apre con un proemio che contiene regole generali sulla ricerca dei minerali, sul modo di far le cave e sugli strumenti necessari. L'oro, col quale s'inizia il discorso sui singoli metalli, perché "fra tutte le cose che sono in questo mondo... è il primo stimato", è definito un composto di sostanze elementari congiunte quasi inseparabilmente in proporzioni determinate, e se ne descrivono i giacimenti, il modo di estrarlo dalle arene fluviali e il processo di amalgamazione (nel nono libro verrà poi presentato quello dell'argento), accettando ironicamente l'incredibile racconto di Alberto Magno, che "in quella sua opera de mineralibus" lo vide generarsi nella testa d'un uomo morto.

In questo capitolo c'è anche il famoso discorso contro gli alchimisti, i "filosofi operanti" che vorrebbero far credere di saperne fabbricare in abbondanza; di loro si parlerà ancora nel capitolo primo del nono libro, che è riservato all'arte alchimica. I capitoli successivi sono dedicati all'argento, al rame, al piombo, allo stagno, al ferro, al modo di far l'acciaio e l'ottone. Il secondo libro ha per argomento i cosiddetti "mezzi minerali" (cioè le sostanze naturali non metalliche, dai "fisici speculatori" chiamate in questo modo per non essere "né tutti pietre né tutti metalli"), i quali vengono distinti in quelli "liquabili al fuocho" (zolfo, antimonio, marcassite, calamina - un carbonato o silicato di zinco, metallo allora sconosciuto - zàffera - vale a dire blu di cobalto, e la menzione che ne fa il B. è la prima che si conosca - manganese) e quelli che "si resolveno ne l'acqua" (sale comune, vetriolo, allume di rocca, salnitro, ecc. ed inoltre - "come cosa acquea" - il mercurio); gli ultimi capitoli parlano del cristallo, delle gemme e della fabbricazione del vetro. Queste classificazioni sono scientificamente discutibili, ma molto aderenti alla pratica, così come le descrizioni, le quali tengono conto soprattutto dei caratteri organolettici.

Il terzo e quarto libro trattano del saggio e della fusione dei metalli e del modo di separarli, con riguardo particolare all'affinaggio dell'oro e dell'argento e con capitoli riservati ai carboni e alla produzione dell'acido separatore (il nitrico: l'"acqua acuta commune"). Esaurita la parte che insegna a "condurre ne' loro proprij e puri corpi tutti li metalli", il B. prende a ragionare del loro impiego, cominciando dalle leghe dell'oro, dell'argento, del rame, del piombo e dello stagno, le quali occupano il quinto libro, e continuando nel sesto e nel settimo col bronzo e con le grandi fusioni, in ispecie delle artiglierie e delle campane. L'ottavo libro descrive l'"arte piccola del getto", e cioè la fusione di piccoli oggetti artistici e d'uso comune; il nono - "Della pratica di più esercitij di fuoco" - contiene capitoli sull'arte distillatoria, sui lavori dell'orefice, del ramaio, del fabbro, dello stagnino, del battiloro, sulla coniazione delle monete, la fabbricazione degli specchi, la fusione dei caratteri di stampa, l'arte figulina, la preparazione della calcina e dei laterizi e altre pratiche industriali e chimiche minori. L'ultimo libro riguarda il salnitro, le polveri, mine e contromine, i proiettili, concludendosi con l'apprestamento dei fuochi artificiali e di altri ordigni per uso pacifico.

Manca ancora, sul trattato, uno studio che lo inquadri compiutamente nell'evoluzione storica della tecnologia, ma gli specialisti hanno dato risalto, con varia prospettiva, a molti dei suoi aspetti più notevoli. Il problema, naturalmente, non si pone nello stabilire delle priorità, ma piuttosto nel fissare alcuni momenti di quel processo, e merita appena di sottolineare che il significato dell'opera del B. prescinde dalla constatazione che abbia raggiunto gradi di perfezione non superati neppure dalle cognizioni odierne.

Mentre appare di limitata consistenza il suo apporto nel settore della geologia e della mineralogia, anche perché il B. non seppe far posto all'esame stratigrafico (F. D. Adams, ad esempio, certamente a torto, lo ignora affatto nel suo The birth and development of the geological sciences, Baltimore 1938), assai pregevole, invece, ed originale si presenta nel campo metallurgico, dove il B. domina, come autorità, insieme con Agricola e con Ercker, per oltre due secoli, fino a Réaumur e a Swedenborg. La Pirotechnia fu il primo libro dedicato alla metallurgia: un'opera, dunque, che si impone per il suo carattere del tutto nuovo, al quale - come osserva il Farrington - dà maggior risalto il fatto che nel primo secolo di vita della stampa furono pubblicati trentamila testi.

In essa troviamo una descrizione esauriente - la prima - dei forni a riverbero (con uno di essi si insegna a riparare le campane fondendone soltanto la parte guasta) e diffusi ragguagli su altri di diverso tipo e sul loro corredo di tramogge e di mantici, azionati a mano e - ciò che costituiva il progresso più decisivo in un secolo che si sforzò di trarre i maggiori vantaggi dalla meccanizzazione - dall'energia idraulica. La trattazione delle tecniche fusorie, la quale è preceduta da un importante accenno alla pratica dell'arrostimento come fase autonoma del trattamento dei solfuri, è completa e perspicua, particolarmente per i metodi di formatura e di colata a cera persa. Del processo di raffinazione del rame è descritto anche il poling, sebbene con qualche manchevolezza; e a proposito della calcinazione del piombo in forni a riverbero il B. fa delle osservazioni importantissime sull'aumento del peso del metallo, che riesce a determinare quantitativamente con molta precisione, proponendo anche una spiegazione del fenomeno

. Poco sviluppata la parte che riguarda lo stagno (ma leggiamo qui la prima menzione dell'impiego dell'antimonio per il suo indurimento, benché questo uso sia destinato a divenire corrente solo due secoli appresso); si parla invece molto diffusamente della fabbricazione dell'ottone, mediante la mescolanza in crogioli incandescenti di calamina calcinata e di rame triturato, secondo un vecchio procedimento, già descritto da Teofilo, che il B. aveva potuto ammirare in una officina milanese dove si lavorava giorno e notte per la produzione di piccoli oggetti, adoperando forme di argilla essiccata. Pure la metallurgia del bronzo ha nel B. - che qui, secondo il Lippmann, avrebbe attinto a fonti tedesche - un preciso ed acuto illustratore (egli osservò, fra l'altro, che aumentando il tenore di stagno la lega mutava colore e diveniva più dura e più fragile), e così la siderurgia. Per quanto tale processo debba ritenersi noto già in precedenza, è nella sua opera che si fa per la prima volta parola della cementazione, che veniva eseguita immergendo masselli di ferro dolce nella ghisa liquida fino a raggiungere un certo grado di carburazione, per poi fucinarli e temprarli; ed è ancora alla Pirotechnia che dobbiamo la prima accurata descrizione del seguirsi dei colori nella tempra dell'acciaio con relazione alla durezza (su questo fenomeno dovrà poi tornare Boyle).

Le pagine dedicate all'estrazione dell'argento dai suoi minerali e alla separazione dei due metalli nobili sono del massimo interesse: a proposito del procedimento che prevede l'impiego dell'acido nitrico, il Percy osserva che è esposto in modo che potrebbe seguirlo proficuamente anche un metallurgista dei giorni nostri. La stessa cosa può dirsi del metodo "secco" di cementazione con cloruro di sodio, dell'inquartazione, della solforizzazione con solfuro d'antimonio. I coniugi Hoover, nel loro commento al De re metallica di Agricola, ritengono di poter attribuire al mineralologo sassone la prima descrizione completa del trattamento del materiale argentifero per liquazione con piombo, ma è certo che il B. ne parla già ampiamente molti anni prima di lui, per quanto con minore ricchezza di particolari (con tutta probabilità il sistema era in uso già da tempo: il forno biringucciano comparirà poi, con qualche leggera variante, nella figurazione di Ercker). Anche il più vecchio ragguaglio sull'impiego del mercurio nella metallurgia dell'argento si trova nel B., il quale fornisce un'appropriata spiegazione dell'amalgamazione molti anni prima che questa tecnica si sviluppasse nel Messico e nel Perù col nome di processo del patio. È noto che la scoperta venne da alcuni ascritta a Bartolomeo de Medina, ma lo stesso minatore messicano ammette di aver appreso tale metodo in Spagna: a lui, tuttavia, va almeno il merito di averlo introdotto in forma industriale (Pedro Fernandez de Velasco ne sarà più tardi l'iniziatore in Perù), mentre la Pirotechnia si limita a dar conto di operazioni su piccola scala. Il B. scrive che donò un anello e promise un ottavo degli utili a chi gli confidò tale segreto, e perciò non si doveva trattare di una pratica tanto diffusa: è lecito supporre che egli l'abbia appresa durante il suo soggiorno in Carnia, dove il mercurio che si estraeva dalle vicine miniere di Idria offriva agevole occasione d'esperimento.

Numerose sono nel manuale le note sull'assaggio, le quali appaiono estese anche ai minerali di metalli comuni, generalmente trascurati dagli antichi saggiatori. Il B. avverte che per questo scopo si deve ricorrere alla fusione, con lo stesso trattamento che viene applicato ai grossi quantitativi.

Sulla fabbricazione del vetro il B. offre una messe di particolari tecnici forse inferiore a quella del Glaskonst di Peder Månsson, ma la descrizione sua e quella del monaco svedese s'assomigliano tanto che O. Johannsen sospetta che entrambi abbiano attinto ad una medesima fonte; gli Hoover sottolineano che qui troviamo probabilmente la prima specifica menzione del manganese sotto questo nome moderno. In quanto agli specchi egli parla sia di quelli di vetro (dove l'applicazione dello stagno viene fatta con l'aiuto dell'antimonio) sia di quelli metallici, per i quali alla "vecchia" lega egli ne preferisce una molto più ricca di stagno, che C. S. Smith ritiene poco conveniente. Notevole l'esposizione delle tecniche della fusione dei caratteri di stampa, che, mediante l'uso di forme di ottone ad elementi regolabili, assicuravano una produzione molto rapida.

Con il B. cominciò la pratica di gettare pieni i pezzi d'artiglieria e quindi di trapanarli, per ovviare alle difficoltà che offriva il vecchio sistema del nocciolo interno di far sortire l'anima esattamente concentrica con la superficie esterna. A questo scopo egli presentava un'alesatrice orizzontale munita di coltelli, mossa a mano o da forza idraulica, ma non ci è precisato se l'anima venisse ricavata con la sola trapanatura oppure, come è più probabile, venisse gettata di diametro inferiore al calibro desiderato per essere poi allargata fino alla misura giusta. Questa apparecchiatura, nota il Montù, contiene in embrione i dispositivi anche oggi impiegati. Per il getto delle artiglierie il B. si vale degli stessi metodi adoperati per gli altri lavori in bronzo, ma raccomanda di procedere con maggiore lentezza nel riempire le forme: egli dà molta importanza all'uso di una materozza col compito di raccogliere le scorie e i difetti di fusione, ed inoltre all'aggiunta finale di stagno per premunirsi da quella che i tecnici moderni chiamano segregazione inversa.

Il manuale detta anche regole per puntare le artiglierie e per correggerne l'elevazione: un alzo a forellini che vi è descritto assomiglia molto a quello che l'esercito piemontese adottò nel 1848. Il capitolo che parla dei proiettili esplosivi rese celebre il B. presso gli allievi ufficiali dell'artigheria italiana durante la prima guerra mondiale, come ideatore degli shrapnel. Il B. illustra anche i sistemi di estrazione e di raffinamento del salnitro e le tecniche per la fabbricazione della polvere da sparo, indicando vari dosaggi conformi al tipo di arma. Secondo l'opinione dell'Hoefer, la parte che riguarda i "fuochi lavorati" è, salvo qualche aggiunta, un sunto del Liber ignium che va sotto il nome di Marco Greco, fonte del resto citata dal B. (il quale lo chiama - come anche Cardano - Marco Gracco).

Il De la Pirotechnia fu composto con intenti strettamente pratici, col proposito, che risponde a un'esigenza assai diffusa nella letteratura tecnica dell'epoca, di trasmettere agli altri i risultati delle proprie ricerche. L'esposizione è piana, discorsiva, con un'impronta didascalica, ma senza pedanterie. E dove teme che non gli bastino le parole, il B. ricorre all'immagine, sempre viva e nitida, in modo da lasciarsi intendere con precisione.

Benedetto Varchi, tessendo l'elogio dell'autore, dopo aver lodato l'"uomo molto leale e veritiero" lo rappresenta, infatti, "liberalissimo de' suoi tesori", con evidente allusione a quelli dell'ingegno e non ad una prodigalità nello spendere, che peraltro mai si sarebbe potuta accordare con la modestia delle sue sostanze. E il B. stesso - al quale non sfugge l'importanza della collaborazione per il progresso del sapere tecnico - sa essere esplicito sull'ufficio delle "notizie nuove", che sono per lui "le chiavi di far resuscitar gl'ingegni", in quanto destinate a far sorgere negli intelletti "inventioni nuove et nuove notitie".

Ispirati alla convinzione che "la luce del iudicio venire non può senza la pratica", il discorso e la mentalità di lui appaiono costantemente pervasi di positività: egli si pone i problemi in modo diretto, senza ricercare soluzioni teoriche, perché non ama teorizzare, né la sua riflessione giunge mai ad organizzarsi in sistematicità di pensiero. Ma pur devoto all'esperienza e persino animato da uno scetticismo metodico nei riguardi del sapere del suo tempo - un tipo di sapere del quale si mostra insoddisfatto e che è disposto ad accettare soltanto a condizione che gli permetta di arrivare a soluzioni pratiche nel campo che lo interessa - egli s'arresta ancora perplesso davanti al fascino, alle incerte, ardue realtà dell'alchimia; e per il suo discorrerne in forma contraddittoria, alcune volte biasimandola ed altre invece lodandola, il Varchi non gli risparmia l'accusa di essere mal documentato, confuso e irresoluto.

In effetti questo suo atteggiamento può essere criticabile solo parzialmente. Agli occhi del B. l'alchimia è una parte del sapere che ha preceduto l'assai più recente ed ancor malsicura fase tecnologica e sotto certi aspetti ne è stata la radice, ma è ancora un settore ombroso e non privo di allettamenti, se non altro sul piano sperimentale. Per quanto egli dichiari di non conoscerla bene, ne ha certamente avuto un'esperienza propria e ha potuto approfondirne lo studio attraverso il contatto con gli amici che la praticavano, ma i suoi miraggi non lo seducono più. Tuttavia egli non è prevenuto, a patto che gli si offra la possibilità di controllare i risultati. Distingue perciò due vie dell'alchimia, la buona, che segue i procedimenti naturali e pertanto potrebbe anche non rifiutarsi, e la cattiva, la quale è fatta d'apparenza e di frode. L'alchimia, ammette, merita rispetto per quanto ha operato in campo medicinale e per la fabbricazione dei coloranti e dei profumi; le si deve inoltre anche l'invenzione del vetro, ed è innegabile che le sue manipolazioni possano essere dilettevoli e che il suo sforzo di ricerca abbia qualcosa di positivo, ma non è sapere concreto perché non riesce mai a raggiungere i fini che si propone, ed è un lavoro vano, dai principi oscuri, dagli scopi maligni, dagli effetti illusori; è un incessante correre per una strada circolare che riporta eternamente al punto di partenza, "un navigar al cammino del cielo per via dell'oceano". Ed è inutile appoggiarsi all'autorità di certa pretesa tradizione in suo favore, ove fallisca la verifica sperimentale.

Dell'alchimia il B. condanna anche l'incongruità dei procedimenti, le pretese miracolistiche e la disinvoltura con la quale vorrebbe rendersi padrona della natura. Egli ha il culto della natura, che definisce "madre et ministra di tutte le cose create, figliuola di Dio et anima del mondo", ed è convinto che nessuna arte umana le si possa sostituire: la tecnica, "debolissima rispetto ad essa", si sforza d'imitarla e di trarne profitto - anche perché si mostra benigna - ma sarà sempre impotente a trasformarla.

Questa concezione, come nota giustamente P. Rossi, ha precise origini medievali, né ci si può aspettare una moderna impostazione dei rapporti fra natura ed arte prima di Bacone e di Cartesio. Per quanto sia in una direzione nuova, il B. non può infatti rinunciare completamente al bagaglio intellettuale della sua epoca e ne conserva numerosi schemi (del resto non saprebbe come sostituirli), anche perché si occupa soltanto di problemi concreti e pertanto non ha nessuna difficoltà ad accettarli come premesse. Così eredita dall'aristotelismo scolastico la teoria dei quattro elementi e la credenza che ogni processo naturale sia ordinato ad un fine, e si lascia talvolta andare ad affermazioni - come quelle delle virtù straordinarie delle pietre preziose e del sangue di montone - che appartengono all'ordine dei luoghi comuni e mostrano i limiti del suo rigore scientifico. Spesso, però, pur protestando il massimo rispetto per certe autorevoli o diffuse opinioni, sa riderne e non si perita di metterle a cimento con quelle dei pratici.

Il libro del B. riflette una tradizione della scienza applicata che si era venuta formando negli ultimi secoli del Medioevo, ma si presenta ricco di originalità, perché fondato soprattutto sull'esperienza diretta. Di ogni fenomeno si controllano i risultati e si ricercano spiegazioni razionali, rifuggendo, per quanto è possibile, dal ricorso al principio d'autorità. Una cura particolare, poi, è volta alla semplificazione dei procedimenti, i quali vengono esposti con molta chiarezza, sulla linea di una rigorosa concatenazione di cause ed effetti.

Per questa sua intelligenza limpida e concreta, per la sua acutezza di osservatore e di sperimentatore, per il suo saper essere alieno da speculazioni magiche o mistiche, nel B. si è voluto vedere uno degli iniziatori del metodo sperimentale. Il giudizio - che è del Mieli - va certamente attenuato, perché manca all'opera del tecnico senese, come in quelle di altri suoi contemporanei non meno illustri, una teoria d'insieme, un legame fra le membra sparse che si esprima in una sintesi razionale; ma rimane in definitiva giusto purché, appunto, s'intenda il suo sperimentare come intermedio fra quello non scientifico del Medioevo e quello sempre più razionalmente calcolato dell'età successiva. In ogni caso non si può condividere - come infatti mostra di non condividerla il Farrington - l'opinione del Thorndike che la Pirotechnia non sia altro che la presentazione in lingua italiana di tutto ciò che si può già trovare in opere latine dei tre secoli precedenti. Noi crediamo che non se ne esageri la portata riconoscendole un posto fra quegli scritti rinascimentali che, se anche non anticiparono certi grandi momenti della storia del pensiero e della scienza moderne, ne costituirono tuttavia un efficace preludio.

È certo, però, che per il suo carattere descrittivo, pur portando un insostituibile contributo alla scienza come conoscenza positiva, non suscitò idee nuove, e la sua circolazione, ancorché intensissima, rimase limitata alla cerchia dei tecnici e dei pratici, ai margini del movimento scientifico. In questo settore il posto venne ben presto occupato dal trattato di Agricola, uscito dai torchi più tardi (1556) e in parecchi punti chiaramente derivato da quello del B. (l'Agricola l'aveva ricevuto in dono da Francesco Badoer, ambasciatore veneto presso Ferdinando re dei Romani, e ne aveva tratto stimolo), ma scritto da un uomo di formazione, culturale ben più solida e di interessi più vasti, e per di più in una lingua - la latina - capace di assicurargli una diffusione universale (tanto per citare un esempio, l'Arte de los metales di A. Barba Toscano, vangelo dei minatori dell'America Latina, ignora del tutto il B. mentre attinge largamente al De re metallica).

Francesco Bacone conobbe sicuramente l'opera di Giorgio Agricola, ma forse non ebbe occasione di sfogliare il De la Pirotechnia, che pure era stato introdotto in Inghilterra da sir Thomas Smyth e vi circolava in una traduzione parziale.

La supposizione di un interesse del mondo degli scienziati e dei filosofi per l'opera del tecnico senese, manifestato attraverso due edizioni latine, e cioè con una significativa inversione del consueto processo di passaggio dall'una all'altra lingua, sembra purtroppo destinata a restare senza fondamento, perché non è stato mai possibile reperire le due edizioni, né affidarsi ad una testimonianza certa, così che è lecito dubitare che la notizia sia sorta da un equivoco.

La data di composizione dell'opera si può collocare fra il 1534 e il 1535, sulla base dell'accenno alle "ferine man de le nation barbare che da circa a 40 anni in qua dentro ci sonno entrate" (I, 1) e del riferimento al Peruzzi ancora vivente (II, 13). È probabile che si sia sviluppata, come suppone il Mieli, su un canovaccio di annotazioni e di appunti suggeriti dall'esperienza artigianale di tutti i giorni e continuamente riveduti e arricchiti di nuove osservazioni, ma è certo che presenta una coerenza sistematica nella disposizione della materia, una completezza di stesura, un'intrinseca unità, le quali fanno pensare che il B. sia riuscito a darle una redazione definitiva. Apparì postuma, ma a questo dato non si deve annettere un valore particolare, perché molto spesso l'editoria dell'epoca ritardava la pubblicazione dei manoscritti in rapporto ad esigenze aziendali o di mercato.

La prima edizione venne in luce a Venezia stampatore Venturino Roffinello, nel 1540, sotto il titolo De la Pirotechnia libri X dove ampiamente si tratta non solo di ogni sorte & diversità di miniere,ma anchora quanto si ricerca intorno a la prattica di quelle cose di quel che si appartiene a l'arte de la fusione over gitto de metalli come d'ogni altra cosa simile a questa. È ornata da ottantadue belle incisioni in legno, che sono verosimilmente di mano dell'autore. Seguono: Venezia, Giovan Padoano, 1550; Venezia, Comin da Trino, 1559 (sul frontespizio la data del 1558); Venezia, Gironimo Giglio, 1559; Bologna, Gioseffo Longhi, s.d. (ma con una dedica del 1678); Bari 1914 (fino al capitolo quinto del secondo libro).

Le prime tre appartengono a Curtio Navo, che dedicò fittiziamente quella del 1540 a Bernardino di Moncelesi da Salò, a nome del quale sarebbe stata composta. La seconda e la terza edizione presentano nel testo numerose varianti rispetto alla prima, che per la lingua e la maggiore chiarezza di dettato deve ritenersi la più vicina al Biringucci. Dalla dedica alla terza edizione si apprende che l'opera fu "sempre ornata et emendata" dall'arcidiacono raguseo Mario (o Marino) Caboga: a costui, laureato a Padova in diritto, ma privo - almeno a quanto si può desumere dalle sue biografie - delle particolari cognizioni scientifiche che gli attribuisce l'editore, andrebbero dunque addossati i rimaneggiamenti e le alterazioni del testo, in special modo quelli che tradiscono una scarsa dimestichezza con la materia.

La quarta edizione è più dimessa delle precedenti, specie nella parte iconografica (il formato ridotto, la tavola delle cose notabili e l'indicazione della materia in ogni pagina fanno pensare che fosse destinata alla pratica quotidiana); l'edizione bolognese appare condotta sulla quarta e ne ripete anche la modestia formale. Quella critica di Bari, a cura di Aldo Mieli, lascia alquanto a desiderare; interrotta a causa della prima guerra mondiale e non più ripresa, ha per base la prima, ma tiene conto anche delle altre, in particolare della terza e della quinta. Avrebbe dovuto comprendere tre volumi, con un'appendice documentaria.

L'opera ebbe molte traduzioni: in francese, di Jaques Vincent, non troppo fedele, pubblicata tre volte (Paris 1556, e poi 1572, Rouen 1627); di Rieffel (estratto dei libri VI-VII), Paris 1856; in inglese: parziale, Of the generation of metalles and their mynes... by Vannuccius Biringuczius, in The decades of the newe wordle... written in the Latine tongue by Petrus Martyr of Angleria, London 1555; di Cyril S. Smith e Martha T. Gnudi, New York 1942, e nuova edizione, accresciuta nella bibliografia, ibid. 1959; in tedesco: molti passi furono tradotti e incorporati da L. V. Beck nella sua Geschichte des Eisens; di Otto Johannsen, Braunschweig 1925. Si ha anche notizia di due traduzioni latine (Parigi 1572 e Colonia 1658) che non si sono mai rinvenute. La prima è stata forse confusa con la seconda edizione parigina della traduzione francese, che porta la medesima data.






Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Siena,Balìa, reg. 59, c. 102; reg. 64, cc. 53v-54; reg. 73, c. 9; reg. 76, c. 12;

Siena, Biblioteca Civica, E. Romagnoli,Storia dei Bellartisti Senesi, l. II, 1-13; Ibid., S. Tizio,Storie Senesi, B. III, 6-15; B.

Varchi,Sulla verità o falsità dell'Archimia. Questione, Firenze 1827, pp. 19, 63 s.;

Carteggio inedito d'artisti, a cura di G. Gaye, II, Firenze 1840, pp. 157 s.;

Documenti per la storia dell'arte senese, a cura di G. Milanesi, III, Siena 1856, pp. 85, 123-125, 128; B. Varchi,Opere, Trieste 1858, I, p. 219;

Dieci lettere di Senesi illustri dei secc. XV e XVI (nozze Banchi-Brini), Siena 1878; G. Vasari,Le vite..., a cura di G. Milanesi, VI, Firenze 1881, p. 93;

Nuovi documenti per la storia dell'arte senese, a cura di S. Borghesi-L. Banchi, Siena 1898, pp. 472 s.;

G. Agricola,De re metallica, trad. di H.-C. Hoover-L. H. Hoover, London 1912, pp. XXVII, 112, 219-20, 267, 297-98, 402, 410-11, 420, 443, 451, 461-62, 466, 494, 536, 586, 614-15;

I. Ugurgieri Azzolini,Le pompe sanesi, I, Pistoia 1649, p. 664;

T. Garzoni,La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia 1665, pp. 339, 346, 418 ss., 471, 663;

G. Mazzuchelli,Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 1262 s.;

G. Barzelotti,Sugli studi chimico-metallurgici di V. B., in Nuovo giornale dei letterati di Pisa, 1808, n. 25;



L. De Angelis,Biografia degli scrittori sanesi, I, Siena 1824, p. 140;

M. Meyer,Handbuch der Geschichte der FeuerwaffenTechnik, Berlin 1835, p. 30;

F. Hoefer,Histoire de la Chimie, Paris 1843, II, p. 54; G. Libri,Histoire des Sciences Mathématiques en Italie, III, Paris 1841, p. 188;

J. Percy,Metallurgy. Iron and Steel, London 1864, p. 807; Id.,Metallurgy. Silver and Gold, I, London 1880, pp. 23, 303, 317, 347, 368-69, 386-89, 439, 559-62; M. Jaehns,Geschichte der Kriegswissenschaften vornehmlich in Deutschland, München-Leipzig 1889, II, pp. 91-96; L. Beck,Geschichte des Eisens, I, Braunschweig 1891, pp. 836, 910, 943-48; II, ibid. 1893-1895, pp. 33 e passim; III, ibid. 1895, pp. 164, 224, 293, 413, 601-03, 658, 751; R. Caverni,Storia del metodo sperimentale in Italia, Firenze 1893, III, pp. 591 s.; G. Marinelli,Guida della Carnia, Firenze 1898, pp. 453-457; I. Guareschi,V. B. e la chimica termica, in Suppl. annuale alla Encicl. di chimica scient. e industriale, Torino 1904, pp. 417-448; A. Mieli,Sul risveglio del metodo e della pratica sperimentale e sull'opera di V. B., in Gazz. chimica ital., XLIII (1913), 2, pp. 555-562; Id.,La salsedine del mare e V. B., in Rend. dell'Acc. Lincei, XXII (1913), 2, p. 68; Id.,V. B. e il metodo sperimentale, in Isis, I (1914), pp. 90-99; Id., V. B., in La miniera italiana, I (1917), pp. 72-85; E. O. Lippmann,Entstehung und Ausbreitung der Alchemie, Berlin 1919, I, pp. 477, 505, 569, 639; Id.,Beiträge zur Geschichte der Naturwissenschaften und der Technik, I, Berlin 1923, pp. 89, 127, 136, 201; II, ibid. 1953, pp. 202 s., e passim; A. Mieli, V. B., in Scienziati Italiani dall'inizio del Medioevo ai nostri giorni, Roma 1921, I, 1, pp. 20-24; O. Johannsen V. B., in G. Bugge,Das Buch der grossen Chemiker, Berlin 1929, I, pp. 70-84; Id.,Pader Månsson's Glaskunst. Ein Beitrag zur Geschichte der Glastechnik, in Sprechsaal, LXV (1932), pp. 387 s.; C. Montù,Storia della Artiglieria Italiana, Roma 1934, 1, pp. 190, 342, 447, 471, 593, 596 s., 635, 661-67, 910; P. Aloisi,Un precursore ital. dell'arte mineraria: B. V., in Nuova Antologia, 1º dic. 1938, pp. 357-60; G. Provenzal,Profili bio-bibliografici di chimici italiani, Roma 1938, pp. 5-18; E. Malatesta,Armi e armaioli, in Encicl. biografica e bibliografica ital., Milano 1939, pp. 60-61; G. Somigli,L'opera di V. B. senese sulla tecnica della fonderia nel '800, Roma 1939; Id.,L'oeuvre de V. de Sienne sur la technique de la fonderie au XVIe siècle, in Bull. Ass. techn. Fond., 1940, p. 57; Id.,La Pirotechnia,primo trattato di metallurgia e di fonderia in lingua italiana, in Industria meccanica, XXIII (1941), p. 6; M. T. Gnudi-C. S. Smith,Of Typecasting in the Sixteen Century (con la traduzione del cap. settimo del IX libro), Yale 1941; L. Thorndike,A History of magic and experimental Science, V, New York 1941, pp. 7, 543 s.; A. Mieli,Panorama general de Historia de la Ciencia, III,La eclesión del Renacimiento, Buenos Ayres 1951, pp. 190-210; V,La Ciencia del Renacimiento: Matemat. y Cienc. Natur., Buenos Ayres 1952, p. 219; B. Farrington,Francesco Bacone,filosofo dell'età industriale, Torino 1952, pp. 19-21, 32-33, 79; W. C. Dampier,Storia della Scienza, Torino 1953, pp. 198-99; O. Johannsen,Geschichte der Eisens, Düsseldorf 1953, pp. 84 s., 179, 197-200, 206, 220, 355; A. R. Hall,The Scientific Revolution 1500-1800, London 1954, pp. 70, 221 s.; M. Bargalló,La minera y la metalurgia en la América española durante la época colonial, Mexico-Buenos Aires 1955, pp. 109-113; J. Ferguson,Biographical Notes on Histories of Inventions and Books of secrets, London 1959, I, pp. 12, 20 s., 21 e Suppl.; A. C. Crombie,Histoire des Sciences de s. Augustin à Galilée, Paris 1959, pp. 119, 156, 193, 197, 313, 458; P. Rossi, I filosofi e le macchine (1400-1700), Milano 1962, pp. 25, 49-53, 129, 137; C. Singer-E. I. Holmyard-A. Rupert Hall-T. I. Williams,Storia della tecnologia, Torino 1963, III, pp. 29, 32, 37, 39-47, 51-54, 56-59, 63, 66, 70, 218-19, 371-76, 399-400.

VEDI ANCHE
Georg Agricola
Agricola ‹-ì-› (latinizzaz. di Bauer), Georg. - Filologo, medico e metallurgista tedesco (Glauchau 1494 - Chemnitz 1555). Studiò a Bologna e Padova, addottorandosi in filosofia e in medicina. Medico nella città mineraria di Joachimsthal e quindi (dal 1533) a Chemnitz, si dedicò allo studio dei minerali ...
mineralogìa
mineralogìa Scienza che studia i minerali dal punto di vista delle loro proprietà morfologiche, fisiche, chimiche e strutturali, nonché della loro genesi e delle trasformazioni che subiscono per processi naturali. Poiché la maggior parte dei minerali si trova allo stato cristallino e può presentarsi ...
alchimia
Complesso di teorie e tecniche che assumevano la loro ispirazione dalle pratiche tendenti a ottenere la trasmutazione dei metalli vili in oro, la pietra filosofale, l’elisir di lunga vita. Il termine deriva dall’arabo kīmiyā’, uno dei nomi del reagente per la trasformazione dei metalli, detto in Occidente ...
siderurgia
L’insieme delle tecniche che hanno per scopo la produzione e la prima lavorazione del ferro, della ghisa, dell’acciaio e delle ferroleghe, fino alla produzione di semilavorati quali lingotti, billette, lamiere ecc. Comprende la siderurgia estrattiva, che si occupa della produzione della ghisa di prima ...
























-------------------

www.grappa.com/ita/biblioteca_det..../categoria=1810

https://it.wikipedia.org/wiki/Torbern_Olof_Bergman

www.arcangea.it/linee-dedicate/i-s...a-di-paracelso/


https://it.wikipedia.org/wiki/Azoth

https://it.wikipedia.org/wiki/Paracelso

https://ilblogdellasci.wordpress.com/tag/francesco-selmi/










---------------------


https://en.wikipedia.org/wiki/Ulrich_R%C3%BClein_von_Calw

https://mineralogicalrecord.com/new_biobib...on-calw-ulrich/


------------------------------

https://en.wikipedia.org/wiki/Lazarus_Ercker



Chimico, metallurgista (Annaberg, Sassonia, 1530 circa - Praga 1594). Per le sue conoscenze di metallurgia ebbe importanti incarichi, in partic. nel settore minerario e in quello del conio delle monete. La sua opera principale, Beschreibung allerfürnemisten mineralischen Ertzt, pubblicata a Praga nel 1574, ebbe una fortuna non inferiore al De re metallica di G. Agricola (venne riedita quattro volte nel giro di mezzo secolo e, nel 1683, fu tradotta in inglese); si tratta di una sistematica rassegna dei metodi per analizzare minerali, ricavare e raffinare i metalli, ottenere acidi, sali e altri composti, che può essere considerata un primo manuale scientifico di metallurgia e delle sue applicazioni.




In termini generali sostanza dotata di sapore acre (come quello dell’aceto, del succo di limone ecc.), capace di attaccare i metalli (e alcuni loro ossidi) e in grado di reagire con altre sostanze, dette basi, dando luogo a sali. In particolare gli a. inorganici minerali sono formati da idrogeno legato a un non metallo ( idracidi; per es. acido cloridrico), o dall’idrogeno legato a un gruppo atomico, in grado di dar luogo a un anione, che nei casi più comuni ( ossoacidi o ossiacidi; per es. acido solforico) comprende uno o più atomi di ossigeno (per gli acidi organici ➔ carbossilici, acidi).


-------------------------

www.earmi.it/varie/marco%20greco.htm

Enciclopedia delle armi - a cura di Edoardo Mori Sito ospitato da Bignami search
torna indietro

Home > Varie > Marcus Graecus

Marchus Graecus - Liber ignium -





Testo latino e traduzione in lingua italiana


Il manoscritto che contiene il “Liber ignium ad comburendos hostes” e recante come autore un certo “Marchus Graecus” (o Marcus Graecus o Marco Greco) , era noto agli alchimisti medievali e si ritrova riportato in molti codici a partire dal 1400. La prima pubblicazione da parte di uno studioso avvenne nel 1804 a cura di La Porte de Theil che lo aveva trovato nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Essendo brevissimo non ha mai avuto vita autonoma, ma è sempre stato inserito in raccolte di altri scritti.


Non vi sono elementi per affermare che Marcus Graecus (senza la h nella trascrizione ufficiale) sia veramente esistito.


Il testo tramandatoci è in latino, ma non vi è dubbio, in base alle caratteristiche linguistiche, che si tratti di una traduzione da un testo greco il quale a sua volta si era ispirato a fonti arabe. Sono state rinvenute almeno tre versioni del testo latino con varianti in alcune parole, o per errore del copista o perché il termine usato nell’originale era incomprensibile per il copista. Vi è una traduzione in lingua tedesca della metà del 1400, attribuibile a Hans Hartlieb.
Si rinvengono corrispondenze di frasi con il testo De mirabilibus di Alberto Magno e con i testi di Bacone in cui si parla della polvere da sparo (Epistola e Opus Maius). Si suppone che il Liber ignum sia solo un estratto da un’opera più ampia e che Alberto e Bacone abbiano utilizzato quest’ultima.
Ferdinand Hoefer nella sua Historie de la Chimie del 1842 aveva affermato che Marco Greco era citato nel testo di erboristeria De Semplicibus di Mesuë, medico del califfo Mamun (818-840, pubblicato a Venezia in latino nel 1581; concludeva pertanto che lo scritto fosse anteriore a tale periodo. Da un esame del testo del Mesuë si scopre però che egli cita solo delle ricette di “un greco”, ben identificabile come Dioscoride.


Quindi l’unica affermazione sicura che si può fare è che il testo è di qualche decennio anteriore al 1267, anno in cui lo conoscevano Alberto e Bacone.
Le ricette contenute nel manoscritto sono l’espressione tipica della cultura medievale in cui non era importante sperimentare e provare, ma che qualcuno avesse scritto qualche cosa da citare.


Per noi moderni il problema del fuoco come arma è divenuto irrilevante perché siamo circondati da sostanze altamente infiammabili e con un basso punto di accensione. Nell’antichità queste erano pressoché sconosciute. Lo zolfo e la colofonia si accendono con difficoltà e richiedono 190°, il salnitro mescolato con sostanze combustibile richiede 300° e in pratica l’unico prodotto utilizzabile era la trementina che si accende a 50° . Erano conosciuti altri oli eterei di incerte proprietà. Ricordiamoci che la distillazione era nota già agli arabi, ma che raggiunse una certe perfezione solo verso il 1200 e che gli oli eterei evaporano facilmente e quindi non si prestato per miscele incendiarie destinate a durare nel tempo.
Ciò significa che tutte le ricette di composti autoinfiammabili sono mere fantasie. In quasi tutti si cerca di trar profitto dal riscaldamento della calce viva a contatto con l’acqua, ma purtroppo la calce non sviluppa più di 150° e quindi non potrebbe incendiare neppure un foglio di carta; a parte il fatto che l’acqua bagna anche la sostanza che dovrebbe prendere fuoco! Unica possibilità, forse utilizzata dai bizantini, era quella di impiegare petrolio, alquanto raro in occidente.

La pochezza delle ricette si vede anche da quelle in cui una modesta e ipotetica fosforescenza di sostanze organiche viene presentata come una magica fonte di luce.

Stranamente le ricette più realistiche sono proprio quelle dove si parla della polvere da sparo e quindi il testo è sicuramente utile per la sua storia. È il primo documento occidentale in cui si parla con chiarezza di una polvere da sparo sufficiente per usi pirotecnici.
Ritengo perciò utile riportalo qui integralmente, accompagnato da una mia traduzione. Non mi consta che ne esistano altre, salvo quella parziale di Hoefer.
La mia traduzione è puramente orientativa perché il testo è di difficile comprensione e infarcito di termini oscuri che non compaiono né dei dizionari del latino classico né nel Glossarium mediae et infimae latinitatis del Du Cange. Chiedo quindi venia per gli inevitabili errori.
Il testo utilizzato è quello parigino.


Incipit liber ignium a Marco Graeco descriptus, cuius virtus et efficacia ad comburendos hostes tam in mari quam in terra plurimum efficax reperitur; quorum primus hic est.

Recipe sandaracae purae libram I, armoniaci liquidi ana. Haec simul pista et in vase fictili vitreato et luto sapientiae diligenter obturato deinde donec liquescat, ignis supponatur. Liquoris vero istius haec sunt signa, ut ligno intromisso per foramen ad modum butyri videatur. Postea vero IV libras de alkitran graeco infundas. Haec autem sub tecto fieri prohibeantur, quum periculum immineret. Cum autem in mari ex ipso operari volueris, de pelle caprina accipies utrem, et in ipsum de hoc oleo libras II intromittas. Si hostes prope fuerint, intromittes minus, si vero remoti fuerint, plus mittes. Postea vero utrem ad veru ferreum ligabis, lignum adversus veru grossitudinem faciens. Ipsum veru inferius sepo perungues, lignum praedictum in ripa succendes, et sub utre locabis. Tunc vero oleum sub veru et super lignum destillans accensum super aquas discurret, et quidquid obviam fuerit, concremabit.



Inizia il libro di Marco Greco in cui si trovano molte efficaci indicazioni su come bruciare i nemici per mare e per terra; questa è la prima.
Prendere una libbra di sandracca pura e altrettanto liquido ammoniacale (1) Fatene una pasta che scalderete in un vaso di terra cotta vetrificato e chiuso ermeticamente con luto di saggezza (2) tenendolo sul fuoco fino a che si scioglie. La consistenza giusta si ha quando introducendo una bacchetta di legno attraverso un buco, il liquido appare come il burro. Dopo di ciò aggiungere 4 libbre di pece liquida. Si eviti di fare ciò entro una casa perché è cosa pericolosa. Se si vuole fare ciò in mare, si prenda un otre di pelle di capra e si riempia con due libbre di questo olio. Se il nemico è vicino, mettine meno, se è lontano di più. Poi si lega l’otre ad uno spiedo di ferro infilato in una robusta tavola di legno. Il legno va unto in fondo con grasso che poi viene acceso e che viene posto sotto l’otre. Allora l’olio che gocciola sul ferro e sul legno infiammati si accende e brucia tutto ciò che incontra.

Et sequitur alia species ignis quae comburit domos inimicorum in montibus sitas, aut in aliis locis, si libet. Recipe balsami sive petrolei libram I, medulae cannae ferulae libras sex, sulphuris libram I, pinguedinis arietinae liquefactae libram I, et oleum terebenthinae sive de lateribus vel anethorum. Omnibus his collectis sagittam quadrifidam faciens de confectione praedicta replebis. Igne autem intus reposito, in aerem cum arcu emittes; ibi enim sepo liquefacto et confectione succensa, quocumque loco cecidit, comburet illum; et si aqua superiecta fuerit, augmentabitur flamma ignis.



Segue poi un’alto tipo di fuoco per bruciare le case dei nemici sui monti o altrove.
Prendi una libbra di balsamo o di petrolio, sei libbre di midollo di canna, una libbra di zolfo, una libbra di grasso di montone fuso e olio di terebinto o di (lateribus ?) o di aneti.
Si mescolano assieme e vi si intinge una freccia a quattro teste e dopo averla accesa la lanci con l’arco; qualunque luogo in cui cade la miscela accesa, viene bruciato; e se vi si getta acqua sopra, si aumentano le fiamme.

Alius modus ignis ad comburendos hostes ubique sitos. Recipe balsamum, oleum Aethiopiae, alkitran et oleum sulphuris. Haec quidem omnia in vase fictili reposita in fimo diebus XV subfodias. Quo inde extracto, corvos eodem perunguens ad hostilia loca sive tentoria destinabis. Oriente enim sole, ubicumque illud liquefactum fuerit, accendetur. Unde semper ante solis ortum aut post occasum ipsius praecipimus esse mittendos.



Altro modo per bruciare i nemici in ogni luogo. Prendi del balsamo, olio di Etiopia(3), pece e olio sulfureo. Metterli assieme in un vaso di terracotta e lasciarlo riposare per 15 giorni sotto del concime. Poi si toglie fuori e ne ungerai dei corvi da mandare verso i luoghi dei nemici o loro accampamenti.
La sostanza, comunque riscaldata dal sole, si accenderà. Perciò dovranno essere lasciati solo prima del sorgere del sole o dopo il suo tramonto.

Oleum vero sulphuris sic fit. Recipe sulphuris uncias quattuor, quibus in marmoreo lapide contritis et in pulverem redactis, oleum iuniperi quattuor uncias admisces et in caldario pone, ut, lento igne supposito, destillare incipiat.
Modus autem ad idem. Recipe sulphuris splendidi quattuor uncias, vitella ovorum quinquaginta unum contrita, et in patella ferrea lento igne coquantur; et quum ardere inceperit, in altera parte patellae declinans, quod liquidius enfanabit, ipsum est quod quaeris, oleum scilicet sulphuricum.



L’olio di zolfo si fa in questo modo. Prendi quattro once di zolfo che polverizzi in un mortaio di marmo; aggiungi e mescolalo con 4 once di olio di ginepro, mettilo in una caldaia su fuoco lento e fallo distillare.
Altro modo per la stessa cosa. Prendi 4 once di zolfo purissimo tritato con 51 rossi d’uovo e fai cuocere lentamente in una pentola larga di ferro; quando comuncia a bruciare fai colare fuori dalla pentola il liquido che si è formato; ciò è quello che cerchi e che si chiama olio sulfureo.

Sequitur alia species ignis, cum qua, si opus, subeas hostiles domus vicinas. Recipe alkitran, boni olei ovorum, sulphuris quod leviter frangitur ana unciam unam. Quae quidem omnia commisceantur. Pista et ad prunas appone. Quum autem commixta fuerint, ad collectionem totius confectionis quartam partem cerae novae adicies, ut in modum cataplasmatis convertatur. Quum autem operari volueris, vesicam bovis vento repletam accipias, et foramen in ea faciens cera supposita ipsam obturabis. Vesica tali praescripta saepissime oleo peruncta cum ligno marrubii, quod ad haec invenietur aptius, accenso ac simul imposito, foramen aperies; ea enim semel accensa et a filtro quo involuta fuerit extracta, in ventosa nocte sub lecto vel tecto inimici tui supponatur. Quocumque enim ventus eam sufflaverit, quidquid propinquum fuerit, comburetur; et si aqua proiecta fuerit, letales procreabit flammas.



Altro metodo per bruciare le case vicine dei nemici. Prendi pece liqida, del buon olio di uova, zolfo tritato; un’oncia di ciascuno. Mescola tutto assieme e metti sulla brage.
Quando saranno ben mescolate aggiungi la quarte parte di cera fresca in modo da ottenere una specie di cataplasma. Per utilizzarlo prendi una vescica di bue piena di aria, falle un buco e chiudilo con un po’ di cera. Quella vescica, unta ripetutamente con l’olio ottenuto, viene poi accesa con legno di marrubio che è il più adatto, aprendo il foro quando serve. Essa, una volta accesa, e che viene tolta dal suo involucro, va infilata in una notte ventosa sotto il letto od il tetto del tuo nemico. Quando il vento la investe, brucia ogni cosa vicina; e se si getta acqua si creano fiamme mortali.

Sub pacis namque specie missis nunciis, ad loca hostilia bacleos gerentes excavos hac materia repletos et confectione, qui iam prope hostes fuerint, quo fungebuntur ignem iam per domos et vias fundentes. Dum calor solis supervenerit, omnia incendio comburentur. Recipe sandaracae Horatactinae (?) libram I; in vase vero fictili, ore concluso, liquescat. Quum autem liquefacta fuerint, medietatem librae olei lini et sulphuris superadjicies. Quae quidem omnia in eodem vase tribus mensibus in fimo ovino reponantur, verumtamen fimum ter in mense renovando.



Con la scusa di inviare nei luoghi del nemico messi per trattare la pace, portino essi del bastoni cavi rimpiti con la miscela che segue e che, giunti dal nemico, lo versino per le case e le strade. Quando giunge il calore del sole
un incendio le brucerà tutte.
Prendi uan libbra di sandracca horatacnina (?) e fallo sciogliere in un vaso chiuso. Poi aggiungi mezza libra di olio di lino e zolfo. Si metta il vaso nel letame di pecora per tre mesi, rinnovando il letame tre volte al mese.

Ignis quem invenit Aristoteles quum cum Alexandro ad obscura loca iter ageret, volens in eo per mensem fieri id quod sol in anno praeparat. Ut in spera de aurichalco, recipe aeris rubicundi libram I, stanni et plumbi, limaturae ferri, singulorum medietatem librae. Quibus pariter liquefactis, ad modum astrolabii lamina formetur lata et rotunda. Ipsam eodem igne perunctam X diebus siccabis, duodecies iterando; per annum namque integrum ignis idem succensus nullatenus deficiet. Quae enim inunctio ultra annum durabit. Si vero locum quempiam inunguere libeat, eo desiccato, scintilla quaelibet diffusa ardebit continue, nec aqua extingui poterit. Et haec est praedicti ignis compositio: Recipe alkitran colophonii, sulphuris crocei, olei ovorum sulphurici; sulphur in marmore teratur. Quo facto universum oleum superponas. Deinde tectoris limaginem ad omne pondus acceptam insimul pista et inungue.



Fuoco inventato da Aristotele in viaggio con Alessandro per luoghi sconosciuti al fine di fare in un mese ciò che il sole fa in un anno. Come per fare una sfera di auricalco prendi una libbra di rame rosso e mezza libbra ciascuno di stagno, piombo e limatura di ferro. Si facciano fondere e si formi una lamina a forma di astrolabio, piatta e rotonda, Farai seccare la stessa unta con il fuoco per dieci giorni e poi per altri dodici; e per un intero anno non verrà meno il fuoco acceso in essa. In basae al periodo di unzione durerà anche oltre un anno. Se poi un qualunque luogo viene unto con la sostanza che poi secca, essa si incendia con una scintilla senza fermarsi e neppure l’acqua lo può spegnere. E questa è la composizione di tale fuoco: prendi una libra di pece liquida, una di zolfo giallo, di olio di uovo sulfureo; si polverizzi lo zolfo nel mortaio e vi si versi sopra tutto l’olio. Prendi poi polvere di intonaco(4) per lo stesso speso, pestala e ungila.

Sequitur alia species ignis, quo Aristoteles domos in montibus sitas destruere incendio ait, ut et mons ipse subsideret. Recipe balsami libram I, alkitran libras V, oleum ovorum et calcis non extinctae libras X. Calcem teras cum oleo donec una fiat massa, deinde inunguas lapides ex ipso et herbas ac renascentias quaslibet in diebus canicularibus, et sub fimo eiusdem regionis subfossa dimittes; postea namque autumnalis pluviae dilapsu succenditur. Terram et indigenas comburit igne Aristoteles, namque hunc ignem annis IX durare asserit.



Segue un altro tipo di fuoco che secondo Aristotele distrugge le case sui monti e farebbe franare lo stesso monte. Prendi una libbra di balsamo, 5 libbre di pece liquida, 10 libbre di calce viva e di olio di uova. Impasta la calce con l’olio e con il composto sfrega nel tempo della canicola le pietre e le erbe che poi nasconderai sotto il concime della zona interessata; la pioggia dell’autunno le incendierà. Col fuoco di Aristotele si bruciano la terra e i suoi abitanti e secondo Aristotele il fuoco dura 9 anni (5).

Compositio inextinguibilis facilis et experta. Accipe sulphur vivum, colophonium, asphaltum classam, tartarum, piculam navalem, fimum ovinum aut columbinum. Haec pulverisa subtiliter petroleo; postea in ampulla reponendo vitrea, orificio bene clauso per dies XV in fimo calido equino subhumetur, extracta vero ampulla destillabis oleum in cucurbita lento igne ac cinere me-diante calidissima ac subtili. In quo si bombax intincta fuerit ac incensa, omnia super quae arcu vel ballista proiecta fuerit incendio concremabit.



Composizione che non si spegne e pratica. Prendi zolfo vivo (11), colofonia, asfalto classam (?) tartaro, pece per barche, sterco di pecora o di piccione. Polverizza tutto e mettilo nel petrolio. Chiudilo in una ampolla di vetro ben sigillata e mettilo per giorni 15 nel concime caldo di cavallo. Distilla poi l’olio a fuoco molto lento e nella cenere. Se si imbeve il cotone con questo liquido tutto ciò su cui viene lanciato con l’arco o con la balista, si incendia.

Nota quod omnis ignis inextinguibilis IV rebus extingui vel suffocari poterit, videlicet cum aceto acuto aut cum urina antiqua vel arena, sive filtro ter in aceto imbibito et toties desiccato ignem iam dictum suffocas.



Nota che ogni fuoco inestinguibile può essere spento o soffocato con quattro cose: con aceto forte o con orina vecchia o con sabbia oppure con un feltro imbevuto nell’aceto più volte dopo averlo fatto essiccare ogni volta.

Nota quod ignis volatilis in aere duplex est compositio; quorum primus est: Recipe partem unam colophonii et tantum sulphuris vivi, II partes vero salis petrosi et in oleo linoso vel lamii, quod est melius, dissolvantur bene pulverisata et oleo liquefacta. Postea in canna vel ligno excavo reponatur et accendatur. Evolat enim subito ad quemcumque locum volueris, et omnia incendio concremabit.



Nota che la composizione del fuoco volante può essere fatta in due maniere. Per la prima prendi una parte di colofonia e altrettanto di zolfo vivo, due parti di salnitro; sciogli il tutto in olio di lino o, ancor meglio, in olio di lamio. Poi si metta in una canna o in tubo di legno e si accenda. Essa vola in qualunque posto tu vorrai e brucia tutto.

Secundus modus ignis volatilis hoc modo conficitur: Accipias libram I sulphuris vivi, libras duas carbonum vitis vel salicis, VI libras salis petrosi. Quae tria subtilissima terantur in lapide marmoreo. Postea pulvis ad libitum in tunica reponatur volatili vel tonitrum faciente. Nota, quod tunica ad volandum debet esse gracilis et longa et cum praedicto pulvere optime conculcato repleta. Tunica vero tonitrum faciens debet esse brevis et grossa et praedicto pulvere semiplena et ab utraque parte fortissime filo ferreo bene ligata. Nota, quod in tali tunica parvum foramen faciendum est, ut tenta im-posita accendatur; quae tenta in extremitatibus sit graciiis, in medio vero lata et praedicto pulvere repleta. Nota quod, quae ad volandum tunica, plicaturas ad libitum habere potest; tonitrum vero faciens, quam plurimas plicaturas. Nota, quod duplex poteris facere tonitrum atque duplex volatile instrumentum, videlicet tunicam includendo.



Il secondo modo per fare il fuoco volante è il seguente. Prendio una libbra di zolfo naturale, due libbre di carbone di legno di vite o di salice, quattro libre di salnitro. Pestare le tre sostanze in un mortaio in modo da ridurle in polvere finissima. Dopo si mette la quantità desiderata di polvere in un involucro per fare un fuoco volante o tonante. Notare che l’involucro per il fuoco volante deve essere sottile e lungo e riempito con la polvere ben compressa. Invece l’involucro per il fuoco tonante deve essere corto e spesso, ripieno per metà con la polvere e ben legato alle due estremità con robusto filo di ferro. Notare che in entrambi gli involucri deve essere fatto un piccolo foro per poter accendervi la miccia; la quale sia sottile alle estremità e nel corpo più grossa e ripiena della stessa polvere.
Nota ancora che l’involucro del fuoco volante può avere molte pieghe; quello tonante ancora di più. Nota che si possono fare fuochi tonanti o volanti a due colpi inserendo due involucri l’uno dentro l’altro.

Nota quod sal petrosum est minera terrae et reperitur in scopulis et lapidibus. Haec terra dissolvatur in aqua bulliente, postea depurata et destillata per filtrum permittatur per diem et noctem integram decoqui; et invenies in fundo laminas salis congelatas cristallinas.



Nota che il salnitro si cava dalla terra e si trova nelle rocce e nei sassi. Questo minerale si scioglie in acqua bollente; poi si fa passare la soluzione per un filtro e si fa raffreddare per un giorno e una notte; così troverai sul fondo il sale congelato in forma di lamelle cristialline (6).

Candela quae, si semel accensa fuerit, non amplius extinguitur. Si vero aqua irrigata fuerit, maius parabit incendium. Formetur sphaera de aere Italico, deinde accipies calcis vivae partem unam, galbani mediam et cum felle testudinis ad pondus galbani sumpto conficies; postea cantharides quot volueris accipies, capitibus et alis abscisis, cum aequali parte olei zambac, teras et in vase fictili reposita, XI diebus sub fimo equino reponantur, de quinto in quintum diem fimum renovando. Sic olei foetidi et crocei spiritum assument, de quo sphaeram illinias; qua siccata, sepo inunguatur, post igne accendatur.



Candela che una volta accesa non si può più spegnere. Ed anzi se viene bagnata con acqua provoca un fuoco maggiore. Si prepari una sfera di rame italico e poi una parte di calce viva, mezza parte di estratto di ferula (galbani) e di fiele di tartaruga; aggiungi poi a volontà cantaridi prive di teste ed ali con egual parte di olio di giglio, ben tritate e riposte in un vaso di terracotta; poi si metta per 11 giorni sotto concime di cavallo, cambiando questo ogni 5 giorni. Si ottiene così un olio fetido e giallo con cui ungerai la sfera; quando è secco si unge di nuovo con il grasso e poi si accende.

Alia candela que continuum praestat incendium. Vermes noctilucas cum oleo zambac puro teres et in rotunda ponas vitrea, orificio lutato cera graeca et sale combusto bene recluso et in fimo, ut iam dictum est, equino reponenda. Quo soluto, sphaeram de ferro Indico vel aurichalco undique cum penna illinias; quae bis inuncta et dessiccata igne succendatur et nunquam deficiet. Si vero attingit pluvia, maius praestat incendii incrementum.



Altra candela che provoca un incendio continuato. Mescola vermi luminosi con olio di giglio e mettilo in vaso rotondo di vetro con l’imboccatura sigillata con cera greca, sale usto e mettila poi, come già detto nel concime di cavallo. Apertolo ungerai con essa una sfera di ferro indiano o di auricalco. Una volta che sarà ben secca, se viene accesa non si spegne più. Se viene bagnata dalla pioggia, il fuoco aumenta.

Alia quae semel incensa dat lumen diuturnum. Recipe noctilucas quum incipiunt volare, et cum aequali parte olei zambac commixta, XIV diebus sub fimo fodias equino. Quo inde. extracto, ad quartam partem istius assumas felles testudinis ad sex felles mustelae, ad medietatem fellis furonis in fimo repone, ut iam dictum est. Deinde exhibe in quolibet vase lichnum cuiuscumque generis, pone de ligno aut latone vel ferro vel aere; ea tandem hoc oleo peruncta et accensa diuturnum praestat incendium. Haec autem opera prodigiosa et admiranda Hermes et Ptolemaeus asserunt.



Un’altra che una volta accesa dà luce per giorni. Prendi delle lucciole che inizino a volare, mescola con una egual parte di olio di giglio e lascialo per 14 giorni sotto il concime di cavallo. Dopo averlo tolto aggiungi alla quarta parte di essi fieli di tartarughe ad un sesto fieli di donnola, alla metà fiele di furetto e poi rimettila nel concime come già detto. Mettila poi un qualunque stoppino in un vaso di legno o di pietra (?) o di ferro o di rame. Questa, unta con tale olio fa luce per giorni. Questo effetto miracoloso viene asserito da Hermes e da Tolomeo

Hoc autem genus candelae neque in domo clausa nec aperta neque in aqua extingui poterit. Quod est: Recipe fel testudinis, fel marini leporis sive lupi aquatici de cuius felle tyriaca. Quibus insimul collectis quadrupliciter noctilucarum capitibus ac alis praecisis adicies; totumque in vase plumbeo vel vitreo repositum in fimo subfodias equino, ut dictum est; quod extractum oleum recipias. Verum tum cum aequali parte praedictorum fellium et aequali noctilucarum admiscens, sub fimo XI diebus subfodias per singulares hebdomades fimum renovando. Quo iam extracto de radice herbae que cyrogaleonis (?) et noctilucis pabulum factum, ex hoc liquore medium superfundas; quod si volueris, omnia repone in vase vitreo et eodem ordine fit. Quolibet enim loco repositum fuerit, continuum praestat incendium.



Questo altro tipo di candela non può essere spenta né al chiuso né all’apertto né nell’acqua. Prendi fiele di tartaruga, fiele di lepre marina o di lupo acquatico dal cui fiele si fa la theriaca.
Mettili assieme e unisci quattro volte tante di lucciole a cui avrai tolto la testa e le ali; mettili in un vaso di piombo o di vetro e poi nel concime di vavallo come detto. Raccoglio l’olio ricavato. Oppure anche detti fieli in parti eguali con le lucciole, nel concime per 11 giorni, cambiando il concime ogni settimana. Prenderai poi dell’estratto di radice dell’erba su cui pascolano cyro galeoni e lucciole e aggiungene metà parte al liquido ottenuto; che poi se vorrai potrai mettere in un vaso e tenere pronto. In qualunque luogo viene riposto, provoca un fuoco continuo.

Candela quae in domo relucet ut argentum: Recipe lacertam nigram vel viridem, cujus caudam amputa et dessicca; nam in cauda ejus argenti vivi silicem reperies. Deinde quodcumque lichnum in illo illinitum ac involutum in lampade locabis vitrea aut ferrea, quae accensa mox domus argenteum induet colorem, et quicumque in domo illa erit, ad modum argenti relucebit.


Candela che in casa riluce come l’argento. Prendi una lucertola nera e una verde; taglia loro la coda e falla seccare; infatti nella loro coda trovi pietra di argento vivo. Qualunque stoppino unto o spalmato con tale sostanza metterai in una lucerna di vetro o di ferro, una volta acceso darà colore di argento alla casa e chi è entro la casa rilucerà come l’argento.

Ut domus quaelibet viridem induat colorem et aviculae coloris eiusdem volent: Recipe cerebrum aviculae in panno involvens tentam et baculum, inde faciens vel pabulum in lampade viridi novo oleo olivarum accendatur.



Come fare apparire verde ogni casa e gli uccelli che volano di qualunque colore. Prendi cervello di uccello e avvolgilo in un panno ….. ……
e poi facendo … si accenda con olio nuovo di oliva.

Ut ignem manibus gestare possis sine ulla laesione: Cum aqua fabarum calida calx dissolvatur, modicum terrae Messinae, postea parum malvae visci adicies. Quibus simul commixtis palmam illinias et desiccari permittas.



Come si può maneggiare il fuoco con le mani senza ferirsi. Si sciolga della calce con acqua di fave calda e poi aggiungi un po’ di terra di Messina e poi un po’ di resina di malva. Con le quali cose mescolate, impiastri il palmo della mano e lasci seccare.

Ut aliquis sine laesione comburi videatur: Alceam cum albumine ovorum conjice, et corpus perungue, et dessiccari permitte. Deinde coque cum vitellis ovorum iteram, commisceas terendo super pannum lineum. Postea sulphur pulverizatum superaspergens accende.



Come si può dar fuoco a qualche cosa senza danno. Sbattere alcéa (malva) con bianco d’uova e ungi con ciò il corpo lasciando seccare. Poi cuoci ancora con rosso d’uovo e mescola imbevendo un panno di lino. Poi spargi sopra dello zolfo polverizzato e accendilo (e il panno non brucerà)

Candela quae, quum aliquis in manibus apertis tenuerit, cito extinguitur; si vero clausis, ignis subito renitebitur. Et haec millies, si vis, poteris facere. Recipe nucem Indicam vel castaneam, eam aqua camphorae conficias, et manus cum eo inungue, et fiet confestim.


Candela che quando viene tenuta da qualcuno nelle mani aperte si spegne; se si chiudono subito ritorna il fuoco. E questo lo puoi fare anche mille volte. Prendi una noce indica o di castagno e macinala con acqua di canfora e ungi con ciò le mani; avverrà quanto detto.

Confectio visci est cum si aqua proiecta fuerit, accendetur ex toto. Recipe calcem vivam, eamque cum modico gummi arabici et oleo in vase candido cum sulphure confice; ex quo factum viscum et aqua aspersa accendetur. Hac vero confectione domus quaelibet adveniente pluvia accendetur.



Massa vischiosa che bagnata si accende tutta. Prendi calce viva con un po di gomma arabica e mescolali in un vaso con zolfo bianco; ciò, bagnato con acqua, si accende. Con questo prodotto si può incendiare qualsiasi casa quando arriva la pioggia.

Lapis qui dicitur petra solis, in domo locandus et appositus lapidi qui dicitur albacarimum. Lapis quidem niger est et rotundus, candidas vero habens notas, ex quo vero lux solaris serenissimus procedit radius. Quem si in domo dimiseris, non minor quam ex candelis cereis splendor procedit. Hic in loco sublimi positus et aqua compositus relucet valde.


Una pietra che viene detta pietra del sole collocata in casa e poggiata alla pietra che viene detta albacarimum (7). Il quale è una pietra nera con delle macchie bianche e da cui scaturisce un chiarissimo raggio di luce solare. Se la metti entro casa ne esce uno splendore non minore di quello di una candela di cera. Messo in alto e bagnato con acqua riluce ancora di più.

Ignem Graecum tali modo facies: Recipe sulphur vivum, tartarum, sarcocollam et picem, sal coctum, oleum petroleum et oleum gemmae. Facias bullire invicem omnia ista bene. Postea impone stuppam et accende, quod si volueris exhibere per embotum ut supra diximus. Stuppa illinita non extinguetur, nisi urina vel aceto vel arena.




Farai il fuoco greco in tal modo: prendi zolfo naturale, tartaro, sarcocolla (8), pece, sale cotto dall’acqua, petrolio e olio di gomma. Fai bollire tutto assieme. Poi immergivi la stoppa e accendila; se vuoi puoi gettarla con uno stantuffo, come detto sopra. La stoppa accesa si spegne solo con orina, aceto o sabbia. (9)

Aquam ardentem sic facies: Recipe vinum nigrum spissum et vetus et in una quarta ipsius distemperabuntur uuciae II sulphuris vivi subtilissime pulverisati, lib. II tartari extracti a bono vino albo, unciae II salis communis; et subdita ponas in cucurbita bene plumbata et alambico supposito destillabis aquam ardentem quam servare debes in vase clauso vitreo.


Come si fa l’acqua ardente. Prendi vino rosso denso e vecchio e in un quarto di esso stempera 2 once di zolfo naturale finemente poverizzato, 2 libbre di tartaro estratto da buon vino, due once di sale; metti tutto ciò in una caldaia ben sigillata e messovi sopra l’alambicco distillerai l’acqua ardente che devi conservare in un vaso di vetro chiuso

Experimentum mirabile quod facit homines ire in igne sine laesione vel etiam portare ignem vel ferrum calidum in manu. Recipe succum bimalvae et albumen ovi et semen psillii et calcem et pulverisa; et confice cum albumine, succis raphani et commisce, et ex hac commixtione illinias corpus tuum et manum et dessiccare permitte, et post iterum illinias et tunc poteris audacter sustinere sine nocumento. Si autem velis ut videatur comburi, tunc accenditur sulphur, nec nocebit ei.


Esperimento mirabile di come un uomo può camminare nel fuoco o portare fuoco o un ferro rovente in mano senza ferirsi. Prendi del succo di bimalva, albume di uovo, seme di psilio, calce e polverizza; e aggiungi albume, succo di rafano e mescola e con questa composizione imbratta il tuo corpo o la mano e lasciala seccare; ripeti l’operazione e poi potrai affrontare il fuoco senza danno. Se poi vuoi dare l’impressione che egli bruci, allora dai fuoco allo zolfo ed egli non ne avrà danno.

Candela accensa quae tantam reddit flammam quae crines vel vestes tenentes eam comburit. Recipe terebenthinam et destilla per alambicum aquam ardentem, quam impones in vino cui applicatur candela et ardebit ipsa. Recipe colophonium et picem subtilissime tritam et ibi cum tunica proicies in ignem vel in flammam candelae.


Una candela accesa che produce una fiammata che brucia i capelli e le vesti. Prendi terebentina e distilla con l’alambicco acqua ardente che poi metti sul vino a cui viene applicata una candela che arderà. Prendi colofonio e pece sottilmente tritate e con un involucro proiettali sul fuoco o sulla fiamma della candela (10)..

Ignis volantis in aere triplex est compositio. Quorum primus fit de sale petroso et sulphure et oleo lini; quibus tritis, distemperatis et in canna positis et accensis, poterit in aerem sufflari.


Tre sono le composizioni per il fuoco volante. La prima è formata da salnitro e zolfo e olio di lino molto ben tritati, mescolati e posti in una canna; dopo averli accesi potrai soffiarli nell’aria.

Alius ignis volans in aere fit ex sale petroso et sulphure vivo et ex carbonibus vitis vel salicis; quibus mixtis et in tenta de papiro facta positis et accensis, mox in aerem volat. Et nota, quod respectu sulphuris debes ponere tres partes de carbonibus, et respectu carbonum, tres partes salpetrae.


Un altro fuoco volante nell’aria si fa con salnitro, zolfo naturale, carbone di vite o di salice; i quali mescolati e messi in un pezzo di papiro steso e poi acceso, subito vola in aria. Nota che rispetto allo zolfo ci vogliono tre parti di carbone e che rispetto al carbone ci vogliono tre parti di salnitro.

Carbunculum gemmae lumen praestantem sic facies: Recipe noctilucas quam plurimas, ipsas conteras in ampulla vitrea et in fimo equino calido sepelias et permorari permittas per XV dies. Postea ipsas remotas destillabis per alembicum et ipsam aquam in cristallo reponas concavo.



Per imitare la luce di una pietra preziosa fai in questo modo : prendi molte lucciole, sminuzzale in una ampolla di vetro e mettile sepolte sotto concime di cavallo caldo. Poi distillerai con l’alambicco e metterai il liquido in un cristallo concavo.

Candela durabilis maxime ingeniosa fit. Fiat archa plumbea vel aenea omnino plena intus et in fundo locetur canale gracile tendens ad candelabrum, et praestabit lumen continuum oleo durante.



Si può fare una ingegnosa candela che brucia a lungo. Si prenda un recipente di piombo o di rame ben pieno (di olio) e sul fondo si metta un sottile canale che va fino al candelabro, così che farà luce fino a che dura l’olio.

Explicit liber ignium.


Fine del libro dei fuochi

1) Non intende l’ammoniaca, spiritus urinae, che all’epoca non era ancora stata scoperta; intende probalbilmente il sale ammoniacale (cloruro di ammonio) sciolto in acqua).
2) Era fatto di sabbia, calce e bianco d’uovo
3) Estratto da salvia argentea, salvia aethiopis
4) Nella traduzione tedesca antica si legge “borra di tessitore” avendo letto textor invece di tector.
5) Nella traduzione tedesca si dice che Alessandro distrusse con esso la città degli Agarreni e che il fuoco può durare non 9 anni ma venti (scambio di lettura fra IX e XX).
6) L’autore non conosce ancora il metodo arabo di estrazione del salnitro mediante liscivia di cenere; la lisciva delle ceneri era usata per purificare le soluzioni grezze si salnitro, ottenute dal lavaggio delle pietre, calcinacci e terreno che contenevano anche i nitrati di magnesio e di calcio (quest’ultimo tremendamente igroscopico) oltre naturalmente a quello di potassio. Alla miscelazione delle due soluzioni si verificava una reazione di doppio scambio, il potassio del carbonato della lisciva si scambiava con il calcio ed il magnesio dei relativi nitrati aumentando così la resa in nitrato di potassio. Si formavano anche i carbonati alcalino terrosi che essendo praticamente insolubili erano facilmente separabili dalle soluzioni e la loro precipitazione favoriva il completamento della reazione. Quando questa pratica abbia avuto inizio è piuttosto difficile da stabilire.
7) Si tratta di una pietra fosforescente
8) Plinio chiama così una resina usata dai pittori
9) È più o meno la ricetta di Anna Komnenas.
10) Si tratta di un metodo per produrre lampi in teatro; oggi si usa la polvere di licopodio.
11) Sulphur vivum è secondo Plinio lo zolfo naturale, mai trattato a caldo.

Qui il testo in pdf con traduzione in italiano e in francese


torna su
email top
Sitemap: in Italiano | auf Deutsch | in English |
www.earmi.it - Enciclopedia delle armi © 1997 - 2003 www.earmi.it
















Edited by barionu - 15/8/2023, 14:33
 
Top
CAT_IMG Posted on 10/8/2023, 18:31
Avatar

granatiere granitico

Group:
Member
Posts:
23,281
Location:
La prima capitale d'Italia

Status:


group
 
Top
CAT_IMG Posted on 6/3/2024, 11:57
Avatar

www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=44&t=18168

Group:
Administrator
Posts:
8,427
Location:
Gotham

Status:








------------------------


https://accademiadellacrusca.it/it/contenu...vo-animico/9259








Un capitolo della storia del linguaggio scientifico-filosofico italiano:

l’aggettivo animico


di Manuela Manfredini



07 aprile 2021



Ci sono parole che bussano più volte alla porta del lessico di una lingua: a volte entrano ma sostano a lungo in anticamera, altre volte non ricevono nessuna risposta. Per queste parole, la situazione di uso incipiente, di cui parlava Bruno Migliorini, non rappresenta la fase preliminare e transitoria che precede il definitivo ingresso, ma una sorta di limbo dal quale non riescono ad uscire, nemmeno per finire silenziosamente nel dimenticatoio.

Una di queste “sventurate” parole è l’aggettivo animico, derivato dal sostantivo anima con il suffisso -ico, suffisso che indica appartenenza, relazione. Assente dai dizionari italiani dell’uso contemporaneo, animico è attestato dalle fonti lessicografiche solo nel Supplemento 2009[1] del Grande Dizionario della Lingua Italiana (GDLI), curato da Edoardo Sanguineti, poeta e scrittore dalla straordinaria vocazione lessicografica. Nei suoi minuziosi spogli lessicali, Sanguineti aveva infatti rintracciato la parola nel saggio critico L’Ora topica di Carlo Dossi (1911) di Gian Pietro Lucini (1867-1914), un autore di vasta cultura europea, ben noto a Sanguineti che gli aveva assegnato il compito di inaugurare il Novecento poetico italiano nella sua antologia Poesia italiana del Novecento (1969).[2]

Animico, dunque, non è neologismo ma non è nemmeno una parola novecentesca: sebbene le sue occorrenze siano piuttosto scarse, l’aggettivo è attestato nella nostra lingua fin dal XIX secolo, ma, a differenza di quanto accaduto in tedesco per seelisch (dal ted. Seele ‘anima’) e in spagnolo per anímico (dallo sp. ánima), non ha trovato accoglienza presso i parlanti italiani contemporanei né come un sinonimo di ‘psichico, psicologico’ né come sinonimo di ‘interiore, spirituale’. In francese, invece, animique ha avuto una certa fortuna, specie a fine Ottocento, anche con il significato di ‘interiore, spirituale’: oggi però non figura più nei dizionari dell’uso ma soltanto nel Trésor de la Langue française, testimoniato da occorrenze esclusivamente ottocentesche (Honoré de Balzac e Charles Renouvier).

La storia di animico in italiano inizia con un omografo che ci riporta agli albori della chimica organica e alle traduzioni dell’importante trattato in tre volumi del chimico svedese Jöns Jacob Berzelius (1779-1848), Lärbok i Kemien (1808-1818). Tradotta in tedesco con il titolo Lehrbuch der Chemie (Dresden 1825-1831), l’opera conobbe diverse edizioni e, dal tedesco, venne poi tradotta in inglese, francese, olandese. Dalla traduzione francese, Traité de chimie, traduit par A. J. L. Jourdan (e M. Esslinger), sur des manuscrits inedits de l’auteur, et sur la dernière edition allemande (Paris, Firmin Didot, 1829-1833), stampata in quattro volumi e otto tomi, furono infine realizzate la traduzione spagnola e quella italiana: J.J. Berzelius, Trattato di chimica, tradotto a Parigi per A.J.L. Jourdan sui manoscritti inediti dell’autore e sull’ultima edizione tedesca; recato in italiano da F. Du Pré, Venezia, Antonelli, 1830-1834. Ed è, in particolare, nel tomo dedicato alla Chimica organica, stampato nel 1833, che si legge per la prima volta la parola animico: “Il solfato animico è oleoso, poco solubile. […] Il benzoato animico è poco solubile nell’acqua fredda […]. L’idroclorato animico forma dei sali doppii” (p. 668).

Occorre subito chiarire che, nell’ambito della chimica organica, l’aggettivo animico non deriva da anima ma da animina (ted. Animin), ossia una base, un “composto che in soluzione possiede reazione alcalina e che reagendo con un acido forma un sale” (il Sabatini-Coletti, s.v.). L’animina, come l’odorina, l’olanina e l’ammolina venne descritta per la prima volta, come risultato della distillazione dell’olio di Dippel, negli “Annalen der Physik” del 1827 dal chimico tedesco Otto Unverdorben (1806-1873). Berzelius riprese questa scoperta e, nel suo fortunato trattato, descrisse i vari sali dell’Animin. Così, dal ted. Animin è derivato il fr. animine, da cui poi l’it. animina; e i composti formati dall’Animin, come lo Schwefelsaures Animin o il Benzoësaures Animin, sono diventati, in francese, il sulfate animique e il benzoate animique e, in italiano, il solfato animico e il benzoato animico. Come si vede, è dal fr. animique che l’italiano ha formato, a calco, animico: infatti, se animico fosse derivato dal ted. Animin o dall’it. animina avrebbe formato animinico, aggiungendo ad animina il suffisso -ico che, nel linguaggio della chimica, individua appunto i composti organici.

I rapidi progressi della chimica organica portarono però molto presto a obsolescenza le quattro basi individuate da Unverdorben, ritenute già, a metà Ottocento, prodotti impuri, composti di ammoniaca e altre sostanze derivate dalla distillazione secca. Così l’animina e il suo aggettivo animico divennero parole del lessico storico della chimica organica ed uscirono dalla sua terminologia d’uso. Alla fine degli anni Novanta del Novecento, la parola animina è tornata alla ribalta, in seguito ad alcune inchieste sul doping sportivo, come traducente di un farmaco da banco, in commercio in Belgio, denominato appunto Animine:

Anche alcuni giocatori della nazionale di calcio hanno usato i prodotti venduti dalla farmacia di Massimo Guandalini, esperto di integratori, consulente della squadra azzurra agli Europei del ’96 e ai Mondiali di Francia […]. Alla farmacia si è giunti anche con una ricetta medica per l’acquisto di animine, un prodotto belga a base di caffeina non compreso nella farmacopea ufficiale. Una ricetta per un cicloamatore laziale. Risulta che fu proprio l’animina a provocare in passato un arresto cardiaco ad un ciclista dilettante.[3]
Ma l’animico che qui ci interessa non ha a che fare con l’animina di Unverdorben e Berzelius. Come aggettivo derivato del sostantivo anima, animico arriva in italiano più tardi, solo nella seconda metà dell’Ottocento, in seguito alla diffusione delle teorie e delle riflessioni sulla vita e sul principio vitale che anima l’organismo vivente e, in generale, l’universo, condotte da studiosi di diversa formazione – filosofi, mistici, medici, fisici, letterati – che intendevano far dialogare la tradizione medica, alchemica e filosofica del XVI e XVII secolo (Paracelso, Jean Baptiste van Helmont, Jacob Böhme) con i progressi che, a partire dal XVIII secolo, stavano registrando discipline come la fisiologia e la fisica. Vengono ad esempio riprese le teorie mediche di Georg Ernst Stahl (1660-1734) e del suo vitalismo che considera l’anima quale “causa prima e unica dell’attività del corpo”,[4] non appartenente al mondo organico, e quelle di Franz Anton Mesmer (1734-1815) e del magnetismo animale secondo cui “uno spirito o fluido ‘vitale’ [...] si sprigionerebbe da ogni essere”.[5] Grazie all’impulso che il vitalismo e il magnetismo animale danno alle ricerche sperimentali sui fenomeni inconsci nell’uomo, a metà XIX secolo si avverte la necessità di avere un aggettivo che indichi ciò che è proprio dell’anima, intesa primariamente come principio vitale che agisce al di là della volontà e della coscienza, a livello inconscio.

Con una trafila simile a quella che abbiamo visto per l’ambito chimico, la parola animico, nel nuovo significato, arriva in italiano attraverso opere francesi (o in traduzione francese) di argomento filosofico, fisico, medico e psicologico.

Nel 1800, in Francia, venne tradotta Aurora oder Morgenröte im Aufgang (Amsterdam 1682) di Jakob Böhme, filosofo e mistico tedesco influenzato da Paracelso e dai testi alchimistici, che aveva suscitato l’interesse prima di Spinoza e poi dei Romantici tedeschi. Per indicare l’attributo dello spirito che, secondo Böhme, si estende fuori dal corpo dell’uomo attraverso le opere da lui realizzate, il traduttore francese di Aurora, il Philosophe Inconnu (pseudonimo di Louis Claude de Saint-Martin, 1743-1803) introdusse l’aggettivo animique: così l’“animalische Geist” o l’“animalische oder Seelengeist” (cap. 15, §39) di Böhme diviene, nella traduzione francese, “l’esprit animique ou de l’âme”. Come si vede, al di là della complessità del significato, animique è qui inteso come aggettivo di relazione di anima (che ha un suo equivalente anche nel ted. seelisch), sia pure in un’accezione che chiama in causa tanto la vita biologicamente intesa, quanto il principio vitale divino che è la finalità dell’organismo.

Anche gli idealisti tedeschi come F. Schelling e G.W.F. Hegel si interessarono al pensiero di Böhme e al tema della Seele ‘anima’. Per questo non sembrerà strano che una delle prime apparizioni in italiano dell’aggettivo animico compaia, nel 1860, sotto la voce Hegel, Giorgio Guglielmo Federico della Nuova Enciclopedia popolare italiana ovvero Dizionario generale di scienze, lettere, arti, storia, geografia ecc. ecc. (Torino, Unione Tipografico-editrice, 1860, V edizione, Vol. X: H-I, p. 49):

Tuttavia lo scopo dell’idea non è mai raggiunto nella natura; perché in qualunque ordine di cose il reale rimane sempre inferiore all’ideale; che anzi, tra la manifestazione e la cosa manifestata esiste una specie di opposizione che si riproduce nell’organismo animico e corporale di qualunque creatura vivente.[6]
Nella sua elaborazione di una filosofia dello spirito, entro il quadro sistematico delineato nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817, 1827, 1830), Hegel fu particolarmente attento agli sviluppi delle teorie mediche che indagavano i processi inconsci e, nel passo appena citato, animico indica precisamente la dimensione dell’anima come è intesa nell’Antropologia hegeliana ossia come Seele inconscia. Poiché la Nuova Enciclopedia popolare italiana è stata compilata sulla base di opere inglesi, tedesche, francesi, appare evidente come la coniazione di animico in italiano trovi le sue ragioni, ancora una volta, in esigenze traduttive.

L’opera hegeliana, però, non è la strada maestra per l’arrivo di animico in Italia, sebbene ci offra la giusta collocazione della nascita della parola in un contesto di dialogo interdisciplinare tra filosofia, religione, biologia e fisiologia. Negli anni Sessanta dell’Ottocento, la parola animico conobbe grande fortuna negli studi del fisico francese Gustave Adolphe Hirn (1815-1890): in Italia le sue opere non vennero tradotte ma, essendo scritte in francese, erano ampiamente conosciute e discusse dagli studiosi italiani, come il filosofo rosminiano dell’Università di Torino Giuseppe Allievo (1830-1913), parimenti impegnato nella critica a hegelismo e positivismo, in favore di uno spiritualismo cattolico. Nel saggio Théorie mécanique de la chaleur. Conséquences philosophiques et métaphysiques de la thermodynamique (Paris, Gauthier-Villars, 1868), Hirn poneva in relazione la termodinamica con l’anima e scriveva:

L’être animique et vivante n’est point un prisonnier temporairement enfermé dans un obscur cachot […]. C’est un principe constitutif de l’univers temporairement soudé, par suite de ses propriétés mêmes, à d’autres principes, et donnant lieu par ce contatct à des phénomènes d’un ordre special [L’essere animico e vivente non è un prigioniero temporaneamente rinchiuso in un oscuro sotterraneo (…). È un principio costitutivo dell’universo temporaneamente saldato, per le sue stesse proprietà, ad altri principi, e che dà origine, per questo fatto, a fenomeni di ordine speciale].
Sempre intorno agli anni Sessanta dell’Ottocento, in Francia, prendeva consistenza la dottrina dello spiritismo, per iniziativa di Allan Kardec (1804-1869): muovendo dalla teoria del magnetismo animale e dai postulati dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, lo spiritismo riteneva che gli spiriti dell’aldilà potessero entrare in contatto con i vivi e dessero origine ai fenomeni parapsichici e medianici, detti appunto animici, come il sonnambulismo e la telepatia. Lo spiritismo si diffuse presto anche in Italia: come testimonia la precoce traduzione delle opere di Kardec e di Das Rätsel des Menschen. Eine Einführung in das Studium der Geheimwissenschaften (1892) di Karl Du Prel (Dell’enigma umano. Introduzione allo studio delle scienze psichiche, Milano, Galli, 1894),[7] accompagnata da una prefazione dello psicologo e scienziato torinese Angelo Brofferio (1846-1894). Ed è proprio tra i sostenitori italiani dello spiritismo, come dimostrano le diverse occorrenze rinvenibili nella rivista torinese “Annali dello spiritismo in Italia. Rassegna psicologica”, fondata da Niceforo Filalete (pseudonimo di Vincenzo Scarpa), che, intorno agli anni Novanta dell’Ottocento la parola animico fa più volte capolino, soprattutto in articoli tradotti dal francese e dallo spagnolo, con il significato di ‘ciò che non è spiegabile razionalmente ma che produce effetti visibili’, come dimostrano i seguenti contesti:

Onde si conchiude, che l’uomo è un essere, il cui elemento animico è lo spirito, e che lo spirito è l’essere intelligente della creazione, il quale anima, secondo il suo sviluppo, organismi differenti (M. Sanz Benito, Esistenza, immortalità e Progresso indefinito dello Spirito, in “Annali dello spiritismo in Italia. Rassegna psicologica”, XXVII, 2, febbraio 1890, p. 38);
Lo Spiritismo è venuto, perché le Sacre Scritture non sono complete: pagine viventi debbonsi loro aggiungere scritte da quelli, che nei secoli trascorsi hanno mancato d’insegnare mentr’erano nel mondo materiale, la grande e vera natura animica dell’uomo (dalla testimonianza della medium R.S. Lillie, Perché è venuto lo Spiritismo?, in “Annali dello spiritismo in Italia. Rassegna psicologica”, XXVII, 7, luglio 1890, p. 209);
L’Aksakow assai più del Hartmann si è studiato di applicare ai fatti la spiegazione animistica e misurare la portata di essa. In realtà ci son fenomeni fisici e intellettuali, che derivano dall’azione a distanza dell’organismo per virtù di un principio animico; ma ce ne sono pur altri, i cui caratteri ci costringono ad arguirne causa l’eguale principio animico, però sciolto dal corpo, cioè ad accettare la spiegazione spiritica. […] Le manifestazioni animiche non si osservano esclusivamente nei medii, ma eziandio ne’ sonnambuli. Ad esse appartengono anche tutti i casi di sdoppiamento o bicorporeità del pari dimostrati positivi per via fotografica e con le descritte forme di stearina (Carlo Du Prel, Fenomenologia dello Spiritismo, in “Annali dello spiritismo in Italia. Rassegna psicologica”, XXVIII, 12, dicembre 1891, p. 353).[8]
A fianco di questa accezione spiritistica, prende piede anche una nuova accezione di animico, quella teosofica. Quando nel 1875 a New York venne fondata la Società teosofica sulla base degli scritti di Elena Petrovna Blavatskij (1831-1891), l’antica teosofia, secondo cui

tutte le religioni del mondo conservano soltanto residui parziali di un’antica verità divina conosciuta nelle varie epoche da un ristretto numero di grandi iniziati, che però non ne avrebbero divulgato che gli aspetti conformi alle condizioni culturali del momento e dell’ambiente”,[9]
venne declinata in senso moderno in quanto, oltre a elementi di derivazione indiana, vi si innestarono presupposti di tipo evoluzionista, umanitarista e monista.

In particolare, grande influenza ebbe, a inizio Novecento, in Francia e in Italia, l’opera di Édouard Schuré (1841-1929), Les Grands Initiés. Esquisse de l’histoire secrète des religions. Rama – Krishna – Hermès – Moïse – Orphée – Pythagore – Platon – Jésus (Paris, Perrin, 1899), il cui sottotitolo recita: “L’anima è la chiave dell’Universo”. Nel grande affresco teosofico e misticheggiante dei Grands Initiés, nel quale le religioni positive vengono assunte come momenti dello svolgimento dell’anima e dello spirito, la parola animique ricorre più volte e, nella traduzione italiana, fatta da Arnaldo Cervesato nel 1906 per Laterza (e ancora oggi riproposta ai lettori come testimonia la ristampa del 2018), viene resa sia con dell’anima sia con animico:

una nuova forza intellettuale ed animica, che agisca dall’interno e da quel fondo della natura che noi chiamiamo l’al di là, rispetto alla percezione dei sensi. Senza questa forza intellettuale e animica non si spiegherebbe nemmeno l’esistenza di una cellula organica nel mondo inorganico.[10]
Così, attestato soprattutto in testi spiritistici e teosofici, alla fine dell’Ottocento, in Italia, l’aggettivo animico si circonda di un’aura misteriosa e iniziatica che, come vedremo, renderà complicata l’acclimatazione della parola come aggettivo di relazione neutro. Questa difficoltà però non si ebbe né in Francia né in Spagna, dove il fr. animique e lo sp. anímico erano divenuti, nel corso del XIX secolo, sinonimi di ‘interiore’, ‘psichico’, ‘di ciò che riguarda lo stato emotivo o sentimentale’. Inoltre, il fr. animique e lo sp. anímico ricorrevano negli scritti degli autori che trattavano del cosiddetto animismo letterario, cioè della tendenza dei poeti e dei letterati ad animare la natura. Fonte teorica di questa posizione che considerava l’animismo letterario retaggio dell’animismo primitivo furono gli scritti dell’antropologo evoluzionista Edward Burnett Tylor (1832-1917), in particolare di Primitive Culture (1871), che con animismo indicò la forma aurorale di religione, per la quale tutte le creature viventi, le piante e gli oggetti possiedono un principio vitale chiamato anima, destinato a svilupparsi, secondo uno schema evoluzionistico, in animismo-politeismo-monoteismo.[11]

Di questa ambigua collocazione della parola animico tra religione, scienza, filosofia e letteratura valga la testimonianza di un passo tratto dalla recensione al saggio di Charles Letourneau, L’évolution mythologique. Nature et origines du sentiment religieux (1891), scritta da Iacopo Danielli e ospitata sulla rivista di Paolo Mantegazza, “Archivio per l’antropologia e la etnologia” (XXII, 1, 1892, p. 165):

l’Autore in questa lezione si occupa dell’animismo letterario, citando brani di poeti e di prosatori anche moderni, fra i quali Victor Hugo, che è un animico dei più intensi, che dà ai flutti la memoria dei naufragi e anche il talento di raccontarli. Il fatto stesso che per piacerci, per commuoverci, o per obbedire alla loro ispirazione, certi scrittori hanno bisogno di dare questa forma animica alle loro finzioni poetiche, proclama che l’animismo è ancora latente nello loro spirito e nel nostro.[12]
Quest’accezione animistico letteraria ci riporta alla prima attestazione di animico nei vocabolari italiani, rinvenuta nel Supplemento 2009 del GDLI e attribuita a Gian Pietro Lucini. La definizione di animico proposta dal Supplemento 2009, “che riguarda l’anima, i pensieri, la volontà, la coscienza morale”, se appare adeguata in generale, non risponde pienamente al contesto luciniano: infatti, se verifichiamo sulla fonte, L’Ora topica di Carlo Dossi (Nicola, Varese 1911), ci accorgiamo che Lucini impiega animico nel significato proprio dell’animismo letterario:

Con lui [Dossi] e per lui li oggetti, i mobili, le piante, i fiori, li animali, i fenomeni, tutti parlano e sentono, odono e rispondono. Egli adora le cose, perché queste nascono e vivono e muojono con noi, come noi, e sono il prolungamento di noi stessi. Noi, colla nostra vicinanza, le influenziamo ed esse ricevono da noi un certo animismo per simpatia, già che il nostro linguaggio, per necessita logica ed umana, le regala di un antropomorfismo, donde piangono e ridono con noi. – Egli, forse, abusò di questa proprietà di esteriorizzazione; ma la sua abbondanza animica sta bene coi fenomeni della materia che inzuffla di spirito.[13]
Oltre all’Ora topica di Carlo Dossi, altre occorrenze luciniane di animico si trovano nella Prima Ora della Academia (Palermo, Sandron, 1902), nel saggio critico Giosuè Carducci (Milano, Aliprandi, 1911) e nel manoscritto, datato 1912, D’Annunzio al vaglio dell’Humorismo (Genova, Costa & Nolan, 1989); c’è anche, nella Prima Ora della Academia, un’occorrenza dell’avverbio animicamente, in cui echeggia l’accezione ermetica e teosofica di animico, che abbiamo segnalato nei Grands Initiés di Édouard Schuré, opera che Lucini conosceva molto bene: “le spirali della storia del mondo hanno […] in questi punti di tempo immediatamente sovra posti l’uno all’altro logicamente e animicamente collegati”.[14]

Ancora una volta, dunque, le vie attraverso cui animico giunge in Italia sono francesi; inoltre il suo ambito di elezione, tra fine Ottocento e inizio Novecento, appare circoscritto alla teosofia e allo spiritismo.

In questo periodo di fermento irrazionalista, entra in scena una figura che sarà importante per la definitiva fisionomia della parola animico in italiano: si tratta del pensatore austriaco e studioso di Goethe, Rudolph Steiner (1861-1925), che, influenzato da Nietzsche e dalla filosofia indiana, a inizio Novecento si convertì alla teosofia. Quando Steiner abbandonò la società teosofica per fondare, nel 1913, la Società antroposofica, diverse sue opere erano state tradotte in francese, come Le Mystère chrétien et les mystères antiques (Paris, Perrin, 1908), a cura di Édouard Schuré in cui, ad esempio, possiamo leggere: “L’élément animique ne se borne pas à la substance corporelle qui est enfermée dans la peau [L’elemento animico non si limita alla sostanza corporea che è racchiusa nella pelle]”.

Alla base della riflessione antroposofica di Steiner vi è la tripartizione in corpo, anima e spirito: l’anima è forza vitale mentre lo spirito è pensiero e mente. Egli però intendeva procedere nelle sue indagini antroposofiche secondo il metodo delle scienze naturali tanto da ribadirlo nel titolo di una delle sue opere più importanti, Die Philosophie der Freiheit. Grundzüge einer modernen Weltanschauung. Beobachtungs-Resultate nach naturwissenschaftlicher Methode (Berlin, Felber, 1894), che nella prima traduzione italiana compiuta da Ugo Tommasini suona: La filosofia della libertà. Tratti fondamentali di una concezione moderna del mondo. Risultati d’osservazione secondo il metodo delle scienze naturali (Bari, Laterza, 1919).

Nel 1918, Steiner pubblicò la seconda edizione dell’opera introducendo una piccola ma significativa variante nel sottotitolo: Seelische Beobachtungs-Resultate nach naturwissenschaftlicher Methode, ossia “Risultati d’osservazione dell’anima [seelische] secondo il metodo delle scienze naturali”. Ma poiché la traduzione italiana del 1919 era basata sulla prima edizione, nel sottotitolo non si trova nessuna traccia del traducente di seelische; lo stesso accadde anche per la nuova traduzione che Tommasini pubblicò sempre da Laterza nel 1930, che, per quanto si dichiari “2a edizione riveduta e integrata secondo l’ultima edizione originale”, riproduce invece il sottotitolo della prima edizione, senza recepire l’aggiunta di seelische. Se guardiamo ad esempio a quanto accadeva in Francia, vediamo che la prima edizione di Philosophie der Freiheit uscì nel 1923 con il titolo La philosophie de la liberté (Paris, Sauerwein): poiché si basava sulla seconda edizione tedesca del 1919, il sottotitolo della traduzione francese diceva: Résultats de l’expérience intérieure conduite selon les méthodes de la science naturelle, con la scelta di intérieure ‘interiore’ e non di animique come traducente di seelische.

Soltanto negli anni Quaranta, la terza edizione italiana della Filosofia della libertà (Milano, Bocca, 1946) recepirà il sottotitolo della seconda edizione tedesca e l’aggettivo seelische verrà tradotto con animico: La filosofia della libertà. Tratti fondamentali di una concezione moderna del mondo. Risultati d’osservazione animica secondo il metodo delle scienze naturali.

Nel frattempo, però, animico aveva iniziato il suo cammino come parola “steineriana”. Fin dal 1908, infatti, le numerose traduzioni italiane delle opere Steiner compiute da Emmelina Sonnino De Renzis, amica e seguace del pensatore austriaco nonché animatrice di un salotto antroposofico nella Roma degli anni Venti e Trenta, impiegavano l’aggettivo, che entrava così a far parte del lessico di quanti – artisti, letterati, pensatori – si avvicinavano alle correnti irrazionalistiche e misticheggianti che si diffusero nel primo Novecento. Tra i frequentatori del salotto steineriano di Emmelina De Renzis vi fu anche Arturo Onofri (1885-1928), il primo, dopo Lucini, a offrire un’attestazione in ambito letterario di animico. Fortemente influenzato dalla lettura dei Grandi iniziati di Schuré e poi dall’incontro con il pensiero di Steiner, Onofri scriveva, ad esempio, nel saggio Nuovo Rinascimento come arte dell’io (Bari, Laterza, 1925):

L’uomo spirituale muta, e, nel mutarsi, trasforma il corso degli avvenimenti esterni. L’interiore struttura animica dell’uomo non è sempre la stessa, e non solo col cambiar dei particolari e degli episodi estrinseci della sua storia la stoffa-uomo si elabora e si trasforma ininterrottamente, ma proprio questo cangiamento interiore produce ed esprime il sempre nuovo elaborarsi della civiltà.[15]
Steiner diede a Onofri anche l’impulso per un rinnovamento poetico, tanto che questi è probabilmente l’unico poeta italiano a mettere in versi animico, in una raccolta di poesie contro il “drago”, cioè contro il materialismo della scienza:

Quella figura animica è il modello
celeste dei linguaggi della terra,
che via via s’alzeranno al suo livello.[16]
Anche nell’arte, l’intreccio tra spiritualismo, occultismo e filosofia lascerà tracce vistose: la lettura dei testi esoterici di Eliphas Lévi e di Papus e dei testi teosofici di Blavatsky, di Steiner e di Schuré era diffusa in vari cenacoli intellettuali, tra cui quello dei futuristi romani. Arnaldo Ginna (pseudonimo di Arnaldo Ginanni Corradini, 1890-1982), ad esempio, dipinse dei “ritratti animici” (Ritratto animico di una Signora, 1935; Ritratto animico di una bambina, 1941; Autoritratto animico, 1941), cioè raffigurazioni del volto umano in cui il pittore cercava di manifestare lo spirito, l’anima della persona ritratta, facendo un uso psicanalitico dei colori e ponendosi in una condizione di trance.

L’ambiente culturale romano nutriva inoltre grande interesse per la psicanalisi, ambito in cui esercitò la sua influenza lo studioso tedesco Ernst Bernhard (1896-1965), che, trasferitosi a Roma nel 1936, introdusse il pensiero di Carl Gustav Jung in Italia, creando una scuola di psicoterapeuti che diverrà, poi, molto attiva negli anni Sessanta. Bernhard ideò nel 1946, insieme a Roberto (Bobi) Bazlen (1902-1965), la collana “Psiche e coscienza” presso la casa editrice Astrolabio di Roma, in cui vennero tradotte opere di Sigmund Freud, di Alfred Adler e soprattutto di Jung. La psicologia analitica di Jung, postulando l’esistenza di due strutture di relazione dell’Io con il mondo esterno e interno, l’Anima e l’Animus,[17] poteva essere uno stimolo, per i traduttori italiani, all’utilizzo di animico come alternativa a “dell’anima”. L’indagine meriterebbe verifiche approfondite, ma, da una prima ricognizione su testi junghiani tradotti negli anni Quaranta, abbiamo rinvenuto animico nel volume di Jung, La realtà dell’anima, tradotto da Paolo Santarcangeli nel 1949 per la collana di Astrolabio prima citata, e precisamente in un saggio di Emma Jung, Un contributo al problema dell’“anumus”, lì raccolto, mentre non sembrerebbe occorrere in Psicologia e alchimia, tradotto da Bobi Bazlen nel 1950.[18]

Dopo la Seconda guerra mondiale, le correnti irrazionalistiche e spiritualistiche di fine Ottocento e primo Novecento non erano affatto spente. Nel 1957, Julius Evola pubblicò la prima traduzione italiana di Oswald Spengler, Der Untergang des Abendlandes. Erster Band Gestalt und Wirklichtkeit (1918-1922), ossia Il tramonto dell’occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale (Milano, Longanesi): qui troviamo un’occorrenza di animico che ci parla forse più della formazione antirazionalistica ed esoterica del traduttore che non del filosofo della storia tedesco: “Una civiltà muore quando la sua anima ha realizzato la somma delle sue possibilità sotto specie di popoli, lingue, forme di fedi, arti, Stati, scienze; essa allora si riconfonde con l’elemento animico primordiale [Urseelentum]” (ed. del 1978, p. 173); nel contesto citato, “elemento animico” poteva essere infatti tradotto direttamente con “anima”, ma l’aura si sarebbe perduta.

Nel secondo Novecento, la parola animico, oltre che in testi di storia delle religioni antiche, compare in testi etnografici ed antropologici, come ad esempio Carlo Tullio-Altan, Lo spirito religioso del mondo primitivo (1960)[19] o filosofici, religiosi o psicoanalitici, come ad esempio Albino Galvano, Per un’armatura (1960),[20] con una frequenza discreta ma che rimane all’interno dell’ambito ristretto di quelle discipline.

Ancora negli anni Sessanta, Eugenio Montale, sempre attento a cogliere le derive del proprio tempo incarnate nelle parole nuove, fa un uso ironico di animico in un suo celebre intervento dal titolo La fonduta psichica, uscito sul «Corriere della sera» del 24 marzo 1963:

Si dice che la terra sia avvolta da una sfera di psichismo in continuo aumento di spessore. La terra sarebbe dunque una sfera dentro un’altra sfera: la sfera interna sarebbe materiale, l’altra psichica, in attesa di diventare del tutto animica e pronta al decollo per più spirabile aria.[21]
Oggi animico ricorre soprattutto nelle traduzioni dei testi steineriani, confermando così nei lettori, la convinzione che si tratti di un termine specifico del pensiero antroposofico. Convinzione che i traduttori più recenti confermano, se si guarda, ad esempio, a quanto accaduto alla conferenza tenuta da Steiner a Zurigo nel 1916, Wie kann die seelische not der gegenwart uberwunden werden: nella traduzione del 1988, il titolo suona infatti così: Come si può superare l’angoscia animica del presente:[22] il ted. seelische è stato reso con animico, sebbene il suo significato, in questo contesto, potesse essere espresso con ‘spirituale’ o ‘interiore’.

Dunque, il fatto che, nel XX secolo, animico sia uscito raramente da contesti esoterici o antroposofici ne ha decretato l’isolamento rispetto alla lingua d’uso. I lettori delle traduzioni di Steiner sanno che, in esse, la parola assume diversi significati, dal semplice ‘dell’anima’ al più mediato ‘spirituale, interiore’; ma l’associazione dell’aggettivo animico a un sistema di pensiero al confine tra scienza e spiritualismo lo rende ancora troppo marcato per un ingresso indolore nel lessico dell’italiano comune. Tuttavia, in anni recenti, l’aggettivo animico sembra aver guadagnato un poco di neutralità come testimonierebbe questo piccolo aneddoto traduttivo: nella prima traduzione italiana del volume dello psicanalista junghiano statunitense James Hillman, Il suicidio e l’anima (1964),[23] fatta nel 1972 da Aldo Giuliani per Astrolabio, soul history viene reso per lo più con “storia dell’anima”, mentre nella nuova traduzione fatta nel 2010, per Adelphi, da Adriana Bottini, soul history viene reso alternativamente con “storia dell’anima” e “storia animica”. Ma siamo sempre in ambito junghiano.

A oggi, insomma, sebbene presente da tempo nella nostra lingua, animico non possiede ancora quel valore neutro necessario affinché i parlanti l’accettino come valida alternativa a “dell’anima”. Tuttavia, nei dizionari italiani di ampio lemmario, animico dovrebbe essere registrato almeno nei significati animistico, spiritistico e teosofico-antroposofico, con opportuna indicazione dei limiti d’uso.



Note:

1. Grande Dizionario delle Lingua Italiana, diretto da Salvatore Battaglia e Giorgio Barberi Squarotti, Supplemento 2009, diretto da Edoardo Sanguineti, Torino, Utet, 2008, p. 32.
2. Poesia italiana del Novecento, a cura di Edoardo Sanguineti, Torino, Einaudi, 1969.
3. Luigi Spezia, Anche gli azzurri si servono da noi, in “la Repubblica”, 12 agosto 1998.
4. Animismo, in Enciclopedia Treccani, Dizionario di Filosofia (2009), s.v.
5. Mesmerismo, in Enciclopedia Treccani, Dizionario di Medicina (2010), s.v.
6. Fonte: Google Ricerca Libri.
7. Si noti che, nel sottotitolo italiano, “scienze psichiche” traduce il ted. Geheimwissenschaften ‘scienze segrete, occulte’.
8. Fonte: Google Ricerca Libri.
9. Teosofia, in Enciclopedia Treccani, Dizionario di filosofia (2009), s.v.
10. Édouard Schuré, I grandi iniziati. Cenni sulla storia segreta delle religioni. Rama – Krishna – Ermete – Mosè – Orfeo – Pitagora – Platone – Gesù, tr. it. di Arnaldo Cervesato, Bari, Laterza, 1906, pp. XLV-XLVI. Il passo nell’edizione originale suona: “une novelle force intellectuelle et animique agissant par le dedans et le fond de la nature, que nous appelons l’au-delà relativement à la perception des sens. Sans cette force intellectuelle et animique on n’expliquerait pas même l’apparition d’une cellule organisée dans le monde inorganique”.
11. Cfr. Animismo, Enciclopedia Treccani, Dizionario di Filosofia (2009), s.v.
12. Fonte: Google Ricerca Libri.
13. Gian Pietro Lucini, L’Ora topica di Carlo Dossi. Saggio di critica integrale, Varese, Nicola, 1911, p. 105.
14. Gian Pietro Lucini, La Prima Ora della Academia, Palermo, Sandron, 1902, p. 13.
15. Arturo Onofri, Nuovo Rinascimento come arte dell’io, Bari, Laterza, 1925, p. 9.
16. Arturo Onofri, Vincere il drago! Poesie, Ribet, Torino 1928; Sonetto 110, vv. 9-11, p. 132.
17. Psicologia analitica, in Enciclopedia Treccani, Dizionario di filosofia (2009), s.v.: “l’Anima è il femminile inconscio dell’uomo, la personificazione di tutte le tendenze psicologiche femminili, positive e negative: ricettività, irrazionalità, emotività, irritabilità; mentre l’Animus è il maschile inconscio della donna e personifica tutti gli elementi psichici ‘maschili’: razionalità, spirito di iniziativa, coraggio, obiettività, freddezza, distruttività”.
18. Carl Gustav Jung, La realtà dell’anima, Roma, Astrolabio, 1949, spec. pp. 140-141 (edizione originale: Wirklichkeit der Seele, Zurich, Rascher, 1934). Id., Psicologia e alchimia, Roma, Astrolabio, 1950 (edizione originale: Psychologie und Alchemie, Zurich, Rascher, 1944).
19. Carlo Tullio-Altan, Lo spirito religioso del mondo primitivo, Milano, Il Saggiatore, 1960, p. 389: “Le vicende del principio animico, o trascendenza soggettiva, sono legate, nella religione egiziana e medio-orientale, al processo di affermazione dell’individuo”.
20. Albino Galvano, Per un’armatura, Torino, Lattes, 1960, p. 88: “così il contenuto animico si definisce in contrapposto alla coscienza: inconscio, Unbewusstsein”.
21. Eugenio Montale, La fonduta psichica, in «Corriere della sera», 24 marzo 1963, p. 7; poi in Auto da fé, Milano, Il Saggiatore, 1966; ora in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, pp. 329-332, p. 329.
22. Rudolph Steiner, Come si può superare l’angoscia animica del presente, Oriago di Mira, Arcobaleno, 1988 (edizione originale: Wie kann die seelische not der gegenwart uberwunden werden, in Die Verbindung zwischen Lebenden und Toten, Dornach, Rudolph Steiner Verlag, 1995; GA 168).
23. James Hillman, Suicide and the Soul, New York, Harper & Roe, 1964.





 
Top
2 replies since 10/8/2023, 18:31   75 views
  Share