Origini delle Religioni

IL CASO MORO LA PISTA FENZI GENOVA VIA FRACCHIA

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CAT_IMG Posted on 6/1/2024, 08:48
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ANGELO INCANDELA


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www.rivoluzioneanarchica.it/lo-str...vita-della-com/


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https://www.poliziapenitenziaria.it/public...-mare-5380-asp/


Il Generale Dalla Chiesa mi diede dei documenti su Andreotti da nascondere in carcere: parla ex Maresciallo degli Agenti di Custodia sul caso Moro



redazione by redazione 22 Luglio 2018

Gli incontri segreti con il giornalista Mino Pecorelli, le registrazioni dei colloqui privati tra i detenuti speciali nel carcere di Cuneo e i loro familiari, le carte su Aldo Moro e il rapporto con il generale Dalla Chiesa. Dopo anni Angelo Incandela, l'ex maresciallo della penitenziaria nel carcere di Cuneo, che ha lavorato proprio negli anni cupi del terrorismo, è tornato a parlare. Questa volta lo ha fatto durante un interrogatorio davanti ai magistrati consulenti della Commissione di inchiesta parlamentare sulla morte di Aldo Moro. Un verbale secretato solo in parte (sembra si tratti solo di una dichiarazione in particolare) e nel quale ripercorre tutto ciò che ha raccontato al processo di Palermo. Nelle settimane scorse, infatti, la Commissione ha chiesto ai pm che collaborano all'inchiesta di interrogare l'uomo che ha rivelato aspetti inquietanti su un episodio legato alla morte di Moro e che lo ha visto coinvolto in prima persona.


Era il 1978, lo stesso anno in cui il generale Dalla Chiesa assunse il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo, pochi mesi dopo l'uccisione di Aldo Moro. Le indagini sulla terribile vicenda erano nel pieno e ad un certo punto Incandela avrebbe ricevuto l’ordine da Dalla Chiesa di svolgere attività sui detenuti del carcere di Cuneo, tra i quali anche alcuni brigatisti rossi: registrare i colloqui privati con i familiari e leggerne la corrispondenza. Ma non solo. Dopo qualche tempo avviene altro.

Incandela incontra Dalla Chiesa fuori dal carcere, una notte, in una stradina di campagna. L'ex maresciallo sale nell'auto del generale, seduto dietro e alla guida della vettura, come Incandela scopre in seguito, c'era il giornalista Mino Pecorelli. Durante l'incontro Dalla Chiesa torna sulla questione delle attività di indagine nel carcere e lo informa che all'interno sarebbe entrato un pacchetto, a forma di salame, contenente le carte sulla vicenda di Aldo Moro. Il resto del racconto relativo al plico è affidato all'autista, Mino Pecorelli, che descrive il carcere (lo conosce bene, avrebbe pensato Incandela, come se ci fosse stato ) e gli spiega dove dovrebbe trovarsi il pacchetto.

A gennaio del 1997 Angelo Incandela, durante la testimonianza al processo di Palermo contro Giulio Andreotti, racconta: «Il generale mi disse che nel carcere speciale di Cuneo, dove allora prestavo servizio, erano entrati documenti riguardanti il sequestro Moro, indirizzati a Francis Turatello. Mi diede incarico di recuperarli. La persona che lo accompagnava, lo identificai poi, era il giornalista Mino Pecorelli». Poi prosegue spiegando che tre giorni dopo, sempre Dalla Chiesa, lo convoca ancora per chiedergli di «trovare anche scritti che riguardano Andreotti». Lui esegue gli ordini e dopo le ricerche trova il plico in una grata sotterranea dell'istituto penitenziario. E, come da accordi, lo consegna a Dalla Chiesa che però, «rimane deluso». Ma non solo. Controlla anche tutti gli ingressi al carcere e scopre che alcuni nomi non hanno l'indicazione del detenuto che avrebbe dovuto ricevere la visita. Qualcuno potrebbe essere entrato nel carcere addirittura utilizzando un nome falso. E sospetta che uno di questi potrebbe essere proprio l'uomo al volante dell'auto del generale durante il famoso incontro notturno.


Tempo dopo, poi, accade altro. L'ex maresciallo viene convocato al comando generale dei carabinieri sempre da Dalla Chiesa che gli consegna un pacco di carte da nascondere nel carcere di Cuneo e ritrovarlo in una successiva ispezione. Sempre stando al racconto che Incandela ha fatto davanti ai giudici di Palermo, una volta arrivato nell'ufficio del generale sarebbe accaduto altro: «Eravamo nella sua stanza, sulla scrivania aveva 50-60 fogli dattiloscritti e mi disse che riguardavano il nostro amico. Non fece il nome ma dedussi che faceva riferimento ad Andreotti. Mi ordinò di nascondere i fogli dietro lo sciacquone del refettorio del carcere. Mi spiegò che avrei dovuto fingere di rinvenirli e inviarli a lui con un rapporto scritto». L'uomo si rifiuta di eseguire l'ordine perchè sarebbe un illecito e a quel punto Dalla Chiesa avrebbe risposto che «anche così si serve lo Stato». Rimasto solo nella stanza, Incandela sbircia tra alcuni fogli che facevano parte del salame e scopre che erano carte di Moro che parlano di Andreotti. Ora, a distanza di anni, la sua testimonianza è al vaglio della Commisssione parlamentare, forse con una frase in più secretata.





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www.osservatoreitalia.eu/aldo-moro...agedia-lenigma/

www.ilsecoloxix.it/genova/2018/04/...ione-1.30461622





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www.ilsecoloxix.it/genova/2017/08/...moro-1.32077339





Due registrazioni e una fossa, un nesso tra i Br di via Fracchia e il caso Moro





ALESSANDRA COSTANTE



10 Agosto 2017 alle 08:31
4 minuti di lettura


Genova - Questa è la storia di due audiocassette e di una fossa scavata in un piccolo giardino. Sono echi dal passato e secondo le carte in possesso della Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro, (ri)mettono Genova al centro della scena degli anni più bui del dopoguerra. La vicenda è quella delle Brigate Rosse genovesi, molto legate a Mario Moretti, del loro presunto coinvolgimento nel rapimento e nella prigionia del presidente della Dc e, forse, custodi di una parte del memoriale di Moro, mai ritrovato in originale.

Uno strano gioco delle carte che, a distanza di 39 anni, la commissione parlamentare di inchiesta sta ancora cercando di decifrare tra ricordi che sbiadiscono, memorie che zoppicano, ma soprattutto «lo sbarramento di chi sostiene che sul caso Moro non ci sia più niente da dire» osserva Federico Fornaro, senatore di Articolo 1- Mdp e segretario della commissione. «Agli atti della commissione ci sono documenti che saldano ulteriormente i rapporti tra i brigatisti genovesi e romani e aprono nuovi scenari sulle carte di Moro» afferma Fornaro. Ma non solo quello.

Si scopre che agli atti della commissione e quindi della «verità storico giuridica» c’è anche lo scavo, la buca di un metro per un metro, che i carabinieri del generale Dalla Chiesa fecero nel giardino del covo di via Fracchia, a Genova: «Diventa non inverosimile che sottoterra fossero nascoste le carte di cui ha parlato il giudice Carli nella sua audizione», è la suggestione che proviene dal segretario della commissione.





Voci dal passato


Il tassello iniziale è del 2015 quando la Commissione parlamentare affida al Ris di Roma l’esame di parecchio materiale: gli abiti che indossava Aldo Moro quando il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia, è stato ritrovato nel bagagliaio della Renault Rossa in via Caetani; oggetti rinvenuti nel covo di via Gradoli: spazzolini da denti, scarpe, pinzette su cui cercare il dna per confrontarlo con quello dei brigatisti condannati e capire davvero chi era stato sulla scena; una radio, una macchina da scrivere.

E ci sono anche 18 audiocassette “stereo sette”, quelle in uso negli anni Settanta. Sono state ritrovate in vari covi: via Gradoli, via delle Nespole e in viale Giulio Cesare a Roma. La speranza della commissione era di trovare le tracce degli interrogatori di Moro. La voce del presidente della Dc non c’è, ma da due audiocassette repertate in viale Giulio Cesare ci sono tracce che portano a Genova.

La più interessante è quella su cui, secondo il Ris, è stata incisa una voce maschile che parla “con accento piemontese o ligure”. Ecco la trascrizione: “Attenzione, messaggio n.13 delle Brigate Rosse: Aldo Moro è stato giudicato dal tribunale del popolo. Questa mattina, alle ore 12, è stato giustiziato. Potete trovare il suo corpo attorno al Forte di San Martino. Fine messaggio”. Per i carabinieri si tratta del Forte di San Martino a Genova.

La seconda cassetta, invece, è più complicata: è la registrazione dell’inizio della collaborazione con le forze dell’ordine di una donna genovese, che parla davanti «ad un uomo anonimo che vanta “conoscenze” al Ministero dell’Interno», spiega ai parlamentari Luigi Ripani, comandante del Ris di Roma. «Che indizi sono? Intanto sono documenti che interessano Genova e che vengono stranamente ritrovati a Roma e questa è già una prima cosa - osserva Fornaro - La seconda cassetta ci racconta quanto meno di una “talpa” negli ambienti investigativi, mentre la prima potrebbe essere un forte indizio che colloca i genovesi sulla scena della prigione di Moro».


A sostenerlo, nel 1979, era stato il settimanale di area socialista Critica Sociale che, ad un anno dalla morte di Moro, parlava di un «cambio della guardia nel “carcere del popolo”: carcerieri “genovesi” con il compito di boia, al posto dei romani». «I rapporti tra Mario Moretti e i genovesi erano molto stretti - prosegue Fornaro - Se avessero avuto un ruolo attivo nelle ultime ore di Moro, chi dice che Moretti non avrebbe potuto affidare proprio a loro carte importanti?».

I bravi ragazzi di via Fracchia

E sull’onda delle domande che si sono poste i membri della commissione d’inchiesta si arriva così al covo di via Fracchia, a Genova, dove il 28 marzo 1980 i carabinieri fanno irruzione uccidendo quattro brigatisti. Sono Riccardo Dura “Roberto”, l’uomo che invece di gambizzare uccise il sindacalista Guido Rossa; Annamaria Ludmann “Cecilia”, la padrona di casa; e due torinesi temporaneamente trasferiti a Genova, Lorenzo Betassa “Antonio” e Piero Panciarelli “Pasquale”. Prima del blitz i carabinieri non hanno idea né di chi siano né di quanti siano i brigatisti nel covo, ma come ricorda il colonnello Michele Riccio in audizione arrivano all’appartamento su indicazione del pentito Patrizio Peci e «di un altro brigatista arrestato», «uno dei tanti componenti della banda 22 Ottobre», «...che aveva fatto sequestri e rapine per conto delle Brigate Rosse». In via Fracchia nessuno sospettava che fossero terroristi, una condomina spiegò ai carabinieri che sembravano «bravi ragazzi».

Al di là di ciò che accadde prima dell’alba di quel 28 marzo in via Fracchia, la Commissione parlamentare d’inchiesta ha puntato i suoi fari sulla buca che i carabinieri scavarono in giardino. Riccio conferma: «Li abbiamo fatti fare noi gli scavi in giardino». Per i parlamentari della Commissione d’inchiesta è la prima volta che viene ufficialmente indicato il giardino dell’appartamento di via Fracchia e, soprattutto, la buca, nascondiglio perfetto per documenti importanti e armi. «Ovviamente c’era nelle planimetrie dell’atto di compravendita della famiglia Ludmann, ma nei documenti delle indagini il giardino non c’è, non è mai indicato: una strana dimenticanza», sottolinea Fornaro.

La telefonata
Con quattro cadaveri a terra, un maresciallo gravemente ferito, e la zona di via Fracchia sostanzialmente protetta da un cordone di sicurezza entro il quale si muovono solo i carabinieri, Riccio (in quel momento capitano) nella casa della Ludmann riceve la telefonata di Dalla Chiesa che chiede: «Allora, cosa è stato trovato?». I testimoni vedono i militari trasportare fuori grandi sacchi neri: alla fine saranno più di 700 le cose repertate in via Fracchia, «compreso l’archivio dei volantini di oltre un centinaio di azioni delle Br del Nord Ovest» spiega Fornaro. Quanto ai documenti, Riccio taglia corto: «Vecchia documentazione, per lo più macerata nell’acqua», dice. Ma la Commissione d’inchiesta, invece, pensa che non fosse esattamente così. Ronzano ancora le parole pronunciate dal Procuratore di Genova, Antonio Squadrito nel 1982: «La verità? È che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi (...) e soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc e al Paese». C’è un antefatto nel blitz di via Monte Nevoso a Milano (1 ottobre 1978): lì i carabinieri trovarono carte di Moro (lettere e il cosiddetto Memoriale, ma non gli originali). «E’ plausibile che Dalla Chiesa avesse ricevuto da Andreotti l’ordine informale di recuperare tutto il materiale di Moro e che quindi nel 1980 il generale ancora fosse alla ricerca», sostiene Fornaro.

A corroborare questa tesi è l’ex magistrato della Procura di Genova Luigi Carli che durante l’audizione del 19 giugno scorso, in più punti, ammette di aver sentito parlare delle «carte di Moro in via Fracchia» nel corso di riunioni operative con i magistrati del distretto di Torino, ma di non averle mai viste nel fascicolo sull’irruzione; che «il provvedimento di sequestro e di perquisizione furono fatti dai torinesi»; e ancora: «Peci gli ha fatto i riferimenti su dove andare». E piomba la smentita di Giancarlo Caselli: «Non mi risulta nulla di quello che viene attribuito a Carli. È fuori da ogni logica che la magistratura torinese possa aver deciso l’irruzione in via Fracchia o possa essersene in qualche altro modo occupata. E ciò perché Patrizio Peci cominciò a collaborare solo dal 1 aprile del 1980». E così il gioco delle carte continua.







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www.ilsecoloxix.it/genova/2018/01/...rita-1.30325212




Moro, i dubbi su via Fracchia a Genova:

«Emersi dati nuovi, cercare ancora la verità»








ALESSANDRA COSTANTE


02 Gennaio 2018 alle 01:00


Genova - Una verità da riscrivere. Non tutta, ma in gran parte sì. La terza relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro apre la strada al dubbio in una vicenda sulla quale, quasi quarant’anni dopo, si pensava che non ci fosse più nulla da scoprire. E dissemina di interrogativi anche il dopo-Moro, l’irruzione nel covo genovese delle Br di via Fracchia il 28 marzo 1980, durante la quale furono uccisi quattro brigatisti e ferito un carabiniere, mettendo al centro della scena la possibilità che nell’appartamento di Oregina ci fossero anche le carte del memoriale scritto durante i 55 giorni di prigionia dal presidente della Democrazia Cristiana.


«C’era un tesoro»


Il punto di partenza è sempre quello, le dichiarazioni a caldo del procuratore della Repubblica di Genova, Antonio Squadrito: «La verità è che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi... soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc, al Paese» riportate dal giornalista Massimo Caprara in diverse occasioni.

È il fil rouge che seguono i commissari: particolarità del covo era che disponeva di un giardino, che dice la commissione, «incredibilmente non trova esplicita menzione negli atti processuali, né viene evidenziato nella ricostruzione della planimetria dell'appartamento». In quel giardino, interrato in sacchi di plastica nera, c’era l’archivio delle Br genovesi. I carabinieri scavarono, come confermò Filippo Maffeo che intervenne come pubblico ministero di turno. Maffeo ricorda anche la presenza nell’appartamento del collega del sostituto procuratore Luciano Di Noto, che arrivò in via Fracchia prima di lui e che trovò intento consultare documentazione che si trovava su di un tavolo. È il colonnello Michele Riccio, che condusse l’operazione di Genova, a indicare Di Noto «molto vicino ai servizi».

Infine Luigi Carli, il sostituto al quale fu affidata la chiusura delle indagini su via Fracchia: sentì parlare «per la prima volta di appunti manoscritti di Moro trovati in via Fracchia» dai magistrati torinesi (suscitando, va detto, la smentita di Giancarlo Caselli).

L’orologio di “Cecilia”

Trentasette anni dopo, la commissione parlamentare sul caso Moro, sposta indietro di un’ora l’irruzione in via Fracchia. Lo fa attraverso le testimonianze e la ricostruzione fatta nel 2004 dal Corriere Mercantile. E per l’orologio di Annamaria Ludmann, nome di battaglia Cecilia, fermo alle 2,42. Insieme a lei nel covo di Oregina morirono altri tre brigatisti: Riccardo Dura “Roberto”, Lorenzo Betassa “Antonio” e Piero Panciarelli “Pasquale”. Particolare che, forse, potrà servire ai magistrati della Procura di Genova che nei mesi scorsi hanno riaperto il caso di via Fracchia in seguito all’esposto di Luigi Grasso, negli anni Ottanta vittima di un errore giudiziario, accusato di essere una delle menti delle Br genovesi.

“La verità dicibile”

Per la commissione presieduta da Giuseppe Fioroni è quella contenuta nel memoriale Morucci-Faranda, una versione costruita a tavolino per chiudere l’epoca del terrorismo. Accertamento possibile dopo la declassificazione di una grande quantità di documenti dei servizi dopo la cosiddetta “direttiva Renzi”.

C’è di più. Secondo il documento della Commissione, Moro poteva essere salvato perché la segnalazione giunta a Roma dalle fonti del colonnello Giovannone era molto attendibile. L’allerta giunse dal Libano un mese prima del sequestro.

La palazzina dello Ior

L’attenzione della commissione si è concentrata su un immobile di via Massimi, alla Balduina. Intorno alla palazzina del civico 91, di proprietà dello Ior, la banca Vaticana attraverso la società Prato Verde srl, si muovono strani personaggi. Le coincidenze sono degne di un giallo di Ken Follet: é abitata o frequentata da cardinali come Vagnozzi e Ottaviani, vi si vedono alti prelati e lo stesso presidente dello Ior, Paul Marcinkus. Nella palazzina aveva sede una società americana che operava per la Nato; e vivevano (in affitto) alcuni esponenti che avevano a che fare con l’Autonomia tedesca, finanzieri libici e due persone contigue alle Brigate Rosse. È, tanto per dire, come dimostra la commissione il luogo in cui si nascose per alcuni mesi il brigatista Prospero Gallinari, il carceriere di Moro. Anche alla luce della posizione del complesso edilizio, per la commissione d’inchiesta «potrebbe essere stato utilizzato per spostare Aldo Moro dalle auto usate in via Fani a quelle con cui poi fu trasferito oppure potrebbe aver addirittura svolto la funzione di prigione dello statista».




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Armi e bagagli.

Un diario dalle Brigate Rosse


di Enrico Fenzi (Autore)


Costa & Nolan, 2006




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www.questionegiustizia.it/articolo/genova-79





Genova '79

di Pino Narducci

presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia
I sovversivi, i brigatisti, i testimoni

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Alla fine degli anni ’70, la colonna genovese delle Brigate Rosse è all’apice del suo radicamento nel capoluogo ligure e della sua indiscutibile capacità militare. Ma soprattutto, se nelle grandi aree industriali del Nord, Piemonte e Lombardia, in molte circostanze, sin dai primi anni del decennio, l’organizzazione clandestina ha subito colpi anche duri, con l’arresto di dirigenti e militanti e la scoperta di basi, a Genova non ha patito e continua a non patire azioni repressive e gli inquirenti, di fatto, non conoscono praticamente nulla del gruppo che opera nel capoluogo ligure.

Nella valutazione di un ex dirigente nazionale della organizzazione, in quel momento storico la colonna genovese è la più prestigiosa, forse anche più della “storica” colonna torinese.

Il 25 ottobre ’78, Francesco Berardi, operaio Italsider e militante brigatista, viene individuato subito dopo aver collocato volantini BR all’interno dello stabilimento in cui lavora. Nel corso del processo per direttissima, che si celebra il 31 ottobre, testimonia contro di lui anche l’operaio Guido Rossa, militante del PCI e della CGIL, membro del Consiglio di fabbrica, l’uomo che l’ha denunciato e che ha permesso il suo arresto.

Condannato ad oltre quattro anni di reclusione, Berardi, avvicinato da alcuni ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, si lascia andare a confidenze sulla persona che l’ha reclutato e dalla quale ha ricevuto incarico di distribuire il materiale propagandistico. Gli mostrano, informalmente, una foto e la riconosce.

È Enrico Fenzi, professore di letteratura italiana nell’Università di Genova. Questa è l’unica informazione che Berardi, sia pure senza aver mai firmato un verbale, fornisce ai due ufficiali che lo incontrano. Non molto, ancora, per provare a scompaginare la colonna genovese.

Ma i carabinieri del generale Dalla Chiesa hanno altri assi nella manica, di portata superiore all’operaio dell’Italsider il cui patrimonio di conoscenze, probabilmente, è davvero limitato e che non ha nemmeno intenzione di fornire quelle scarne informazioni attraverso un vero e proprio interrogatorio.

L’omicidio di Guido Rossa ad opera dei brigatisti, il 24 gennaio 1979, impone agli investigatori di imprimere uno slancio ulteriore all’indagine.

Due ragazze genovesi, Susanna Chiarantano e Patrizia Clemente, studentesse della facoltà di Lettere, permettono così ai carabinieri, finalmente, di squarciare il velo di impenetrabilità che avvolge l’organizzazione che ha ucciso Rossa e di individuare molti suoi componenti, alcuni anche di spicco.

Susanna Chiarantano ha frequentato Lotta Continua ed altri ambienti della sinistra extraparlamentare, se ne è allontanata e poi è tornata sui suoi passi, registrando però una forte diffidenza nei suoi confronti perché ha un rapporto di lavoro con Enrico Mezzani, conosciuto come ex fascista e confidente delle forze di polizia. Per questa ragione la ragazza, così lei sostiene, viene sottoposta a una sorta di “processo politico” per valutare la sua richiesta di rientrare nel gruppo della sinistra estrema. Le persone che la processano si qualificano come membri delle Brigate Rosse e la ragazza, a questo punto, li accusa e rivela i loro nomi.

Patrizia Clemente ha militato in Lotta Continua e poi in Autonomia Operaia e può raccontare episodi vissuti in prima persona che dimostrano come nell’area dell’autonomia si è verificata una frattura ed alcuni esponenti, come Giorgio Moroni, hanno già scelto la strada della lotta armata e, di fatto, già agiscono nella colonna BR(1).

L’Ufficio per il Coordinamento e la Cooperazione nella lotta al terrorismo, organo alla cui guida è stato posto il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, elabora il rapporto giudiziario che arriva sul tavolo della procura genovese il 9 maggio ‘79. Dopo appena dieci giorni, i carabinieri eseguono, il 17 maggio, i mandati di cattura emessi dal giudice istruttore contro quindici persone accusate di far parte della banda armata Brigate Rosse.

Entrano in carcere, tra gli altri, Enrico Fenzi, la sua compagna, Isabella Ravazzi, Giorgio Moroni, uno degli esponenti più noti dell’Autonomia operaia genovese, e gli insegnanti Luigi Grasso e Mauro Guatelli. Nei giorni successivi, altri mandati di cattura permettono di arrestare altri due insegnanti, un operaio ed un giovane laureato in sociologia.

Il quotidiano “L’Unità”, organo del PCI, all’indomani della operazione giudiziaria, titola: «Operazione anti BR a Genova. Sette arresti, una decina di fermi».

Tutti gli organi di informazioni esaltano la prima azione repressiva contro la colonna, quella di Genova, che, sino a quel momento, si è rivelata una sorta di fortino inespugnabile.

Alcuni mesi dopo, il generale Dalla Chiesa, in una relazione riservata al Ministro dell’Interno Virginio Rognoni, così descrive l’operazione portata a termine alcune settimane prima: «…militari dei reparti speciali dei carabinieri per la lotta al terrorismo, al termine di un’indagine difficile e complessa, protrattasi per oltre otto mesi, diretta a individuare, localizzare e disarticolare la colonna eversiva clandestina delle BR operante in Liguria, acquisiscono elementi di prova inconfutabili a carico di molti dei suoi componenti».

Nei mandati di cattura non compaiono i nomi di Francesco Berardi e delle due studentesse perché il rigido segreto istruttorio del codice processuale del ’30 tutela il lavoro degli inquirenti e gli indiziati, durante l’istruttoria, non sono messi nella condizione di conoscere l’identità delle persone da cui proviene la pesante accusa di essere membri delle BR.

In assenza di informazioni ufficiali, si rincorrono le voci più disparate, puntualmente riprese dagli organi di informazione: gli inquirenti hanno a disposizione un «infiltrato alla Girotto» oppure l’omicidio di Guido Rossa ha prodotto «crisi di coscienza» che hanno aperto varchi nella organizzazione clandestina.

Il 24 ottobre ’79, Francesco Berardi si toglie la vita nel carcere di Cuneo.

Nel novembre ’79, il giudice istruttore rinvia a giudizio quattordici persone per i reati di banda armata ed associazione sovversiva. Quattro imputati sono prosciolti.

Il disvelamento dei nomi di Susanna Chiarantano e Patrizia Clemente lascia sgomento il multiforme ambiente politico (autonomi, anarchici, lottacontinuisti, comunisti marxisti-leninisti ecc.) dal quale provengono gli arrestati.

Se il nome della Clemente è conosciuto soprattutto come quello di persona che vive una sofferta esperienza di dipendenza dall’eroina, quello della Chiarantano si rivela, da subito, particolarmente inquietante.

La sinistra estrema genovese conosce i legami della donna con Enrico Mezzani, pregiudicato per reati comuni e notoriamente considerato un confidente delle forze di polizia, ma soprattutto è ritenuta a tal punto inaffidabile da essere accusata, alternativamente, di essere lei stessa una spia al servizio di servizi segreti greci sin dai primi anni ’70 o un fiduciario dei servizi segreti italiani con il nome di copertura “Camilla”.

Tuttavia, l’operazione giudiziaria del maggio ’79 non sembra aver scalfito più di tanto la solidità e le capacità della organizzazione clandestina radicata nel capoluogo ligure.

Il 21 novembre 1979, i brigatisti genovesi uccidono il maresciallo Vittorio Battaglini e il carabiniere Mario Tosa, sorpresi all’interno di un bar a Sampierdarena(2).

Poi addirittura, a dicembre, scelgono Genova per svolgervi una riunione della Direzione Strategica, riunione convocata con urgenza perché il nucleo storico della organizzazione che si trova recluso a Palmi (Curcio, Franceschini ed altri) chiede le dimissioni del Comitato Esecutivo.

All’incontro, che si tiene nell’appartamento di proprietà di Annamaria Ludmann in via Fracchia 12, nel quartiere Oregina, partecipano quindici persone, delle quali ben dodici arrivano a Genova da varie città italiane.

Nella imminenza del processo di primo grado contro Enrico Fenzi e gli altri imputati, le Brigate Rosse non sembrano particolarmente preoccupate per l’attività di indagine iniziata nel mese di maggio. Evidentemente considerano Genova una roccaforte e non esitano a farvi convergere tutto il gruppo dirigente nazionale della organizzazione.

Nella notte tra il 27 e il 28 marzo ’80, sulle base delle rivelazioni fatte da Patrizio Peci nel carcere di Cuneo, i carabinieri fanno irruzione nell’appartamento di via Fracchia(3). Il maresciallo Rinaldo Benà resta ferito gravemente ad un occhio mentre perdono la vita il capo della colonna genovese, Riccardo Dura, gli operai torinesi Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli e la militante irregolare Annamaria Ludmann.

Tuttavia, la scoperta della base più importante della colonna genovese ed il sequestro di una ingentissima documentazione non permettono ai carabinieri di acquisire altre prove a carico delle persone detenute ormai già da dieci mesi(4).

Il processo inizia lunedì 14 aprile 1980, davanti la Corte di Assise di Genova.

Il giorno successivo, il giornalista Gad Lerner pubblica un articolo che contiene una lunghissima intervista a Susanna Chiarantano(5). La donna rivela i retroscena della sua collaborazione con i carabinieri. È stata intimidita/irretita/plagiata da Enrico Mezzani, confidente della Guardia di Finanza e collaboratore del capo dell’ufficio politico della Questura, Umberto Catalano(6).

È stato Mezzani ad istigarla ed a suggerirle di rivelare al capitano dei carabinieri Gustavo Pignero, da lei incontrato tre volte prima degli arresti, informazioni non vere su Grasso e altri, informazioni false, sostiene la donna, perché a lei non risulta che queste persone facciano parte delle BR. Racconta ancora che, il 17 maggio ’79, mentre venivano eseguiti i mandati di cattura, prelevata da casa, era stata condotta nella caserma di Via Moresco dove aveva incontrato il capitano Riccio e il maresciallo Mumolo che avevano con lei riletto tutti i fatti esposti nei rapporti giudiziari.


Dopo una estenuante attesa di molte ore, già prostrata, era stata interrogata dal magistrato avendo già deciso che avrebbe confermato qualsiasi circostanza, anche quelle false, pur di allontanarsi da quel luogo. Dopo gli arresti, il capitano Pignero le aveva detto che, per lei, erano pronti il passaporto ed una somma di denaro sino a 100 milioni di lire. Aveva però rifiutato l’offerta ed aveva redatto un memoriale sulla vicenda depositato in una cassetta di sicurezza di una banca.

Sapeva che le persone da lei accusate non facevano parte della colonna genovese BR, ma, in quel momento, più che ritorsioni da parte degli ex compagni di militanza aveva paura dei carabinieri. Commentando la storia raccontata dalla donna, Lerner ritiene che è stata messa in piedi “una montatura” decisa nella convinzione secondo la quale nell’ambiente della sinistra estrema c’è del marcio ed un blitz può farlo venire fuori.



Quattro giorni dopo, avviene un episodio drammatico che si ripercuote immediatamente sugli imputati che hanno scelto di affidare la propria difesa al noto penalista genovese Edoardo Arnaldi.

La magistratura torinese, dopo aver raccolto le dichiarazioni di Patrizio Peci, emette mandati di cattura contro alcuni avvocati penalisti membri della associazione “Soccorso Rosso” ed impegnati nella difesa di militanti delle Brigate Rosse. Sono accusati di aver travalicato il proprio mandato di difensori e di essere, in realtà, il tramite che permette il costante collegamento tra militanti arrestati/detenuti ed organizzazione(7).

Quando i carabinieri, il 19 aprile ’80, si presentano nella abitazione di Arnaldi per eseguire il suo arresto, il legale si toglie la vita con una pistola che possiede legalmente.

I giudici della Corte di Assise di Genova non hanno la possibilità di interrogare direttamente le due principali testimoni di accusa che non si presentano per deporre. Anzi, Patrizia Clemente ha fatto perdere le sue tracce ed è diventata irreperibile.

L’istruttoria si chiude rapidamente ed il 3 giugno 1980 il Presidente del Collegio legge il clamoroso ed inaspettato dispositivo della sentenza: tutti gli imputati sono assolti con formula piena.

I giudizi contenuti nella sentenza che demolisce l’indagine sono impietosi e lapidari: «…sarebbe illogico ed arbitrario affidarsi alle dichiarazioni di Pignero e Paniconi…», cioè gli ufficiali dei carabinieri ai quali Berardi fece confidenze su Fenzi che non vennero verbalizzate(8); le dichiarazioni della Chiarantano – rese informalmente al capitano Pignero, da questo riferite al colonello Bozzo e, infine, solo parzialmente confermate dalla donna nell’unico interrogatorio reso al Giudice istruttore del 17 maggio 1979, ci

oè lo stesso giorno in cui vennero eseguiti gli arresti - sono «indegne di fede» in quanto «tutti i riferimenti alle BR attribuiti agli imputati dalla Chiarantano sono soltanto il parto della sua mente, probabilmente influenzata e ed esaltata dallo stesso compito assegnatole inopinatamente dalla polizia giudiziaria»; le accuse rivolte da Patrizia Clemente a Giorgio Moroni «sono infondate», la donna non si è resa disponibile a comparire personalmente davanti alla Corte per spiegare le molte contraddizioni del suo racconto ed i giudici ritengono, alla fine del processo, che «le sue accuse non siano altro che il frutto di ingiustificate supposizioni».

Nel giro di 48 ore dalla lettura del dispositivo, il 5 giugno ’80, da Milano, arriva la risposta del generale Dalla Chiesa. Alla commemorazione del 166° anniversario dell’Arma, attacca frontalmente i magistrati genovesi: «…non passerà la prepotenza, non passerà la follia, non passerà il terrorismo né l’ingiustizia che lo assolve».

La pubblica accusa impugna la sentenza di assoluzione e, mentre la città è in attesa che si celebri il processo di secondo grado, un altro giudice inizia ad occuparsi della vicenda.

È il Pretore di Genova al quale prima Vincenzo Masini (prosciolto in istruttoria dal giudice istruttore) e poi Giorgio Moroni si rivolgono presentando una denuncia contro Patrizia Clemente per il reato di falsa testimonianza.

Il Pretore, che ascolta anche Enrico Mezzani, il 19 ottobre 1981, condanna l’imputata per aver reso falsa testimonianza nei confronti di Masini. Quanto alla denuncia di Moroni, assolve la donna per insufficienza di prove, ma ritiene, comunque, provato che Patrizia Clemente, che ha seri problemi di tossicodipendenza, ha reso la sua deposizione in circostanze anomale (nella sua abitazione, e non in una caserma o in un ufficio giudiziario, il giorno dopo aver affrontato un aborto), che Mezzani aveva esercitato una influenza sulla donna per farle rendere dichiarazioni «non assolutamente limpide» e che la donna, emigrata in Australia, era stata fatta rientrare in Italia per sostenere un interrogatorio davanti al giudice istruttore con un viaggio quasi certamente pagato dai carabinieri.

Nell’autunno 1980, decine di arresti colpiscono duramente la colonna genovese delle BR e molti militanti fuggono da Genova. Alcuni, esponenti di rilievo della colonna, come Livio Baistrocchi e Lorenzo Carpi, non saranno mai più trovati.

La strada tracciata da Patrizio Peci a Torino viene seguita anche da molti militanti genovesi che, arrestati, decidono di dissociarsi o di collaborare con la magistratura.

Il 4 aprile 1981, a Milano, i poliziotti arrestano Mario Moretti ed Enrico Fenzi(9). A questo punto, le univoche circostanze della cattura “inchiodano” il professore genovese all’accusa di essere un militante brigatista.

Nel processo di secondo grado, che inizia nel novembre ‘81, i giudici della Corte di Assise di Appello ascoltano anche i militanti dissociati/collaboratori di giustizia. Ma se la mole delle dichiarazioni degli ex brigatisti disvela alla magistratura genovese la vera struttura della organizzazione e l’identità dei suoi componenti, nessun dissociato/collaboratore fornisce informazioni sugli arrestati, salvo quelle che riguardano Enrico Fenzi ed altri due imputati.

La Corte di Assise di Appello, ritiene attendibili le accuse di Susanna Chiarantano e Patrizia Clemente, rovescia la sentenza di assoluzione di primo grado e, nel febbraio ‘82, condanna otto imputati (tra cui Fenzi, Ravazzi, Moroni, Grasso e Guatelli) per il reato di associazione sovversiva. Gli altri sei imputati vengono assolti.

Nel frattempo, nel novembre ‘81, è stata arrestata la latitante Fulvia Miglietta, nome di battaglia “Nora”, compagna di Riccardo Dura, sino alla vicenda di via Fracchia membro della direzione della colonna genovese con la responsabilità del fronte della controrivoluzione. Miglietta sceglie di collaborare con la magistratura, ma anche da lei non arriva alcuna accusa nei confronti degli imputati.

Dopo la condanna nel giudizio di appello, si avvia un tortuoso iter giudiziario che, a seguito di una pronunzia di annullamento della Corte di Cassazione, determina lo spostamento del processo da Genova alla Corte di Assise di Appello di Torino chiamata, tuttavia, solo a valutare alcune questioni di diritto. Susanna Chiarantano invia ai giudici torinesi una lettera nella quale conferma la ritrattazione delle accuse fatta nel corso dell’intervista resa a Gad Lerner. Quanto ad Enrico Fenzi - che sin dal settembre ’82 ha scelto di dissociarsi dalla lotta armata e rende dichiarazioni accusando ex compagni di militanza – sostiene, nel corso del processo, che, ad eccezione di Lorenzo La Paglia, nessuno degli altri imputati è mai stato membro delle BR.

La Corte di Assise di Appello di Torino condanna sette imputati (Isabella Ravazzi viene assolta) per il più grave reato di partecipazione a banda armata.

Trascorsi oltre cinque anni dall’arresto di 19 persone nel maggio ’79, i proscioglimenti e le assoluzioni di ben dodici imputati hanno profondamente ridimensionato la portata della prima operazione contro i brigatisti genovesi.

La condanna per il reato di partecipazione a banda armata diventa definitiva solo per sette imputati

Scontata la pena definitiva, Giorgio Moroni dedica ogni propria energia alla scoperta della verità e conduce una investigazione personale alla ricerca delle due testimoni le cui accuse costituiscono il fondamento della sentenza di condanna.

Rintraccia Patrizia Clemente in Australia e la convince a raccontare la verità.

Il 14 febbraio 1991, la testimone sottoscrive una dichiarazione davanti ai funzionari del Consolato italiano a Sydney. Riconosce di aver mosso accuse false contro Giorgio Moroni e Luigi Grasso a causa delle pressioni esercitate contro di lei da Enrico Mezzani che l’aveva messa in contatto con il Capitano Riccio(10). Mezzani, che sosteneva di essere il collaboratore di un Ministro, le aveva offerto denaro se lei avesse reso dichiarazioni a carico di persone che, secondo lo stesso Mezzani, facevano parte delle BR. Pressata continuamente da Mezzani e Riccio, aveva infine ceduto alla richiesta ed aveva accusato Moroni e Grasso, imputati che lei neppure conosceva.

Le dichiarazioni erano state concordate con Mezzani che, tempo dopo, era andato addirittura a scovarla in Australia perché la donna doveva assolutamente tornare a Genova per rendere una deposizione al magistrato. Lei aveva accettato a condizione che le fosse pagato il viaggio di andata e ritorno. In Italia, la donna aveva manifestato la preoccupazione di non essere in grado di individuare Moroni se fosse stata chiamata ad effettuare un riconoscimento fotografico. A quel punto, il capitano Riccio aveva consegnato alla donna una foto segnaletica di Moroni, foto che era ancora in possesso della testimone.

Giorgio Moroni, Luigi Grasso e Mauro Guatelli attivano la procedura per ottenere la revisione della sentenza definitiva di condanna.

Il 24 gennaio ‘92, nel corso di una udienza del processo di revisione, Giorgio Moroni consegna ai giudici una lettera, ancora sigillata, inviata da Sydney. Il plico contiene la foto segnaletica di Moroni che Patrizia Clemente ha gelosamente custodito per anni ed ha ritrovato tra le carte personali.

I giudici ascoltano Susanna Chiarantano. La testimone sostiene di non conoscere Guatelli e, quanto all’amico Luigi Grasso, esclude di aver mai chiesto o ricevuto informazioni sulle BR. Enrico Mezzani l’ha messa in contatto con il capitano Gustavo Pignero ed il giorno del blitz giudiziario, il 17 maggio ‘79, i carabinieri si sono presentati a casa sua, l’hanno “arrestata” e condotta in caserma.

Un ufficiale in borghese la minaccia dicendo che, se non avesse firmato un verbale di accusa, non sarebbe più uscita di lì.

Così, molte ore dopo, quando è arrivato il magistrato, le è stato letto un verbale che lei ha firmato perché, a quel punto, avrebbe firmato qualsiasi cosa pur di essere rilasciata. La verità, prosegue la testimone, l’ha raccontata, già molti anni prima, al giornalista Gad Lerner.

I giudici della Corte di Appello di Genova accolgono le richieste di revisione, revocano la sentenza irrevocabile di condanna ed assolvono con formula piena Giorgio Moroni, Luigi Grasso e Mauro Guatelli(11).

La vicenda giunge al suo epilogo. La verità processuale torna a coincidere con la verità storica: gli arrestati del maggio ’79, ad eccezione di quattro di essi, non sono mai stati militanti delle Brigate Rosse.

Tuttavia, le sentenze del ‘92/’93 non segnano, per intero, la fine della tormentata vicenda che, a questo punto, inizia a svilupparsi in luoghi diversi dagli uffici giudiziari.

Nel 2015/17, l’attività della Commissione parlamentare di indagine sul caso Moro arricchisce di elementi inediti la vecchia storia genovese, elementi che contribuiscono, in larga parte, a renderla ancor più intricata ed inquietante.

Ascoltando Elio Cioppa e Maurizio Navarra(12), funzionari in servizio, nel 1978/’79, presso il Centro Roma 2 del SISDE, i parlamentari apprendono che Navarra (che aveva lavorato a Genova quale ufficiale della Guardia di Finanza), appena arrivato al SISDE nell’agosto ’78, incontra un suo vecchio confidente utilizzato per indagini sul contrabbando.

Il confidente si propone di aiutare Navarra poiché ha rapporti con una donna che può fornire informazioni importanti sulla colonna genovese delle BR. La fonte, raccolte queste notizie dalla donna, le fornisce subito a Navarra che, sua volta, le condivide con il capitano Riccio dei Carabinieri di Genova. Il confidente di Navarra, per l’opera prestata, riceve 2/3milioni di lire e “l’Operazione Canepa” (così era stata denominata dall’agenzia di sicurezza) è appunto quella che conduce agli arresti del 17 maggio ‘79, in particolare a quello di Enrico Fenzi, ritenuto dal servizio segreto civile capo della colonna brigatista.

Secondo Elio Cioppa, il confidente di Navarra, in cambio dell’apporto che fornisce al servizio, chiede che la Questura di Genova gli rilasci una licenza per un esercizio commerciale. Cioppa incontra più volte la donna sul lungomare Canepa di Genova (questo è il motivo del nome dato alla operazione) e raccoglie notizie su Fenzi e sulle BR genovesi. La donna (“messa nelle mani” dei carabinieri dal pregiudicato che funge da confidente di Navarra) riceve sei milioni ed annuncia che fuggirà all’estero. Cioppa redige una corposa relazione di trenta pagine (seguita da altre due relazioni) consegnata a Domenico Sica e, da quest’ ultimo, al generale Dalla Chiesa.

I due ex funzionari del SISDE rifiutano di rivelare ai parlamentari i nomi del confidente e della misteriosa donna che sa tutto delle BR genovesi, ma è evidente che si riferiscono ad Enrico Mezzani, il confidente di Navarra, ed altrettanto chiaramente ad una delle due testimoni della indagine.

Se le cose sono andate nel modo descritto da Cioppa e Navarra(13), occorre riscrivere la storia della genesi della indagine genovese, genesi sensibilmente diversa da quella raccontata nella versione ufficiale descritta in questo modo nella sentenza del 3 giugno 1980: «Con i rapporti giudiziari in atti, i Carabinieri del Nucleo operativo di Genova comunicarono che dalle indagini in corso intese all’identificazione degli assassini del Rossa erano emersi indizi i quali consentivano di ipotizzare come la persona che aveva contattato il Berardi quale postino delle BR fosse Enrico Fenzi e come variamente collegati con le BR ed altri similari organizzazioni eversive fossero Isabella Ravazzi, Luigi Grasso, Mauro Guatelli…».

In origine, quindi, già dall’agosto ’78, i contatti con Mezzani ed una delle testimoni sarebbero stati avviati e coltivati dal SISDE e non immediatamente dai carabinieri dei reparti speciali di Dalla Chiesa che, solo in un secondo momento, avrebbero “ricevuto in consegna” l’uomo e la donna dal servizio segreto interno. Se fosse vero che la testimone ricevette sei milioni dal SISDE, questo starebbe a significare che, quando rendeva dichiarazioni ai carabinieri e ai magistrati, la donna, in realtà, onorava un impegno assunto con il servizio segreto, impegno per il quale aveva chiesto ed ottenuto una ricompensa.

Non sappiamo ancora se la storia raccontata dai due funzionari dei servizi sia vera. Per certo sappiamo che, durante l’istruttoria e poi nel corso dei processi, anche quelli di revisione delle sentenze, non è mai emerso il ruolo del SISDE nella vicenda giudiziaria, ancor oggi presentata solo come il risultato del lavoro dei reparti speciali antiterrorismo diretti dal generale Dalla Chiesa.

Emerge poi un’altra circostanza inedita.

La Commissione parlamentare sul caso Moro esegue accertamenti su una audiocassetta che, ufficialmente, risulta essere stata sequestrata, il 29 maggio ’79, nell’appartamento di Giuliana Conforto, in via Giulio Cesare 47 a Roma, luogo in cui i poliziotti arrestano i latitanti Valerio Morucci e Adriana Faranda che hanno abbandonato le Brigate Rosse già da diversi mesi(14). La cassetta contiene la registrazione di un colloquio tra un uomo e una donna, avvenuto, per quello che afferma il soggetto maschile, il 2 novembre ’78.

La donna (nel colloquio chiamata con il nome in codice “Camillo”) risponde a domande su Gianfranco Faina, Luigi Grasso, Giorgio Moroni, Giuliano Naria, Sergio Adamoli ed altri. L’uomo l’avverte che sta registrando il colloquio e che il nastro sarà ascoltato da persone legate al Ministero dell’Interno. Un preciso riferimento nel dialogo ad un comunicato scritto nel ‘74 mentre è in corso il sequestro Sossi (si tratta proprio di una delle accuse rivolte inizialmente da Chiarantano a Luigi Grasso), permette al generale Paolo Scriccia, consulente della Commissione parlamentare Moro, di concludere che, molto verosimilmente, la fonte “Camillo” è, in realtà, Susanna Chiarantano(15).

La Commissione non ha scoperto l’identità dell’uomo che dialoga con “Camillo”. E’ Enrico Mezzani? Si tratta di un funzionario del SISDE? Forse è un ufficiale dei carabinieri?

Il colloquio avviene il 2 novembre ‘78, a pochissimi giorni di distanza dall’arresto e dalla condanna di Francesco Berardi e ben due mesi prima dell’omicidio di Guido Rossa. La data della registrazione e l’assenza nel colloquio di qualsiasi riferimento alle figure di Francesco Berardi ed Enrico Fenzi dimostrano che le fondamenta dell’operazione genovese del maggio ’79 vennero gettate prima delle confidenze di Berardi e ben prima dell’indagine sull’omicidio Rossa del gennaio ‘79, come sostiene invece la versione ufficiale.

Trascorsi oltre 40 anni, la ricerca della verità sulla “Operazione Canepa” è compito degli studiosi e degli storici a cui spetta ricercare nuove fonti e nuovi documenti, anzitutto quelli compilati dal SISDE che occorre, finalmente, declassificare.

Ai giuristi compete la comprensione delle vicende giudiziarie e la riflessione critica sulle indagini e sui processi che, negli anni ’70 e ’80, si celebrarono nei confronti di imputati accusati di fatti di terrorismo/eversione o che militarono nelle organizzazioni che praticarono la lotta armata.

I giudici Giuseppe Quaglia e Andrea Giordano, della Corte di Assise di Genova, esposero, nella sentenza assolutoria del 3 maggio ’80, la propria visione della giurisdizione e dei compiti del processo penale, visione non solo non datata, ma ancora straordinariamente aderente ai principi costituzionali.

Queste le loro parole: «…Compito del giudice è però quello – e soltanto quello – di accertare la sussistenza dei fatti posti a base della pretesa punitiva dedotta in giudizio e non già di seguire la cd. “logica del sospetto” nei riguardi di persone atteggiantesi, nel loro foro interno, come favorevoli all’eversione e che comunque non risulta abbiano commesso alcun fatto penalmente rilevante».







(1) Una minuziosa ricostruzione della vicenda narrata in questo articolo è contenuta nel libro del giornalista Andrea Casazza sulla colonna genovese delle Brigate Rosse Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate Rosse, DeriveApprodi, 2013.

(2) Rivendicando il duplice omicidio di Sampierdarena, la colonna genovese annunciava di aver assunto il nome di “Colonna Francesco Berardi”.

(3) Nel libro-intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca (Brigate Rosse. Una storia italiana, Mondadori, 2007), Mario Moretti riconoscerà il grave errore commesso al momento della scelta dell’appartamento della Ludmann per la riunione della Direzione Strategica. La violazione di una regola essenziale della “compartimentazione” e della segretezza delle basi della organizzazione aveva prodotto effetti catastrofici perché Peci aveva indicato ai carabinieri una abitazione/base che non avrebbe in alcun modo dovuto conoscere.

(4) Un elemento più di ogni altro dimostrativo del fatto che la colonna genovese fosse un mondo sconosciuto agli inquirenti è la storia personale di Riccardo Dura “Roberto”, membro della direzione di colonna e poi capo della stessa, componente della Direzione strategica e del Comitato esecutivo BR. Clandestino da diversi anni, al momento della sua morte non era mai stato colpito da un provvedimento giudiziario e non era ricercato dalle forze di polizia. Addirittura, i carabinieri non riuscirono ad identificarlo per diversi giorni dopo la sua morte, tanto che, il 3 aprile ‘80, un brigatista fece una telefonata all’ANSA per rivelare che il compagno “Roberto” caduto a via Fracchia era Riccardo Dura.

(5) L’articolo di Gad Lerner che contiene le rivelazioni di Susanna Chiarantano viene pubblicato in contemporanea, il 15 aprile 1980, sul giornale Lotta Continua e sul quotidiano genovese Il Lavoro.

(6) Il nome di Mezzani aveva già incrociato la storia delle Brigate Rosse molti anni prima della vicenda raccontata in questo articolo. Durante il sequestro del magistrato Mario Sossi (18 aprile-23 maggio 1974), le BR, diffondendo il comunicato n. 4, annunciarono che Sossi, collaborando con i sequestratori, aveva ammesso la macchinazione giudiziaria contro i componenti del gruppo XXII Ottobre rivelando che l’indagine era stata costruita anche grazie ad alcuni provocatori, tra i quali Mezzani. Inoltre, le BR, nel famoso comunicato n. 5 dal titolo Non trattiamo con i delinquenti, annunciarono che le informazioni fornite dal magistrato prigioniero dimostravano che l’allora capo dell’ufficio politico della Questura di Genova, Umberto Catalano, era alla testa di una organizzazione che organizzava il traffico clandestino di armi in Liguria e che il funzionario di polizia godeva della copertura del Ministro dell’Interno, il genovese Paolo Emilio Taviani.

(7) Insieme ad Arnaldi, i magistrati torinesi ordinarono l’arresto anche dell’avvocato milanese Sergio Spazzali, anche questo aderente a Soccorso Rosso Militante.

(8) I due ufficiali dell’Arma dei Carabinieri erano il Capitano Fausto Paniconi e il Capitano Gustavo Pignero. Pignero è l’ufficiale che, utilizzando l’infiltrato Silvano Girotto, aveva arrestato Renato Curcio e Alberto Franceschini, a Pinerolo, l’8 settembre 1974.

(9) L’arresto di Moretti e Fenzi fu possibile grazie alla soffiata di un pregiudicato per reati comuni, Renato Longo, che fornì informazioni alla polizia sull’appartamento di Via Cavalcanti, 4 a Milano che veniva utilizzato da Moretti.

(10) Il capitano Michele Riccio, nel 1980 comandante la 1° Sezione del Nucleo Operativo Gruppo Carabinieri Genova, fu l’ufficiale che, alla testa di un gruppo di sei uomini, fece irruzione, il 28 marzo 1980, nella base BR di via Fracchia, 12. Proprio una delle persone arrestate da Riccio nel maggio ’79, Luigi Grasso, nel 2017, sulla scorta del materiale fotografico inedito pubblicato dal giornale Il Corriere Mercantile nel 2004, chiese alla Procura di Genova di riaprire l’indagine sui fatti di via Fracchia sostenendo che Riccardo Dura non era stato ucciso nel corso del conflitto a fuoco con i carabinieri, ma era stato deliberatamente ammazzato. Il procedimento nato dall’esposto di Grasso è stato archiviato.

(11) Le sentenze di revisione sono state emesse dalla Corte di Appello di Genova, Presidente Benedetto Schiavo, rispettivamente, l’8 aprile 1992 per Moroni e il 7 aprile 1993 per Grasso e Guatelli.

(12) Elio Cioppa venne ascoltato dai membri della Commissione Moro nel corso della audizione del 2 maggio 2017. Maurizio Navarra, invece, sottoscrisse un verbale di sommarie informazioni, il 22 maggio 2017, fornendo dichiarazioni al consulente Paolo Scriccia ed all’ufficiale di collegamento Laura Tintisona. Nel corso della audizione di Elio Cioppa del maggio ’17 emerse anche che il generale Giulio Grassini, direttore del SISDE, aveva consegnato a Cioppa, con la richiesta di svolgere accertamenti, un appunto scritto a mano che conteneva i nomi di alcuni avvocati e giornalisti possibili fiancheggiatori delle BR o di altre organizzazioni. Nell’appunto (conservato agli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2), Grassini aveva annotato i nomi degli avvocati Guiso, Spazzali e Di Giovanni, di Franco Piperno e Toni Negri, di tale «Sivieri 4° anno di fisica» (quasi certamente si tratta del brigatista Paolo Sivieri arrestato, nell’ottobre ’78, nella base di Via Montenevoso a Milano, con Bonisoli, Azzolini ed altri, poi morto suicida nel gennaio 1989) e dei giornalisti Scialoja, Tessandori, Isman e Battistini

(13) Le dichiarazioni di Navarra e Cioppa divergono, almeno in apparenza, su una circostanza importante. Mentre Cioppa sostiene di aver conversato con la testimone genovese sul lungomare Canepa, Navarra afferma di non aver mai conosciuto questa donna e di aver raccolto notizie sulle BR solo attraverso il suo confidente. Tuttavia, il nome in codice scelto dal servizio segreto civile, “Operazione Canepa”, come pacificamente riferito anche da Navarra, sembra confermare la versione di Cioppa e dimostrare che, effettivamente, la testimone incontrò il funzionario SISDE sul lungomare Canepa di Genova.

(14) Il generale Paolo Scriccia, nella relazione del 2 novembre 2025 alla Commissione parlamentare sul caso Moro, sostiene di aver accertato che, nell’elenco dei materiali sequestrati dalla Digos nella abitazione di Via Giulio Cesare 47, non compariva una audiocassetta e che, anche a causa della confusione esistente tra i reperti custoditi nei locali della Procura Generale romana, è verosimile che quella che contiene il dialogo sulle vicende genovesi, collocata in un reperto con rubrica «1980» (l’irruzione a Via Giulio Cesare risale invece al 1979), sia stata sequestrata in altro luogo e provenga da un procedimento penale diverso da quello che riguarda l’arresto di Morucci, Faranda e Conforto.

(15) La relazione del consulente generale Paolo Scriccia alla Commissione Parlamentare Moro è del 26 ottobre 2015. Appare importante aggiungere che, nell’aprile ’74, subito dopo il sequestro di Mario Sossi, i GAP (Gruppi Azione Partigiana) genovesi diffusero un comunicato nel quale si rivolgevano alle Brigate Rosse a cui chiedevano di liberare il magistrato solo se, in cambio, lo stato avesse rilasciato i detenuti del gruppo XXII Ottobre. Il comunicato si concludeva con il famoso slogan «Fuori Rossi o morte a Sossi». Susanna Chiarantano dichiarava di essere stata coinvolta nella compilazione e divulgazione di questo comunicato da Luigi Grasso.





























http://documenti.camera.it/leg17/resoconti...afico.0083.html

Rif. Camera Rif. normativi
XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro

Testo del resoconto stenografico


Seduta antimeridiana n. 83 di Mercoledì 27 aprile 2016

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIUSEPPE FIORONI

  La seduta comincia alle 14.15.

Comunicazioni del presidente.

  PRESIDENTE . Nel corso dell'odierna riunione, l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha convenuto di incaricare:

   la dottoressa Giammaria, il sostituto commissario Ferrante e il sovrintendente Marratzu di acquisire sommarie informazioni testimoniali da una persona informata dei fatti in relazione al covo di via Gradoli;

   la dottoressa Picardi, il generale Scriccia e il maresciallo Pinna di acquisire sommarie informazioni testimoniali da due persone informate dei fatti;

   il colonnello Pinnelli di acquisire dalla RAI copia delle edizioni del TG1 e di eventuali «speciali» trasmessi durante i 55 giorni del sequestro Moro;

   la dottoressa Picardi, il generale Scriccia e il maresciallo Pinna di acquisire sommarie informazioni testimoniali da una persona informata dei fatti, in relazione alle attività di sorveglianza a suo tempo sviluppate nei confronti di Giovanni Senzani;

   il dottor Donadio, il dottor Salvini e il tenente colonnello Giraudo di acquisire sommarie informazioni testimoniali da una persona informata dei fatti in relazione ai rapporti tra la criminalità organizzata e la vicenda Moro.

   Comunico inoltre che:

   il 22 aprile 2016 la dottoressa Tintisona ha depositato una nota, di libera consultazione, relativa alle verifiche compiute su tracce ematiche presenti nella Renault 4 dove fu ritrovato il cadavere di Aldo Moro e ai risultati degli esami comparativi tra i profili genetici emersi dal covo di via Gradoli e dagli indumenti di Aldo Moro e i mozziconi rinvenuti nella Fiat 128 usata dai brigatisti a via Fani;

   nella stessa data la dottoressa Giammaria, il sostituto commissario Ferrante e il sovrintendente Marratzu hanno depositato una nota, riservata, relativa a Giulio De Petra;

   nella stessa data la dottoressa Tintisona ha depositato una nota, riservata, del Servizio centrale antiterrorismo relativa al furto compiuto nell'abitazione della famiglia Moro il 13 novembre 1978;

   nella stessa data la dottoressa Tintisona ha altresì depositato il carteggio, di libera consultazione, relativo alla scoperta della tipografia di via Pio Foà conservato presso l'archivio-deposito di Circonvallazione Appia;

   nella stessa data il colonnello Pinnelli ha depositato una nota, riservata, con allegata fotografia di Antonio Nirta risalente al 1976-1977;

   il 26 aprile 2016 la dottoressa Picardi, il generale Scriccia e il maresciallo Pinna hanno depositato il verbale, riservato, di sommarie informazioni testimoniali rese da Emilio Fede;

   nella stessa data la dottoressa Picardi, il generale Scriccia e il maresciallo Pinna hanno depositato una proposta istruttoria, riservata, su accertamenti conseguenti alle sommarie informazioni rese da Emilio Fede,
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e una nota, riservata, riguardante gli atti relativi a Ubaldo Lauro stralciati dal processo Pecorelli;

   il 27 aprile 2016 il tenente colonnello Giraudo ha depositato il verbale, riservato, di sommarie informazioni testimoniali rese dal colonnello della Guardia di finanza Gaetano Lamberto Morgano;

   nella stessa data è stata acquisita una missiva, riservata, di Maria Fida Moro, relativa alla desecretazione di alcuni stralci della lettera da lei inviata in data 18 febbraio 2016 a integrazione della sua audizione;

   nella stessa data il colonnello Pinnelli ha depositato una nota, riservata, relativa ad attività investigative compiute nel 1977-1978 su Prospero Gallinari.

   La prima seduta utile della prossima settimana sarà dedicata a fare il punto sulle indagini in corso. In seguito si procederà alle audizioni di Nunzio Sapuppo, Marco Di Berardino, Enrico Marinelli e Vittorio Fabrizio.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE . Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Audizione di Nicola Mainardi.

  PRESIDENTE . L'ordine del giorno reca l'audizione di Nicola Mainardi, sottufficiale in quiescenza della Polizia di Stato, che ringraziamo per la sua presenza oggi e per la collaborazione risolutiva che ci ha dato.
  Faccio presente a Nicola Mainardi che, ove lo ritenesse opportuno, può chiederci di passare in seduta segreta.
  L'audizione ha per oggetto le modalità attraverso le quali si giunse, il 29 maggio 1979, alla scoperta del rifugio di Valerio Morucci e Adriana Faranda, ovvero l'abitazione di Giuliana Conforto in viale Giulio Cesare 47. Si tratta di un episodio cruciale della vicenda Moro che chiama in causa molti aspetti all'attenzione della Commissione che sono stati già oggetto di specifiche deleghe. Tra queste, cito in particolare il tema della rottura tra Morucci e Faranda, da un lato, e le Brigate rosse di Moretti, dall'altro, e il tema del ruolo dei terroristi e fiancheggiatori provenienti da Autonomia Operaia, come Franco Piperno e Lanfranco Pace. Ricordo che Morucci e Faranda si separarono dalle Brigate rosse verso la fine del 1978 e trovarono diversi rifugi grazie soprattutto a Piperno e a Pace. All'inizio del 1979 erano in casa di Aurelio Candido, un grafico del Messaggero vicino al Partito Radicale e amico di Stefania Rossini, compagna di Lanfranco Pace. Candido ha in seguito escluso di essere a conoscenza della reale identità dei suoi ospiti.
  In seguito, in data non precisata della primavera 1979, Morucci e Faranda trovarono ospitalità a viale Giulio Cesare 47, in casa di Giuliana Conforto, una professoressa di fisica, figlia dell'agente del KGB Giorgio Conforto, proveniente da Potere Operaio, amica di Piperno e probabilmente anche in rapporto con Luciana Bozzi, la proprietaria del covo di via Gradoli. Qui ricordo solo alla Commissione che l'ex deputato radicale di cui adesso mi sfugge il nome, che ha scritto un libro...

  GERO GRASSI . Alessandro Tessari.

  PRESIDENTE . Tessari ha scritto un libro in cui ha raccontato come gli fosse stato suggerito il giorno prima dell'arresto di Morucci e Faranda di prendere una stanza in quell'appartamento. Andò a vederlo, poi non si fermò lì quella notte. Il particolare che lo colpì – lo riporta nel libro, ma sono cose che ha detto a me direttamente, e anche all'onorevole Grassi, incontrandoci alla Camera – è che sotto il materasso dove avrebbe dovuto dormire c'era la pistola mitragliatrice Skorpion usata per l'omicidio di Aldo Moro.
  Anche sul tema della connessione tra i covi di viale Giulio Cesare e di via Gradoli, e quindi tra le famiglie Bozzi e Conforto, si è a lungo dibattuto e sono in corso accertamenti ulteriori.
  Dopo l'attentato alla sede della DC di piazza Nicosia del 3 maggio 1979, la Polizia
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si mise alla ricerca di un covo BR nel quartiere Prati e nel corso del mese di maggio identificò il rifugio di viale Giulio Cesare. Il 29 maggio vi fece irruzione, arrestando Morucci e Faranda e reperendo parecchie armi e altri materiali. Di fatto, si trattava di un vero e proprio covo.
  Giuliana Conforto fu successivamente scagionata a seguito di un processo che già all'epoca suscitò parecchie perplessità per il trattamento di favore che le fu riservato. Gli organi giudicanti e le Commissioni parlamentari d'inchiesta si sono a lungo interrogati sulla modalità della scoperta del luogo e sulla fonte che la rese possibile. Nell'appunto della DIGOS per la Procura, datato 30 maggio 1979 e firmato dall'allora vicequestore Ansoino Andreassi, da noi ascoltato lo scorso gennaio, si fa riferimento generico a «notizie riservatissime» che avrebbero consentito la scoperta del covo una decina di giorni prima dell'irruzione delle forze dell'ordine.
  Nella sua audizione presso la Commissione d'inchiesta dell'VIII legislatura, il 22 ottobre 1980, Domenico Spinella ha parlato dell'informatore che rese possibile la scoperta del covo come di «una persona che conosco da molti anni ed è, a mio avviso, totalmente estranea all'organizzazione terroristica». Lo stesso Spinella ha affermato che Giuliana Conforto era secondo lui «responsabile non solo del favoreggiamento che le è stato contestato». In seguito, nell'audizione presso la Commissione stragi del 1° dicembre 1999, il dottor Andreassi ha detto: «Avemmo – e non la ebbi io, che fui in questo caso un esecutore dell'operazione – un'informazione secca e precisa, tra l'altro proveniente da ambienti che non erano dell'eversione». Rispondendo a specifiche domande, ha aggiunto: «Era un contatto dell'informatore, non con l'organizzazione terroristica nella maniera più assoluta, era un contatto di natura personale con uno dei due arrestati».
  Francesco Cossiga, nella sua audizione presso la Commissione Mitrokhin del 24 febbraio 2004, intervenne sulla questione. Cossiga disse in quell'occasione: «Fu lui (questo lo so per certo) che, per difendere il Partito comunista italiano da accuse di collusione con le Brigate Rosse, denunziò, all'allora capo della squadra mobile Masone, Faranda e Morucci, che abitavano nella casa della figlia. L'uomo che fece arrestare Faranda e Morucci è quello che qui è considerato il più grande agente sovietico, Conforto. Fece ciò perché la figlia non sapeva nulla. Sapeva soltanto che questi erano elementi di sinistra. La figlia era un'extraparlamentare non comunista. Quando lui capì chi erano le persone che erano in casa della figlia contattò Masone». Cossiga indicò come sua fonte Masone, che era defunto alcuni mesi prima, il 1° luglio 2003, e che quindi ovviamente non poté né confermare né smentire.
  Infine, nell'audizione svolta il 21 gennaio 2016, il dottor Andreassi ha risposto ad alcuni quesiti sul tema. Proseguiamo in seduta segreta, perché devo citare un passaggio che rientra nella parte segreta di quella seduta. Dispongo la disattivazione dell'impianto audiovisivo.

  (I lavori proseguono in seduta segreta)* .

  PRESIDENTE . In quell'occasione Andreassi ha espresso alcune perplessità sulla ricostruzione offerta da Cossiga e ha affermato: «Noi scoprimmo l'abitazione di viale Giulio Cesare, dove si nascondevano Morucci e la Faranda, grazie a una segnalazione secca dovuta a una circostanza del tutto fortuita, e cioè un vecchio amico di Morucci lo incontrò quando quest'ultimo era già ospite di Giulia Conforto e ce lo disse». Ha inoltre aggiunto che la persona era un confidente della squadra mobile, in particolare di un sottufficiale di Luigi De Sena, e che il confidente «si incaricò personalmente di pedinare Morucci dopo un appuntamento, poi lo seguì fino all'appartamento e ce lo indicò».
  Torniamo in seduta pubblica. Dispongo la riattivazione dell'impianto audiovisivo.

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  (I lavori riprendono in seduta pubblica).

  PRESIDENTE . Ho richiamato queste notizie all'attenzione dei membri della Commissione per contestualizzare i contenuti di quello che si è scritto e si è detto fino a oggi.
  A Mainardi non rivolgerò domande sulle dichiarazioni che ho prima richiamato, perché non necessariamente ne è al corrente, ma su ciò su cui ha avuto esperienza diretta nella sua attività di servizio. A tale scopo chiedo al maresciallo Mainardi di esporre nella maniera più dettagliata le indagini che portarono all'indicazione delle fonti confidenziali e poi all'irruzione della Polizia in casa di Giuliana Conforto. Gli domando di non omettere alcun particolare, nei limiti consentitigli dalla sua memoria: il suo incarico all'epoca dei fatti, il responsabile dell'operazione, le scelte operative, i dettagli sulla fonte confidenziale, la data della sua attivazione, la sua personale valutazione su ciò che rese possibile la latitanza di Morucci e Faranda e sulle modalità di scoperta del covo.
  Do la parola al maresciallo Mainardi.

  NICOLA MAINARDI . Racconto i fatti o aspetto le domande?

  PRESIDENTE . Racconti lei i fatti, poi sulla base di quello che ci avrà raccontato potremo porle domande.

  NICOLA MAINARDI . Prima del maggio 1979, a seguito di lavori di polizia giudiziaria, avevamo fermato diversi personaggi. Calcoli che all'epoca stava nascendo la banda della Magliana, c'erano i sequestri di persona, quindi come pattuglia perlustravamo la zona di Portuense, come stabilito dal dottor Masone, per cui per ogni zona c'era una pattuglia della squadra mobile. È chiaro, quindi, che eravamo in zona, conoscevamo i posti o i locali dove si ritrovavano dei personaggi dediti a rapine e anche a sequestri di persona.
  In quel periodo, non ricordo bene, forse nel 1978, ricevemmo la notizia che presso l'AutoCia, un autosalone, si riunivano diversi pregiudicati della zona della Magliana per acquisti di auto; ma sapevo che lì dentro cercavano anche documenti falsi. Dopo tre o quattro mesi facemmo una perquisizione in quell'autosalone, ma non trovammo nulla. Si tenga presente che all'epoca a un pregiudicato sotto sorveglianza che fosse fermato tre, quattro, cinque volte con altri pregiudicati, si poteva, sulla base di una relazione, sospendere la patente. Il prefetto, il questore, sulla base di relazioni del genere, potevano sospendere o ritirare la patente. Per quel tipo di gente il ritiro della patente era peggio che pagare 30 milioni di lire, perché si poteva poi togliere loro anche la macchina, allora c'era l'articolo 80 e così via.
  A seguito della perquisizione ebbi contatto con questo soggetto, il rivenditore. Non so, infatti, se la società fosse intestata a lui o meno. Ci incontrammo altre volte. Volevo evitare le perquisizioni, di metterci lì con la macchina e di dare fastidio alla rivendita. Molti personaggi, rapinatori o altri, andavano lì. È nato, allora, questo rapporto confidenziale, di fiducia, come può nascere tra due persone qualsiasi.
  Subito dopo, sempre dalla stessa persona, ebbi un'altra notizia confidenziale, ma si trattava di un rapinatore. Si era in pieno sequestro Moro, c'era fermento per quanto riguardava le Brigate Rosse, quindi si può capire che periodo fosse. Avendo avuto contatti con questo soggetto, gli chiesi se fosse possibile far sapere qualcosa, qualche notizia.

  GERO GRASSI . Presidente, chiedo scusa: questo soggetto chi?

  PRESIDENTE . Adesso arriviamo alla fine del racconto, poi gli mostriamo due foto: se le riconosce, diremo anche il nome del soggetto.

  FEDERICO FORNARO . Non ricorda il nome?

  NICOLA MAINARDI . Lo ricordo. Se volete, ve lo dico subito: il signor Bozzetti Dario, rivenditore.

  PRESIDENTE . Questo? (Il presidente mostra al maresciallo Mainardi una fotografia)

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  NICOLA MAINARDI . Sì, questo.
  È nato questo rapporto di stima, di fiducia, tra me e questo soggetto. Nel periodo subito dopo il sequestro Moro, con le Brigate Rosse in piena attività, insistevo se per caso sapesse qualcosa di sequestrati o di sequestratori dell'epoca, o di qualcuno delle Brigate Rosse. Peraltro, aveva un autosalone della Renault, e in quel periodo i brigatisti usavano quasi esclusivamente queste macchine, Renault, Citroën.
  Quasi tutti i giorni pressavo il soggetto perché mi facesse avere qualche notizia. Dopo un po’ mi disse: «Guarda, ci sono questi due che si sono recati presso il mio autosalone». Ma sono convinto che l'abbia fatto più che altro per paura di essere invischiato come fiancheggiatore. In ogni caso, sta di fatto che a noi interessava prendere questi due soggetti. Informai l'allora dottor De Sena, mio diretto dirigente, poi andammo dal dottor Masone, capo della squadra mobile, e poi dal questore, dottor De Francesco. Lo stesso dottor De Francesco ritenne opportuno informare dell'operazione la DIGOS, dove allora c'era appunto il dottor Andreassi come vicedirigente.
  Dopo un po’ di giorni andammo direttamente, anche col dottor De Sena, a quest'ultimo appuntamento. Ci disse che, effettivamente, sia Morucci sia Faranda erano stati un paio di volte nel suo autosalone. La notizia era veritiera. Abbiamo cercato di svilupparla a fondo, di stargli ancora dietro.

  FEDERICO FORNARO . Chiedo scusa, ma lei dice che ha riconosciuto Morucci e Faranda, nel senso che gli avete mostrato delle fotografie?

  NICOLA MAINARDI . No, evidentemente li conosceva, sapeva chi erano.

  FEDERICO FORNARO . Questi andavano a prendere una macchina, essendo latitanti, dando il loro nome?

  NICOLA MAINARDI . No, uno dei due terroristi, Morucci, era amico dell'altro rivenditore, perché abitavano – questo è quello che mi hanno detto – in via Caroncini, nella zona di piazza delle Muse, da quelle parti, nella stessa via, quindi si conoscevano.
  Non so se con la Morucci e la Faranda si siano visti prima, ma di fatto li conosceva.

  FEDERICO FORNARO . Solo per puntualizzare: questo rivenditore le dice che si erano recati da lui Morucci e Faranda?

  NICOLA MAINARDI . Sì.

  FEDERICO FORNARO . Non due persone che potrebbero...

  NICOLA MAINARDI . No, ha detto: «Sono venuti da me...». Come le stavo dicendo, l'altro socio abitava nella stessa via in cui abitava Morucci.

  GERO GRASSI . Come si chiamava l'altro socio?

  NICOLA MAINARDI . Si chiamava Olindo di nome, ma non ricordo il cognome.

  PRESIDENTE . Olindo Andreini.

  NICOLA MAINARDI . Sì, può essere, comunque Olindo di nome.
  Una volta parlato col dottor De Sena e avuti altri incontri, unitamente al dottor De Sena, Bozzetti si è prestato e ha preso un appuntamento a piazza Risorgimento.

  PRESIDENTE . A noi risulta che non solo Olindo Andreini era amico di vecchia data con Morucci, ma che aveva già fornito alla Faranda macchine nel 1976-1977.

  NICOLA MAINARDI . Non lo so.

  PRESIDENTE . Questo è quello che a noi risulta da atti d'indagine.

  NICOLA MAINARDI . Non lo so, niente di più probabile che avesse acquistato qualche macchina prima, ma non lo so.
  Quindi, si è prestato ed è andato a un appuntamento a piazza Risorgimento, e poi
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da lì è stato seguìto. Morucci e la Faranda camminavano avanti, lui con la sua macchina, e noi con un'altra squadra seguivamo il cosiddetto «confidente». Il servizio era organizzato quella sera, tanto che molti di noi si sono portati a viale Mazzini, dove era il primo distretto.
  Una volta entrati i pedinati al civico 47, sono tornato al commissariato di via Ruffini, e così si è deciso col dottor De Sena – c'era il dottor Andreassi, non so se c'era anche il dottor Spinella, allora dirigente – di fare irruzione appunto al civico 47. Il personale della DIGOS all'epoca conosceva molto meglio di noi gli altri personaggi, e ricordo che quando hanno visto sul citofono il nominativo della professoressa di matematica, sono andati direttamente al piano del suo appartamento, perché pare che avessero fatto già in precedenza delle perquisizioni.
  Una volta fatto l'intervento, sono state trovate armi, tutto qui. La mia è semplicemente stata una confidenza con una persona, un lavoro di routine di polizia giudiziaria.

  PRESIDENTE . Questi signori hanno avuto qualcosa in cambio o no?

  NICOLA MAINARDI . Questi signori non hanno avuto niente. Noi premevamo perché fosse sospesa la patente. Dal momento che una volta si incontrava con un pregiudicato, un'altra volta con un altro, si poteva. Si stendevano delle relazioni in cui si diceva che un giorno aveva incontrato Mainardi, il giorno successivo un altro e così via, e il questore poteva fare la segnalazione di sospendere la patente.

  FEDERICO FORNARO . Per capirci, il premio è stato quello di non...

  NICOLA MAINARDI . È stato quello... e un passaporto, detto dal signor questore. Alla fine, col dottor Masone, col dottor De Sena e col dottor Andreassi...

  PRESIDENTE . Un passaporto ai due soggetti...

  NICOLA MAINARDI . Un passaporto ai due soggetti. Ci avevano detto che subito dopo, per giugno o luglio, interessava questo documento.

  PRESIDENTE . Avranno fatto qualche opera buona all'esterno, diciamo, con quel passaporto.

  NICOLA MAINARDI . Non lo so, non posso dirlo. Gli accordi erano, al ritorno, dopo venti giorni, di riconsegnare i due passaporti, e così è stato.

  FEDERICO FORNARO . Scusi, per capirci, all'epoca era una prassi una cosa di questo genere? L'ha visto fare altre volte?

  NICOLA MAINARDI . No, la prassi... Se facevi polizia giudiziaria, fermavi il pregiudicato con altri...

  PRESIDENTE . No, il senatore Fornaro intende il premio a chi dava un'informazione...

  FEDERICO FORNARO . Ho fatto un'altra domanda: è prassi che come premio per un'informazione importante, invece che denaro – che veniva dato in passato, come ci è stato spiegato dai suoi colleghi – a questi due soggetti è stato dato un passaporto e l'impegno a non perseguirli? Le ho rivolto una specifica domanda in questo senso: questa prassi, questo tipo di agreement, di accordo, era normale, naturale, o nella sua lunga esperienza è stata un'eccezione?

  NICOLA MAINARDI . So che altri servizi, specialmente per quanto riguarda i brigatisti... Il ministero dava dei soldi. Mi risulta, anche se non so quanto e non so come. Per quanto riguarda i documenti, è stata la prima volta che a me è capitato.

  FEDERICO FORNARO . A lei, la domanda è rivolta a lei. Successivamente, non le è mai capitato?

  NICOLA MAINARDI . Mai capitato.

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  FEDERICO FORNARO . L'unica volta, quindi, nella sua attività in cui ha visto questa tipologia di premi è stata questa.

  NICOLA MAINARDI . Sì, perché questa è la richiesta che hanno fatto i due soggetti. Non hanno richiesto denaro, non hanno richiesto altro. Siccome dovevano andare all'estero, hanno chiesto se c'era la possibilità di ottenere il documento. Di fronte a quest'operazione così importante, importantissima, siamo andati dal questore, che ha risposto che l'importante era che queste persone, una volta rientrate, riconsegnassero i documenti. Questo è successo.

  FEDERICO FORNARO . Grazie.

  PRESIDENTE . Altri elementi? Li ha più visti dopo? Questi due sono signori che hanno una discreta procedura giudiziaria...

  NICOLA MAINARDI . Li ho rivisti. Per motivi di servizio ci siamo rivisti.

  PRESIDENTE . Per capire: lei non si era mai occupato della vicenda Moro, se non per la zona in cui...

  NICOLA MAINARDI . Tenga presente, presidente, che in quel periodo come terza sezione...

  PRESIDENTE . Che cosa significa terza sezione?

  NICOLA MAINARDI . Significava la malavita organizzata, ma in quel periodo ci interessavamo soprattutto...

  PRESIDENTE . Dell'eversione.

  NICOLA MAINARDI . Dell'eversione.

  PRESIDENTE . Nella zona di sua competenza lei «prende in cura», segue con particolare attenzione quest'autosalone.

  NICOLA MAINARDI . Sì.

  PRESIDENTE . Perché era ricettacolo di soggetti...

  NICOLA MAINARDI . Ma questo come polizia giudiziaria.

  PRESIDENTE . Sì, in base al lavoro che svolgeva, in quanto soggetti «particolari».
  Tra l'altro, risulta da un verbale che la Faranda ci aveva già comprato roba. Il 10 luglio 1979 Olindo Andreini viene ascoltato dal giudice istruttore Priore: «Sono dipendente dell'AutoCia, che ha sede in via Adolfo Gandiglio n. 122».

  FEDERICO FORNARO . Il nome AutoCia è tutto un programma.

  PRESIDENTE . Sì. «L'AutoCia è una società a responsabilità limitata, il cui amministratore è Francesca Lamanna».

  NICOLA MAINARDI . È una donna.

  PRESIDENTE . Sì, Francesca Lamanna. «Ho saputo della questione dell'Autobianchi venduta a Faranda Adriana, perché venerdì scorso l'agenzia Vaccari ci telefonò per informazioni sul passaggio di proprietà. Non ricordo chi fosse il venditore della macchina. La pratica è stata trattata dal collega Bozzetti Dario, che in questi giorni è assente da Roma. La Faranda ha acquistato presso di noi due macchine. Dapprima una Mehari; poi a distanza di circa un anno l'Autobianchi, restituendo la Mehari. Entrambe le vendite sono state trattate dal collega Bozzetti. Non so perciò dire chi l'abbia indirizzata presso di noi, con quale modalità abbia pagato e se venisse presso il nostro autosalone in compagnia di qualcuno. Comunque, un certo qual numero di dati possono trarsi dalla relativa pratica». Questo è l'interrogatorio che Priore fa il 10 luglio 1979, alle ore 10.10, a Olindo Andreini.
  Questi acquisti risalgono agli anni 1976-1977, cioè erano frequentatori di quest'autosalone per il legame che avevano con Andreini. Evidentemente erano nel giro.
  Sempre il 10 luglio 1979, alle ore 12, viene interrogato Matteo Piano: «Sono dipendente all'autosalone AutoCia. Esibisco, come richiestomi, il libro giornale degli affari per la Questura, dove la nostra società
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riporta le operazioni di compravendita dell'usato, e i due fogli di accordo di compravendita sui quali sono riportate le due compravendite effettuate da Faranda Adriana. Si dà atto che l'ufficio estrae copia conforme dei predetti documenti e restituisce al Piano i predetti documenti. Non ho trattato i due affari direttamente giacché io mi occupo del settore rapporti con le case automobilistiche».
  Poi c'è l'interrogatorio di Dario Bozzetti, dell'11 luglio 1979: «Sono dipendente dell'autosalone AutoCia. Ho trattato io la vendita a Faranda Adriana di una Citroën Mehari e dell'Autobianchi A112. La prima fu venduta il 21 maggio 1976, la seconda il 19 aprile 1977. In occasione del secondo acquisto rese la Mehari. Ricordo che disse che durante l'inverno aveva preso tanta acqua, perché nella Mehari ci pioveva dentro. In entrambe le vendite pagò per contanti. Alle trattative si è sempre presentata da sola. Non so se alla consegna sia venuta accompagnata da qualcuno. Non ci fu presentata da nessuno. Non ricordo dove abitasse. A quei tempi era scura di capelli. I capelli erano lunghi».

  FEDERICO FORNARO . Possiamo passare in seduta segreta?

  PRESIDENTE . Proseguiamo in seduta segreta. Dispongo la disattivazione dell'impianto audiovisivo.

  (I lavori proseguono in seduta segreta)* .

  FEDERICO FORNARO . Una cortesia, se mi può ripetere un passaggio: è lei che chiede a Bozzetti di avere informazioni su presunti brigatisti (o su contatti comunque relativi alle BR) oppure è Bozzetti che offre queste informazioni?

  NICOLA MAINARDI . Io chiedo a Bozzetti di qualsiasi cosa, dal rapinatore al sequestratore, e in quel periodo c'erano anche le ricerche dei brigatisti

  FEDERICO FORNARO . Quindi Bozzetti che cosa le dice?

  NICOLA MAINARDI . Se eravamo interessati, probabilmente, anche ai brigatisti.

  FEDERICO FORNARO . Ho chiesto di passare in seduta segreta per questo motivo: lei fa una generica richiesta di avere informazioni riservate come confidenze a tutto raggio sulla criminalità organizzata, ed è Bozzetti che offre le informazioni su due persone, di cui fa nomi e cognomi?

  NICOLA MAINARDI . Dopo un po’ di tempo, in quel periodo lì, prima dell'arresto, due o tre mesi prima.

  FEDERICO FORNARO . Perfetto, ma due o tre mesi dopo il suo primo approccio?

  NICOLA MAINARDI . No, io l'approccio io ce l'ho dal 1977-78.

  FEDERICO FORNARO . A un certo punto Bozzetti le dice: «Se vuoi...».

  NICOLA MAINARDI . Bozzetti a un certo punto mi dice: «Siete interessati a personaggi delle Brigate rosse?». Gli ho risposto: «Certo che siamo interessati! Magari, se è possibile!».

  FEDERICO FORNARO . Le faccio una domanda delicata, a cui le chiedo però di rispondere: lei ha avuto mai sensazioni, anche di tipo epidermico, che quell'autosalone potesse essere in qualche modo legato ai Servizi?

  NICOLA MAINARDI . No, questo mai. C'erano solo personaggi della malavita. Che ci siano stati personaggi dei Servizi a me non risulta.

  FEDERICO FORNARO . Torno ancora indietro un attimo e poi taccio. Per verificare se ho capito bene: a un certo punto, in uno dei periodici incontri che lei ha con
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Bozzetti, quest'ultimo – lo dico con una battuta – le mette la testa di Morucci e Faranda, che in quel momento sono due tra i più pericolosi brigatisti in latitanza, su un piatto d'argento. Ho interpretato bene?

  NICOLA MAINARDI . Sì. Chiese se eravamo interessati e...

  FEDERICO FORNARO . Va bene, adesso l'ho volgarizzata per abbassare la tensione, per intenderci.

  NICOLA MAINARDI . La mia sensazione fu che aveva messo sul piatto perché questi personaggi attorno cominciavano a scottargli....

  PRESIDENTE . Cominciavano a scottargli, lei dice, perché frequentavano abitualmente...

  NICOLA MAINARDI . «Abitualmente» non posso dirlo. So che...

  PRESIDENTE . È certo che la Faranda è andata due volte all'autosalone. Se c'è andata è perché o lei o Morucci avevano un rapporto con quel club di personaggi delinquenziali che stavano in quell'autocentro, questo è chiaro. Voglio essere sicuro di aver capito bene, però: lei ha la sensazione che, quando voi cominciate a «rompergli le scatole» perché lo controllavate e lo mettevate sotto pressione, Bozzetti propone Morucci e Faranda, che conosceva già dal 1975 e 1977 e che, se si ripresentavano all'autocentro, era per acquistare un'altra auto.

  NICOLA MAINARDI . Io questo lo apprendo adesso dai verbali che lei ha letto, quindi presumo che li conoscessero prima e li frequentassero.

  PRESIDENTE . Lei dice che Bozzetti se li volle levare di torno per paura che voi avreste incastrato come fiancheggiatori lui e gli altri responsabili dell'AutoCia.

  NICOLA MAINARDI . Era quel periodo in cui persone che non volevano pagare determinate cose... Questa è la mia sensazione.

  PRESIDENTE . Cioè Bozzetti glielo dice e lei si apposta vicino all'autocentro per vedere quando questa donna e quest'uomo arrivano?

  NICOLA MAINARDI . No, no. Bozzetti me lo dice e io ne informo il mio dirigente.

  PRESIDENTE . Sì, ma per seguirli a viale Giulio Cesare come fate?

  NICOLA MAINARDI . Bozzetti organizza un appuntamento con loro due. Noi ci accordiamo...

  PRESIDENTE . Questo è un passaggio importante: Bozzetti organizza l'incontro, questo a riprova del fatto che Bozzetti fosse uno vicino a questi due, non un conoscente generico.

  NICOLA MAINARDI . Quindi, a piazza Risorgimento c'è Bozzetti, ci sono loro e poi partono. Noi non sapevamo, e neanche loro...

  PRESIDENTE . Partono e non sanno dove vanno. Lei va dietro a loro?

  NICOLA MAINARDI . Io seguo Bozzetti che sta con la macchina.

  PRESIDENTE . E loro due salgono sulla macchina di Bozzetti?

  NICOLA MAINARDI . No, vanno a piedi da piazza Risorgimento fino al numero civico 47 di viale Giulio Cesare.

  PRESIDENTE . E Bozzetti dove va con la macchina?

  NICOLA MAINARDI . Dietro. Li segue un po’ a distanza e io sto dietro a Bozzetti.

  PRESIDENTE . Bozzetti poi che fa a viale Giulio Cesare? Posteggia la macchina?

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  NICOLA MAINARDI . Arrivati a viale Giulio Cesare li vidi entrare al 47.
  Ci incontriamo, perché, una volta giunti, ci eravamo dati appuntamento davanti al tribunale di via Lepanto.
  Una volta che sono entrati...

  PRESIDENTE . Aspetti, maresciallo, c'è una parte che non capisco. Bozzetti le dice che le avrebbe consegnato questi due, ed è un soggetto in grado di fare arrivare Morucci e Faranda a un appuntamento che dà loro.

  NICOLA MAINARDI . Dà a loro un appuntamento.

  PRESIDENTE . A questo appuntamento parlano, prima che i due si allontanino a piedi? Bozzetti scende dalla macchina?

  NICOLA MAINARDI . Io sono molto lontano da loro. Non ho visto se sono scesi. Ho visto solo che quando Bozzetti si mette in macchina... Perché loro stanno proprio a piazza Risorgimento, dietro...

  PRESIDENTE . Quindi Morucci e Faranda vanno a piazza Risorgimento per parlare con Bozzetti?

  NICOLA MAINARDI . Con Bozzetti. Io devo seguire Bozzetti. Meglio di così non potevo fare.

  PRESIDENTE . E loro vanno a piedi. Poi quando arriva a viale Giulio Cesare, li vede...

  NICOLA MAINARDI . Bozzetti gira, a un certo punto.

  PRESIDENTE . Vuol dire che hanno parlato prima, Bozzetti e i due.

  NICOLA MAINARDI . Penso di sì. Avranno parlato di qualcosa, poi loro se ne andavano a casa...

  PRESIDENTE . Poi Bozzetti va in macchina, lei segue la macchina e i due vanno a piedi...

  NICOLA MAINARDI . Vanno a viale delle Milizie.

  PRESIDENTE . A quel punto lei incontra Bozzetti un'altra volta? Dove?

  NICOLA MAINARDI . Io mi fermo all'angolo di via Lepanto. Bozzetti ritorna e mi riferisce che sono entrati al 47, ma non sapevamo a quale interno.

  PRESIDENTE . Ricostruiamo: Bozzetti aveva venduto due macchine alla Faranda – questo lo sapevamo – negli anni precedenti. Quindi era una persona che li frequentava, non era un conoscente generico. Sarà stato amico di Morucci, della Faranda, questo poi lo vedremo. Morucci dà questa spiegazione: «Una spiata. Mi servivano dei documenti falsi e mi rivolsi alla mala. Ma evidentemente qualcuno aveva rapporti con la Polizia». Però il rapporto era molto più organico, visto che Bozzetti le vende due auto. Poi Bozzetti inizia ad avere paura perché si sente molto controllato e, a un certo punto, quando lei gli chiede notizie, magari anche delle BR, risponde di conoscere due delle BR. Dà loro un appuntamento. Li conosce bene, ne ha la firma sui contratti.

  PAOLO CORSINI . Conosceva Faranda e Morucci?

  PRESIDENTE . Li conosce bene, ha le firma sui contratti delle auto vendute! Dal 1975 li conosce, non da un giorno.
  Li porta a piazza Risorgimento da dove i due, a piedi, vanno verso viale Giulio Cesare, dopo aver parlato. Entrano dentro e Bozzetti – che ha visto dove sono entrati – dice a lei, che si trova più distante, qual è il numero civico in cui sono entrati. Lei ritorna in Questura...

  NICOLA MAINARDI . No, torno a via Ruffini, dove c'era il II Distretto, perché era stato organizzato prima: c'era la DIGOS, c'era la Mobile. Ci siamo fermati, con il personale, a via Ruffini perché presumevamo che, da piazza Risorgimento, la zona potesse essere lì, insomma...

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  PRESIDENTE . Torna a via Ruffini e riferisce che sono entrati a viale Giulio Cesare 47.

  NICOLA MAINARDI . Al 47. C'era il personale della DIGOS. Quando siamo arrivati lì, la prima cosa che ha colpito il personale della DIGOS, evidentemente, è stata la signora, che conoscevano bene.

  PRESIDENTE . Sapevano che quella signora abitava lì?

  NICOLA MAINARDI . Sì. Tant'è vero che una squadra della DIGOS è arrivata per prima nell'appartamento. Non come Squadra mobile.

  PAOLO CORSINI . Sono andati a colpo sicuro.

  NICOLA MAINARDI . Beh, conoscendo, hanno ricollegato...

  PRESIDENTE . Sapevano, dice Mainardi, che la Conforto) abitava lì.

  NICOLA MAINARDI . ...sapevano che era amica di Piperno, sapevano che già... Quindi sono andati su a colpo sicuro, come ha detto lei. Una volta che sono entrati loro, pure il nostro personale, come Squadra mobile, è entrato.

  PRESIDENTE . Va bene.
  Torniamo in seduta pubblica. Dispongo la riattivazione dell'impianto audiovisivo.

  (I lavori riprendono in seduta pubblica).

  GERO GRASSI . Cerchiamo di ricostruire. In quel periodo, Morucci e Faranda sono ricercati, prima che dalla Polizia, dalle Brigate Rosse, perché Morucci e Faranda si sono distaccati dalle Brigate Rosse e hanno rubato anche le armi.
  Maresciallo, quanti anni aveva nel 1978?

  NICOLA MAINARDI . Sono del 1944, quindi nel 1978 avevo trentaquattro anni. Sarebbe bello tornare indietro.

  GERO GRASSI . Una domanda le è già stata fatta dal senatore Fornaro su Bozzetti che le offre la testa dei due. Quindi Bozzetti si fida molto di lei, per averle detto questo.
  Voglio farle un'altra domanda: durante l'irruzione a viale Giulio Cesare lei entra nella casa?

  NICOLA MAINARDI . Io entro dopo.

  GERO GRASSI . Quando?

  NICOLA MAINARDI . Cinque o dieci minuti.

  GERO GRASSI . Che cosa vede?

  NICOLA MAINARDI . In quel momento, non vedo niente, perché dentro c'è tutta la DIGOS. L'operazione all'interno...

  GERO GRASSI . Maresciallo, scusi, lei ha detto che entra cinque minuti dopo.

  NICOLA MAINARDI . Sì, entro in casa, ma vedo solo il nostro personale, giustamente soddisfatto di aver trovato le armi, tutto qui.

  GERO GRASSI . Ma lei entra in casa?

  NICOLA MAINARDI . Sul pianerottolo, davanti alla porta, nel corridoio.

  GERO GRASSI . Quindi, non entra.

  NICOLA MAINARDI . No, non giro tutte le stanze, perché già c'era tanta gente.

  GERO GRASSI . Non assiste, quindi, alla perquisizione della casa.

  NICOLA MAINARDI . No.

  FEDERICO FORNARO . La DIGOS fa la perquisizione.

  GERO GRASSI . Né alla perquisizione dei soggetti che stanno in quella casa.

  NICOLA MAINARDI . No.

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  GERO GRASSI . Non partecipa a questo.

  NICOLA MAINARDI . Alla perquisizione no.

  GERO GRASSI . Glielo sto chiedendo.

  NICOLA MAINARDI . Le sto rispondendo.
  Le ho detto che, siccome la DIGOS conosceva la proprietaria, gli uomini della DIGOS sono stati i primi a entrare. Sono stati i primi, infatti, ad arrivare al quarto piano, così ricordo. Può immaginare che per un'operazione del genere c'era una trentina di loro e un'altra ventina di noi.

  GERO GRASSI . Quindi, una cinquantina di persone.

  NICOLA MAINARDI . Sì. Molti sono rimasti sotto. Ecco perché le dico che alcuni erano sui corridoi, davanti. Poi c'è stato qualche inquilino, abitante sul pianerottolo, che è uscito, per curiosità, perché hanno sentito il frastuono che c'è stato. A mezzanotte o all'una – non ricordo l'orario – un po’ di movimento c'è stato.

  PRESIDENTE . Bozzetti e i due terroristi a che ora si erano visti?

  NICOLA MAINARDI . Su questo non posso essere preciso. In ogni caso, era di sera, tra le 21.30 e le 23.

  PRESIDENTE . Si vedono, quindi, di sera.

  NICOLA MAINARDI . Sì, la sera.

  PRESIDENTE . Siccome ha detto adesso che l'irruzione avviene intorno a mezzanotte, l'una, volevo capire quando si erano incontrati.

  NICOLA MAINARDI . Non vorrei sbagliarmi sugli orari, ma comunque era di sera, è sicuro.

  GERO GRASSI . Dopo l'irruzione ha percepito qualcosa di particolare? Ha saputo qualcosa di particolare? Ha capito dove si trovava? Ha visto che era successo qualcosa di particolare in quella casa? È una domanda.

  NICOLA MAINARDI . Le sto rispondendo: niente di particolare, tranne l'euforia per il colpo realizzato dalla Polizia in quel momento.

  GERO GRASSI . Lo capisco, ed è anche giusto.

  NICOLA MAINARDI . È tutto qui.

  GERO GRASSI . Altro?

  NICOLA MAINARDI . Tenga presente che successivamente l'indagine è stata svolta più dalla DIGOS, perché ad esempio da un numero poteva risalire ad altri. Noi siamo stati sì d'appoggio se c'era da fare qualche altra perquisizione, anche se io non ho partecipato più a nessun'altra, ma una volta che la DIGOS ha preso tutto in mano...

  GERO GRASSI . Tecnicamente, mi spieghi: lei fa un'operazione brillante, anche se è protagonista involontario perché Bozzetti le passa la notizia; perché poi la gestione passa ad altri?

  NICOLA MAINARDI . Perché specialista politica è la DIGOS per i reati delle Brigate Rosse. Di certe dinamiche e certe trame la DIGOS è a conoscenza più di noi, come mobile, all'epoca.

  PRESIDENTE . Forse è utile rammentare che il maresciallo Mainardi era in servizio alla terza divisione, quella che faceva l'anticrimine.

  NICOLA MAINARDI . Terza sezione.

  PRESIDENTE . Inseguendo e controllando il proprio territorio...

  GERO GRASSI . È chiaro. L'ultima domanda: secondo lei, in che misura quest'autosalone era collegabile al giro della banda della Magliana?

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  NICOLA MAINARDI . No, non era collegato. Qualche personaggio, qualche rapinatore andava lì, ma tenga presente che nel 1976-1977, quando l'ho conosciuto io, c'era e non c'era. C'era qualche personaggio, ma non la banda.

  GERO GRASSI . Non c'era la banda?

  NICOLA MAINARDI . Nel 1976-1977 nasceva, ma non c'era. Posso dire questo.

  GERO GRASSI . Maresciallo, nel 1978 c'era.

  NICOLA MAINARDI . Nel 1978, sì, tanto che hanno fatto...

  GERO GRASSI . Stiamo parlando del 1979. L'arresto di Morucci e Faranda è del maggio del 1979. Siccome ha avuto la notizia da Bozzetti in quel periodo...

  PRESIDENTE . Quell'autocentro di proprietà di Francesca Lamanna... Credo che, quando avremo modo di parlare a questo signore – uno dei due, perché l'altro è ricoverato in ospedale – stasera, dopo l'identificazione pubblica che il maresciallo Mainardi ha fatto, molte delle risposte saranno evidenti leggendo il casellario giudiziario.
  La questione non è se l'autocentro fosse frequentato da quelli della Magliana. Lei prima, però, ha richiamato due aspetti: ci realizzavano i documenti falsi e vendevano le auto.

  NICOLA MAINARDI . Quei personaggi fanno quello.

  PRESIDENTE . Se realizzavano documenti falsi, può darsi che ricevessero richieste da parte della banda della Magliana.

  NICOLA MAINARDI . Non metto in dubbio che qualche elemento della banda della Magliana potesse conoscerli.

  PRESIDENTE . Non erano, però, legati alla banda della Magliana.

  NICOLA MAINARDI . Non erano e non sono mai stati collegati alla banda della Magliana, fino a quando sono stato in servizio, secondo quello che mi ricordo. Qualche elemento...

  PRESIDENTE . Se serviva, realizzavano documenti falsi e vendevano loro le macchine.

  NICOLA MAINARDI . Niente di più probabile che...

  PRESIDENTE . Vendevano, però, le macchine e realizzavano documenti falsi. Di solito, quindi, li frequentava gente che aveva bisogno di questa roba.

  GERO GRASSI . Nel contesto, però – non è una domanda – realizzavano documenti falsi, erano frequentati da personaggi particolari, ma avevano la notizia non solo del fatto che la Faranda lì avesse comprato la macchina, fatto legittimo, bensì addirittura sapevano dove la Faranda e Morucci si erano nascosti.

  NICOLA MAINARDI . No.

  PRESIDENTE . No, non lo sapevano. Bozzetti l'ha scoperto quella sera, perché lo ha pedinato. Mainardi l'ha detto con chiarezza.

  GERO GRASSI . Quindi, non lo sapevano.

  PRESIDENTE . No, l'ha saputo quella sera.

  PAOLO BOLOGNESI . Ma sapevano che erano delle Brigate Rosse.

  PRESIDENTE . A quel punto, nel 1979 era noto, perché era già di pubblico dominio. Morucci e Faranda erano già usciti sulle cronache..
  Ho capito così quello che ha detto Mainardi, che mi correggerà se sbaglio. Bozzetti, che non è uno stinco di santo... Il presupposto è che con Morucci e Faranda si erano già frequentati. Se, infatti, la Faranda
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decide di comprare le auto lì da lui – stasera sentiremo che cosa ci racconta – qualche motivo ci sarà stato. Quando Mainardi chiede, si sentono sotto pressione, è gente che vende auto di un certo tipo, traffica in documenti falsi, e gli «vende» questi due.
  Mainardi dice di aver avuto la sensazione che glieli abbia «venduti» perché aveva paura che la Polizia gli finisse addosso. Stando alla dichiarazione di Morucci in un'intervista del 2001, sarebbe stata una spiata, perché aveva chiesto documenti falsi. Evidentemente, hanno chiesto documenti falsi e pensavano che quelli dell'autosalone fossero affidabili perché ci avevano comprato le macchine.
  Bozzetti va all'incontro serale o notturno a piazza Risorgimento, vede piano piano dove entra, e Mainardi riporta che sono entrati al 47. La DIGOS interviene per prima e sa già che a viale Giulio Cesare, a quel numero civico, abita la Conforto. Non vanno a suonare a caso, vanno lì pensando...

  NICOLA MAINARDI . Vanno diretti.

  PRESIDENTE . A meno che non abbiano perso il senno, ricordandosi di quello che era successo a via Gradoli, vanno lì e...

  NICOLA MAINARDI . No, anche perché in sede di preparazione dell'intervento è stata fatta una riunione a via Ruffini. Del 47 c'è stato qualcuno, sempre della DIGOS, che si è ricordato ancora prima di andare.

  GERO GRASSI . È chiaro che si sono ricordati. Oltretutto, la Conforto non scende dal cielo, è la figlia del professore universitario Giorgio (detto Dario) Conforto, uno dei più importanti agenti italiani del KGB. Non è una casa sconosciuta, ad alcuni quella casa è conosciuta.
  Ciò che faccio notare e che non quadra è che la Faranda dichiara che loro da quella casa uscivano soltanto il giorno e la sera all'imbrunire tornavano. Se Bozzetti li chiama... e non so, non esistendo il telefonino, come faccia a contattarli, perché Morucci e Faranda sono in fuga in quel periodo, anche se sono ricoverati lì. Fissano un appuntamento dopo l'imbrunire, alle 21-21.30.

  NICOLA MAINARDI . Era di sera, era buio.

  GERO GRASSI . Tarda serata. Questo dato della tarda serata rispetto alla versione della Faranda è un'anomalia.
  Mi piacerebbe anche capire, ma non lo chiedo a lei...

  NICOLA MAINARDI . Io posso rispondere per quello che penso io.

  GERO GRASSI . Non può dirmi quello che sto chiedendo: mi piacerebbe capire come Bozzetti li ha contattati. Non era facile.

  PRESIDENTE . La domanda è: ma perché la Faranda, tra tanti posti dove poteva comprare la macchina, o rubarla, va a comprarla all'AutoCia e poi ci torna anche nel 1977, quando magari è già clandestina? Se poi c'è l'appuntamento con Bozzetti, evidentemente c'erano rapporti e relazioni.. Morucci e Faranda di quell'autocentro si fidano, perché ci comprano due auto. E quelli dell'autosalone, quando si sentono il fiato addosso, cominciano ad avere paura di passare qualche guaio.
  Vorrei far presente che i soggetti che sentiremo stasera sono particolari. Il punto su cui si stanno completando le indagini è che questi non sono confidenti, fonti della Polizia, pagati regolarmente per avere notizie, come «cardinale» o altri. In un'operazione di normale controllo del territorio contro la criminalità organizzata, i due dell'autosalone, per pararsi dai guai, fanno una cosa, e, in cambio dell'impegno a fissare l'appuntamento e indicare il posto che ancora non conoscevano, mettono sul tavolo le due richieste: poter conservare la patente e avere il passaporto per venti giorni. Io ritengo che il conto della soffiata sia stato pagato da qualche Stato estero con qualche «sòla», se posso dirla proprio come la penso. Se il passaporto è servito
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per venti giorni, non è servito per un viaggio di piacere.

  CATERINA PES . Non si sa dove sono andati?

  PRESIDENTE . Stasera l'interessato ci sarà. Intanto, dobbiamo vedere se l'interessato lo ammette, se lo ricorda. Purtroppo, stasera non potremo ascoltare uno dei due perché ci è stato comunicato che è ricoverato. Ne interrogheremo uno solo stasera alle 21. Stasera viene Bozzetti. Olindo Andreini è in ospedale.
  Dopo che l'avremo ascoltato stasera, se riterremo che quello che ci avrà detto sarà stato significativo, bene; altrimenti lo riconvocheremo. Può darsi che ritrovi la memoria e può darsi di no. Quello che sarebbe assurdo è far finta che non si conoscessero. Avevano una frequentazione. Non so, può essere che Faranda e Morucci fossero persone che si fidavano del primo che passava, ma se questo li chiama, evidentemente già si erano rivolti a lui, e se dà loro appuntamento alle dieci di sera — tornando a quello che diceva l'onorevole Grassi – ci vanno perché si fidano. Stasera vedremo.

  FABIO LAVAGNO . Intervengo solo per capire una cosa che probabilmente ha già detto, ma magari mi sono distratto io. È Bozzetti a farle i nomi di Faranda e Morucci? O lei chiede...?

  NICOLA MAINARDI . Io chiedo in maniera generica per qualche operazione su dei personaggi. Allora c'erano, ad esempio, i sequestri, e nella zona del Trullo e del Portuense, diversi personaggi erano dediti ai sequestri di persona. Io mi occupavo in genere di questi personaggi di malavita comune, poi dopo due o tre appuntamenti Bozzetti mi parlò di Morucci e Faranda, dicendomi che era possibile sapere dove stavano. Gli risposi: «E che aspetti?».

  FABIO LAVAGNO . Quindi, è Bozzetti che fa i nomi di Morucci e Faranda.

  NICOLA MAINARDI . Fu lui a dirmi che c'era quella possibilità.

  PRESIDENTE . Relativamente alle domande sottese da quello che ha detto Grassi, è chiaro che non mettiamo in dubbio quello che lei ci dice. O questi erano tanto amici o contigui o la nostra domanda è: qualcuno li «imbocca»?

  NICOLA MAINARDI . Presidente, già il fatto che ha comprato le auto io non lo sapevo.

  PRESIDENTE . Il fatto, però, dimostra che si conoscevano.

  NICOLA MAINARDI . Se vado dal confidente e gli dico...

  PRESIDENTE . È singolare che l'interrogatorio di Priore sia così scarno e veloce.

  NICOLA MAINARDI . Non dico una cosa o un'altra, ma chiedo se c'è la possibilità di fare qualche operazione. Questa o è di criminalità comune, o fortunatamente per noi è stata politica...

  FABIO LAVAGNO . Quando le fa il nome di Morucci e Faranda, sono noti. Proprio perché si esce dalla criminalità comune e si entra in un altro filone, la sua reazione qual è stata, lei che cosa ha detto?

  NICOLA MAINARDI . Non ci credevo.

  FABIO LAVAGNO . Gli ha chiesto se li conosceva?

  NICOLA MAINARDI . Non gli ho chiesto niente, gli ho detto: «È possibile?». Mi rispose di sì.

  FABIO LAVAGNO . Mi scusi, ma ha verificato l'autenticità di quello che le stava dicendo?

  NICOLA MAINARDI . No, io avevo fiducia, perché già in precedenza sulla malavita organizzata qualche operazione l'ho fatta. Il rapporto col confidente, con queste persone, è una questione di pelle, come tra due persone qualsiasi che possono incontrarsi. Era stato già possibile concludere delle
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operazioni grazie a qualche sua notizia, tutto qui.
  Quando ha proposto questo, sono andato subito dal dottor Masone, dal dottor De Sena, e ho riferito quello che mi aveva detto la persona. Loro sapevano dei miei contatti, di cui li informavo sempre. Il dottor De Sena mi rispose: «Voglio venire a parlarci anche io», perché era incredulo anche lui. Io ho incontrato Bozzetti di nuovo e gli ho detto: «Guarda, c'è il dottor De Sena che vorrebbe parlarti». Lui non conosceva il dottor De Sena. Io gli dissi: «È una persona talmente onesta e perbene che, se prende un impegno con te per qualsiasi cosa, puoi stare tranquillo, perché è un signor funzionario, è come se stessi parlando con me».
  Ci siamo incontrati. Una volta che anche lui ha avuto questa conferma, siamo andati dal dottor Masone, dirigente, e siamo scesi dal signor questore. Questo è successo.

  FABIO LAVAGNO . Quanto passa tra questi incontri e quello in piazza Risorgimento?

  NICOLA MAINARDI . Dieci o dodici giorni.

  FABIO LAVAGNO . Un po’ più di una settimana.

  NICOLA MAINARDI . Sì, dieci o dodici giorni. Non ricordo di preciso, sono passati quarant'anni.

  FABIO LAVAGNO . A quel punto, proprio il giorno dell'irruzione a viale Giulio Cesare 47, le dice: «Ci vediamo a piazza Risorgimento»?

  NICOLA MAINARDI . No, sono io che gli sto dietro e gli chiedo quando incontra queste persone. Oltretutto c'era un po’ la rincorsa col povero generale Dalla Chiesa, e quindi facevamo un po’ la rincorsa a chi arrivava prima. Quando il questore, che ha senz'altro informato il ministero, ha saputo, tutti pressavano su di me affinché lo contattassi, non mollassi. Quasi tutti i giorni ero da lui, insistendo perché chiudessimo, perché sapevo che gli uomini del generale Dalla Chiesa stavano per arrivarci. Gli ho dato, quindi, un po’ di pressione.
  Lui mi ha detto che aveva un appuntamento dopo sette o otto giorni, ma è stato sicuramente di sera.

  FABIO LAVAGNO . Un bel giorno, però, le dice del giorno, dopo una settimana, dell'incontro in un dato posto?

  NICOLA MAINARDI . Lo incontro di pomeriggio. Non ricordo se mi ha telefonato al numero dell'ufficio della squadra mobile o l'ho incontrato, non so dirlo. In ogni caso, abbiamo avuto questo contatto, quando mi ha detto che quella sera aveva appuntamento con loro due. I funzionari, il capo della squadra mobile hanno organizzato e siamo andati.

  FABIO LAVAGNO . A quel punto, non sa perché e con quale espediente abbia organizzato l'incontro a piazza Risorgimento?

  NICOLA MAINARDI . No.

  FABIO LAVAGNO . Una cosa del genere: ti devo restituire dei soldi o devo consegnarti la macchina...?

  NICOLA MAINARDI . No. A noi interessava che si arrivasse al covo, quindi non chiesi...

  FABIO LAVAGNO . In base, quindi, alla fiducia che lei aveva in questo confidente...

  NICOLA MAINARDI . Sì.

  FABIO LAVAGNO . A lei bastava un'ora e un luogo.

  NICOLA MAINARDI . No, bastava soprattutto...

  FABIO LAVAGNO . Sto solo cercando di capire.

  NICOLA MAINARDI . E io sto spiegando.

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  PRESIDENTE . Bastava soprattutto che li seguisse per vedere dove entravano.

  NICOLA MAINARDI . Era quello che ci interessava. Non so se dovesse dare dei documenti.

  PRESIDENTE . Se dovevano arrivare prima di Dalla Chiesa, dovevano arrivare prima.

  FABIO LAVAGNO . La concorrenza tra le Forze dell'ordine è nota, però...

  NICOLA MAINARDI . Era bello. Quegli anni era bello. Se pensa che in un mese avevamo quattordici sequestri solo a Roma, questa era una rincorsa piacevole, per la quale veramente si lavorava notte e giorno, non c'era straordinario.

  FABIO LAVAGNO . Ho un'ultima domanda. Lei era da solo quando faceva il pedinamento del pedinamento?

  PRESIDENTE . Sulla macchina con cui andava dietro a Bozzetti che seguiva Morucci e Faranda.

  NICOLA MAINARDI . Sì, sono andato da solo, con la mia macchina.

  PRESIDENTE . Per non rischiare che fosse identificata come auto civetta.

  PIETRO LIUZZI . Ho una domanda per focalizzare un po’ il ruolo dell'autocentro anche come centro per fabbricare documenti falsi.
  Maresciallo, lei ha conosciuto direttamente il falsario?

  NICOLA MAINARDI . No, penso che loro si rivolgessero a qualcun altro. Questa è una mia sensazione.

  PIETRO LIUZZI . Non era interno al...

  NICOLA MAINARDI . No.

  PRESIDENTE . La domanda del senatore Liuzzi è: Olindo e Bozzetti...

  NICOLA MAINARDI . Erano loro i falsari? No. So da sensazioni che si rivolgevano...

  PRESIDENTE . Basta interrogarlo stasera per capire.

  NICOLA MAINARDI . Si rivolgevano a qualche altra persona.

  FABIO LAVAGNO . Scusi, prima mi è sfuggita una cosa: Bozzetti non le dice perché li conosce?

  NICOLA MAINARDI . Ma neanche gliel'ho chiesto.

  FABIO LAVAGNO . Scusi, la curiosità magari scappa.

  NICOLA MAINARDI . Non mi dice niente, né perché li ha conosciuti né come.

  FABIO LAVAGNO . Io capisco l'estrema fiducia che nutriva nei confronti di questo confidente, ma scatta un minimo di curiosità, che è quella che sta scattando a noi.

  NICOLA MAINARDI . In quel momento scatta solo l'esigenza di chiudere il servizio al più presto possibile e bene, in modo che non si possa, come si dice a Roma, essere «sgamati».

  PRESIDENTE . Aggiungerei un'altra considerazione: se so bene perché si conoscono, da quanto tempo e quanti reciproci aiuti si sono scambiati, oltre ad arrestare i terroristi, devo arrestare anche Bozzetti (altro che dargli il passaporto!), perché diventa contiguo.
  Magari non è stata mai messa a verbale la ragione per cui li conoscono. Il maresciallo non lo sa, ma magari qualcun altro qualche altra domanda gliel'avrà fatta. Stasera chiederemo a Bozzetti perché li conosceva.

  FABIO LAVAGNO . Non partiamo con il pregiudizio.

Pag. 20

  PRESIDENTE . No, non ho pregiudizi, ho letto un foglio.

  PAOLO BOLOGNESI . Lo chiediamo a Priore.

  PRESIDENTE . No, vorrei che fosse chiaro che Priore scrive quelle poche righe il 10 luglio 1979. A quando risale il blitz a viale Giulio Cesare?

  NICOLA MAINARDI . A fine maggio 1979.

  PRESIDENTE . Serve solo a ricordarvi perché Priore rivolge una tipologia di domande. Il 10 luglio 1979 Priore si ferma a quelle domande, forse perché era già informato. Avevano comprato automobili presso l'autosalone nel 1976-1977: possibile che non abbia scavato?

  CATERINA PES . A proposito di questo, lei, maresciallo, ha detto che aveva già avuto a che fare con Bozzetti in altre occasioni, era stato informatore e vi aveva aiutato: anche nel passato in cambio aveva chiesto che gli rilasciaste il passaporto o altro?

  NICOLA MAINARDI . No, diciamo che c'era una minaccia a fin di bene da parte mia come poliziotto. Se fermavi una persona come Bozzetti oggi, domani e dopodomani con altri pregiudicati, gli dicevi che, siccome frequentava appunto dei pregiudicati, c'era la possibilità della seconda divisione...

  PRESIDENTE . Era «spontaneamente» collaborativo.

  NICOLA MAINARDI . Era una spinta a far collaborare. Allora si faceva, non c'erano i soldi di oggi, si faceva con sacrifici propri, al di là del fatto che qualunque cosa si dovesse fare, si informava il dirigente della mobile, il proprio dirigente di sezione. Se io andavo a parlare con un confidente, lo sapevano. Prima di uscire, li informavo che quel giorno avrei incontrato Tizio e Caio. Come dirigenti l'hanno sempre saputo, avevo la loro fiducia.

  CATERINA PES . Quindi è la prima volta...

  NICOLA MAINARDI . In quella circostanza, sì. Hanno detto che dovevano recarsi all'estero e, siccome non avrebbero potuto avere i passaporti in quanto pregiudicati e così via, all'epoca...

  PRESIDENTE . Anche oggi.

  NICOLA MAINARDI . Oggi, però, si viene autorizzati dal magistrato, che lo rilascia.

  PRESIDENTE . Non sembra si siano pentiti al momento, ma non so, potremmo controllare.
  Ho un'ultima domanda: lei è stato oggetto di un encomio per questo lavoro?

  NICOLA MAINARDI . Sono stato oggetto di promozione straordinaria.

  PAOLO CORSINI . A margine dell'audizione, non sottovaluterei l'indicazione venuta da Fornaro durante la riunione dell'Ufficio di presidenza sulla vicenda Hypérion. Siccome il magistrato Salvini ha lavorato a lungo in quel settore, forse varrebbe la pena di chiedergli se quella notizia è vera.

  PRESIDENTE . Maresciallo, la ringraziamo di tutto.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.35.

* Su conforme avviso dell'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, nella seduta del 22 febbraio 2018 la Commissione ha convenuto di desecretare la seguente parte segreta del resoconto stenografico della seduta diurna del 27 aprile 2016 e ha disposto che il resoconto stesso venisse ripubblicato includendovi la parte desecretata.

* Su conforme avviso dell'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, nella seduta del 22 febbraio 2018 la Commissione ha convenuto di desecretare la seguente parte segreta del resoconto stenografico della seduta diurna del 27 aprile 2016 e ha disposto che il resoconto stesso venisse ripubblicato includendovi la parte desecretata.










Edited by barionu - 24/4/2024, 14:05
 
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CAT_IMG Posted on 7/4/2024, 07:50
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«Fronte del porto», il libro di Luzzato sulla colonna genovese della BR
di Paolo Persichetti *


Bisogna riconoscere grande coraggio a Sergio Luzzato per aver provato a ricostruire la storia della colonna genovese delle Brigate rosse fin dalla copertina che ha scelto per il suo volume, Dolore e furore, una storia delle Brigate rosse, appena uscito per Einaudi, titolo suggerito da una sferzante critica indirizzatagli da Rossana Rossanda nel 2010.

L’immagine, molto bella, ripresa da una elaborazione grafica di una foto di Viktor Bulla, è stata realizzata da Carlo Rocchi, uno pseudonimo dietro al quale si celava Livio Baistrocchi, ex di Potere operaio, artista di formazione, divenuto uno dei brigatisti più importanti della colonna genovese, latitante da oltre 40 anni.

La «Legera»
Uno dei maggiori meriti di Luzzato è l’imponente mole documentale raccolta, una ricchezza che fornisce al lettore e allo studioso infiniti spunti e poi la dovizia descrittiva che lo ha portato a immergere – com’è giusto che sia – quella vicenda in una ancora più grande: la storia della città di Genova tra gli anni 60 e 70.

Una impresa di oltre 700 pagine da cui è scaturito un affresco vivido di biografie, percorsi, colori, idee, immagini, situazioni, storie che sono al tempo stesso ritratto sociologico, culturale, politico, etnografico di Zena.

Le duecento pagine iniziali sono senza dubbio, insieme al taglio letterario della prosa e all’intreccio dei percorsi biografici, la parte più riuscita del libro.

Dal porto, cuore pulsante, alle sue fabbriche, a Balbi, l’università con i suoi intellettuali ultraradicali; dai marginali della Garaventa, nave di correzione minorile, alla nuova classe operaia che anche a Genova, come negli altri poli del triangolo industriale, si era popolata di giovani migranti meridionali insofferenti alla disciplina del partito e del sindacato che spesso si sovrapponeva a quella dell’impresa, fino a raccontarci del conflitto sulla «Legera».

Uno scontro di culture, una distanza antropologica che aveva messo contro le vecchie maestranze super professionalizzate, impregnate di ideologia del lavoro, di «doverismo morale» e fedeltà al Pci e i nuovi arrivati che non volevano sentir parlare di etica del lavoro e mal sopportavano il controllo politico, morale e professionale dei primi.

Nuove leve operaie insofferenti alla presenza opprimente dell’attivista sindacale: «che se non lavori come lui desidera, va dal capo e dice che sei una ‘legera’ e gli chiede di prendere provvedimenti, che se vai sottomutua o se sei un estremista comincia ad odiarti e a farti dispetti. La possibilità di organizzare gli operai estremisti e leggere è dunque sistematicamente spezzata dalla presenza capillare degli operai super professionalizzati».

Luzzato non si ferma qui, ci descrive la presenza della chiesa reazionaria e anticonciliare del cardinale Siri e il suo contraltare: i preti di strada come don Gallo, allontanato dalla Garaventa perché inviso per la sua pedagogia radicale, la comunità del Molo, circoli come il clan della Tortilla che furono incredibili crogioli, le idee dei basagliani che si facevano strada, gli intellettuali non più organici come l’avvocato Edoardo Arnaldi, Sergio Adamoli – medico chirurgo al san Martino, che tanti brigatisti ha rappezzato – figlio di Gelasio sindaco partigiano della città nel primo dopoguerra, membro del Pci al pari di Giovanni Nobile, segretario della federazione che vide la figlia Anna tra gli effettivi della colonna genovese.

Gianfranco Faina l’enfant prodige della Fgci genovese che rigetta la carriera già pronta nel Pci per costruire la sua via alla rivoluzione sulle tracce di un comunismo libertario, dietro di lui molto più defilato Enrico Fenzi, il suo amico Andrea Canevaro che intreccia la sua biografia con quella di Giovanni Senzani, di cui Luzzato segue ostinatamente le orme genovesi antidatandone erroneamente l’ingresso nelle Br.

Lungo questo tragitto, l’autore incrocia di nuovo Guido Rossa a cui aveva già dedicato una monografia, per rivelarne senza reticenze il lavoro informativo condotto in fabbrica per conto di un apparato riservato di controllo e contrasto della lotta armata messo in piedi dal Pci.

Chi era Dura?
Luzzato racconta al lettore con un’apprezzabile trasparenza l’origine della sua curiosità per gli anni genovesi della lotta armata, quando nel 1985, giovane ricercatore, scorgeva chini sui tavoli dell’allora biblioteca nazionale Richelieu di Parigi alcuni fuoriusciti italiani degli anni ’70.

Raffrontare le loro biografie di sconfitti con quelle dei rivoluzionari francesi fuggiti a Bruxelles l’intrigava, si domandava se anch’essi fossero «assediati dalla loro propria memoria», se «continuamente riabitassero il passato degli anni di piombo, per difendersi dal presente nel presente», per scoprire come i loro predecessori parigini: «quanto la posterità fatichi a essere imparziale».

L’altro interrogativo dell’autore riguardava la figura di Riccardo Dura, narrato da sempre come un «fantasma». Chi era veramente? Da dove veniva?

Il volume parte dall’unica traccia istituzionale conosciuta sul giovane: il fascicolo psichiatrico che racconta i suoi due internamenti nel manicomio di Genova Quarto e poi gli anni nella Garaventa, la nave correzione per minorenni in difficoltà.

Le perizie mediche ritrovate e le interviste con i dottori che lo visitarono rendono giustizia della leggenda nera costruita dai criminologi del tribunale e da alcuni pentiti dopo la sua esecuzione a freddo del marzo 1980.

Adolescente in difficoltà, in conflitto con una madre possessiva ma al tempo stesso anaffettiva, il ragazzo non aveva sopportato la separazione con il padre. Gli scontri in casa erano sempre più accesi e il genitore non trovava di meglio che chiamare i carabinieri col risultato di farlo internare. Inizia così, in una società dove ancora non si era affermata la rivoluzione basagliana, l’infelice tragitto di questo adolescente con il mondo contro.

Il racconto di Luzzato in questa prima parte è empatico, tifa palesemente per il ragazzo che studia anche con profitto, sperando che alla fine riesca a venirne fuori. E Riccardo ce la fa, uscito dalla Garaventa ormai diciottenne recide ogni legame materno e si imbarca come marittimo nella scala più bassa dei lavori del mare: mozzo o ragazzo da camera.

La colonna genovese è davvero nata tra gli universitari di Balbi?
Sorge qui il primo problema storiografico posto dal libro di Luzzato: non riuscendo a trovare tracce significative di Dura al porto, salvo alcuni rollini con i suoi numerosi imbarchi, l’autore ricostruisce una genealogia della colonna genovese seguendo biografie intellettuali che invece hanno lasciato dietro di sé molta documentazione e anche auto-narrazioni.

Dura riappare solo nel racconto di Andrea Marcenaro che l’accoglie in Lotta continua tra l’agosto del 72 e il settembre del 1973, quando preferisce andarsene perché non condivideva la distanza mostrata verso il gruppo XXII ottobre.

Senza considerare Dura e senza le fabbriche inevitabilmente l’università di Balbi si ritrova al centro della trama della futura colonna con le figure intellettuali di Faina e Fenzi, il primo importante, il secondo semplice gregario, e più in là Senzani che, contrariamente a quanto tenta di dimostrare Luzzato, entrerà nelle Br solo nel 1979, a Roma, quando prenderà la responsabilità del Fronte carceri, oppure Adamoli e Arnaldi, certamente con un ruolo più significativo nello sviluppo della colonna.

Un récit che ricalca la teoria dei «cattivi maestri», del ruolo nefasto degli intellettuali, del loro veleno ideologico senza il quale tutto non sarebbe potuto nascere, tanto caro al generale Dalla Chiesa.

Per Luzzato, se la storia delle Br era stata fatta, come gli aveva scritto Rossanda nella critica mossagli anni prima, «da persone un po’ qualsiasi», operai, tecnici, studenti, giovani delle periferie, a Genova le cose sarebbero andate diversamente: «intorno a un chirurgo come Sergio Adamoli, a uno storico come Gianfranco Faina, a un filologo come Enrico Fenzi, le parole sono diventate pietre».

All’Ansaldo qualcuno già guardava alle Br
Il volume ruota attorno a questa convinzione, nonostante Luzzato stesso dissemini alcuni indizi che mettono in dubbio la sua tesi: nel dicembre del 1973 nello stabilimento di Sampierdarena dell’Ansaldo Meccanico Nucleare viene distribuito un volantino identico a quello diffuso a Torino per il sequestro del capo del personale Fiat Amerio rapito dalle Br, salvo differire nel titolo: «Oggi Amerio, domani Casabona».

Effettivamente Vincenzo Casabona, capo del personale dell’Ansaldo verrà rapito dalla colonna genovese delle Brigate rosse il 23 ottobre del 1975. Chi aveva diffuso quel volantino aveva già dei contatti con le Brigate rosse.

Nel 2012, Augusto Viel della XXII ottobre racconta, nel libro di Donatella Alfonso, di aver conosciuto Riccardo Dura nel 1967, quando questi era ancora diciassettenne, insieme a Giuliano Naria, in un circolo marxista-leninista di Pegli, davanti a Porto, fondato dal partigiano Agostino Marchelli. Dopo il suo arresto Dura era sempre andato a trovare la madre, sfidando i controlli e quando fu massacrato questa lo pianse come un figlio.

La versione di Moretti: «No, le Br genovesi sono nate al Porto e all’Ansaldo»
Lo storico Davide Serafino, nel suo saggio del 2016 sulla colonna genovese, ha spiegato come Dura avesse seguito da vicino l’intera vicenda della cosiddetta XXII ottobre, che poi altro non era che il Gap genovese del gruppo Feltrinelli, e ricorda che Naria, dopo l’esperienza in Lotta continua, fece uscire con il collettivo operaio dell’Ansaldo un foglio che appoggiava il sequestro Sossi.

A queste testimonianze preesistenti, che Luzzato incomprensibilmente sorvola, si aggiunge la versione di Mario Moretti, da me raccolta nel corso dei diversi colloqui che ho avuto con lui nell’ultimo decennio: a chiamarlo a Genova furono Giuliano Naria, che aveva una sua rete all’Ansaldo, e Riccardo Dura dal porto. D’altronde i vasi erano comunicanti, come abbiamo visto i due già si conoscevano.

Un copione consolidato che già si era svolto a Torino e poi si ripeterà a Roma con i militanti di alcune strutture politiche delle periferie, a Napoli con Bagnoli.

La Brigate rosse sono arrivate a Balbi solo in un secondo momento – precisa Moretti – per incontrare Faina e il suo gruppo, a cui Dura si era legato. Entrarono così anche Fulvia Miglietta e Livio Baistrocchi.

Figura incontornabile nella scena politica rivoluzionaria genovese, Faina non fu mai veramente integrato nella colonna, «non per ragioni ideologiche» ma per questioni pratiche: l’emergere di riserve e lamentele interne alla nascente colonna legate alla sua inadattabilità alla guerriglia urbana che ne provocarono l’esclusione, con suo grande rammarico e dolore.

Determinante fu poi l’arrivo di Rocco Micaletto che con la sua esperienza strutturò la colonna mentre Moretti, chiamato nella Capitale, si spostò per costruire la colonna romana. Ma c’è un fatto che Moretti sottolinea con forza: «se le Br a Genova catturano per poche ore, processano e poi lasciano libero il Capo del Personale della fabbrica Ansaldo Meccanico Nucleare, come si può pensare che una cosa del genere sia stata possibile se non perché sei già lì, radicato nelle vertenze tra operai e padroni di quella fabbrica, perché ci vivi e lavori gran parte della tua vita, mica perché l’hai letto sui giornali.

Guarda caso Giuliano Naria è un operaio dell’Ansaldo. Non è forse questo un buon punto di partenza per fare “storia” sulla genesi della colonna genovese delle Brigate Rosse? Tutti dimenticano che questi compagni erano dei ragazzi di ‘movimento’, che si erano formati in pochi mesi nel grande e vario movimento rivoluzionario di quegli anni».

Giovani operai molto lontani dall’idea di ‘dolore e furore’ indicata nel titolo. Al pari di Giuliano Naria che venne espulso da Lotta continua perché fumava hascisc, anche Riccardo Dura fumava come tutti gli uomini di mare. Prima di entrare in clandestinità con le Br – racconta sempre Moretti – fece una chiusa di tre giorni fumando hashish in continuazione. Una specie di addio al celibato.

Naria probabilmente non smise mai, Moretti ricorda la sua visione orgiastica della rivoluzione dove il proletariato avrebbe dovuto assumere i vizi della borghesia abolendone solo le virtù. Schizzi di vite che sgretolano il cliché costruito attorno all’unica colonna che aveva arruolato un anarchico ma è stata dipinta come «stalinista, cubo d’acciaio, fantasma senza radici».

Chiaroscuri

Nella seconda parte del volume Luzzato scrive pagine che sconcertano il lettore, inspiegabili scivoloni metodologici che allontanano l’autore dal rigore storiografico dimostrato nel racconto della società genovese.

Che senso storico ha rilanciare domande, senza approfondimenti personali e documentazione, ma solo sulla scorta della letteratura dietrologica, sulla reale prigione di Moro e sul numero e l’identità dei brigatisti in via Fani? Nonostante questi incidenti il lavoro di Luzzato è importante perché offre una lezione fondamentale: non può esserci storia degli insediamenti territoriali delle Brigate rosse senza un adeguato approfondimento della temperie sociale, culturale e politica che le ha viste nascere.

* da Insorgenze.net

8 Ott
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3 Commenti

Carlo

8 OTTOBRE 2023 14:16

Piano, piano vengono stampati spezzoni attendibili della maggiore organizzazione comunista italiana dalla “liberazione”. Per il quadro definitivo occorrerà, probabilmente, che gli attori di quella stagione siano tutti morti.
È la democrazia, bellezza!


Eros Barone

8 OTTOBRE 2023 20:25

E’ sorprendente che, nel recensire questo libro di Sergio Luzzatto, pregevole autore di una biografia di Padre Pio, non compaia alcun riferimento al libro di Andrea Casazza, “Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate rosse” (2013), senza il quale la ricerca dello stesso Luzzatto si sarebbe svolta nel vuoto.

Allora, due osservazioni: la prima è che certe interpretazioni dei conflitti sociali in chiave complottistica sono soltanto aria fritta, come è dimostrato da un ‘caso di studio’ quale quello rappresentato proprio dal saggio di Casazza, dove, sulla scorta di una vasta, minuziosa ed articolata documentazione, viene ricostruita la lunga e complessa storia delle Brigate Rosse genovesi. Genova è infatti la città in cui, all’inizio degli anni Settanta, con la formazione della “banda XXII Ottobre”, collegata con i Gap fondati dall’editore Giangiacomo Feltrinelli, ebbe inizio la storia della lotta armata in Italia.

Il clamoroso sequestro di Mario Sossi nel 1974 e l’omicidio del giudice Francesco Coco e dei due uomini della sua scorta nel 1975 furono le azioni compiute dalla colonna genovese delle Br: il primo era stato il pubblico ministero nel processo alla “XXII Ottobre”, il secondo si era opposto alla scarcerazione dei militanti della «banda» richiesta dalle Br in cambio della liberazione del magistrato sequestrato.

Da quel momento e fino al 28 marzo 1980, data dell’eccidio, compiuto dai carabinieri, di quattro brigatisti sorpresi nel sonno nella base di via Fracchia grazie alle rivelazioni del ‘pentito’ Patrizio Peci, la colonna visse, per l’appunto, il mito dell’imprendibilità. La seconda osservazione concerne l’utilità di riflettere sull’esperienza della lotta armata condotta dalle Br e ricavarne, anche ‘ex negativo’, alcuni insegnamenti, il primo dei quali è l’individuazione del nemico, definito nei documenti delle Br come “Stato imperialista delle multinazionali” (Sim), nemico che trova oggi nella realtà dei rapporti internazionali e dei blocchi imperialistici il suo pieno ed organico dispiegamento.

Da tale individuazione derivano tutta una serie di conseguenze, come la sostanziale complementarità tra ‘pensiero politico’ e ‘pensiero militare’ (Lenin + von Clausewitz), le trasformazioni che investono lo Stato dentro il conflitto e l’integrazione, per dirla con la terminologia gramsciana, tra “guerra di posizione” e “guerra di movimento”. In questo senso, il profilo teorico ed analitico che ha caratterizzato l’esperienza politica e militare delle Br merita un’attenzione maggiore di quella che viene ascritta al contesto interno e internazionale in cui tale esperienza inserì, con tutte le inevitabili interferenze e sovrapposizioni che ciò comportava, la loro azione.


Da questo punto di vista, la riflessione su quel profilo permette di definire un ordine discorsivo che, essendo centrato sulla coppia opposizionale ‘amico/nemico’, si distingue nettamente, per la sua natura dialettica, da coppie opposizionali, tipiche dell’ordine discorsivo imperialistico, al cui interno nessuna dialettica storica sembra in grado di agire, come ‘società/economia’, ‘democrazia/dittatura’, ‘inclusione/esclusione’, ‘geopolitica/economia’, ‘culture/società’, laddove il presupposto che accomuna siffatte coppie opposizionali è sempre lo stesso: la rimozione della lotta di classe come motore del divenire storico e la riduzione del proletariato a strato marginale incapace di assurgere a classe per sé e perciò confinato nella mera dimensione economica di capitale variabile.







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Sinossi
La lunga e complessa storia della colonna genovese delle Brigate rosse. Genova è la città in cui, all'inizio degli anni Settanta, con la formazione della "banda XXII Ottobre" ha avuto inizio la storia della lotta armata in Italia. Un primato ribadito, nel '74, con il sequestro a opera delle Br di Mario Sossi, e, nel '75, con l'omicidio del giudice Francesco Coco e dei due uomini della sua scorta: il primo aveva recitato il ruolo di pubblico ministero nel processo alla XXII Ottobre, il secondo si era opposto alla scarcerazione dei militanti della "banda" richiesta dalle Br in cambio della liberazione del magistrato sequestrato.

Da quel momento e fino al 28 marzo '80, data dell'eccidio per mano dei carabinieri di quattro brigatisti sorpresi nel sonno nella base di via Fracchia grazie alle rivelazioni del "pentito" Patrizio Peci, la colonna visse il mito dell'imprendibilità. Sei anni di fuoco in cui la formazione brigatista partecipò al rapimento dell'armatore Pietro Costa, attuò quindici "gambizzazioni" di personalità politiche democristiane, di dirigenti industriali e del vicedirettore del quotidiano "Il Secolo XIX" e mise a segno gli omicidi di quattro carabinieri e di un commissario di polizia.

Ma ciò che destò più sgomento fu l'uccisione di Guido Rossa, operaio e militante del Partito comunista, punito per aver contribuito all'arresto di Francesco Berardi, sorpreso mentre distribuiva materiale propagandistico brigatista all'interno della fabbrica nella quale entrambi lavoravano

ISBN:
Casa Editrice:
Pagine: 496
Data di uscita: 06-11-2013






 
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08. MORO – Grassi: Sembra Una Favola Triste. E’ Il Caso Moro – 31 Agosto 2016
Posted at 00:00h in 02 Rassegna Stampa Aldo Moro by Gero Grassi




08. MORO – SEMBRA UNA FAVOLA TRISTE. E’ IL CASO MORO

di Gero Grassi – Vicepresidente Gruppo PD Camera

La Commissione Moro 2 ha proceduto al l’interrogatorio del signor Angelo Incandela, già Capo Ispettori del carcere di Cuneo. Il verbale e’ secretato per indagini in corso, ma le dichiarazioni fatte sono le stesse che Incandela ha svolto nel corso del processo per l’omicidio Dalla Chiesa presso il Tribunale di Palermo. Quindi sono pubbliche da tempo.


Provo a fare una sintesi senza alcuna conclusione e commento.

Nel 1978 il generale Dalla Chiesa, che Incandela conosce molto bene e con il quale ha già lavorato, gli chiede di registrare i colloqui privati tra i detenuti speciali del carcere di Cuneo ed i loro familiari. Gli chiede anche di leggerne la corrispondenza. Stessa cosa gli chiedono i Servizi segreti.

Incandela obbedisce ma si rende conto che i registratori avuti non gli consentono di ascoltare i discorsi registrati. Precauzione attuata nei suoi confronti.

A fine 1978 Dalla Chiesa chiede di incontrarlo fuori dal carcere di Cuneo, verso mezzanotte.
Incandela si presenta all’appuntamento in una stradina di campagna vicino il carcere e sale nella macchina di Dalla Chiesa, seduto dietro. Alla guida c’è un signore che lui non conosce. Dalla Chiesa gli dice che nel carcere di Cuneo, da finestre senza sbarre, e’ entrato un pacchetto, a forma di salame. Dentro ci sono le carte di Moro. A questo punto interviene il guidatore che, dal tono confidenziale con il generale, si intuisce non essere un carabiniere e parla del carcere di Cuneo da lui conosciuto molto bene. Lo descrive nei dettagli. Questo signore spiega ad Incandela dove potrebbe trovarsi il salame.


Incandela, dopo opportune indagini, trova il salame in una grata sotterranea del carcere e, così come Dalla Chiesa gli ha ordinato, lo consegna al generale senza guardare il contenuto. Fa una cosa, però, studia tutti gli ingressi al carcere e trova registrati alcuni nomi senza la indicazione del detenuto, cosa obbligatoria da fare. Scopre anche che alcuni nomi di persone entrate nel carcere sono completamente falsi, nomi di fantasia. Intuisce che il guidatore della automobile di Dalla Chiesa e’ entrato nel carcere da come ne parlava e per come lo descriveva.


Passa qualche mese e Dalla Chiesa chiama, presso il comando generale dei Carabinieri, Incandela. Gli fa vedere un pacco di carte e gli dice che, avvolte, saranno il salame che deve nascondere nel carcere di Cuneo per poi ritrovarle dopo ispezione. Ovviamente una volta trovate le carte, le deve consegnare a Dalla Chiesa, senza leggerne il contenuto. Incandela si rifiuta, facendo notare al generale che sarebbe un illecito e Dalla Chiesa gli risponde che anche così si serve lo Stato. Incandela dice no perché è un illecito.


A quel punto Dalla Chiesa si alza e si allontana qualche minuto, nel frattempo Incandela legge qualche foglio e si rende conto che trattasi di carte di Moro che parlano di Andreotti. Il generale torna e fa firmare una richiesta di colloquio con se stesso, retrodatata, dello stesso Incandela. Cosi risulta che e’ questi che ha chiesto di parlare con il generale.

Chi è la persona che guida l’auto con la quale Dalla Chiesa va a trovare in piena campagna e a mezzanotte Incandela?

Chi è l’uomo che tratta familiarmente dandogli del tu e chiamando generale Amen, Carlo Alberto Dalla Chiesa?

Un famoso giornalista, direttore della rivista OP di Roma.

Trattasi di Mino Pecorelli, ucciso il 20 marzo 1979 dopo aver pubblicato sul suo giornale la notizia, che aspetta da Milano, alcune foto che dimostrano la partecipazione alla strage di via Fani di persone estranee alle Brigate Rosse.
È’ la stessa persona che pubblica alcune lettere di Moro mai ricevute dai destinatari e che i brigatisti dicono doversi trovare in via Montenevoso a Milano. Incandela lo riconosce vedendolo in televisione qualche mese dopo, quando Pecorelli viene ucciso.

Roma, 20 maggio 2016






Edited by barionu - 24/4/2024, 14:33
 
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Capitolo IV



«Osservatore politico» ed il caso Moro.




Il viaggio in Usa di Aldo Moro e l’avvicinamento al Pci.
Il 12 ed il 13 maggio del 1974 si tenne il referendum sul divorzio, il cui risultato segnò
la sconfitta della Chiesa e della Democrazia cristiana. Si avvertì un segnale di un
cambiamento politico e culturale della società italiana verso sinistra182, mentre la scena
politica attraversava una fase che sembrò preludere a grandi cambiamenti. La formula di
centro-sinistra era in crisi, ma non vi furono le condizioni politiche per alternative
centriste o di centro destra. Aldo Moro si convinse della necessità di una nuova politica
italiana che, dopo gli anni del centrismo e delle alleanze con il Psi o altri partiti del
centro-sinistra, avrebbe dovuto affrontare il Partito comunista ed il rapporto con le
masse popolari che in esso si riconoscevano.
Bisogna avere un atteggiamento chiaro, serio e costruttivo nei confronti del partito
comunista verificando con il maggior impegno la validità delle sue proposte e
delle sue critiche e riservando ad esso, nella dialettica democratica e
nell’esperienza sociale ben più ampia e profonda che non l’azione del governo,
una doverosa attenzione e conversazione183.
Le parole di Moro, sebbene prudenti, accrebbero gli allarmi nel Dipartimento di Stato
americano, dal quale venne la richiesta di un più incisivo anticomunismo184 in Italia.
«Osservatore politico» cominciò a dedicarsi con particolare attenzione ad Aldo Moro dal
1974, in occasione del viaggio ufficiale a Washington del ministro degli Esteri e del capo
dello Stato Giovanni Leone. Un’importante missione date le crescenti difficoltà
economiche italiane e l’urgenza d’ottenere aiuti finanziari dall’alleato statunitense.
182 «Se ne ebbe conferma il successivo 16 – 17 giugno, con le elezioni regionali in Sardegna: il Pci
aumentò i propri voti del 7%, il Psi li aumento del 5,7%, mentre la Dc arretrò del 6,2%», FLAMIGNI, Le
Idi di marzo, il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, Kaos, Milano 2006, p. 35.
183 Aldo Moro su «Il Popolo» del 20 luglio 1974. Ivi, p. 37.
184 «Noi seguiamo gli avvenimenti dell’Italia con simpatia ed affetto. Potete contare sul fatto che in
qualsiasi momento l’Italia debba affrontare difficoltà, faremo tutto il possibile per assicurarle stabilità e
progresso». Discorso di Henry Kissinger durante la colazione offerta da Leone al Quirinale il 5 luglio
1974, MARIO MARGIOCCO, Stati Uniti e Pci, Laterza, Roma 1981, pag. 167.
75
Il presidente americano Gerald Ford ha dato incarico al suo ambasciatore a Roma
John Volpe di fare un sondaggio tra i vari partiti politici italiani, compreso il Pci, per
avere un quadro quanto più possibile esatto della situazione italiana in vista della
imminente visita del presidente Leone a Washington. A quanto apprende “Op”,
l’ambasciatore Volpe avrebbe incontrato alcuni tra i massimi esponenti del Pci, ai
quali avrebbe detto senza mezzi termini che eventuali aiuti americani al nostro paese
(nuovo piano Marshall) sono legati al non ingresso dei comunisti nell’area di
governo. I Comunisti, avrebbe detto Volpe, possono continuare a pilotare il
movimento sindacale o monopolizzare l’opposizione, ma non debbono assumere
dirette responsabilità di governo. Una eventualità del genere porterebbe ad un
graduale sganciamento dell’Italia dalla Nato185.
Le rivelazioni del direttore della Cia William Colby, fatte alla sottocommissione Forze
armate del Congresso, vennero pubblicate dal New York Times a due settimane
dall’arrivo in America della delegazione italiana. Colby descriveva l’attività Usa in Cile,
dalla corruzione dei deputati per evitare la ratifica della elezione di Allende da parte del
parlamento, al finanziamento di scioperi che bloccarono economicamente il paese per
settimane186. L’attività dell’agenzia sarebbe stata approvata dal «Comitato 40187», un
sottocomitato nell’ambito del Consiglio nazionale della sicurezza con funzione di
controllo verso le attività clandestine della Cia, al tempo presieduto da Kissinger. Le
manovre illegali compiute dall’agenzia in Cile contro il presidente socialista Salvador
Alliende non furono dunque fenomeni devianti, ma azioni volute dal presidente degli
Stati Uniti e dal suo consigliere per la sicurezza. La situazione cilena divenne quindi un
test per osservare il possibile ribaltamento di un regime di sinistra mediante la creazione
di caos al suo interno188. Pochi giorni dopo, il 16 settembre 1974, il presidente Gerald
185 Per gli aiuti Usa il Pci all’opposizione, «Osservatore politico», 23 settembre 1974.
186 «Nel settembre 1970 Allende vinse le elezioni presidenziali. Nixon era furioso e convocò Helms, il
direttore della Cia di allora, a una riunione nello studio ovale con Henry Kissinger. Nixon ordinò
chiaramente d’impedire che Allende entrasse in carica. La Cia si mise d’impegno ed inviò in Cile, per sei
settimane di attività frenetica, una speciale Task Force di suoi operatori indipendenti dalla «stazione» e
che rispondevano solo alla sede centrale di Washington». La mia vita nella Cia, WILLIAM COLBY,
Mursia, Milano 1981, pag 224.
187 RODOLFO BRANCOLI, Gli Usa e il Pci, Garzanti, Milano 1976, p. 128.
188 «Non vedo perché dobbiamo starcene fermi a guardare un paese diventare comunista per
l’irresponsabilità del suo popolo», Henry Kissinger al «Washington Post» del 10 settembre 1974.
76
Ford ammise ufficialmente che l’Amministrazione Usa era intervenuta in Cile, tra il
1970 e il 1973, per favorire il golpe militare del generale Augusto Pinochet189. La
tematica, a pochi giorni dall’arrivo della delegazione italiana, fu un chiaro messaggio: gli
Stati uniti attendevano da Leone assicurazioni che non ci sarebbero stati né
indebolimenti delle alleanze postbelliche, né rilanci del Pci all’interno. Durante i
colloqui Kissinger ribadì con durezza, al ministro degli esteri Moro, l’assoluta
contrarietà dell’Amministrazione a qualsiasi apertura democristiana al Pci, minacciando
il ritiro di qualsiasi aiuto all’economia italiana nel caso la Dc fosse venuta meno alla
chiusura anticomunista. Il segretario di Stato, inoltre, minacciò per l’Italia uno sbocco di
tipo cileno, mentre lo stesso Moro subì intimidazioni dirette al punto che lo stress
nervoso gli provocò un malore poche ore dopo190. Nella sua deposizione alla
Commissione parlamentare d’inchiesta la moglie di Aldo Moro dichiarerà:
È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che
cosa gli avevano detto, senza dirmi il nome della persona. Provo a ripeterla come
la ricordo: Onorevole Lei deve smettere di perseguire il suo piano politico di
portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui o Lei smette di
fare questa cosa o Lei la pagherà cara191.
Henry Kissinger non nascose mai la sua personale ostilità nei confronti di Moro, che
considerava il possibile Allende dell’Italia. Il segretario di stato fu ostile alla strategia di
apertura a sinistra attuata in Italia dagli inizi degli anni Sessanta, un grave errore
dell’amministrazione democratica di John Kennedy. Secondo Kissinger, l’alleanza
governativa della Democrazia cristiana con il Partito socialista lasciò ai comunisti il
monopolio dell’opposizione192. L’Italia rappresentava una nazione strategicamente
189 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 39.
190«Mi chiamò appena rientrato e mi disse che per alcuni anni si sarebbe ritirato dalla vita politica, cosa
che andava detta ai giornalisti. Risposi che mi pareva strano che si dovesse dare una notizia del genere
quando in Italia si era alla vigilia di una certa evoluzione politica all’interno della Democrazia cristiana
che avrebbe portato l’onorevole Moro alla nomina di presidente del Consiglio. Egli comunque insisteva
nella sua intenzione di ritirarsi dalla politica e nell’esigenza di informare i giornalisti». Guerzoni Corrado
in Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, volume II, Resoconti stenografici, pag. 745.
191 Eleonora Moro in Commissione Moro, volume V, p. 6.
192 «Nel 1963 gli Stati Uniti decisero di sostenere la cosiddetta “apertura a sinistra”, il cui obbiettivo si
identificava in una coalizione fra socialisti di sinistra e democristiani; la cosa avrebbe, almeno così si
sperava, isolato i comunisti. Gli esiti ultimi della coalizione si rivelarono diametralmente opposti a quelli
77
importante per l’alleanza atlantica nell’ambito della guerra fredda, un satellite degli Usa,
caratterizzato dal più forte partito comunista di tutto l’Occidente. Il 28 ottobre 1974 Aldo
Moro venne incaricato dal presidente Leone di formare il nuovo governo. Il leader si
pronunciò contro il compromesso storico, sebbene teorizzò la necessità di collaborazione
con il Pci per risolvere alcuni grandi problemi del paese. Il successo delle sinistre alle
elezioni amministrative del giugno del 1975 fu un terremoto politico di livello
internazionale. «Osservatore politico» attribuì le colpe «alla fazione democristiana senza
coraggio, senza iniziative e senza chiarezza di idee di Moro193», continuando a sostenere
la richiesta di Kissinger di rivitalizzare la Dc. Il Dipartimento di Stato Usa cominciò ad
elaborare una nuova strategia facendo nuovamente leva sui socialisti, potenziati e
schierati sul fronte anticomunista. Carmine Pecorelli fu tra i primi a scrivere del nuovo
atteggiamento americano, a partire dal 19 luglio 1975194, prevedendo l’ascesa del
milanese Bettino Craxi verso la segreteria del partito.
Perché a Washington s’è deciso: il nuovo potere in Italia sarà assicurato da una santa
alleanza anticomunista ma riformatrice, tra un Psi e una Dc tutti rinnovati. Che
magari potranno giovarsi dell’estemporaneo appoggio esterno di un Pci che vorrà far
confluire su qualche disegno di legge anche i suoi voti. Ma che resterà rigorosamente
escluso dall’area del governo. Pena la nascita, con l’appoggio degli Usa, di nuove
formazioni politiche, gemelle e parallele a Dc e Psi195.
«Osservatore politico» scrisse di quanto la politica italiana venisse influenzata dal volere
del dipartimento di stato americano, decidendo il nuovo potere politico; una santa
alleanza fra un Psi ed una Dc rinnovati. Quello che avverrà dopo l’uccisione di Aldo
Moro. Carmine Pecorelli colse tutta l’ostilità nei confronti della politica di Moro e la
scrisse nei suoi articoli. Ore 13: Il ministro deve morire del 19 giugno 1975, una nota
pubblicata da «Op» successivamente alle elezioni amministrative in Italia. Risultati
ritenuti catastrofici per l’atlantismo e gli Stati Uniti, che attribuivano le colpe a Moro. In
sperati. L’apertura a sinistra li fece diventare l’unico partito di opposizione vero e proprio. L’influenza
comunista era anzi così forte che l’acuto Moro aveva deciso di sfruttarla per togliere potere ai socialisti»,
HENRY KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, Sugarco, Milano 1980, p. 95.
193 Carmine Pecorelli cit. in FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 50.
194 Sarà Craxi il nostro Soares?, «Osservatore politico», 19 luglio 1975.
195 La grande virata della barca socialista, Ivi, 25 ottobre 1975.
78
Moro-bondo del 2 luglio 1975 o L’America, esperta, scherza e prevede del 13 settembre
1975: «Un funzionario, al seguito di Ford in visita a Roma, ebbe a dichiararci: «Vedo
nero. C’è una Jaqueline nel futuro della vostra penisola»196. I riferimenti al possibile
omicidio dell’uomo politico furono presenti in diversi articoli197 del giornalista e
raggiunsero il culmine in tale nota, in cui il direttore di «Osservatore politico» menzionò
la moglie di John Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre 1963, ipotizzando un futuro
delitto di natura politica anche in Italia. Gli articoli di Pecorelli su Aldo Moro furono
caratterizzati da diverse allusioni di morte, sebbene il politico fosse tra i bersagli
democristiani più risparmiati di «Op». Probabilmente Moro, da ministro degli Esteri,
lavorò diverse volte in stretta collaborazione con il generale Miceli, amico del
giornalista. Inoltre tra il materiale sequestrato nella sede di «Osservatore politico» si
trovarono alcune fotografie che ritraevano Moro insieme a Pecorelli198. Il 7 gennaio
1976, il Psi revocò la fiducia al governo Moro che si dimise. I socialisti mirarono ad
un’alternativa di sinistra con un governo di emergenza nazionale. La copertina di
«Osservatore politico» presentava dunque una caricatura di Moro intitolata Il santo del
compromesso: vergine, martire e…dismesso.
Il compromesso storico è nato come appoggio esterno al centrosinistra. Oggi,
assassinato con Moro l’ultimo centrosinistra possibile, muore insieme al leader
pugliese ogni possibilità di sedimentazione indolore delle strategie di
Berlinguer199.
Pecorelli scrisse, in un articolo successivo, riguardo la possibilità che il segretario del Psi
De Martino avesse revocato la fiducia al governo in seguito a pressioni dei Servizi
statunitensi.
C’è perfino chi insinua che la decisione di De Martino sia legata alla visita avuta dal
segretario socialista da parte di un personaggio (alcuni dicono turco, altri lasciano
196 «Osservatore politico», 13 settembre 1975.
197 Il primo accenno venne da «Mondo d’oggi» nel novembre 1967. In un articolo Carmine Pecorelli
scrisse di un possibile rapimento dello statista, già in piano dal 1964, ad opera del tenente colonnello
Roberto Podestà, DI GIOVACCHINO, Scoop mortale, p. 200.
198 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 58.
199 Dopo Moro: la crisi oltre i suoi promotori, «Osservatore politico», 9 gennaio 1976.
79
intendere che sia tedesco): quelli che ne sono al corrente interrompono subito il
dialogo quando si domanda loro se per caso il personaggio misterioso sia un agente
della Cia200.
Sottolineando le preoccupazioni, sia a livello nazionale che internazionale, per l’ipotesi
di un’intesa governativa tra la Dc e il Pci, Carmine Pecorelli disapprovò l’incarico di
Leone affidato a Moro per formare il nuovo governo.
Il male oscuro del nostro paese è che vuol alimentare, a dispetto di Yalta,
un’opposizione che significa alterazione degli equilibri mondiali. E’ per questo che
basta che un sindaco Dc ceda le chiavi ad un collega comunista che entrano subito in
allarme i servizi segreti dei cinque continenti201.
Il 12 febbraio Moro varerà il suo quinto governo, un monocolore votato da Dc e Psdi,
che durò fino al 30 aprile. Sebbene la Democrazia cristiana confermò il suo primato, con
il terzo governo Andreotti, il pericolo del sorpasso e del primato comunista in Italia restò
forte. Il 14 aprile 1976 Aldo Moro diventò presidente del partito, la strada verso il
compromesso storico sembrò sempre più vicina.
Carmine Pecorelli contro il Governo: Il rapimento Moro.
Il 16 marzo 1978 il governo di solidarietà nazionale di Giulio Andreotti si sarebbe
dovuto presentare alla Camera per il voto di fiducia. Il giorno precedente «Osservatore
politico» ironizzò sulla coincidenza di tale data di formazione del governo e le Idi di
marzo202del 44 a.C.
Mercoledì 15 marzo il quotidiano “Vita Sera” pubblica in seconda pagina un
necrologio sibillino: «A 2022 anni dagli Idi di marzo il genio di Roma onora
Cesare 44 a.C. – 1978 d.C.». Proprio alle Idi di marzo del 1978 il governo
Andreotti presta il suo giuramento nelle mani di Leone Giovanni. Dobbiamo
200 Che relazione c’è tra il furto a Moro e la crisi governativa?, «Osservatore politico», 13 gennaio 1976.
201 Il saggio Ulisse, le sirene e la cera alle orecchie, Ivi, 15 gennaio 1976.
202 Data dell'assassinio di Giulio Cesare ad opera di Decimo Giunio Bruto, Marco Giunio Bruto, Gaio
Cassio Longino e altri cospiratori.
80
attenderci Bruto? Chi sarà? E chi assumerà il ruolo di Antonio, amico di Cesare?
Se le cose andranno così ci sarà anche una nuova Filippi?203
Erano le nove del mattino del 16 marzo quando Aldo Moro venne rapito dalle Brigate
rosse. La Fiat 130 di Moro, scortata da altre due auto, percorreva via Fani. All’incrocio
con via Stresa una Fiat 128 targata Corpo Diplomatico, rubata all’ambasciata
venezuelana, bloccò la strada alle tre vetture. Appostati dietro ad alcune siepi laterali
altri brigatisti, vestiti da steward Alitalia, iniziarono un conflitto a fuoco in cui morirono
tutti gli uomini della scorta204. Il comunicato numero uno delle Br venne fatto trovare a
Roma ad un giornalista del Messaggero avvertito telefonicamente sabato 18 marzo. In
una busta, abbandonata sulla parte superiore di un apparecchio per fotografie formato
tessera in un sottopassaggio di largo Argentina, vennero trovate cinque copie del
comunicato e una foto Polaroid che ritraeva Moro seduto sotto una bandiera con la stella
a cinque punte. I brigatisti dichiararono che il presidente della Democrazia cristiana
sarebbe stato sottoposto ad un processo del popolo e che sarebbero seguiti ulteriori
comunicati.
Qui Brigate rosse. Abbiamo rapito noi il servo dello stato Aldo Moro. Abbiamo
ucciso Leonardi e tutti gli altri della scorta. Le nostre richieste sono due: la
liberazione di tutti i compagni detenuti a Torino e i compagni di Azione
rivoluzionaria, tutti quanti. Entro quarantotto ore questo comunicato dovrà essere
letto su tutte le reti nazionali e ad un certo punto attendiamo una risposta. Se la
risposta non sarà valida faremo fuori anche Aldo Moro205.
Nei giorni successivi alla strage di via Fani, il bollettino ciclostilato «Op» si trasformò in
un settimanale distribuito nelle edicole di tutta Italia. Il primo numero, distribuito tra il
203 Le Idi di marzo, «Osservatore politico», 15 marzo 1978.
204 Le vittime della strage di via Fani: Oreste Leonardi, uomo scorta di Aldo Moro da quindici anni che
fece scudo con il proprio corpo per proteggere dai proiettili lo statista; Domenico Ricci, Autista di Moro
da oltre vent’anni; Francesco Zizzi, uno dei suoi primi giorni di scorta, morto durante il trasporto
all'ospedale Gemelli di Roma; Giulio Rivera, alla guida dell’auto di scorta che precede quella del
presidente della Dc; Raffaele Jozzino, l’unico che uscì dalla vettura e che esplose colpi d’arma da fuoco.
GIACOMO FIORINI, Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Interventi di Paolo VI. Dibattito e
Riflessioni, Università degli studi di Padova, tesi di laurea triennale in Storia, rel. Prof. G. Romanato, a.a
2007 – 2008, p. 18.
205 AGOSTINO GIOVAGNOLI, Il caso Moro, una tragedia repubblicana, Il Mulino, Bologna 2005, p.
91.
81
20 e il 21 marzo, portò la data posticipata al 28 marzo 1978206, mentre due giorni prima
venne ritrovato il secondo comunicato della Br. Carmine Pecorelli analizzò la situazione
in numerosi articoli, il primo, Abbiamo svoltato l’angolo, analizzò l’inadeguatezza dello
Stato nei confronti del Terrorismo.
Non illudiamoci: il rapimento Moro è una tappa, non il culmine della guerra civile
in Italia. Colpito al cuore lo Stato, i commandos brigatisti passeranno ad altri la
mano per operazioni più ampie. È la tragica escalation di tutte le rivoluzioni: ad un
certo punto si passa da azioni individuali a sollevazioni di massa. Da anni nel
nostro paese si sta sviluppando una minirivoluzione di tipo sudamericano. Sparuti
gruppi di guerriglieri sabotano l’economia, turbano l’ordine pubblico e la pace
sociale, attentano alle istituzioni e alla sicurezza. A fronte di tutto ciò, nessuna
reazione adeguata da parte dello Stato. Mentre pochi guerriglieri seminano morte e
disperazione nelle strade della penisola, Parlamenti e governi che si sono succeduti
in rara abbondanza hanno puntualmente smobilitato la macchina della difesa delle
istituzioni democratiche […] . Il Parlamento ed il Governo italiano hanno curato
uno stato ammalato di broncopolmonite doppia, somministrando solo aspirine. E
con estrema parsimonia. I terroristi hanno dichiarato guerra ad uno stato che,
evangelicamente, ha offerto l’altra guancia. Anche oggi, mentre tengono in
ostaggio il massimo statista italiano, presunti statisti ci fanno assistere al solito
balletto di sepolcri imbiancati: Zaccagnini piange e tremita, Leone si leva
sdegnato, commemora i defunti e torna a sedersi. A Montecitorio, a Palazzo
Madama, deputati e senatori, le facce della paura e gli occhi fuori dalle orbite,
affrettano i tempi di fiducia al governo. Nasce su cinque cadaveri, nasce sul
sequestro del presidente della Democrazia cristiana il primo governo italiano di
segno eurocomunista207.
L’analisi di Pecorelli riassunse i massimi luoghi comuni della reazione, la guerra civile
che lo Stato non represse e le istituzioni che smobilitarono l’apparato della difesa. In
questo articolo mutò anche l’atteggiamento del giornalista nei confronti del leader
democristiano; definito dal giornale, in diverse riprese, «lentocrate208» o «monarca
206 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 246.
207 Abbiamo svoltato L’angolo, «Osservatore politico», 28 marzo 1978.
208 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 247.
82
assoluto», si passò a scrivere di Moro come fosse il simbolo del più grave attentato della
storia repubblicana definendolo «il massimo statista italiano». Pecorelli descrisse lo
sgomento degli uomini del partito e del IV governo Andreotti, un monocolore sostenuto
da Pci, Psi, Psdi e Pri, che ricevette la fiducia quasi unanime dalla Camera e dal Senato il
16 marzo 1978209.
Che ne sarebbe della Dc se Moro non dovesse essere restituito al più presto alla vita
politica? Andreotti è troppo poco uomo di partito e troppo uomo di potere del
governo; Fanfani è logoro d’anni e di sconfitte, Forlani se ne avesse la forza non ne
avrebbe la voglia, Bisaglia ha atteso troppo all’ombra d’altri per poter oggi
improvvisamente balzare alla ribalta. Colpiscine uno, educane cento: è lo slogan
delle Brigate rosse. Mai come colpendo Moro i terroristi sono stati fedeli al loro
programma. Chi in questi giorni ha potuto vedere da vicino qualche parlamentare
Dc, ha visto uomini distrutti, insicuri del proprio futuro fisico oltre che politico. A
Piazza del Gesù l’ufficio di Moro è deserto, né si sa quando il presidente potrà
riprenderne pieno possesso. Nella stanza accanto c’è Zaccagnini, ma è una bussola
impazzita senza più punto magnetico di riferimento. I terroristi hanno sequestrato gli
equilibri politici, hanno sequestrato i tempi e i modi previsti per l’allunaggio
morbido degli astronauti democristiani sul pianeta rosso210.
Sottolineando come il sequestro di Moro abbia colpito il solo leader democristiano
capace di mantenere unione nel partito e l’unico interlocutore della strategia
berlingueriana del compromesso storico.
Quanto alle prospettive, sono terribili. I terroristi hanno tutto l’interesse a tirare per
le lunghe, tenere per giorni e giorni il paese nell’angoscia. Ricordiamo il
precedente di Mario Sossi. Rimase nelle mani delle Brigate rosse per quaranta
lunghissimi giorni211. Anche a Moro, come a Sossi, i “carcerieri del popolo”
celebreranno un macabro processo. Lo sottoporranno ad ogni sevizie psicologica,
209 Per la Camera il governo ottenne 545, 30 no e 3 astenuti. Al Senato 267 si e 5 no. Data l’emergenza il
Pci accantonò le riserve su Andreotti e votò la fiducia. Ivi, p. 248.
210 Il caso Moro: il partito, «Osservatore politico», 28 marzo 1978.
211 Le Br avevano sequestrato a Genova il sostituto procuratore Mario Sossi il 18 aprile 1974. Durante i
quaranta giorni di prigionia, il magistrato era stato lungamente interrogato dai brigatisti, ai quali aveva
fatto importanti e gravi ammissioni relative alla magistratura ed alla questura genovese, FLAMIGNI, La
sfinge delle Brigate rosse, p. 108.
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lo ridurranno ad ecce homo, gli somministreranno sostanze chimiche e lo faranno
parlare. Gli faranno dire ciò che vogliono sulla Dc, sulla Nato, sugli Stati Uniti,
sulle più scabrose vicende politiche degli ultimi trent’anni è […]. Come sarà
ridotto al termine di questa vicenda Aldo Moro, l’orologiaio del nostro sistema
politico?212
Pecorelli arricchì il numero del 28 marzo con alcune notizie riservate, sebbene imprecise,
riguardo il rapimento di via Fani. Si trattò dell’articolo Il caso Moro: l’inchiesta, dove il
giornalista ricostruì le dinamiche del rapimento del 16 marzo:
Gli investigatori sono riusciti a ricostruire qualche particolare di rilievo. Dopo
l’agguato in via Mario Fani alle 9.10 di giovedì mattina, la 132 con a bordo Moro,
preceduta e seguita dalle due 128 del commando del terrore, ha imboccato via
Stresa, percorso un tratto di via Trionfale, superato l’incrocio di via Igea e girato a
destra per una via privata, via Carlo Belli. In fondo a questa strada, dove inizia via
Casale de’Bustis, c’è un ostacolo naturale: un cancelletto metallico chiuso da una
pesante catena. La 132 si ferma, scende una donna che con un paio di cesoie recide
la catena, apre il cancello e consente il passaggio del convoglio delle brigate. A quel
punto Moro era ancora nella 132. Lo ha visto distintamente un testimone, coperto da
un plaid di lana scozzese. Pochi minuti dopo la 132 si ferma per una seconda volta, è
in via Licinio Calvo. Anche qui un testimone può guardare, ed è pronto a giurare che
Moro non è più all’interno della vettura. La zona è stata setacciata metro per metro:
Moro non è stato ritrovato. I terroristi devono averlo trasferito in un altro mezzo di
locomozione fermandosi una terza volta nel tratto Casale de’Bustis – Licinio Calvo.
Su quale mezzo è stato trasportato il Presidente della Dc? Escluso l’elicottero, su
qualsiasi altro veicolo213.
L’ipotesi dell’elicottero tornerà ad essere citata diverse volte negli articoli214, sfruttando
le parole di un testimone che giurò d’aver udito il rombo di un elicottero poco dopo la
strage. Nei successivi articoli «Osservatore politico» attribuì la strage di via Fani alle
sinistre, non solo per l’ideologia politica dei terroristi, ma anche perché le sinistre stesse
212 Il caso Moro: le prospettive, «Osservatore politico», 28 marzo 1978.
213 Il caso Moro: l’inchiesta, Ivi, 28 marzo 1978.
214 «Non saranno infatti andati appunto in elicottero a deporre Moro?», Ivi, 25 aprile 1978.
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contribuirono allo smantellamento dei servizi segreti215. Sbilanciandosi portavoce
dell’atlantismo, sottolineò l’obbiettivo politico che sarebbe dovuto scaturire da tale
vicenda: Una svolta moderata di tipo autoritario contro la sinistra ed il sistema dei partiti,
una Repubblica presidenziale. È ciò che scrisse nell’articolo del 4 aprile 1978, Alla
riscoperta dello Stato.
Giovedì 16 marzo è diventato certezza il dubbio che da tempo covava nella mente di
gran parte del Paese: per uscire dalla crisi, innanzitutto è necessario rifondare questo
Stato, incapace di difendere persino i suoi uomini più prestigiosi […]. Il Paese si è
reso conto del fallimento dei modelli del permissivismo sinistroide, ha compreso che
partono di qui l’anarchia, il caos, l’insicurezza che fanno da scenario alla guerra
civile. E che se si vuole uscire dalla crisi economica e sociale è necessaria una vera e
propria rivoluzione morale che restituisca credibilità e significato alle istituzioni216.
Nell’articolo Attenzione ai falsi profeti, il giornalista prese di mira i parlamentari
comunisti e socialisti che si occuparono della riforma della polizia e dei Servizi segreti217
e gli organi di stampa che fino al giorno del rapimento Moro sembrarono d’accordo a
queste modifiche. Inoltre Pecorelli si sbilanciò dimostrandosi contrario a riforme e
processi di democratizzazione degli apparati statali218.
Tanto per fare un esempio vistoso, “L’Espresso” della scorsa settimana denunciando
l’inefficenza dell’attuale struttura di sicurezza dello Stato, invocava i fantasmi dei
Maletti219, dei D’Amato, dei Dalla Chiesa, dei Santilli. Cioè proprio degli ufficiali e
degli alti funzionari di polizia che quel settimanale negli scorsi anni ha additato
all’odio del Paese, ha fatto allontanare con infamia o con dolore dai posti di
215 «In realtà, la sinistra assunse iniziative legislative per affrontare i cosiddetti “Corpi separati dello
Stato” e per adeguare l’ordinamento delle istituzioni militari e di sicurezza alla Costituzione
repubblicana», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 257.
216 Alla riscoperta dello Stato, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
217 Ugo Pecchioli, Sergio Flamigni, Arrido Boldrini del Pci; Vincenzo Balzamo, Giacomo Mancini,
Silvano Signori del Psi, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 258.
218 Ibidem.
219 «Op dimentica, come per incanto, la sua lunga campagna contro il generale Gianadelio Maletti,
conclusa solo quando l’ufficiale del Sid venne arrestato ed incarcerato per le deviazioni del Servizio», Ivi,
p. 257.
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responsabilità e di comando. Ma nemmeno un cenno di autocritica nell’articolo in
questione, quasi “L’Espresso” fosse giunto ieri da un altro pianeta220.
Si continuò a sottolineare la superficialità del gruppo politico dinnanzi la drammatica
vicenda, riferendosi al tentativo d’oscurare la gravità della situazione alla stampa ed al
popolo italiano. Pecorelli si riferì in particolar modo alla questione della foto di Moro
scattata dal covo brigatista, che sollevò quesiti sulla vera autenticità e sul terzo
comunicato delle Br con la lettera di Moro a Cossiga. Diffuso il 29 marzo 1978, con
allegata una lettera segreta destinata al ministro dell’Interno che le Br resero pubblica221.
Il messaggio n. 3 delle Brigate rosse, lo scritto autografo di Aldo Moro che è stato
recapitato alle 21.10 di mercoledì a Francesco Cossiga, ha fatto cadere nel vuoto
l’ipotesi che fosse un fotomontaggio l’immagine del presidente della Dc prigioniero
che ha angosciato l’Italia dalle pagine dei giornali. Il particolare rivela la pericolosa
superficialità, l’avventurosità, con la quale i politici hanno affrontato e stanno
affrontando la più drammatica vicenda nazionale. Ancora una volta, invece di
affrontare da uomini tutti i problemi proposti dalla difficilissima situazione, hanno
cercato d’imbrogliare le carte, d’imbrogliare il paese. Ci è stato detto, contro ogni
evidenza ci è stato fatto dire, che la foto di Moro prigioniero era una falsificazione,
con l’evidente scopo d’invalidare ogni futuro messaggio del presidente
democristiano. Senza battere ciglio, senza alcuno scrupolo morale, è stato fatto
pensare al paese persino che Moro non fosse più in vita. Il terrorismo non si batte
con questi mezzucci buoni solo per manipolare qualche assemblea condominiale.
Oggi infatti, con sadica puntualità, i brigatisti hanno smascherato gli apprendisti
stregoni agli occhi di tutto il paese. Speriamo che lo choc dia qualche risultato222.
Nello stesso numero Carmine Pecorelli citò il documento delle Br che rivendicò il
sequestro dell’armatore Costa nel 1977223, pubblicato in esclusiva da «Op» e caduto
220 Attenzione ai falsi profeti, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
221 «Moro ha chiesto di scriverle una lettera segreta (le manovre occulte sono la normalità per la mafia
democristiana) al governo ed al capo degli sbirri Cossiga. Gli è stato concesso, ma siccome niente
dev’essere nascosto al popolo, ed è questo il nostro costume, la rendiamo pubblica», Comunicato n. 3
delle Brigate rosse, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 258.
222 Di fronte alla lettera di Moro, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
223 «L’armatore genovese Pietro Costa venne sequestrato da un commando brigatista la sera del 12
gennaio 1977. L’ingente riscatto di un miliardo e mezzo di lire venne pagato a Roma dalla famiglia, alla
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nell’indifferenza. Secondo il giornalista lo Stato avrebbe dovuto capire la pericolosità e
le intenzioni dei terroristi invece che sottovalutarne il fenomeno. Si trattò dell’ennesima
critica del giornalista al Governo.
Quando un anno or sono l’agenzia Op ne dette pubblicazione integrale, il documento
cadde nell’indifferenza quasi assoluta. Oggi assume un valore particolare: con il
sequestro Costa i terroristi hanno finanziato il sequestro Moro; la colonna del terrore
che ha stilato il documento è la stessa colonna che sta processando Aldo Moro. Ma il
documento è importante anche per un secondo motivo. Esso rivela che fin dallo
scorso anno avrebbe dovuto essere chiaro che con le Br lo stato si trovava a che fare
con una organizzazione estremamente estesa ed agguerrita che per preparazione,
determinazione e livello d’informazione costituisce un formidabile nemico. Ciò
avrebbe dovuto provocare la mobilitazione immediata di tutti gli apparati di
sicurezza del paese. Così non è stato. I politici continuando nei loro compromessi e
nelle loro parole hanno allegramente continuato a smantellare i servizi segreti e ad
avvilire il personale militare. Oggi le Brigate rosse hanno collocato una bomba ad
orologeria nel cuore dello Stato. C’è solo da augurarsi che esista ancora un artificiere
in grado di disinnescarla224.
Precedentemente ai fatti avvenuti il 16 marzo 1978, a più riprese Aldo Moro sembrò
preoccuparsi di una possibile situazione o evento che avrebbe potuto colpire il mondo
politico. Il leader democristiano disse di temere gesti clamorosi che le Br avrebbero
potuto compiere a danno di qualificati esponenti della Democrazia cristiana. Emersero
inoltre le inquietudini dello statista verso le azioni dei Servizi segreti occidentali e della
Cia. Il dirigente democristiano Giovanni Galloni testimonierà di un dialogo avuto con
Moro due mesi prima del suo rapimento.
La cosa di cui sono molto preoccupato è questa: io so che i Servizi Segreti
americano ed israeliano hanno degli infiltrati nelle Brigate rosse, però questi servizi
fine di marzo senza alcun intervento dello Stato. Costa venne liberato il 3 aprile, con in tasca il
comunicato con il quale le Br rivendicarono il rapimento. L’ingente somma di denaro ottenuta permise a
Moretti di consolidarsi come capo – padrone delle Br e di dotare l’organizzazione di una disponibilità
finanziaria quale mai ha avuto prima. Denaro che verrà utilizzato per acquistare armi, appartamenti e per
preparare l’operazione Moro», FLAMIGNI, La sfinge delle Brigate rosse, p. 189.
224 Il documento che annunciò la guerra, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
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non ci hanno mai fatto comunicazione ai nostri servizi o allo Stato, perché
certamente le loro indicazioni potrebbero essere utili per la ricerca dei covi225.
Inoltre Moro ricevette diverse minacce scritte dalle Brigate rosse, sia nella sua abitazione
che nel suo ufficio di via Savoia. Ne parlò Pecorelli nell’articolo Moro era stato
minacciato dalle Brigate rosse, sottolineando come tutti, compreso le guardie del corpo
del politico, fossero preoccupati. Secondo il giornalista tutti tranne lo Stato.
Aldo Moro aveva informato dell’arrivo di questi messaggi intimidatori gli uffici
competenti. Ma, a quanto risulta, all’informazione non è stata data alcuna
importanza. I risultati si sono visti il 16 marzo in via Fani. Chi invece si era
preoccupato dei messaggi delle Br è stato il povero Oreste Leonardi, il sottoufficiale
che da quindici anni tutelava l’incolumità di Aldo Moro. Quasi mosso da un oscuro
presentimento, il Leonardi, la mattina del 16 marzo, aveva raddoppiato l’abituale
dotazione di proiettili per la sua pistola. Purtroppo le Br non gli hanno dato il tempo
di servirsene226.
«Osservatore politico» per la trattativa.
Nella fase iniziale del rapimento Moro, Carmine Pecorelli si pronunciò in favore della
fermezza di Stato ma, dall’inizio dell’aprile 1978, cominciò a scrivere numerosi articoli
in favore della possibile trattativa con i terroristi. Con l’articolo In nome del popolo:
trattare… infatti, il giornalista aprì la strada al partito della trattativa. Questo cambio di
posizione sarebbe avvenuto successivamente alla lettera dello statista a Cossiga227.
Al termine di affannose consultazioni, la segreteria democristiana ha deciso di non
trattare con le Brigate rosse lo scambio del presidente Moro […]. Aldo Moro sarà
sacrificato sull’altare della ragion di Stato. Di quale Stato?
Incapace di amministrare la giustizia, incapace di difendere i cittadini, incapace di
punire i disonesti e speculatori, incapace di offrire prospettive al Paese, privo di
225 Aldo Moro da FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 264.
226 Moro era stato minacciato dalle Brigate rosse, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
227 Aldo Moro da FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 265.
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autorità di ordine e di morale, questo Stato oggi si tiene in piedi solo rinnovando il
macabro rituale del sacrificio umano228.
Pecorelli si domandò per quale ragione, gli stessi uomini politici che si congratularono
con la Dc tedesca per aver trattato con il «Movimento 2 giugno» riguardo il rapimento
Peter Lorenz e gli stessi che si indignarono nei confronti della Repubblica Federale
Tedesca per non aver voluto trattare con i terroristi palestinesi nell’attentato di Palma De
Maiorca229, fossero assolutamente contrari alla trattativa per Moro.
Quelli stessi che oggi hanno rifiutato di salvare la vita a Moro, sono gli stessi che ieri
inveivano contro la Germania e contro Israele rei di non voler trattare con i terroristi
palestinesi; sono gli stessi che hanno plaudito alla Dc tedesca disposta a trattare per
Lorenz. Perché allora non trattare per Moro? A chi giova non trattare? La decisione
di non trattare è iniqua e inopportuna, ispirata da una logica perversa e suicida. Non
accettando le trattative, la Dc s’è detta indifferente alla sorte di Moro. Che succederà
se le Br non dovessero restituire il loro legittimo capo ai democristiani?230
Nell’articolo del 18 aprile 1978 «Osservatore politico» scrisse riguardo alla lettera del
prigioniero per la moglie Eleonora, intercettata dalla polizia l’8 aprile e consegnata alla
signora Moro. Pecorelli precisò d’aver preso visione di questa lettera prima del Viminale
e della Procura, dimostrandolo in tale articolo. Sebbene il testo integrale venne
pubblicato da «Op» solo il 13 giugno 1978, fu chiaro che il giornalista ne prese visione
ben prima, probabilmente grazie ai numerosi contatti con la P2, i servizi segreti ed il
Viminale231.
228 In nome del popolo: Trattare…, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
229 In questo articolo Pecorelli si riferisce al rapimento del politico Peter Lorenz, dell’Unione Cristiano
Democratica, rapito nel 1975 e dell’attentato ad opera del gruppo terroristico tedesco Rote Armee
Fraktion del 13 ottobre 1977 a Palma di Maiorca, dove un gruppo di quattro terroristi palestinesi dirottò
un Boeing 737 della Lufthansa, prendendo in ostaggio novantuno persone. La RAF pretese la liberazione
dei propri capi in cambio della vita degli ostaggi dell'aereo e dell'industriale tedesco Schleyer. Il governo
tedesco non si piegò al ricatto dei terroristi ed il 17 ottobre, con un'azione di forza, assaltò l'aereo
uccidendo 3 terroristi e liberando gli ostaggi.
230 In nome del popolo: Trattare…, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
231 «Pecorelli aveva contatti con il sostituto procuratore Luciano Infelisi, titolare dell’inchiesta»,
FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 272.
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Innanzitutto dobbiamo precisare che le lettere di Moro alla famiglia sono quattro,
perché se è vero che il postino delle Br ha bussato solo tre volte alla porta del prof.
Rana, l’ultima ha recapitato due messaggi di Moro. La lettera più importante è
proprio questa. È scritta con una penna a biro su due fogli, con qualche cancellatura
e qualche ripetizione. Sul suo contenuto nulla è trapelato, perché il prof. Rana non
l’ha mostrata a nessuno, recapitandola personalmente alla moglie di Moro. Ciò
significa che il testo non è ancora stato visto né al Viminale né alla Procura. Per un
doveroso rispetto per il dolore dei familiari, evitiamo di riferire particolari che
riguardano un dramma tutto loro. Ma il nostro dovere professionale ci obbliga a
sottolineare le parti politiche della lettera di Moro, quelle relative alle accuse
all’interno del gruppo dirigente democristiano232.
Dunque il giornalista visionò la lettera prima del dovuto e lo ammise tacitamente
continuando a rivelarne i contenuti del prigioniero riguardo le soluzioni politiche. La
necessità della trattativa, lo scambio di prigionieri, ma soprattutto citando la frase «il mio
sangue ricadrà sulle teste di Cossiga e Zaccagnini»233.
Noi, unica vera voce controcorrente nel coro della stampa italiana, abbiamo detto
subito che bisognava trattare. Ci risulta che la nostra tesi è stata discussa a lungo nel
corso di un vertice del Viminale. Poi, chissà perché, è stata lasciata cadere. Si fosse
almeno cominciato a trattare, il presidente Moro non si sarebbe sentito abbandonato
al suo destino, il Paese non avrebbe dovuto assistere al reciproco crucifige dei suoi
massimi rappresentanti istituzionali. Che succederà adesso? Si sente ripetere dal
solito coro dei giornalisti che c’è il pericolo che Moro riveli alle Br segreti si stato.
Non prendiamoci in giro. Questo non è uno Stato che ha segreti da custodire. Il
pericolo vero è che Moro riveli segreti di uomini politici e partiti. Il processo
Lockheed è appena cominciato: che potrebbe accadere se rivelasse alle Br l’identità
232 La lettera segreta di Moro. Uno spettro s’aggira per i corridoi repubblicani, «Osservatore politico»,
18 aprile 1978.
233 «Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto
nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio
dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento
supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Nessuno si è
pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può
rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue
ricadrà su di loro», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 272.
90
dell’Antilope nazionale234? O l’elenco dei 554 conti svizzeri degli amici di Michele
Sindona?235
Nell’articolo Cade Cossiga, cade Zaccagnini…e dopo? del 18 aprile 1978 Pecorelli
analizzò l’accusa rivolta da Moro nei confronti del collega Emilio Taviani,
considerandola un atto di viltà verso un uomo ormai privo di potere.
Moro ha definito Taviani un «teppista di Stato». Taviani è da tempo un pezzo da
museo, un cadavere nell’armadio politico italiano, prendersela con lui significa voler
fare il maramaldo. In passato, quando era ancora un uomo di potere, dalle pagine
dell’agenzia Op, abbiamo più volte duramente polemizzato con il ministro genovese,
rimproverandogli d’essere stato il primo affossatore dell’ordine pubblico sostenendo
che in Italia esiste un solo terrorismo: quello nero236.
L’articolo fu in riferimento al comunicato numero cinque, recapitato dalle Brigate rosse
intorno alle 17.20 del 10 aprile 1978, con allegato ad esso un una fotocopia del
manoscritto di Moro su Emilio Taviani.
L’interrogatorio del prigioniero prosegue e, come abbiamo già detto, ci aiuta
validamente a capire le linee antiproletarie, le trame sanguinarie e terroristiche che si
sono dipanate nel nostro paese, ad individuare con esattezza le responsabilità dei vari
boss democristiani, le loro complicità, i loro protettori internazionali, gli equilibri di
potere che sono stati alla base trent’anni di regime Dc. L’informazione e la memoria
di Aldo Moro non fanno certo difetto ora che deve rispondere davanti a un tribunale
del popolo. Mentre confermiamo che tutto verrà reso noto al popolo e al movimento
rivoluzionario che saprà utilizzarlo opportunamente, anticipiamo le dichiarazioni che
il prigioniero Moro sta facendo, quella parziale ed incompleta, che riguarda il
teppista di Stato Emilio Taviani237.
234 Il politico italiano primo beneficiario delle tangenti nello scandalo Lockheed era coperto da
pseudonimo «Antelope Cobbler», Ibidem.
235 La lettera segreta di Moro. Uno spettro s’aggira per i corridoi repubblicani, «Osservatore politico»,
18 aprile 1978.
236 Cade Cossiga, cade Zaccagnini…e poi?, Ibidem.
237 Comunicato numero cinque, GOTOR, Il memoriale della repubblica, Einaudi, Torino 2011, p. 6.
91
Attraverso il documento Taviani, Aldo Moro sviluppò delle motivazioni atte a
giustificare una trattativa con le Brigate rosse attraverso lo scambio di prigionieri politici
e mosse una forte critica nei confronti del politico Taviani attraverso la ricostruzione
della sua carriera. Moro accusava il collega d’essere «andato in giro» per tutte le
correnti, portandovi la sua indubbia efficienza ed una grande spregiudicatezza; d’aver
avuto una condotta poco lineare, per le sue alleanze con il Msi e successivamente con il
Pci; per essere sempre stato influenzato dagli ambienti americani e per aver avuto forti
contatti con essi, ma soprattutto per la sua amicizia con l’ex direttore del Sid, Eugenio
Henke. Il documento oltre ad avere un valore rilevante dal punto di vista storico,
considerato parte del memoriale Moro, rivela dei possibili messaggi tra le righe lanciati
dal prigioniero al partito ed al mondo politico. Soltanto al termine della guerra fredda,
infatti, si sarebbe venuto a sapere che Taviani, nel suo periodo al ministero della Difesa e
quando il suo capo di gabinetto fu proprio Henke, fu il fondatore dell’organizzazione
segreta Stay-behind. Tale struttura venne costituita con l’unico scopo di difesa in caso
d’invasione sovietica, o nell’eventuale possibilità che il comunismo dilagasse in Europa.
L’appendice italiana di questa organizzazione, chiamata Gladio, era conosciuta solo da
un manipolo di uomini ai vertici dello Stato238. Dunque il fatto che la prima pagina degli
interrogatori di Moro divulgata attaccasse proprio il fondatore di Stay-behind, scosse
notevolmente questi uomini politici. Pecorelli non poteva saperlo, non cogliendo la frase
di Moro: «vi è forse, nel tener duro contro di me, un’indicazione americana o tedesca?».
Cinque giorni dopo, il 15 aprile 1978, il comunicato numero sei delle Br rivelò la
conclusione dell’interrogatorio e l’inevitabile condanna a morte del prigioniero.
Le Brigate rosse, mediante il solito volantino, annunziano che il «processo» ad Aldo
Moro è terminato e che «l’imputato» è stato condannato a morte. La stampa
commenta in maniera pressoché uniforme, si fa quadrato intorno alle istituzioni in
pericolo, si ribadisce la necessità del non cedimento – benché non appaia ben chiaro
su cosa eventualmente si dovrebbe cedere, dal momento che a tutt’oggi il tribunale
del popolo non adombra neppure l’alternativa alla condanna239.
238 Emilio Taviani, Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Aldo Moro, Giuseppe Saragat, Ugo La Malfa,
Luigi Longo, Ivi, p. 22.
239 Diario dell’irreale assoluto. Sabato 15 aprile: la condanna, «Osservatore politico», 25 aprile 1978.
92
Il dossier di «Op» Diario dell’irreale assoluto del 25 aprile 1978, descrisse gli
avvenimenti nei cinque giorni che intercorsero tra il sesto comunicato Br ed il settimo.
Pecorelli dedicò ampio spazio anche al falso comunicato brigatista del 18 aprile 1978,
contenente l’annuncio dell’avvenuta esecuzione di Aldo Moro e le istruzioni per il
ritrovamento del corpo presso il Lago della Duchessa, in provincia di Rieti240. Un
enorme dispiegamento di forze alla ricerca del cadavere di Moro che lo stesso presidente
democristiano, nel suo memoriale, definì «la macabra grande edizione sulla mia
esecuzione»241.
Un volantino anomalo, rachitico, frettoloso e recapitato in una sola città
contrariamente ai precedenti, annuncia l’avvenuta esecuzione per suicidio di Aldo
Moro, ed il suo seppellimento in un laghetto di montagna. I leader dei partiti, sempre
più accasciati e con un che di ambiguo disorientamento, dispongono, pur
nell’incertezza sull’attendibilità del messaggio, le ricerche. La via per il lago
segnalata risulta impraticabile da terra a causa della neve e del gelo degli ultimi
giorni. Si muovono elicotteri che depositano sciatori, esperti anti-valanghe e
sommozzatori sul lago, il quale risulta oltre che coperto di neve fresca priva di
impronte, anche totalmente ghiacciato. Non rimane che perforarlo, e senza alcun
esito. Si dirottano le ricerche su un altro laghetto poco distante, che presenta
caratteristiche meno ostiche e improbabili. Nulla242.
L’articolo collegò il falso comunicato con la scoperta del covo Br di via Gradoli,
avvenuta lo stesso giorno. Per il giornalista si tratto di un’unica operazione
accuratamente pilotata243. Il rifugio venne scoperto grazie ad una fuga d'acqua, che
secondo i vigili del fuoco sembrò essere stata volutamente provocata: uno scopettone era
240 Il 18 aprile 1978 venne diffuso un falso comunicato, contenente l’annuncio dell’avvenuta esecuzione
di Aldo Moro. Venne indicato il luogo dove trovare il cadavere del presidente democristiano, nei fondali
del Lago della Duchessa in provincia di Rieti. Un comunicato falso che il Viminale dichiarò autentico,
FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 281.
241 Ivi, p. 284.
242 Diario dell’irreale assoluto. Lunedì 17 e martedì 18 aprile: la presunta esecuzione e la troppo
inequivocabile scoperta del covo, «Osservatore politico», 25 aprile 1978.
243 «L’infiltrazione d’acqua fu una manovra deliberatamente attuata per provocare la scoperta del covo Br
di via Gradoli 96 senza che ciò provocasse l’arresto di alcun brigatista. La teatrale scoperta del covo
venne sincronizzata con la diffusione del comunicato Br del Lago della Duchessa. E se la scoperta del
covo era chiaramente pilotata, il comunicato numero sette era palesemente falso», FLAMIGNI, Il covo di
Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro, Kaos 1999, p. 49.
93
stato appoggiato sulla vasca, sopra ad esso qualcuno aveva posato il telefono della doccia
in modo che l'acqua si dirigesse verso una fessura nel muro. Anche secondo Alberto
Franceschini, ex Br, la vicenda del Lago della Duchessa e di via Gradoli andrebbero
tenute insieme. Fu un messaggio preciso a chi deteneva Moro, per avvisare le Br che lo
Stato avrebbe potuto catturarli in qualsiasi momento. Un’ulteriore ipotesi avvalorerebbe
l’idea che il covo sia stato fatto scoprire appositamente da qualche brigatista contrario
all'uccisione di Moro. Recentemente Steve Pieczenik, il consigliere americano chiamato
al fianco di Francesco Cossiga per risolvere lo stato di crisi, nel libro Abbiamo ucciso
Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall'ombra di Emmanuel Ammara244,
ammise la sua responsabilità in accordo, con Cossiga, nella creazione di un falso
comunicato. Si rileva il dubbio di Pecorelli sulla vicenda grazie all’articolo Le
allucinanti avventure degli investigatori. Il giornalista, infatti, scrisse «Brigate rosse» e
«terroristi» tra virgolette, quasi a voler insinuare il dubbio riguardo ai veri autori di tale
scritto.
Ricevuta la copia del volantino delle “Brigate rosse” con il quale “i terroristi”,
comunicavano la località dove sarebbe stato abbandonato il corpo di Aldo Moro, gli
inquirenti si precipitano agli elicotteri messi a disposizione della Polizia e dei
Carabinieri per raggiungere nel più breve tempo possibile la zona della Duchessa245.
Il 20 aprile 1978 le Brigate rosse annunciarono, nel vero comunicato numero sette, che la
condanna di Moro sarebbe stata eseguita, lasciando uno specchio di ventiquattro ore per
il possibile scambio di prigionieri. Pecorelli raccontò quelle ore di ultimatum
nell’articolo del 25 aprile, La ventiquattresima ora.
Siamo costretti a chiudere il numero mentre mancano ancora 24 ore alla scadenza
dell’ultimatum delle Br. Trattare o non trattare? Sentiamo ripetere che lo Stato è in
preda al dilemma. Ma il dilemma presuppone una scelta. In questo caso lo Stato,
cioè la Dc e il Pci, si impediscono a vicenda di scegliere. La Dc vive un dramma nel
244 EMMANUEL AMMARA, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce
dall'ombra, Cooper, Roma 2008.
245 Diario dell’irreale assoluto. Le allucinanti avventure degli investigatori, «Osservatore politico», 25
aprile 1978.












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dramma. Partito di cattolici, dovrebbe anteporre il rispetto della vita alle ragioni
della politica. Solo una minoranza di democristiani sembra decisa a non sacrificare
la vita del suo presidente. Se la Dc è divisa, gli altri partiti lo sono altrettanto246.
Il 2 maggio 1978, ad una settimana dal futuro ritrovamento del corpo di Aldo Moro in
via Caetani, «Osservatore politico» offrì un’ampia analisi politica della situazione
italiana nell’articolo Il Paese si può e si deve salvare, cercando di dare un significato al
rapimento ed immaginando le possibili ripercussioni di tale vicenda sul Paese. L’Italia
apparse disorientata: comprese di vivere un momento politico cruciale tuttavia, secondo
il giornalista, non riuscì ad andare oltre questa accettazione. Offrì, inoltre, una nuova
interpretazione dell’eurocomunismo d’un partito scomodo ad entrambe le superpotenze
mondiali.
L’agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro
rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni
in un Paese industriale, integrato nel sistema occidentale. L’obbiettivo primario è
senz’altro quello di allontanare il Partito comunista dall’area del potere nel momento
in cui si accinge all’ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del paese. È
comune interesse delle due superpotenze mondiali mortificare l’ascesa del Pci, cioè
del leader del comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente
guidare un Paese industriale. Ciò non è gradito agli americani, perché altererebbe
non solo gli equilibri del potere economico nazionale ma ancor più i suoi riflessi nel
sistema multinazionale. Ancor meno è gradito ai sovietici. Con Berlinguer a Palazzo
Chigi, Mosca correrebbe rischi maggiori di Washington. La dimostrazione storica
che un comunismo democratico può arrivare al potere grazie al consenso popolare,
rappresenterebbe non soltanto il crollo del primato ideologico del Pcus sulla III
Internazionale, ma la fine dello stesso sistema imperiale moscovita. Ancora una
volta la logica di Yalta è passata sulle teste delle potenze minori. È Yalta che ha
deciso via Mario Fani247.
246 La ventiquattresima ora, «Osservatore politico», 25 aprile 1978.
247 Yalta in via Mario Fani, Ivi, 2 maggio 1978.
95
In previsione delle elezioni amministrative del 14 maggio, l’analisi politica continuò nei
successivi articoli. Sebbene Pecorelli fosse convinto dell’imminente liberazione del
leader democristiano248, descrisse le varie possibilità di governo nel caso della
liberazione di Moro o dell’esecuzione della sentenza del carcere del popolo. In questi
articoli Pecorelli si domandò quanto avrebbe potuto influire e che ruolo avrebbe avuto il
sequestro sull’opinione pubblica, divisa tra gli schieramenti favorevoli alla trattativa, il
Psi di Craxi in primis, e quelli contrari ad ogni dialogo come la Dc o lo stesso Pci.
Se Moro dovesse morire prima delle elezioni del 14 maggio, il Psi potrebbe
affermare che è stata l’intransigenza dei democristiani e dei comunisti ad aver
provocato il drammatico epilogo. Quale sarà allora la reazione dell’elettore Dc
medio? Egli sa che sono stati gli sforzi di Moro a permettere l’ingresso del Partito
comunista al governo, da ciò potrà dedurre che la Democrazia cristiana ha pagato un
prezzo troppo alto se poi questo governo non è riuscito a salvare il suo presidente249.
Poniamo invece che moro possa uscire vivo dall’avventura del sequestro. A
maggior ragione gli uomini della Dc, il Vaticano, gli osservatori esterni,
porterebbero eterna riconoscenza a Craxi. L’unico leader che dicendosi disposto a
trattare ha consentito alle istituzioni il superamento di un difficile scoglio250.
Nel primo caso (Moro morto), sotto la spinta dell’elettorato medio, probabilmente
gli attuali dirigenti Dc potrebbero essi stessi guidare il ritorno al rapporto
preferenziale col Partito socialista. Nella seconda ipotesi ciò è escluso
tassativamente: la Democrazia cristiana dovrà passare attraverso un travagliato e
penoso processo di rinnovamento251.
Il 9 maggio 1978 il corpo di Aldo Moro venne ritrovato nel baule posteriore di una
Renault4 rossa a Roma, in via Caetani. A pochi metri dalla sede della Democrazia
cristiana di Piazza del Gesù e poco distante da quella del Partito comunista italiano in via
delle Botteghe Oscure. I funerali di Stato si svolsero senza la presenza dei famigliari ed
248 «A questo punto è lecito, più che un’ipotesi, formulare una logica e razionale previsione. A nostro
avviso, non solo Moro non sarà soppresso dai suoi rapitori, ma è da ritenersi imminente la sua liberazione
che sarà seguita da cerimonie trionfali e festeggiamenti popolari paragonabili solo all’incoronazione di
Napoleone», Brigate rosse, arcangeli sterminatori arcangeli purificatori, «Osservatore politico», 2
maggio 1978.
249 Se Moro muore, voti alle colombe, Ibidem.
250 Se Moro vive, voti alle colombe, Ibidem.
251 In entrambi i casi la Dc dovrà cambiare linea, Ibidem.
96
in mancanza del corpo dello statista, un segnale di protesta e di rifiuto nei confronti del
mondo politico della famiglia Moro.
Questa è la cronaca del giorno in cui Moro venne ucciso. A Roma, più che dolore la
morte di Moro ha creato sdegno: contro le Brigate rosse che uccidendo il presidente
Dc hanno deluso l’aspettativa popolare la quale, pur senza identificarsi con esse,
sentiva di condividerne non pochi motivi di risentimento verso la classe politica. Ma
sdegno soprattutto contro quest’ultima, accusata non di avere preferito lo Stato alla
salvezza di Moro, ma di evidente e continua incapacità di salvare lo stesso Stato, alla
cui ragione Moro è stato sacrificato252.
In via Caetani Moro è tornato a noi. O fra i suoi. Con un’ironia atroce, le Brigate
rosse l’hanno fatto ritrovare in questa strada, nel centro storico di Roma: a due passi
dal Campidoglio, dal Milite Ignoto e da Palazzo Venezia. A pochissima distanza
dalle sedi di ogni centro di potere, in una strada che corre alle spalle di Berlinguer, e
di Zaccagnini […]253.
E concluse:
«E adesso a chi toccherà?», domanda un uomo vestito in un bellissimo completo di
velluto verde. Un vicino alza le spalle e scoppia in una risata stridula. «A rigore»,
dice, «a rigore dovrebbe toccare a tutti gli altri. A Leone, ad Andreotti e a Cossiga, a
Fanfani, e a La Malfa e anche a Berlinguer. Non perché hanno scelto di salvare lo
Stato e far morire Moro. L’avrei fatto anch’io. Ma perché anche con Moro morto, lo
Stato non lo salveranno. E allora a che cosa serviva la morte di Moro?254».
252 Il giorno del giudizio, «Osservatore politico», 23 maggio 1978.
253 In via Caetani, Ivi, 23 maggio 1978.
254 Ibidem.
97
«Osservatore politico», 13 giugno 1978.
98
Capitolo V
Il memoriale di Aldo Moro.
A trentacinque anni dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro restano
duecentoquarantacinque fotocopie del suo memoriale, una riproduzione degli autografi
dell’interrogatorio al quale venne sottoposto il leader democristiano durante la sua
prigionia. Il documento venne ritrovato in tre diversi momenti, nell’arco di dodici anni.
Otto pagine vennero allegate al comunicato numero cinque delle Brigate rosse, datato
10 aprile 1978, mentre quarantanove fogli furono ritrovati durante il sequestro dei
Carabinieri nel covo brigatista in via Monte Nevoso, il 1 ottobre dello stesso anno.
Durante dei lavori di ristrutturazione nello stesso appartamento, tenuto per anni sotto
sequestro, il 9 ottobre 1990 venne recuperata la terza parte. Un documento manoscritto,
poi battuto a macchina e fotocopiato dai carcerieri, che fu occultato, censurato e
disperso. Carmine Pecorelli, attraverso gli articoli di «Osservatore politico», lasciò
intendere d’aver visionato già dal 1978 la versione ritrovata ufficialmente nel 1990.
Le tre parti del memoriale
Il procedimento di stesura del memoriale dal carcere del popolo risultò complesso ed
articolato. Aldo Moro rispondeva in forma scritta ai quesiti delle Brigate rosse, le sue
risposte venivano battute a macchina e consegnate ad un comitato Br che valutava ed
eventualmente correggeva il testo. Successivamente la correzione veniva riconsegnata al
leader Dc, che riscriveva il testo a mano. Questi testi furono oggetto di studio da parte
dei massimi vertici politici italiani e dalla Stampa che, cercando d’interpretarne il
significato, si domandarono quanto vi fosse realmente di Moro in quelle parole. Lo
scritto contro Taviani, ad esempio, presentò alcune anomalie ed errori che suscitarono
perplessità nel gruppo democristiano. Il prigioniero attaccò lo «smemorato» Taviani, reo
d’aver smentito un’affermazione di Moro contenuta nella lettera a Zaccagnini del 4
aprile 1978. In questa nota il leader democristiano sostenne d’esser stato favorevole, nel
1974, alla trattativa per la liberazione del magistrato Mario Sossi255. L’accusa destò
255 L’operazione «Girasole» avvenne a Genova il 18 aprile 1974. Mario Sossi, sostituto procuratore della
Repubblica presso la Corte di Genova e Pubblico Ministero nel processo al Gruppo XXII Ottobre nel
99
perplessità non solo per l’inesattezza della dichiarazione, in quanto Moro durante il
sequestro Sossi fu realmente per la non trattativa, ma in virtù del fatto che Emilio
Taviani fu uno dei pochi membri del partito a dichiararsi assolutamente disposto a
trattare con le Br per Moro. Taviani ed il gruppo democristiano si domandarono se
questo attacco ingiustificato potesse racchiudere qualche significato nascosto256. Lo
stesso accusato si domandò se Moro, correlando il sequestro del magistrato della Procura
della Repubblica di Genova e l’attacco rivoltogli, volesse far capire d’esser prigioniero
della colonna genovese. A distanza d’anni e con il Memoriale completo delle sue tre
parti, si è in grado di ricostruire e comprendere in maniera più esaustiva i significati ed i
collegamenti scritti dal leader democristiano durante la sua prigionia. I segnali di Moro a
Taviani furono diversi. In un brano dell’interrogatorio, Moro raccontò una conversazione
avuta con il deputato Franco Salvi, capo della sua segreteria politica fino al 1963,
riguardante la strage di piazza della Loggia257 a Brescia nel 1974. Secondo Salvi, in
ambienti giudiziari bresciani si diffuse la convinzione che la Democrazia cristiana fosse
stata troppo indulgente sull’accaduto258. Aldo Moro ricordò nei dettagli la risposta data a
Salvi: «l’accusa, nata dall’effervescenza dell’emozione e vociferazione, era priva di ogni
consistenza. Ma auspicava che il deputato bresciano, non fosse come altri uno
“smemorato259”». In quell’attentato morì anche una parente di Salvi, che Moro non
mancò di citare nei suoi scritti. Una disperata strategia per comunicare con l’esterno
senza che i suoi carcerieri se ne rendessero conto. Una meticolosità nel descrivere
particolari dettagli, quasi a voler smentire i giornali che durante il sequestro parlarono di
un Moro «stoccolmizzato» o peggio, drogato dai suoi carcerieri. In un altro passo del
Memoriale ritornò sulla vicenda Salvi, raccontando ulteriori precisi dettagli e
1973, venne rapito sotto casa verso le otto di sera. Le Brigate rosse chiesero la liberazione dei loro
compagni in cambio della vita del magistrato. Venne rilasciato a Milano il 23 maggio 1974.
256 «Non mancarono quanti sospettarono la presenza di anagrammi e di messaggi in cifra nascosti tra le
righe. In un appunto datato 28 ottobre 1978 il giornalista dell’Ansa Marcello Coppetti annotò che un suo
collega de “Il Popolo” gli aveva rivelato come, durante il sequestro, avesse saputo che proprio nella
lettera su Taviani era presente una frase anagrammata che suonava così: sono sequestrato nei pressi della
Cassia. Coppetti, non poteva esimersi dall’osservare che via Gradioli, si trovava nei pressi della Cassia»,
MIGUEL GOTOR, Il memoriale della Repubblica, Einaudi, Torino 2011, p. 32.
257 La strage di piazza della Loggia avvenne il 28 maggio 1974 a Brescia, nella centrale piazza della
Loggia. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una
manifestazione contro il terrorismo neofascista. L'attentato provocò la morte di otto persone e il ferimento
di altre centodue.
258 «In ambienti giudiziari bresciani si era sviluppata la convinzione d’indulgenze e connivenze della Dc e
si faceva il nome dell’On. Fanfani», GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 25.
259 Ivi, p. 26.
100
commettendo due errori di rilievo. Il primo errore fu cronologico, quando la strage venne
collocata nel 1969; mentre la seconda svista riguardò gli incarichi costituzionali, dove
Moro invertì come ministro degli Interni Rumor al posto di Taviani. Il suo continuo
richiamo negli scritti di Moro e le due sviste narrative portarono a teorie non verificabili.
Probabile che Aldo Moro volesse tirare in ballo Emilio Taviani per alludere a Gladio e
convincere i pochi coinvolti ad utilizzare l’organizzazione per liberarlo dalle Brigate
rosse260.
Con l’operazione «Jumbo» del 1 ottobre 1978 il nucleo speciale del generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa colpì tre covi brigatisti situati nel quartiere milanese di Lambrate.
Nell’appartamento in via Monte Nevoso 8 venne scoperto un archivio, catalogato con
maniacale precisione, delle attività Br dal 1970 al 1978, un paio di macchine da scrivere
Olivetti (Lettera 35 e 32), centinaia di appunti fitti di analisi economiche, rassegne
stampa e diari. La scoperta più importante furono le due cartelline di colore azzurro
contenenti settantotto fogli dattiloscritti, di cui quarantanove fogli appartenenti al
Memoriale Moro. La verbalizzazione dei reperti presenti nel covo durò per cinque giorni
al termine dei quali i Carabinieri furono obbligati a lasciare l’appartamento. «La
decisione di ritirare i militari speciali in favore di quelli territoriali sarebbe stata il
prodotto di un compromesso ai vertici dell’Arma per evitare l’esplosione di un conflitto
aperto dalle imprevedibili conseguenze261». In base alla versione ufficiale l’itinerario a
noi noto dei dattiloscritti di Moro fu il seguente:
nel pomeriggio del Iº ottobre Dalla Chiesa fece un breve sopralluogo nel covo con il
procuratore della Repubblica di Milano Mauro Gresti e il giudice istruttore di Roma
Achille Gallucci, nel frattempo giunto in aereo dalla capitale. Le carte di Moro
verbalizzate furono richieste in copia all’autorità giudiziaria dal ministro dell’Interno
Virginio Rognoni ai sensi del decreto del 21 marzo 1978. Secondo il generale Bozzo
vennero fotocopiate in via Moscova e dunque portate fuori dall’appartamento
quando erano già state verbalizzate per essere consegnate l’indomani dal generale
Dalla Chiesa nelle mani del ministro; secondo Rognoni il ricevimento della
documentazione sarebbe avvenuto dopo qualche giorno. A seguito di un’opportuna
260 VLADIMIRO SATTA, Odissea nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso la documentazione
della Commissione Stragi, Edup, Roma 2008, p. 331.
261 GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 58.
101
valutazione politica, il governo per volontà del ministro dell’Interno, decise di
pubblicarle per evitare polemiche, strumentalizzazioni ed eventuali fughe di
notizie262.
Il colonello Umberto Bonaventura, durante un’audizione della Commissione stragi del
23 maggio 2000, dichiarò che i documenti di Moro furono prelevati da Monte Nevoso
prima della verbalizzazione, per essere fotocopiati e consegnati al generale Dalla Chiesa.
Ma il 1 luglio 2000 il colonnello del Sismi, davanti alla magistratura romana, affermò
d’essersi sbagliato e corresse la sua versione ribadendo che le carte furono sottratte dopo
la loro verbalizzazione263. Nel suo libro di memorie, il capitano dei carabinieri Roberto
Arlati, presente durante l’irruzione nel covo brigatista, confermò la prima versione di
Bonaventura. Le carte uscirono alle ore 11 del 1 ottobre, sostarono nella sede dei
carabinieri di Milano in via della Moscova fino alle 17.30 e poi fecero ritorno nel covo,
dopo essere state esaminate dal generale Dalla Chiesa. Solo allora vennero verbalizzate.
Sostenne che Bonaventura prelevò le carte contro la sua volontà perché Dalla Chiesa
le voleva leggere in privato. Arlati avrebbe voluto che l’ufficiale fosse scortato da un
altro carabiniere, ma Bonaventura gli rispose nel modo più insinuante possibile
nell’ambito di un rapporto gerarchico fra militari e non solo: «E che fai, non ti fidi di
me? Tranquillo, giusto il tempo tecnico delle fotocopie. Ti faccio riavere tutto.
Insomma Roberto, te lo già detto. Faccio fare le fotocopie e ti restituisco il tutto»264.
Per Arlati l’incartamento, al ritorno in via Monte Nevoso, sembrò «lievemente più magro
di quello che aveva affidato al mattino a Bonaventura», inoltre sette ore parvero
decisamente troppe per una semplice commissione di fotocopiatura. Considerando che
Bonaventura ritrattò, trentacinque anni dopo i fatti, vi sarebbe dunque solo un testimone
oculare in grado d’affermare che i dattiloscritti uscirono dal covo prima di venire
verbalizzati. Il dubbio sulla testimonianza di Arlati è legittimo, e restano inspiegabili le
motivazioni per cui il capitano abbia deciso di cambiare versione solo dieci anni fa,
262 Ivi, p. 60.
263 MANLIO CASTRONUOVO, Vuoto a perdere. Le Brigate rosse, il rapimento, il processo e
l'uccisione di Aldo Moro, Besa 2008, p. 414.
264 GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 62.
102
ricordando la sua indignazione, dopo la scoperta nell’intercapedine dell’appartamento
nel 1990, per coloro che azzardarono un’ipotesi di sparizione di materiale documentale.
Anche la magistratura milanese dichiarò davanti alla Commissione stragi di ritenere che i
carabinieri non potessero aver compiuto tale atto, difendendo la memoria di Dalla
Chiesa265. In un’intervista del Corriere della Sera del 19 aprile 1993, inoltre, Franco
Bonisoli, ex brigatista presente alla strage di via Fani, affermò che tutti gli interrogatori
dell'onorevole Moro furono ritrovati e pubblicati.
Per quanto riguarda le carte ritrovate nel 1990 sono convinto che si sia trattato di un
errore umano. E mi spiego. Quando mi arrestarono, pensai: hanno trovato le carte di
Moro. Erano, infatti, lì nel mio appartamento. Qualche giorno dopo, quando lessi il
verbale della perquisizione, fatto dai carabinieri, e non trovai segnate quelle carte,
oltre a cinquanta milioni che erano sempre conservati in via Monte Nevoso,
cominciai però a dubitare. Vuoi vedere che qualcuno all' interno degli apparati dello
Stato li ha trafugati? Era un chiodo fisso: vogliono eliminare, continuavo a ripetere,
la prova che il contenuto dei dattiloscritti di Moro, già pubblici, è autentico. Nel
1990, all'indomani della seconda scoperta di via Monte Nevoso, fui interrogato dal
sostituto procuratore Ferdinando Pomarici. Mi mostrò le foto del covo scattate dai
carabinieri dopo l'irruzione nel 1978. Riuscimmo a fare una ricostruzione dettagliata
di quanto avvenuto. Capii che i carabinieri dei nuclei speciali, che noi delle Brigate
Rosse consideravamo infallibili, avevano commesso un errore. Nell'appartamento
c'era tanto materiale. Moltissimi documenti. Ovunque. Ebbene, quegli stessi
carabinieri non avevano ritenuto necessario cercare ulteriori piccoli e normalissimi
nascondigli. […] Era un nascondiglio che ritenevamo una semplice precauzione nel
caso fossero entrati in casa o ladri o persone comunque esterne all'organizzazione.
Mi sembra normale. Le fotocopie integrali degli interrogatori di Moro erano in quel
nascondiglio266.
265 «Non in questo caso, in particolare non con quei carabinieri. Con loro, ho condiviso più notti di quante
non ne trascorressi a casa mia in quel periodo con i miei figli», il pubblico ministero Armando Spataro
alla Commissione Stragi, Ivi, p. 67.
266 Intervista a Franco Bonisoli, «Corriere della Sera», 19 aprile 1993.
103
Nel 28 maggio 1993, l’ex sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei
ministri, Franco Evangelisti raccontò di un incontro notturno avuto con Dalla Chiesa
l’indomani di Monte Nevoso.
Venne a trovarmi verso le due di notte e mi fece leggere un dattiloscritto di circa
cinquanta pagine, nelle quali si parlava anche di me, e mi disse che proveniva da
Moro e che il giorno successivo lo avrebbe consegnato ad Andreotti. Non ho saputo
se effettivamente Dalla Chiesa si sia recato da Andreotti267.
Il 6 ed il 7 ottobre 1978, «Repubblica» pubblicò tre articoli riguardanti presunte
rivelazioni sulle carte di Moro sottratte dal covo brigatista. Si tratta degli articoli di
Giorgio Battistini Altre due lettere inedite e Tutto contro Andreotti il memoriale di Moro.
Sono stati svelati anche segreti di Stato? ed Il generale tace e il giudice ignora di
Giorgio Bocca. Sebbene inizialmente questi articoli causarono un caos politico, la scelta
dei giornalisti di mantenere segreta la loro fonte rese inattendibile e quasi fantasiosa la
denuncia di Repubblica. La fonte segreta venne rivelata nel processo di Palermo contro
Giulio Andreotti del 7 novembre 1995. Battistini confessò d’aver avuto una serie
d’incontri segreti con il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, uomo fidato di Dalla
Chiesa.
Galvaligi mi disse che il generale Dalla Chiesa era entrato nel covo di via Monte
Nevoso alcune ore prima che arrivassero i magistrati e che con il materiale originale
rinvenuto (una settantina di cartelle dattiloscritte con errori di battitura, un nastro
registrato e/o una videocassetta) era stato portato a Roma da due ufficiali dei
carabinieri “a qualcuno molto in alto… a chi di dovere. Galvaligi usò queste
espressioni, ma non volle assolutamente farmi il nome di questa persona, che
comunque non apparteneva né alla magistratura, né all’Arma dei Carabinieri, bensì
al mondo politico istituzionale. Aggiunse che il materiale portato a Roma conteneva
parti in cui Moro parlava in termini molto duri di fatti riguardanti Andreotti. Parlava
di questo materiale e del suo contenuto in termini tali da indurmi a pensare che egli
l’avesse personalmente visionato268.
267 Franco Evangelisti cit. in GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 105.
268 Giorgio Battistini cit. in GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 97.
104
A seguito di tale incontro, il giornalista tornò in redazione e raccontò di quanto avvenuto
al direttore del giornale, Eugenio Scalfari. Quest’ultimo suggerì di contattare
telefonicamente Galvanigi per assicurarsi che fosse la stessa persona incontrata da
Battistini. Confermata l’identità dell’uomo decisero di pubblicare la notizia tacendo la
fonte e sdoppiando la responsabilità della pubblicazione, coinvolgendo anche una firma
di prestigio del quotidiano come Giorgio Bocca. La versione dei fatti venne confermata
davanti ai magistrati da Scalfari, Giorgio Bocca e da Giampaolo Pansa, anche lui al
corrente dei fatti. Il militare chiese un ulteriore incontro con Battistini il giorno
successivo, il 7 ottobre 1978.
In quella circostanza precisò che nel memoriale si affrontavano diciassette
argomenti, dall’inizio della militanza politica di Moro nell’azione cattolica, ai
rapporti internazionali, ai servizi segreti e ai misteri di Stato e che, in alcuni di essi,
Moro attaccava pesantemente il presidente del Consiglio Giulio Andreotti269.
Negli anni successivi al rapimento Moro, dunque, una serie di dichiarazioni lasciarono
intendere che più di un testimone oculare avesse letto già dal 1978 la versione che
venne ritrovata ufficialmente solo nel 1990. Altri testimoni affermarono d’aver
visionato un’ulteriore versione di memoriale che non corrispose, per ampiezza, ai
dattiloscritti divulgati dal governo il 17 ottobre 1978 ed alle riproduzioni dei manoscritti
ritrovati nel 1990. Tra questi, Carmine Pecorelli.
«Osservatore politico» contro lo Stato.
Nell’articolo del 10 ottobre 1978 Verità di ieri tragedie di oggi, Carmine Pecorelli
risollevò la questione della trattativa per la liberazione di Moro. Prendendo ad esempio i
segreti accordi dello Stato con i terroristi palestinesi, liberazione di prigionieri politici in
cambio d’immunità terroristica territoriale, colse l’occasione per aggredire le scelte
politiche nei confronti delle Brigate rosse.
269 Ivi, p. 98.
105
Con assoluta lucidità mentale (dove sono andate a finire le menzogne di Zaccagnini
e Cossiga a proposito di Moro drogato, Moro fuori di sé, Moro impazzito?) [nelle
sue lettere] Moro ha tracciato una perfetta analogia tra la sua condizione di
prigioniero minacciato di morte da terroristi politici organizzati e quella di tanti e
tanti innocenti e ignari italiani che negli ultimi anni hanno corso il pericolo di
perdere la vita in attentati e stragi minacciati dai palestinesi. «Dunque non una ma
più volte furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche
condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in
essere se fosse continuata la detenzione». Moro si riferisce a quell’accordo anomalo
stabilito al di fuori dello Stato ma sotto il controllo dello Stato, grazie al quale l’Italia
non è stata teatro di quei dirottamenti aerei, stragi ed attentati che tante vittime e
danni hanno provocato in Europa a partire dal’72. In quell’anno agenti del Sid
informarono il governo che terroristi palestinesi stavano preparando attentati agli
aeroporti italiani. Rumor e Moro giudicarono che l’unica strada per impedire che
l’Italia diventasse terreno di manovra dei palestinesi era quella di trattare con
Habash270 una sorta di mutuo patto di non aggressione. L’accordo stabilito dal Sid,
con l’unica misteriosa eccezione della strage di Fiumicino271, fu sempre rispettato. A
questo punto non resta che da chiedersi perché quelle trattative anomale impossibili
ed inammissibili in forma ufficiale, ma tuttavia stabilite dal superiore interesse dello
stato con i terroristi palestinesi, sono state prontamente scartate quando si trattava di
salvare la vita di Moro. Perché si è preferito seguire la grottesca via di Cossiga con i
suoi blocchi stradali, le mobilitazioni generali dell’esercito, le perquisizioni a caso su
interi quartieri, una via buona per far saltare i nervi ai custodi di Moro, e avvicinare
l’ora della tragedia finale, quando l’unica strada vincente conosciuta dallo Stato, una
strada che avrebbe consentito alle istituzioni di uscire dalla vicenda Moro con
fermezza e dignità rafforzate, era quella di trattative, anche se lunghe e laboriose?272
«Osservatore politico» ripropose la tesi secondo la quale i brigatisti si sarebbero potuti
accontentare di uno scambio simbolico da parte dello Stato, proprio come con i
270 George Habash fu il fondatore del Movimento nazionalista arabo, dalla cui sezione palestinese nacque
il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina nel 1967.
271 Il 27 dicembre 1985 un gruppo di uomini armati, dopo aver gettato bombe a mano, aprirono il fuoco
con raffiche di mitra sui passeggeri in coda per il check-in dei bagagli presso gli sportelli della compagnia
aerea nazionale israeliana El Al e della americana TWA, colpendo le loro vittime in modo indiscriminato.
272 Verità di oggi tragedie di oggi, «Osservatore politico», 10 ottobre 1978.
106
palestinesi. Allo stesso tempo mosse il dubbio che la liberazione del prigioniero sarebbe
potuta risultare scomoda per alcune strutture statali.
Ieri, trattare con i palestinesi non provocava alterazioni negli equilibri politici di
Montecitorio, Piazza del Gesù e Palazzo Chigi. Trattare con le Br invece, seguire la
via delle lettere, riportare Moro sano e salvo alla guida della Dc o addirittura al
Quirinale, avrebbe provocato un terremoto: il recupero di quelle strutture dello Stato
colpevolizzate e emarginate grazie ad istruttorie giudiziarie pilotate, e la fine della
cordiale, troppo cordiale intesa, tra il Partito comunista di Berlinguer e la Dc di
Zaccagnini. Per scongiurare pericoli del genere, è piccola cosa anche un sacrificio
umano. Dio solo sa quanto male può venire da questo male273.
Pecorelli incalzò la sua tesi nel successivo articolo del 17 ottobre 1978:
Diciamolo chiaro, in agosto Dalla chiesa sapeva già come e dove colpire le Br.
Probabilmente avrebbe saputo cosa fare anche in epoca precedente. Allora perché si
è ricorsi a lui soltanto a settembre? Perché non si è chiamato Dalla Chiesa subito
dopo la strage di via Fani, quando Moro, ancora vivo, era nelle mani delle Br? Uno
Stato, forte di un Dalla Chiesa, avrebbe potuto avviare trattative con i terroristi con
grosse probabilità di successo, specie disponendo di qualche buona pedina di
scambio. Purtroppo non era gradito alla maggioranza dell’arco quel “partito delle
trattative” che consigliava non già di cedere alla violenza, ma di salvare la vita di
Moro attraverso più duttili e meno pubblicizzati comportamenti dello Stato e delle
forze dell’ordine. Cossiga e Pecchioli, Zaccagnini e Berlinguer, intendevano
sfruttare l’emozione popolare provocata dal sequestro Moro per costruire un partito
unico, “cattocomunista”, e chiamavano a raccolta le piazze “bianche” e “rosse” in
nome di una non meglio precisata emergenza. Prima di rivolgersi all’Arma dei
carabinieri, prima di unificare nelle mani di un vero tecnico il comando
dell’antiterrorismo, hanno preferito attendere che si maturasse l’uva e si compisse il
peggio274.
273 Ibidem.
274 Perché solo adesso?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
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Nel successivo articolo, pubblicato sotto forma di lettera al direttore, un immaginario
abbonato di «Op» pose al giornalista delle domande alla quale Pecorelli rispose
immediato. Si tratta di un testo pieno d’allusioni, virgolette, punti di sospensione, in un
immaginario botta risposta.
Signor Direttore, permetta un piccolo scritto da un suo affezionato lettore, che dopo
l’estate si è posto una domanda: «Cossiga sa tutto su Moro ma non parla?». E si è
risposto da solo: «non parlerà mai, altrimenti…» […]. Dice: ma il ministro non ne
sapeva niente, la Digos non ha scoperto nulla. I servizi poi… Si ribatte: il ministro di
polizia sapeva tutto, sapeva persino dov’era tenuto prigioniero; dalle parti del
ghetto… Dice: il corpo era ancora caldo… perché un generale dei Carabinieri era
andato a riferirglielo di persona nella massima segretezza. Dice: perché non ha fatto
nulla? Risponde: il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire
più in alto e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla loggia di Cristo in
Paradiso?275
Secondo questo articolo la prigione di Moro venne individuata senza nessuna difficoltà
dalla polizia che sarebbe stata bloccata da Cossiga. Il ministro, prima d’agire, avrebbe
dovuto consultare quella che Pecorelli definì «entità superiore», probabilmente
alludendo alla Loggia massonica Propaganda Due276.
Fatto sta, si dice, che la risposta il giorno dopo di quando il ministro la sentenziò fu
lapidaria: «Abbiamo paura di farvi intervenire perché se per caso ad un carabiniere
parte un colpo e uccide Moro, oppure i terroristi lo ammazzano, poi chi se la prende
la responsabilità?». Risposta da prete. Non se ne fece nulla e Moro fu liquidato
perché se la cosa si fosse risaputa in giro avrebbe fatto il rumore di una bomba! […]
C’è solo da immaginarsi, caro Direttore, chi sarà l’Anzà277 della situazione: ovvero
275 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
276 «Un superpotere che il giornalista insinua essere la P2 con le parole “due piedi” e “loggia di Cristo”»,
FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370.
277 «Il generale Antonino Anzà venne ritrovato morto nel suo studio il 12 agosto 1977. L’ufficiale era
stato colpito da un colpo di pistola alla testa, nella sua casa di Roma. L’immediata versione dei fatti
attribuisce il decesso al suicidio, ma l’arma era appoggiata alla scrivania, a due metri di distanza dal
corpo. Qualche giorno prima, a Messina, anche il colonnello Giansante venne ritrovato morto. In quel
periodo, si scoprirà successivamente, erano in gioco gli avvicendamenti al vertice degli stati maggiori di
Esercito e Difesa ed all’interno dei Corpi erano sorte faide per aspirare alle due cariche», GUARINO –
108
quale generale dei Cc sarà ritrovato suicida con una classica revolverata che fa tutto
da se, o col solito incidente d’auto radiocomandato, o la sbadataggine dei camionisti
spagnoli, o d’elicottero278. Sotto a chi tocca: chi sfida l’Internazionale fa questa fine
in questa Italia democratica. […] Purtroppo il nome del Generale Cc è noto279:
Amen280.
Tracce del memoriale negli articoli di «Osservatore politico». Pecorelli sapeva?
Nel’articolo del 17 ottobre 1978 intitolato Fase di attesa, il giornalista espresse i suoi
dubbi sulla effettiva quantità di materiale sequestrato nel covo di Monte Nevoso. Con
toni interrogativi espresse la sua convinzione riguardo alla possibilità che determinate
prove scomode potessero essere state insabbiate, tra le quali accennò ad un verbale e ad
alcune bobine degli interrogatori effettuati dalle Br con il prigioniero.
Il fatto politicamente più importante è stato certamente la brillante operazione
condotta dai Carabinieri del generale Dalla Chiesa contro le Brigate rosse a Milano
che ha tuttavia aperto, come è ormai consuetudine, numerose polemiche circa il
numero e l’identità degli arrestati, circa la quantità e la qualità del materiale
sequestrato. Ci sono o non ci sono le bobine con gli interrogatori di Moro, c’è o non
c’è il memoriale-verbale di questi stessi interrogatori? I magistrati sono arrivati
buoni ultimi a prendere visione di tutto ciò, e quali politici ne sono già al corrente
avendo avuto la possibilità di operare qualche prudenziale censura?281
Il primo indizio d’una lettura precoce del memoriale da parte di Pecorelli lo si può
trovare nello stesso numero di «Osservatore politico», nell’articolo Necrologi &
Memoriali. In tale scritto il giornalista commentò la morte, avvenuta a Lugano il 29
settembre 1978, del politico democristiano Giuseppe Arcaini. Deputato alla Costituente e
sottosegretario al Tesoro dal 1954 al 1957, Arcaini venne nominato direttore dell’istituto
RAUGEI, Gli anni del disonore. Dal 1965 il potere occulto di Licio Gelli e della loggia P2 tra affari,
scandali e stragi, Dedalo, Bari 2006, p. 155.
278 Carmine Pecorelli si riferì al generale dell’Arma dei carabinieri Enrico Mino, coinvolto in un incidente
mortale, dalle circostanze misteriose. L’elicottero precipitò su monte Covello, Catanzaro, il 31 ottobre
1977, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370.
279 «Qui Pecorelli allude in modo piuttosto chiaro al generale Dalla Chiesa», Ibidem.
280 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
281 Fase di attesa, Ivi, 17 ottobre 1978.
109
di Credito delle Casse di Risparmio italiane, chiamato Italcasse. Coinvolto nello
“scandalo Italcasse”, si dimise nel 1977 con l’accusa di peculato, interesse privato verso
alcuni fondi neri e mutui concessi ad amici imprenditori ed al mondo politico. Nel
1977282 «Osservatore politico» pubblicò l’elenco, completo di codici bancari, di una
serie d’assegni incassati dalla Democrazia cristiana, in particolar modo da Andreotti, in
cambio di finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto283. Nel numero del 17
ottobre 1978 Pecorelli scriveva:
Morto il grande elemosiniere, i grandi elemosinati sono usciti dall’incubo. Arcaini
ha comunque lasciato in mani sicure un lungo memoriale per difendere il suo onore e
quello dei figli. Che succederebbe se nei prossimi giorni alle lettere di Moro si
aggiungesse la voce di questo secondo sepolcro?284
Il dato rilevante è l’appellativo con cui Pecorelli definì Arcaini «grande elemosiniere».
In relazione al direttore di Italcasse Aldo Moro usò la stessa denominazione, sebbene il
riferimento sia riscontrabile solamente nella versione del memoriale ritrovata
ufficialmente nel 1990. Pecorelli inoltre si ripeté nell’articolo Intanto Caltagirone si
compra un’altra banca del 24 ottobre 1978, collocando la stessa espressione tra le
virgolette. Tale accorgimento potrebbe apparire come una chiara intenzione, del
direttore Op, di dimostrare la sua pericolosa conoscenza riguardo gli interrogatori Br e
la vicenda Italcasse. Nel 1978 l’unico accenno allo scandalo si trovò negli articoli di
Galvaligi pubblicati da Repubblica, sebbene poco rilevanti poiché riferiti a dattiloscritti
non firmati e dunque non attribuibili ad Aldo Moro. Sebbene non vi sia certezza
riguardo la prematura visione degli scritti morotei da parte di Carmine Pecorelli, né si
conoscono le reali intenzioni del giornalista, «Osservatore politico» continuò ad offrire
indizi che potrebbero avvalorare tale ipotesi. Li riscontriamo nell’articolo Filo rosso del
17 ottobre 1978, nel quale si parlò di quattro polaroid di Moro dei giorni della prigionia
e centocinquanta fogli di carta extrastrong scritti dallo stesso presidente. Circostanze
282 Presidente Andreotti a lei questi assegni chi glieli ha dati?, «Osservatore politico», 14 ottobre 1977.
283 «Contributi a fondo perduto che l’Italcasse aveva elargito, fra gli altri, al gruppo chimico Sir di Nino
Rovelli, ai fratelli Caltagirone e alla società “Nuova Flaminia”, facente capo a Domenico Balducci,
organico alla banda della Magliana e al mafioso Giuseppe Calò», GOTOR, Il memoriale della
Repubblica, p. 225.
284 Necrologi & Memoriali, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
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che vennero riscontrate solamente nel 1990. L’articolo Non c’è blitz senza spina,
contenuto nel numero del dossier del 24 ottobre 1978 Caso Moro: memoriali veri
memoriali falsi, gioco al massacro, fece riemergere la questione dei verbali
dell’interrogatorio Br già citati la settimana precedente.
Dalla Chiesa ha trovato ad attenderlo una bomba senza spoletta. Accanto a
documenti strategici di grande importanza e probabilmente sottovalutati dagli
inquirenti, accanto ad alcune mappe di prigioni sicure, all’elenco dei nomi di alcuni
capi colonna per la prima volta dimenticati in un nido terrorista, accanto alle schede
segnaletiche di alcuni nemici del popolo da sparare al più presto, c’erano:
- la ricostruzione del sequestro di Moro, secondo il punto di vista della Direzione
strategica dei brigatisti;
- considerazioni autocritiche sull’operazione militare di via Fani e sulla gestione
degli sviluppi;
- il memoriale scritto da Moro durante i 54 giorni di prigionia;
- gli schemi di alcune lettere che Moro non fece in tempo a scrivere;
- i testi di 6 lettere complete, anch’esse non inviate al destinatario;
- alcuni nastri con la viva voce del memoriale Moro285.
Pecorelli rispose agli interrogativi posti nel precedente articolo fase di attesa del 17
ottobre, lo fece evidenziando la notizia in corsivo quasi a volerne sottolinearne la portata.
Nello stesso articolo, non c’è blitz senza spina, si parla di stralci del memoriale riferiti a
Miceli e De Lorenzo.
Il memoriale Moro è un detonatore. Consegnato subito alla magistratura, il materiale
rinvenuto da Dalla Chiesa era protetto dal più rigoroso segreto istruttorio286. Ciò
nonostante due settimanali hanno pubblicato alcuni passi a loro avviso tratti dal
memoriale287. Non è la prima volta che in Italia il segreto istruttorio non viene
rispettato. Ma qui si tratta di affermazioni gravissime scagliate contro l’intero attuale
staff del partito di maggioranza, di accuse specifiche e ben determinate che
285 Non c’è blitz senza spina, «Osservatore politico», 24 ottobre 1978.
286 «Il segreto istruttorio è valido per il materiale effettivamente consegnato alla autorità giudiziaria: ma
Pecorelli ha già scritto che i magistrati arrivarono per ultimi, dopo che sul materiale era calata una
prudenziale censura», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 374.
287 Probabilmente Carmine Pecorelli si riferiva anche alla vicenda Galvaligi.
111
coinvolgono personaggi di spicco nei più clamorosi casi giudiziari degli ultimi
vent’anni. Chi avrebbe mai azzardato la carriera per favorire un giornalista amico?
La custodia del segreto giovava sia all’esecutivo che ai partiti dell’area di governo,
ma frasi, dettagli, giudizi di Moro, allusioni ai risvolti istituzionali dello scandalo
Lockheed, a Piazza Fontana, all’Italcasse, hanno egualmente raggiunto certa stampa,
polarizzando subito l’attenzione dell’opinione pubblica. Se il detonatore è il
memoriale, la bomba è proprio questa degli scandali e delle rivelazioni. […] C’è chi
sostiene che quegli stralci del memoriale Moro che si riferiscono a Miceli e De
Lorenzo non possono che essere veritieri288.
Il memoriale del 1978, in effetti, riportava ampi brani relativi a De Lorenzo. Mentre né
quello del 1978, né la versione manoscritta del 1990 si soffermava su Vito Miceli, il cui
nome compare solamente in una citazione relativa alla strategia della tensione. Da
sottolineare che in questo unico passaggio relativo a Miceli ed ai servizi segreti, Moro
inserì un doppio rimando289 che ad oggi non ha ancora trovato corrispondenza in nessuna
carta del memoriale. Che cosa volesse dire realmente Pecorelli non è possibile stabilirlo,
ma è un primo indizio per coloro che sostengono la teoria dell’esistenza di un Urmemoriale
di Moro, un testo tutt'oggi censurato e coperto da segreti di Stato. Nei
successivi numeri di «Osservatore politico» si continuò a parlare di un presunto
Memoriale censurato, sollevando dubbi sull’integrità delle carte che vennero rese note
nel 1978. Nel numero del 31 ottobre 1978, Carmine Pecorelli sottolineò due gravi
contraddizioni a riguardo.
La lettura del testo del memoriale Moro diffuso a cura del ministero dell’Interno, che
ha già sollevato dubbi sulla sua integrità e sulla genuinità, presenta due altre gravi
contraddizioni ancora da risolvere:
- nel memoriale, Moro sembra convinto che le sue ammissioni – confessioni
gli possano servire per la libertà. La contraddizione è questa: come poteva
un Moro, tutto sommato lucido, credere che il racconto di fatti già noti,
288 Non c’è blitz senza spina, «Osservatore politico», 24 ottobre 1978.
289 «Ho già detto altrove – ho già detto», GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 231.
112
senza aggiunta di particolari significativi e nuovi, potesse farlo uscire sano e
salvo dal carcere delle Br?290
A questa contraddizione si rispose sostenendo la tesi di una marcata carenza teorica delle
Brigate rosse, un gruppo dunque efficiente dal punto di vista operativo ma incapace di
comprendere le reali verità che Moro avrebbe potuto rivelargli. Secondo Pecorelli questa
ipotesi è insostenibile.
A Milano, oltre al memoriale in due copie, sono stati trovati ben cinquemila
documenti inventariati, tra i quali alcuni che per una corretta interpretazione
richiedono un buon livello di competenza, tale dunque da rendere i carcerieri –
interroganti (o chi poi doveva ascoltare le bobine o leggere le trascrizioni291) in
grado di capire il valore insignificante delle dichiarazioni del presidente della Dc.
Gli interrogativi a questo punto si sommano spontanei: è vero che le Br hanno
promesso a Moro la libertà in cambio di determinate dichiarazioni? Il testo delle
dichiarazioni è stato, diciamo così, “concordato” tra Moro e i suoi carcerieri in modo
da assumere una intonazione antidemocristiana ma non eccessivamente
destabilizzante? Esiste infine un altro memoriale in cui Moro sveli invece importanti
segreti di Stato?292
Come sappiamo questo interrogativo verrà risolto in via Monte Nevoso nel 1990, quando
vennero ritrovate fotocopie dei manoscritti dove il leader Dc affrontò tematiche che nel
1978 sarebbero state altamente destabilizzanti per il mondo politico. Nello specifico e
principalmente riguardanti la struttura segreta della Nato «Stay Behind» e «Gladio». Nel
paragrafo successivo, Caso Moro. Un memoriale mal confezionato, Pecorelli dimostrò
d’essere a conoscenza delle manipolazioni subite dal memoriale.
La bomba Moro non è scoppiata. Il memoriale, almeno quella parte recuperata nel
covo milanese, non ha provocato gli effetti devastanti tanto a lungo paventati […].
290 Contraddizioni e nuovi interrogativi, «Osservatore politico», 31 ottobre 1978.
291 Pecorelli insiste sull’esistenza di bobine degli interrogatori che tutt’oggi non sono presenti.
292 Ibidem.
113
Giulio Andreotti è un uomo molto fortunato ma a spianare il suo cammino questa
volta hanno contribuito una serie di circostanze, solo in parte fortuite293.
Ne diede prova, ancora, nei successivi numeri. In Brigate senza generali, infatti,
«Osservatore politico» sottolineò nuovamente che il memoriale reso pubblico non fu
tutto il memoriale scritto da Aldo Moro. Pecorelli mosse forti critiche nei confronti delle
Brigate rosse, colpevoli di non aver fatto trapelare nessuna notizia, rendendo gli scritti
innocui.
Ce li avevano dipinti come superuomini, invincibili e imprendibili banditi che
coprono di sangue via Fani, sequestrano ed uccidono Aldo Moro, entrano ed escono
a piacere dai più sorvegliati ed esclusivi uffici della capitale, infiltrano le loro spie in
alcuni delicati ministeri. Programmati come computer avveniristici, i terroristi delle
Brigate rosse diventati interlocutori di Paolo VI e del presidente dell’Onu294,
sembravano dei satelliti artificiali al paragone della fariginosa macchina del nostro
Stato. Che resta di quest’immagine di efficienza e di perfezione, dopo la
pubblicazione del dossier Moro? Dov’è la loro intelligenza superiore, è questo il
cervello del partito armato della rivoluzione? Perché sosteniamo che le Brigate rosse
sono un esercito di killer senza cervello e senza idee? È lo stesso memoriale Moro a
parlare. Anche se resta da stabilire perché “la Repubblica” dell’8 ottobre scriveva:
«Ieri è arrivata la conferma della magistratura. Le settanta pagine del dossier ci
sono», e perché il verbale del processo Moro distribuito alla stampa dal Viminale è
di solo quarantanove cartelline; anche se resta da stabilire se è tutto qui il materiale
raccolto dalle Br in cinquantaquattro giorni di interrogatori, posto che per compilare
cinquanta cartelle occorrono tre ore di conversazione, il memoriale Moro che tutti
conosciamo è tutto di Moro, cioè è tutto vero. Gli unici sbagliati sono gli
interlocutori. Lo abbiamo letto più volte, con grande attenzione. Non contiene nulla
che non sapesse già l’ultimo degli uscieri di Palazzo Madama. Sono forse
sensazionali i giudizi personali di Moro su Andreotti, sono forse sensazionali le
rivelazioni sulla «strage di Stato» o sulle faide tra ministeri per il controllo dei
293 Caso Moro. Un memoriale mal confezionato – L’ultimo messaggio è il primo, «Osservatore politico»,
31 Ottobre 1978.
294 GIACOMO FIORINI, Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Interventi di Paolo VI. Dibattito e
Riflessioni, Università degli studi di Padova, tesi di laurea, rel. Prof. G. Romanato, a.a. 2007 - 2008.
114
servizi segreti? È roba trattata con larghezza di immaginazione da “Lotta continua” e
dalla stampa extraparlamentare295.
Dopo due mesi di silenzi sull’argomento, «Osservatore politico» tornò a parlare del
memoriale Moro, il 2 gennaio 1978, nell’articolo Silenzio di regime sul primo furto in
casa Moro. La tematica principale riguardò il furto nell’ufficio di Moro in via Savoia,
avvenuto nel dicembre del 1975, di alcuni documenti riguardanti il golpe Borghese.
Secondo il giornalista, il leader democristiano avrebbe voluto non far trapelare la notizia
di tale sottrazione di documenti, notizia che venne comunque trapelata alla stampa.
La storia del caso Moro deve essere ancora scritta. I retroscena della vicenda sono
ancora misteriosi e chissà ancora per quanto resteranno tali. Ai cronisti sembra
essere sfuggito, tra l’altro, un episodio: il furto verificatosi nell’ufficio di Aldo Moro
fra il Natale e il Santo Stefano del 1975. I ladri mirarono ad impossessarsi solo di
documenti. E non va dimenticato che in via Savoia 85 prestavano servizio di
sorveglianza una gazzella della Polizia e una Alfetta dei Carabinieri! Si trattò di ladri
tanto in gamba da farla in barba al servizio di vigilanza? O bisogna sospettare il
peggio?
Possiamo affermare che Moro, appena saputo dell’accaduto, esattamente il 27
dicembre, chiamo al telefono l’allora comandante generale dell’Arma dei
carabinieri, gen. Mino, per chiedergli di tacere sul fatto ed adoperarsi affinché la
notizia non venisse divulgata. Tuttavia il 28 dicembre qualche agenzia diffondeva un
breve e conciso comunicato sulla vicenda. Quale era il contenuto degli incartamenti
trafugati? Negli ambienti della Procura di Roma, da dove secondo i Carabinieri la
notizia era stata passata alla stampa, c’era chi sosteneva che tra le cartelle sottratte vi
fosse un dossier sul golpe Borghese. […] Del resto era notorio che Moro nutrisse un
particolare interesse per quella istruttoria, dato che dietro di essa si nascondeva la
mano di un suo collega di partito. La cosa trova conferma nelle affermazioni di
Moro prigioniero, secondo le quali tutto il processo Borghese è stato manipolato per
fini personali e politici. Moro sapeva molto sul golpe Borghese. E sapeva bene chi
era l’autore della macchinazione296.
295 Brigate senza generali, «Osservatore politico», 31 Ottobre 1978.
296 Silenzio di regime sul primo furto in casa Moro, «Osservatore politico», 2 gennaio 1979.
115
Occorre soffermarsi su due importanti punti di questo articolo. Secondo Pecorelli la
«mano del collega di partito» sarebbe stata quella di Giulio Andreotti297, opinione che il
giornalista espresse in diversi numeri di «Op»298. In secondo luogo, nelle carte di Moro
ufficialmente ritrovate, non vi furono affermazioni su quello che disse Pecorelli, non vi è
accenno nella versione dattiloscritta del 1978 né in quella in fotocopia di manoscritto nel
1990. Un ulteriore indizio sulla incompletezza del memoriale Moro ritrovato fino ad
oggi, che va ad aggiungersi agli interrogativi riguardanti la parte del documento relativa
ai comportamenti dei servizi segreti e di Miceli. Il 16 gennaio 1979 nell’articolo
Terrorismo, antiterrorismo e riforma di polizia, Pecorelli mise in dubbio tutta la
ricostruzione ufficiale del caso Moro. Lasciò intendere di conoscere molte verità della
vicenda, annunciando di volerle rivelare.
Si è permesso così il dilagare di quella violenza che nel 1978 ha generato la morte di
ventinove persone, cinquanta feriti per attentati, ottantasei tra poliziotti e carabinieri
finiti all’ospedale per scontri di piazza e circa mille automobili distrutte. A questi
vanno aggiunti circa tremila attentati contro edifici pubblici, privati, sedi di partiti
politici, caserme della pubblica sicurezza, dei carabinieri, delle forze dell’ordine in
genere. Violenza politica che ha raggiunto il suo apice con l’uccisione Moro. Aldo
moro che pensava di essere liberato dalle Brigate rosse, e che temeva di rimanere
ferito in un conflitto a fuoco tra i carabinieri ed i suoi carcerieri, come ha pubblicato
“Panorama” in un articolo non firmato, notizia che avrebbe attinto dai documenti
sequestrati nel covo del brigatista Alunni, notizia che viceversa nel memoriale
diffuso dal ministero degli Interni non risulta. Ma torneremo a parlare di questo
argomento, del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbotto azzurro visto in via
Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine
servite all’operazione, del prete contattato dalle Brigate rosse, della intempestiva
lettera di Paolo, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse,
degli sciacalli che hanno giocato al rialzo, dei partiti politici che si sono arrogati il
297 «In una lettera testamento attribuibile al principe Borghese e attualmente agli atti della Procura di
Brescia, si affermava che l’autore della telefonata di contrordine al tentativo di golpe era stato Andreotti
in persona», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 234.
298«Sempre più strano questo processo al golpe Borghese. Potrebbe svolgersi tutto nell’anticamera dello
studio di Andreotti. Pensate: andreottiano il Pm Vitalone, andreottiana la longa manus della legge (nella
fattispecie Labruna e Maletti), andreottiani gran parte degli imputati», Golpe Borghese: Andreotti ieri e
oggi, «Osservatore politico», 10 giugno 1977.
116
diritto di parlare in nome del Parlamento, dei presunti memoriali, degli articoli
redatti, cervellotici, scritti in funzione del fatto che lo stesso Moro, che avrebbe
intuito che i carabinieri potevano intervenire, aveva paura di restare ferito. Parleremo
di Steve R. Pieczenik, il vice segretario di Stato al Governo Usa il quale, dopo aver
partecipato per tre settimane alle riunioni di esperti al Viminale, ritornato in America
prima che Moro venisse ucciso, ha riferito al Congresso che le disposizioni date da
Cossiga in merito alla vicenda Moro erano quanto di meglio si potesse fare. […] A
questo punto vogliamo fare anche noi un po’ di fantapolitica. Le trattative con le
Brigate rosse ci sarebbero state. Come per i Fedayn. Qualcuno però non ha
mantenuto i patti299. Moro, sempre secondo le trattative, doveva uscire vivo dal covo
(al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario?), i carabinieri
avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciar andare via la macchina
rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva
comunque l’anticomunista Moro morto, le Br avrebbero ucciso il presidente della
Democrazia cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile
azione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica
299 «Vent’anni dopo il senatore Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione parlamentare
d’inchiesta su stragi e terrorismo, esprimerà concetti analoghi. La possibilità che Moro avesse rivelato
alle Br segreti sensibili aveva creato una situazione sicuramente più complessa e pericolosa dal punto di
vista dello Stato. Per cui poteva essere opportuno non forzare la situazione con un blitz. Se avessero fatto
irruzione in via Gradioli e avessero catturato Moretti, quale sarebbe stata la reazione degli altri brigatisti?
La Braghetti, Gallinari e Maccari, i carcerieri di Moro, che istruzioni avevano per una eventualità del
genere? Di uccidere il prigioniero? Di rendere pubblici i verbali e le videocassette del suo interrogatorio?
In questa chiave potrebbe anche capirsi perché non si volesse arrivare a via Gradioli, almeno fino a
quando non fosse stata scoperta la prigione in cui Moro era detenuto, e non si fosse raggiunta la certezza
di poter mettere le mani anche su tutto il materiale relativo al processo brigatista. È possibile che Cossiga
si sia fidato di certe persone e poi se ne sia pentito. Mi riferisco a qualche apparato nazionale o anche
estero che assunse su di sé il doppio compito di recuperare le “carte Moro” e di liberare il prigioniero. Ma
poi perseguì soltanto il primo obbiettivo e lasciò che Moro venisse ucciso, per regolare qualche vecchio
conto. In questo modo le tesi del “doppio ostaggio” e quella del “doppio delitto” verrebbero in qualche
modo a sovrapporsi. La sofferenza umana di Cossiga, tutte le volte che si affronta il caso Moro, a me è
parsa autentica. E credo che nasca non solo dalla perdita di un amico come Moro, ma anche da questa sua
sensazione d’essersi fidato di persone sbagliate, o di apparati sbagliati. È un’ipotesi assai verosimile, che
se fosse confermata porterebbe proprio a concludere che Cossiga è stato atrocemente beffato da mandatari
infedeli», da FASANELLA – SESTIERI – PELLEGRINO, Segreto di Stato, la verità da Gladio al caso
Moro, Einaudi 2000, pagg. 180-82 in FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 396.
117
campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama “De300” e il macellaio
Maurizio301.
L’enigmatico riferimento ad Alunni Corrado, brigatista arrestato il 13 settembre 1978 nel
covo in via Negroli a Milano, si collegò all’ipotesi che durante l’arresto fosse stato
trovato il memoriale e che le Br avessero distribuito le copie tra le varie colonne
brigatiste. Ciò spiegherebbe il perché nell’articolo di «Op» del 26 settembre 1978 Le
lettere di zombi, pubblicato dodici giorni prima di Monte Nevoso e una settimana dopo
l’arresto del brigatista, Pecorelli fosse già in grado di annunciare il ritrovamento di una
trentina di lettere di Moro. Un’altra anomalia si riferisce alla paura di Moro d’essere
ucciso in un conflitto a fuoco tra i terroristi ed i carabinieri, dato anche questo non
riscontrabile in nessun suo scritto ufficiale. «Osservatore politico», dunque, sostenne che
le carte divulgate nel 1978 fossero incomplete, dell’esistenza di una copia recuperata nel
covo di via Negroli due settimane prima dell’operazione di Monte Nevoso, che vi
fossero dei manoscritti di Moro autografi ed in fotocopia (che vennero ritrovati solo nel
1990) e che esistesse un memoriale tutt’oggi ignoto contenente rivelazioni non
riscontrabili nelle versioni del 1978 e del 1990. Difficile capire quali potessero essere le
fonti informative di Carmine Pecorelli, sebbene i principali sospetti cadrebbero sulla
figura del generale Dalla Chiesa e su Licio Gelli, comunque in ambienti contigui alla
Loggia Propaganda Due e ai servizi segreti. È probabile che il generale Dalla Chiesa si
servisse di Pecorelli, come fece con il generale Galvaligi, affinché trapelassero notizie
relative al ritrovamento delle carte di Moro, per costringere il governo a pubblicare la
versione che lui stesso gli consegnò. Una triplice responsabilità per dissimulare una fuga
di notizie. Oltre ai diversi articoli di «Osservatore politico» in cui venne elogiata la
figura di Dalla Chiesa, è accertata la collaborazione tra Pecorelli ed il generale nel 1979.
Nell’agenda del giornalista si trovarono appuntate le date dei loro incontri,
300«Questo “De” sembra essere un riferimento a Giustino De Vuono, presente nell’elenco dei terroristi
ricercati diffuso dal Viminale il 16 marzo 1978. De Vuono sarebbe stato riconosciuto da due testimoni
oculari del caso Moro. Quanto al “Maurizio” menzionato da Op, si scoprirà poi che era lo pseudonimo
brigatista del capo delle Br Mario Moretti. Pecorelli lo chiamava “macellaio” e in effetti, lo si scoprirà
anni dopo, Moretti è stato colui che ha materialmente assassinato Moro», Ivi, p. 397.
301 Terrorismo, antiterrorismo e riforma di polizia. Vergogna buffoni!, «Osservatore politico», 16 gennaio
1979.
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particolarmente intensificati proprio nei mesi in cui Pecorelli rilasciò le sue dichiarazioni
sul memoriale.
Era stato Dalla Chiesa a chiedere d’incontrare Pecorelli e Mino me ne parlò subito
dopo, dicendomi che non aveva capito bene cosa volesse. Aveva avuto l’impressione
che Dalla Chiesa intendesse utilizzarlo in qualche maniera, ma non aveva capito se
per far filtrare notizie o per altro. Era perplesso perché Dalla chiesa non gli aveva
dato notizie302.
La testimonianza del maresciallo Angelo Incandela, comandante degli agenti di custodia
del carcere di Cuneo, confermò che nel gennaio del 1979 Dalla Chiesa e Pecorelli
collaborarono segretamente per recuperare delle fotocopie del manoscritto del
memoriale, che ritenevano fossero entrate nel carcere di Cuneo. Il maresciallo venne
convocato da Dalla Chiesa con l’ordine tassativo di mantenere la massima segretezza.
Nella deposizione del 27 giugno 1994 all’autorità di Palermo, Incandela raccontò
d’essersi incontrato con Dalla Chiesa in un’Alfa Romeo bianca. Il generale lo informò
della presenza di alcuni scritti riguardanti Aldo Moro nel carcere dove lavorava da pochi
mesi, documenti indirizzati al boss della malavita milanese Francis Turatello. Nell’auto
era presente una terza persona che sarebbe stata in grado di spiegare, secondo il generale,
come e dove fossero entrati quei documenti.
Gli scritti riguardanti il caso Moro erano entrati nel carcere attraverso le finestre del
corridoio dell’ufficio per i permessi di colloqui, dove sostavano i parenti dei detenuti
in attesa della perquisizione prima di essere ammessi ai colloqui. Lo sconosciuto mi
fornì una particolareggiata descrizione dei luoghi, specificandomi che le finestre del
corridoio ove sostavano i parenti prima di essere perquisiti, erano prive di reti, sicché
era agevole consegnare attraverso le stesse oggetti a detenuti che circolavano senza
nessuna sorveglianza nel cortile sul quale prospicevano dette finestre. […]Lo
sconosciuto proseguì specificandomi che gli scritti riguardanti il sequestro Moro
erano entrati nel carcere avvolti con un nastro adesivo da imballaggio303.
302 Franca Mangiavacca, compagna di Pecorelli, agli atti della sentenza della corte d’Assise di Perugia del
14 aprile 1993, FLAMIGNI, Dossier Pecorelli, p. 150.
303 Angelo Incandela, GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 250.
119
In una seconda deposizione del 25 luglio 1994, il maresciallo raccontò d’aver
riconosciuto il volto dello sconosciuto solo due mesi dopo, negli articoli che parlavano
dell’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli. Incandela seppe descrivere con
precisione gli occhiali che il giornalista portò in quella circostanza304, inoltre ricordò che
«il generale chiese allo sconosciuto di cercare un numero di telefono il quale rispose
d’averlo dimenticato in redazione305».
Dalla Chiesa continuò a sollecitarmi affinché io trovassi gli scritti del sequestro
Moro che si trovavano all’interno del carcere, nonché documenti concernenti l’on.
Andreotti e dopo quindici giorni di ricerche rinvenni l’involucro che Pecorelli mi
aveva descritto, all’interno di un pozzetto con un coperchio di lamiera profondo
circa venti – trenta centimetri che si trovava in un piccolo locale dove venivano presi
in consegna i generi di conforto portati ai detenuti dai loro familiari. L’involucro
aveva la forma di un salame ed era avvolto con un nastro isolante da imballaggio
color marrone. […] L’involucro poteva contenere un centinaio di fogli306.
Angelo Incandela spiegò come Dalla Chiesa fosse convinto dell’esistenza di ulteriori
fogli all’interno del carcere, riguardanti l’on. Giulio Andreotti.
Io sospetto che volesse in qualche modo incastrare Andreotti. Infatti, il generale
aveva delle riserve su quell’uomo politico; spesso mi faceva capire che lui su
Andreotti sapeva cose assai gravi. Ma Dalla Chiesa pur alludendo pesantemente non
mi disse mai con esattezza cosa aveva in mano, quali fossero gli elementi
d’accusa307.
Secondo il maresciallo Incandela, Dalla Chiesa e Carmine Pecorelli si misero alla ricerca
di documenti altamente segreti e destabilizzanti per il sistema politico di allora.
Documentazione che, probabilmente, avevano già visionato in forma dattiloscritta.
304 «cerchiati in oro piuttosto quadrati, chiari non scuri. Completamente diversi per foggia da quelli
comparsi nella foto pubblicata dopo la morte, con montatura nera e spessa», Ivi, p. 251.
305 Ibidem.
306 Ivi, pag. 252.
307 PINO NICOTRI, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. I misteri degli anni '80 nel racconto del
maresciallo Incandela, Marsilio, Venezia 1994, p. 112.
120
Mi disse che stavamo scrivendo la storia, che si può essere fedeli allo Stato in tanti modi e che
si può servire la Patria anche in modi non propriamente legali. Mi disse: Per la Patria, caro mio,
si può e si deve anche rischiare quando occorre. E quando si hanno i coglioni! Sempre a patto
naturalmente che il fine sia nell’interesse dello Stato e della Società308.
308 Carlo Alberto Dalla Chiesa, GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 254.
121
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«Osservatore politico», 1968 – 1979




 
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