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IL CASO MORO LA PISTA FENZI GENOVA VIA FRACCHIA

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barionu
CAT_IMG Posted on 24/4/2024, 13:59 by: barionu
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Capitolo IV



«Osservatore politico» ed il caso Moro.




Il viaggio in Usa di Aldo Moro e l’avvicinamento al Pci.
Il 12 ed il 13 maggio del 1974 si tenne il referendum sul divorzio, il cui risultato segnò
la sconfitta della Chiesa e della Democrazia cristiana. Si avvertì un segnale di un
cambiamento politico e culturale della società italiana verso sinistra182, mentre la scena
politica attraversava una fase che sembrò preludere a grandi cambiamenti. La formula di
centro-sinistra era in crisi, ma non vi furono le condizioni politiche per alternative
centriste o di centro destra. Aldo Moro si convinse della necessità di una nuova politica
italiana che, dopo gli anni del centrismo e delle alleanze con il Psi o altri partiti del
centro-sinistra, avrebbe dovuto affrontare il Partito comunista ed il rapporto con le
masse popolari che in esso si riconoscevano.
Bisogna avere un atteggiamento chiaro, serio e costruttivo nei confronti del partito
comunista verificando con il maggior impegno la validità delle sue proposte e
delle sue critiche e riservando ad esso, nella dialettica democratica e
nell’esperienza sociale ben più ampia e profonda che non l’azione del governo,
una doverosa attenzione e conversazione183.
Le parole di Moro, sebbene prudenti, accrebbero gli allarmi nel Dipartimento di Stato
americano, dal quale venne la richiesta di un più incisivo anticomunismo184 in Italia.
«Osservatore politico» cominciò a dedicarsi con particolare attenzione ad Aldo Moro dal
1974, in occasione del viaggio ufficiale a Washington del ministro degli Esteri e del capo
dello Stato Giovanni Leone. Un’importante missione date le crescenti difficoltà
economiche italiane e l’urgenza d’ottenere aiuti finanziari dall’alleato statunitense.
182 «Se ne ebbe conferma il successivo 16 – 17 giugno, con le elezioni regionali in Sardegna: il Pci
aumentò i propri voti del 7%, il Psi li aumento del 5,7%, mentre la Dc arretrò del 6,2%», FLAMIGNI, Le
Idi di marzo, il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, Kaos, Milano 2006, p. 35.
183 Aldo Moro su «Il Popolo» del 20 luglio 1974. Ivi, p. 37.
184 «Noi seguiamo gli avvenimenti dell’Italia con simpatia ed affetto. Potete contare sul fatto che in
qualsiasi momento l’Italia debba affrontare difficoltà, faremo tutto il possibile per assicurarle stabilità e
progresso». Discorso di Henry Kissinger durante la colazione offerta da Leone al Quirinale il 5 luglio
1974, MARIO MARGIOCCO, Stati Uniti e Pci, Laterza, Roma 1981, pag. 167.
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Il presidente americano Gerald Ford ha dato incarico al suo ambasciatore a Roma
John Volpe di fare un sondaggio tra i vari partiti politici italiani, compreso il Pci, per
avere un quadro quanto più possibile esatto della situazione italiana in vista della
imminente visita del presidente Leone a Washington. A quanto apprende “Op”,
l’ambasciatore Volpe avrebbe incontrato alcuni tra i massimi esponenti del Pci, ai
quali avrebbe detto senza mezzi termini che eventuali aiuti americani al nostro paese
(nuovo piano Marshall) sono legati al non ingresso dei comunisti nell’area di
governo. I Comunisti, avrebbe detto Volpe, possono continuare a pilotare il
movimento sindacale o monopolizzare l’opposizione, ma non debbono assumere
dirette responsabilità di governo. Una eventualità del genere porterebbe ad un
graduale sganciamento dell’Italia dalla Nato185.
Le rivelazioni del direttore della Cia William Colby, fatte alla sottocommissione Forze
armate del Congresso, vennero pubblicate dal New York Times a due settimane
dall’arrivo in America della delegazione italiana. Colby descriveva l’attività Usa in Cile,
dalla corruzione dei deputati per evitare la ratifica della elezione di Allende da parte del
parlamento, al finanziamento di scioperi che bloccarono economicamente il paese per
settimane186. L’attività dell’agenzia sarebbe stata approvata dal «Comitato 40187», un
sottocomitato nell’ambito del Consiglio nazionale della sicurezza con funzione di
controllo verso le attività clandestine della Cia, al tempo presieduto da Kissinger. Le
manovre illegali compiute dall’agenzia in Cile contro il presidente socialista Salvador
Alliende non furono dunque fenomeni devianti, ma azioni volute dal presidente degli
Stati Uniti e dal suo consigliere per la sicurezza. La situazione cilena divenne quindi un
test per osservare il possibile ribaltamento di un regime di sinistra mediante la creazione
di caos al suo interno188. Pochi giorni dopo, il 16 settembre 1974, il presidente Gerald
185 Per gli aiuti Usa il Pci all’opposizione, «Osservatore politico», 23 settembre 1974.
186 «Nel settembre 1970 Allende vinse le elezioni presidenziali. Nixon era furioso e convocò Helms, il
direttore della Cia di allora, a una riunione nello studio ovale con Henry Kissinger. Nixon ordinò
chiaramente d’impedire che Allende entrasse in carica. La Cia si mise d’impegno ed inviò in Cile, per sei
settimane di attività frenetica, una speciale Task Force di suoi operatori indipendenti dalla «stazione» e
che rispondevano solo alla sede centrale di Washington». La mia vita nella Cia, WILLIAM COLBY,
Mursia, Milano 1981, pag 224.
187 RODOLFO BRANCOLI, Gli Usa e il Pci, Garzanti, Milano 1976, p. 128.
188 «Non vedo perché dobbiamo starcene fermi a guardare un paese diventare comunista per
l’irresponsabilità del suo popolo», Henry Kissinger al «Washington Post» del 10 settembre 1974.
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Ford ammise ufficialmente che l’Amministrazione Usa era intervenuta in Cile, tra il
1970 e il 1973, per favorire il golpe militare del generale Augusto Pinochet189. La
tematica, a pochi giorni dall’arrivo della delegazione italiana, fu un chiaro messaggio: gli
Stati uniti attendevano da Leone assicurazioni che non ci sarebbero stati né
indebolimenti delle alleanze postbelliche, né rilanci del Pci all’interno. Durante i
colloqui Kissinger ribadì con durezza, al ministro degli esteri Moro, l’assoluta
contrarietà dell’Amministrazione a qualsiasi apertura democristiana al Pci, minacciando
il ritiro di qualsiasi aiuto all’economia italiana nel caso la Dc fosse venuta meno alla
chiusura anticomunista. Il segretario di Stato, inoltre, minacciò per l’Italia uno sbocco di
tipo cileno, mentre lo stesso Moro subì intimidazioni dirette al punto che lo stress
nervoso gli provocò un malore poche ore dopo190. Nella sua deposizione alla
Commissione parlamentare d’inchiesta la moglie di Aldo Moro dichiarerà:
È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che
cosa gli avevano detto, senza dirmi il nome della persona. Provo a ripeterla come
la ricordo: Onorevole Lei deve smettere di perseguire il suo piano politico di
portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui o Lei smette di
fare questa cosa o Lei la pagherà cara191.
Henry Kissinger non nascose mai la sua personale ostilità nei confronti di Moro, che
considerava il possibile Allende dell’Italia. Il segretario di stato fu ostile alla strategia di
apertura a sinistra attuata in Italia dagli inizi degli anni Sessanta, un grave errore
dell’amministrazione democratica di John Kennedy. Secondo Kissinger, l’alleanza
governativa della Democrazia cristiana con il Partito socialista lasciò ai comunisti il
monopolio dell’opposizione192. L’Italia rappresentava una nazione strategicamente
189 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 39.
190«Mi chiamò appena rientrato e mi disse che per alcuni anni si sarebbe ritirato dalla vita politica, cosa
che andava detta ai giornalisti. Risposi che mi pareva strano che si dovesse dare una notizia del genere
quando in Italia si era alla vigilia di una certa evoluzione politica all’interno della Democrazia cristiana
che avrebbe portato l’onorevole Moro alla nomina di presidente del Consiglio. Egli comunque insisteva
nella sua intenzione di ritirarsi dalla politica e nell’esigenza di informare i giornalisti». Guerzoni Corrado
in Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, volume II, Resoconti stenografici, pag. 745.
191 Eleonora Moro in Commissione Moro, volume V, p. 6.
192 «Nel 1963 gli Stati Uniti decisero di sostenere la cosiddetta “apertura a sinistra”, il cui obbiettivo si
identificava in una coalizione fra socialisti di sinistra e democristiani; la cosa avrebbe, almeno così si
sperava, isolato i comunisti. Gli esiti ultimi della coalizione si rivelarono diametralmente opposti a quelli
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importante per l’alleanza atlantica nell’ambito della guerra fredda, un satellite degli Usa,
caratterizzato dal più forte partito comunista di tutto l’Occidente. Il 28 ottobre 1974 Aldo
Moro venne incaricato dal presidente Leone di formare il nuovo governo. Il leader si
pronunciò contro il compromesso storico, sebbene teorizzò la necessità di collaborazione
con il Pci per risolvere alcuni grandi problemi del paese. Il successo delle sinistre alle
elezioni amministrative del giugno del 1975 fu un terremoto politico di livello
internazionale. «Osservatore politico» attribuì le colpe «alla fazione democristiana senza
coraggio, senza iniziative e senza chiarezza di idee di Moro193», continuando a sostenere
la richiesta di Kissinger di rivitalizzare la Dc. Il Dipartimento di Stato Usa cominciò ad
elaborare una nuova strategia facendo nuovamente leva sui socialisti, potenziati e
schierati sul fronte anticomunista. Carmine Pecorelli fu tra i primi a scrivere del nuovo
atteggiamento americano, a partire dal 19 luglio 1975194, prevedendo l’ascesa del
milanese Bettino Craxi verso la segreteria del partito.
Perché a Washington s’è deciso: il nuovo potere in Italia sarà assicurato da una santa
alleanza anticomunista ma riformatrice, tra un Psi e una Dc tutti rinnovati. Che
magari potranno giovarsi dell’estemporaneo appoggio esterno di un Pci che vorrà far
confluire su qualche disegno di legge anche i suoi voti. Ma che resterà rigorosamente
escluso dall’area del governo. Pena la nascita, con l’appoggio degli Usa, di nuove
formazioni politiche, gemelle e parallele a Dc e Psi195.
«Osservatore politico» scrisse di quanto la politica italiana venisse influenzata dal volere
del dipartimento di stato americano, decidendo il nuovo potere politico; una santa
alleanza fra un Psi ed una Dc rinnovati. Quello che avverrà dopo l’uccisione di Aldo
Moro. Carmine Pecorelli colse tutta l’ostilità nei confronti della politica di Moro e la
scrisse nei suoi articoli. Ore 13: Il ministro deve morire del 19 giugno 1975, una nota
pubblicata da «Op» successivamente alle elezioni amministrative in Italia. Risultati
ritenuti catastrofici per l’atlantismo e gli Stati Uniti, che attribuivano le colpe a Moro. In
sperati. L’apertura a sinistra li fece diventare l’unico partito di opposizione vero e proprio. L’influenza
comunista era anzi così forte che l’acuto Moro aveva deciso di sfruttarla per togliere potere ai socialisti»,
HENRY KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, Sugarco, Milano 1980, p. 95.
193 Carmine Pecorelli cit. in FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 50.
194 Sarà Craxi il nostro Soares?, «Osservatore politico», 19 luglio 1975.
195 La grande virata della barca socialista, Ivi, 25 ottobre 1975.
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Moro-bondo del 2 luglio 1975 o L’America, esperta, scherza e prevede del 13 settembre
1975: «Un funzionario, al seguito di Ford in visita a Roma, ebbe a dichiararci: «Vedo
nero. C’è una Jaqueline nel futuro della vostra penisola»196. I riferimenti al possibile
omicidio dell’uomo politico furono presenti in diversi articoli197 del giornalista e
raggiunsero il culmine in tale nota, in cui il direttore di «Osservatore politico» menzionò
la moglie di John Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre 1963, ipotizzando un futuro
delitto di natura politica anche in Italia. Gli articoli di Pecorelli su Aldo Moro furono
caratterizzati da diverse allusioni di morte, sebbene il politico fosse tra i bersagli
democristiani più risparmiati di «Op». Probabilmente Moro, da ministro degli Esteri,
lavorò diverse volte in stretta collaborazione con il generale Miceli, amico del
giornalista. Inoltre tra il materiale sequestrato nella sede di «Osservatore politico» si
trovarono alcune fotografie che ritraevano Moro insieme a Pecorelli198. Il 7 gennaio
1976, il Psi revocò la fiducia al governo Moro che si dimise. I socialisti mirarono ad
un’alternativa di sinistra con un governo di emergenza nazionale. La copertina di
«Osservatore politico» presentava dunque una caricatura di Moro intitolata Il santo del
compromesso: vergine, martire e…dismesso.
Il compromesso storico è nato come appoggio esterno al centrosinistra. Oggi,
assassinato con Moro l’ultimo centrosinistra possibile, muore insieme al leader
pugliese ogni possibilità di sedimentazione indolore delle strategie di
Berlinguer199.
Pecorelli scrisse, in un articolo successivo, riguardo la possibilità che il segretario del Psi
De Martino avesse revocato la fiducia al governo in seguito a pressioni dei Servizi
statunitensi.
C’è perfino chi insinua che la decisione di De Martino sia legata alla visita avuta dal
segretario socialista da parte di un personaggio (alcuni dicono turco, altri lasciano
196 «Osservatore politico», 13 settembre 1975.
197 Il primo accenno venne da «Mondo d’oggi» nel novembre 1967. In un articolo Carmine Pecorelli
scrisse di un possibile rapimento dello statista, già in piano dal 1964, ad opera del tenente colonnello
Roberto Podestà, DI GIOVACCHINO, Scoop mortale, p. 200.
198 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 58.
199 Dopo Moro: la crisi oltre i suoi promotori, «Osservatore politico», 9 gennaio 1976.
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intendere che sia tedesco): quelli che ne sono al corrente interrompono subito il
dialogo quando si domanda loro se per caso il personaggio misterioso sia un agente
della Cia200.
Sottolineando le preoccupazioni, sia a livello nazionale che internazionale, per l’ipotesi
di un’intesa governativa tra la Dc e il Pci, Carmine Pecorelli disapprovò l’incarico di
Leone affidato a Moro per formare il nuovo governo.
Il male oscuro del nostro paese è che vuol alimentare, a dispetto di Yalta,
un’opposizione che significa alterazione degli equilibri mondiali. E’ per questo che
basta che un sindaco Dc ceda le chiavi ad un collega comunista che entrano subito in
allarme i servizi segreti dei cinque continenti201.
Il 12 febbraio Moro varerà il suo quinto governo, un monocolore votato da Dc e Psdi,
che durò fino al 30 aprile. Sebbene la Democrazia cristiana confermò il suo primato, con
il terzo governo Andreotti, il pericolo del sorpasso e del primato comunista in Italia restò
forte. Il 14 aprile 1976 Aldo Moro diventò presidente del partito, la strada verso il
compromesso storico sembrò sempre più vicina.
Carmine Pecorelli contro il Governo: Il rapimento Moro.
Il 16 marzo 1978 il governo di solidarietà nazionale di Giulio Andreotti si sarebbe
dovuto presentare alla Camera per il voto di fiducia. Il giorno precedente «Osservatore
politico» ironizzò sulla coincidenza di tale data di formazione del governo e le Idi di
marzo202del 44 a.C.
Mercoledì 15 marzo il quotidiano “Vita Sera” pubblica in seconda pagina un
necrologio sibillino: «A 2022 anni dagli Idi di marzo il genio di Roma onora
Cesare 44 a.C. – 1978 d.C.». Proprio alle Idi di marzo del 1978 il governo
Andreotti presta il suo giuramento nelle mani di Leone Giovanni. Dobbiamo
200 Che relazione c’è tra il furto a Moro e la crisi governativa?, «Osservatore politico», 13 gennaio 1976.
201 Il saggio Ulisse, le sirene e la cera alle orecchie, Ivi, 15 gennaio 1976.
202 Data dell'assassinio di Giulio Cesare ad opera di Decimo Giunio Bruto, Marco Giunio Bruto, Gaio
Cassio Longino e altri cospiratori.
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attenderci Bruto? Chi sarà? E chi assumerà il ruolo di Antonio, amico di Cesare?
Se le cose andranno così ci sarà anche una nuova Filippi?203
Erano le nove del mattino del 16 marzo quando Aldo Moro venne rapito dalle Brigate
rosse. La Fiat 130 di Moro, scortata da altre due auto, percorreva via Fani. All’incrocio
con via Stresa una Fiat 128 targata Corpo Diplomatico, rubata all’ambasciata
venezuelana, bloccò la strada alle tre vetture. Appostati dietro ad alcune siepi laterali
altri brigatisti, vestiti da steward Alitalia, iniziarono un conflitto a fuoco in cui morirono
tutti gli uomini della scorta204. Il comunicato numero uno delle Br venne fatto trovare a
Roma ad un giornalista del Messaggero avvertito telefonicamente sabato 18 marzo. In
una busta, abbandonata sulla parte superiore di un apparecchio per fotografie formato
tessera in un sottopassaggio di largo Argentina, vennero trovate cinque copie del
comunicato e una foto Polaroid che ritraeva Moro seduto sotto una bandiera con la stella
a cinque punte. I brigatisti dichiararono che il presidente della Democrazia cristiana
sarebbe stato sottoposto ad un processo del popolo e che sarebbero seguiti ulteriori
comunicati.
Qui Brigate rosse. Abbiamo rapito noi il servo dello stato Aldo Moro. Abbiamo
ucciso Leonardi e tutti gli altri della scorta. Le nostre richieste sono due: la
liberazione di tutti i compagni detenuti a Torino e i compagni di Azione
rivoluzionaria, tutti quanti. Entro quarantotto ore questo comunicato dovrà essere
letto su tutte le reti nazionali e ad un certo punto attendiamo una risposta. Se la
risposta non sarà valida faremo fuori anche Aldo Moro205.
Nei giorni successivi alla strage di via Fani, il bollettino ciclostilato «Op» si trasformò in
un settimanale distribuito nelle edicole di tutta Italia. Il primo numero, distribuito tra il
203 Le Idi di marzo, «Osservatore politico», 15 marzo 1978.
204 Le vittime della strage di via Fani: Oreste Leonardi, uomo scorta di Aldo Moro da quindici anni che
fece scudo con il proprio corpo per proteggere dai proiettili lo statista; Domenico Ricci, Autista di Moro
da oltre vent’anni; Francesco Zizzi, uno dei suoi primi giorni di scorta, morto durante il trasporto
all'ospedale Gemelli di Roma; Giulio Rivera, alla guida dell’auto di scorta che precede quella del
presidente della Dc; Raffaele Jozzino, l’unico che uscì dalla vettura e che esplose colpi d’arma da fuoco.
GIACOMO FIORINI, Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Interventi di Paolo VI. Dibattito e
Riflessioni, Università degli studi di Padova, tesi di laurea triennale in Storia, rel. Prof. G. Romanato, a.a
2007 – 2008, p. 18.
205 AGOSTINO GIOVAGNOLI, Il caso Moro, una tragedia repubblicana, Il Mulino, Bologna 2005, p.
91.
81
20 e il 21 marzo, portò la data posticipata al 28 marzo 1978206, mentre due giorni prima
venne ritrovato il secondo comunicato della Br. Carmine Pecorelli analizzò la situazione
in numerosi articoli, il primo, Abbiamo svoltato l’angolo, analizzò l’inadeguatezza dello
Stato nei confronti del Terrorismo.
Non illudiamoci: il rapimento Moro è una tappa, non il culmine della guerra civile
in Italia. Colpito al cuore lo Stato, i commandos brigatisti passeranno ad altri la
mano per operazioni più ampie. È la tragica escalation di tutte le rivoluzioni: ad un
certo punto si passa da azioni individuali a sollevazioni di massa. Da anni nel
nostro paese si sta sviluppando una minirivoluzione di tipo sudamericano. Sparuti
gruppi di guerriglieri sabotano l’economia, turbano l’ordine pubblico e la pace
sociale, attentano alle istituzioni e alla sicurezza. A fronte di tutto ciò, nessuna
reazione adeguata da parte dello Stato. Mentre pochi guerriglieri seminano morte e
disperazione nelle strade della penisola, Parlamenti e governi che si sono succeduti
in rara abbondanza hanno puntualmente smobilitato la macchina della difesa delle
istituzioni democratiche […] . Il Parlamento ed il Governo italiano hanno curato
uno stato ammalato di broncopolmonite doppia, somministrando solo aspirine. E
con estrema parsimonia. I terroristi hanno dichiarato guerra ad uno stato che,
evangelicamente, ha offerto l’altra guancia. Anche oggi, mentre tengono in
ostaggio il massimo statista italiano, presunti statisti ci fanno assistere al solito
balletto di sepolcri imbiancati: Zaccagnini piange e tremita, Leone si leva
sdegnato, commemora i defunti e torna a sedersi. A Montecitorio, a Palazzo
Madama, deputati e senatori, le facce della paura e gli occhi fuori dalle orbite,
affrettano i tempi di fiducia al governo. Nasce su cinque cadaveri, nasce sul
sequestro del presidente della Democrazia cristiana il primo governo italiano di
segno eurocomunista207.
L’analisi di Pecorelli riassunse i massimi luoghi comuni della reazione, la guerra civile
che lo Stato non represse e le istituzioni che smobilitarono l’apparato della difesa. In
questo articolo mutò anche l’atteggiamento del giornalista nei confronti del leader
democristiano; definito dal giornale, in diverse riprese, «lentocrate208» o «monarca
206 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 246.
207 Abbiamo svoltato L’angolo, «Osservatore politico», 28 marzo 1978.
208 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 247.
82
assoluto», si passò a scrivere di Moro come fosse il simbolo del più grave attentato della
storia repubblicana definendolo «il massimo statista italiano». Pecorelli descrisse lo
sgomento degli uomini del partito e del IV governo Andreotti, un monocolore sostenuto
da Pci, Psi, Psdi e Pri, che ricevette la fiducia quasi unanime dalla Camera e dal Senato il
16 marzo 1978209.
Che ne sarebbe della Dc se Moro non dovesse essere restituito al più presto alla vita
politica? Andreotti è troppo poco uomo di partito e troppo uomo di potere del
governo; Fanfani è logoro d’anni e di sconfitte, Forlani se ne avesse la forza non ne
avrebbe la voglia, Bisaglia ha atteso troppo all’ombra d’altri per poter oggi
improvvisamente balzare alla ribalta. Colpiscine uno, educane cento: è lo slogan
delle Brigate rosse. Mai come colpendo Moro i terroristi sono stati fedeli al loro
programma. Chi in questi giorni ha potuto vedere da vicino qualche parlamentare
Dc, ha visto uomini distrutti, insicuri del proprio futuro fisico oltre che politico. A
Piazza del Gesù l’ufficio di Moro è deserto, né si sa quando il presidente potrà
riprenderne pieno possesso. Nella stanza accanto c’è Zaccagnini, ma è una bussola
impazzita senza più punto magnetico di riferimento. I terroristi hanno sequestrato gli
equilibri politici, hanno sequestrato i tempi e i modi previsti per l’allunaggio
morbido degli astronauti democristiani sul pianeta rosso210.
Sottolineando come il sequestro di Moro abbia colpito il solo leader democristiano
capace di mantenere unione nel partito e l’unico interlocutore della strategia
berlingueriana del compromesso storico.
Quanto alle prospettive, sono terribili. I terroristi hanno tutto l’interesse a tirare per
le lunghe, tenere per giorni e giorni il paese nell’angoscia. Ricordiamo il
precedente di Mario Sossi. Rimase nelle mani delle Brigate rosse per quaranta
lunghissimi giorni211. Anche a Moro, come a Sossi, i “carcerieri del popolo”
celebreranno un macabro processo. Lo sottoporranno ad ogni sevizie psicologica,
209 Per la Camera il governo ottenne 545, 30 no e 3 astenuti. Al Senato 267 si e 5 no. Data l’emergenza il
Pci accantonò le riserve su Andreotti e votò la fiducia. Ivi, p. 248.
210 Il caso Moro: il partito, «Osservatore politico», 28 marzo 1978.
211 Le Br avevano sequestrato a Genova il sostituto procuratore Mario Sossi il 18 aprile 1974. Durante i
quaranta giorni di prigionia, il magistrato era stato lungamente interrogato dai brigatisti, ai quali aveva
fatto importanti e gravi ammissioni relative alla magistratura ed alla questura genovese, FLAMIGNI, La
sfinge delle Brigate rosse, p. 108.
83
lo ridurranno ad ecce homo, gli somministreranno sostanze chimiche e lo faranno
parlare. Gli faranno dire ciò che vogliono sulla Dc, sulla Nato, sugli Stati Uniti,
sulle più scabrose vicende politiche degli ultimi trent’anni è […]. Come sarà
ridotto al termine di questa vicenda Aldo Moro, l’orologiaio del nostro sistema
politico?212
Pecorelli arricchì il numero del 28 marzo con alcune notizie riservate, sebbene imprecise,
riguardo il rapimento di via Fani. Si trattò dell’articolo Il caso Moro: l’inchiesta, dove il
giornalista ricostruì le dinamiche del rapimento del 16 marzo:
Gli investigatori sono riusciti a ricostruire qualche particolare di rilievo. Dopo
l’agguato in via Mario Fani alle 9.10 di giovedì mattina, la 132 con a bordo Moro,
preceduta e seguita dalle due 128 del commando del terrore, ha imboccato via
Stresa, percorso un tratto di via Trionfale, superato l’incrocio di via Igea e girato a
destra per una via privata, via Carlo Belli. In fondo a questa strada, dove inizia via
Casale de’Bustis, c’è un ostacolo naturale: un cancelletto metallico chiuso da una
pesante catena. La 132 si ferma, scende una donna che con un paio di cesoie recide
la catena, apre il cancello e consente il passaggio del convoglio delle brigate. A quel
punto Moro era ancora nella 132. Lo ha visto distintamente un testimone, coperto da
un plaid di lana scozzese. Pochi minuti dopo la 132 si ferma per una seconda volta, è
in via Licinio Calvo. Anche qui un testimone può guardare, ed è pronto a giurare che
Moro non è più all’interno della vettura. La zona è stata setacciata metro per metro:
Moro non è stato ritrovato. I terroristi devono averlo trasferito in un altro mezzo di
locomozione fermandosi una terza volta nel tratto Casale de’Bustis – Licinio Calvo.
Su quale mezzo è stato trasportato il Presidente della Dc? Escluso l’elicottero, su
qualsiasi altro veicolo213.
L’ipotesi dell’elicottero tornerà ad essere citata diverse volte negli articoli214, sfruttando
le parole di un testimone che giurò d’aver udito il rombo di un elicottero poco dopo la
strage. Nei successivi articoli «Osservatore politico» attribuì la strage di via Fani alle
sinistre, non solo per l’ideologia politica dei terroristi, ma anche perché le sinistre stesse
212 Il caso Moro: le prospettive, «Osservatore politico», 28 marzo 1978.
213 Il caso Moro: l’inchiesta, Ivi, 28 marzo 1978.
214 «Non saranno infatti andati appunto in elicottero a deporre Moro?», Ivi, 25 aprile 1978.
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contribuirono allo smantellamento dei servizi segreti215. Sbilanciandosi portavoce
dell’atlantismo, sottolineò l’obbiettivo politico che sarebbe dovuto scaturire da tale
vicenda: Una svolta moderata di tipo autoritario contro la sinistra ed il sistema dei partiti,
una Repubblica presidenziale. È ciò che scrisse nell’articolo del 4 aprile 1978, Alla
riscoperta dello Stato.
Giovedì 16 marzo è diventato certezza il dubbio che da tempo covava nella mente di
gran parte del Paese: per uscire dalla crisi, innanzitutto è necessario rifondare questo
Stato, incapace di difendere persino i suoi uomini più prestigiosi […]. Il Paese si è
reso conto del fallimento dei modelli del permissivismo sinistroide, ha compreso che
partono di qui l’anarchia, il caos, l’insicurezza che fanno da scenario alla guerra
civile. E che se si vuole uscire dalla crisi economica e sociale è necessaria una vera e
propria rivoluzione morale che restituisca credibilità e significato alle istituzioni216.
Nell’articolo Attenzione ai falsi profeti, il giornalista prese di mira i parlamentari
comunisti e socialisti che si occuparono della riforma della polizia e dei Servizi segreti217
e gli organi di stampa che fino al giorno del rapimento Moro sembrarono d’accordo a
queste modifiche. Inoltre Pecorelli si sbilanciò dimostrandosi contrario a riforme e
processi di democratizzazione degli apparati statali218.
Tanto per fare un esempio vistoso, “L’Espresso” della scorsa settimana denunciando
l’inefficenza dell’attuale struttura di sicurezza dello Stato, invocava i fantasmi dei
Maletti219, dei D’Amato, dei Dalla Chiesa, dei Santilli. Cioè proprio degli ufficiali e
degli alti funzionari di polizia che quel settimanale negli scorsi anni ha additato
all’odio del Paese, ha fatto allontanare con infamia o con dolore dai posti di
215 «In realtà, la sinistra assunse iniziative legislative per affrontare i cosiddetti “Corpi separati dello
Stato” e per adeguare l’ordinamento delle istituzioni militari e di sicurezza alla Costituzione
repubblicana», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 257.
216 Alla riscoperta dello Stato, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
217 Ugo Pecchioli, Sergio Flamigni, Arrido Boldrini del Pci; Vincenzo Balzamo, Giacomo Mancini,
Silvano Signori del Psi, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 258.
218 Ibidem.
219 «Op dimentica, come per incanto, la sua lunga campagna contro il generale Gianadelio Maletti,
conclusa solo quando l’ufficiale del Sid venne arrestato ed incarcerato per le deviazioni del Servizio», Ivi,
p. 257.
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responsabilità e di comando. Ma nemmeno un cenno di autocritica nell’articolo in
questione, quasi “L’Espresso” fosse giunto ieri da un altro pianeta220.
Si continuò a sottolineare la superficialità del gruppo politico dinnanzi la drammatica
vicenda, riferendosi al tentativo d’oscurare la gravità della situazione alla stampa ed al
popolo italiano. Pecorelli si riferì in particolar modo alla questione della foto di Moro
scattata dal covo brigatista, che sollevò quesiti sulla vera autenticità e sul terzo
comunicato delle Br con la lettera di Moro a Cossiga. Diffuso il 29 marzo 1978, con
allegata una lettera segreta destinata al ministro dell’Interno che le Br resero pubblica221.
Il messaggio n. 3 delle Brigate rosse, lo scritto autografo di Aldo Moro che è stato
recapitato alle 21.10 di mercoledì a Francesco Cossiga, ha fatto cadere nel vuoto
l’ipotesi che fosse un fotomontaggio l’immagine del presidente della Dc prigioniero
che ha angosciato l’Italia dalle pagine dei giornali. Il particolare rivela la pericolosa
superficialità, l’avventurosità, con la quale i politici hanno affrontato e stanno
affrontando la più drammatica vicenda nazionale. Ancora una volta, invece di
affrontare da uomini tutti i problemi proposti dalla difficilissima situazione, hanno
cercato d’imbrogliare le carte, d’imbrogliare il paese. Ci è stato detto, contro ogni
evidenza ci è stato fatto dire, che la foto di Moro prigioniero era una falsificazione,
con l’evidente scopo d’invalidare ogni futuro messaggio del presidente
democristiano. Senza battere ciglio, senza alcuno scrupolo morale, è stato fatto
pensare al paese persino che Moro non fosse più in vita. Il terrorismo non si batte
con questi mezzucci buoni solo per manipolare qualche assemblea condominiale.
Oggi infatti, con sadica puntualità, i brigatisti hanno smascherato gli apprendisti
stregoni agli occhi di tutto il paese. Speriamo che lo choc dia qualche risultato222.
Nello stesso numero Carmine Pecorelli citò il documento delle Br che rivendicò il
sequestro dell’armatore Costa nel 1977223, pubblicato in esclusiva da «Op» e caduto
220 Attenzione ai falsi profeti, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
221 «Moro ha chiesto di scriverle una lettera segreta (le manovre occulte sono la normalità per la mafia
democristiana) al governo ed al capo degli sbirri Cossiga. Gli è stato concesso, ma siccome niente
dev’essere nascosto al popolo, ed è questo il nostro costume, la rendiamo pubblica», Comunicato n. 3
delle Brigate rosse, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 258.
222 Di fronte alla lettera di Moro, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
223 «L’armatore genovese Pietro Costa venne sequestrato da un commando brigatista la sera del 12
gennaio 1977. L’ingente riscatto di un miliardo e mezzo di lire venne pagato a Roma dalla famiglia, alla
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nell’indifferenza. Secondo il giornalista lo Stato avrebbe dovuto capire la pericolosità e
le intenzioni dei terroristi invece che sottovalutarne il fenomeno. Si trattò dell’ennesima
critica del giornalista al Governo.
Quando un anno or sono l’agenzia Op ne dette pubblicazione integrale, il documento
cadde nell’indifferenza quasi assoluta. Oggi assume un valore particolare: con il
sequestro Costa i terroristi hanno finanziato il sequestro Moro; la colonna del terrore
che ha stilato il documento è la stessa colonna che sta processando Aldo Moro. Ma il
documento è importante anche per un secondo motivo. Esso rivela che fin dallo
scorso anno avrebbe dovuto essere chiaro che con le Br lo stato si trovava a che fare
con una organizzazione estremamente estesa ed agguerrita che per preparazione,
determinazione e livello d’informazione costituisce un formidabile nemico. Ciò
avrebbe dovuto provocare la mobilitazione immediata di tutti gli apparati di
sicurezza del paese. Così non è stato. I politici continuando nei loro compromessi e
nelle loro parole hanno allegramente continuato a smantellare i servizi segreti e ad
avvilire il personale militare. Oggi le Brigate rosse hanno collocato una bomba ad
orologeria nel cuore dello Stato. C’è solo da augurarsi che esista ancora un artificiere
in grado di disinnescarla224.
Precedentemente ai fatti avvenuti il 16 marzo 1978, a più riprese Aldo Moro sembrò
preoccuparsi di una possibile situazione o evento che avrebbe potuto colpire il mondo
politico. Il leader democristiano disse di temere gesti clamorosi che le Br avrebbero
potuto compiere a danno di qualificati esponenti della Democrazia cristiana. Emersero
inoltre le inquietudini dello statista verso le azioni dei Servizi segreti occidentali e della
Cia. Il dirigente democristiano Giovanni Galloni testimonierà di un dialogo avuto con
Moro due mesi prima del suo rapimento.
La cosa di cui sono molto preoccupato è questa: io so che i Servizi Segreti
americano ed israeliano hanno degli infiltrati nelle Brigate rosse, però questi servizi
fine di marzo senza alcun intervento dello Stato. Costa venne liberato il 3 aprile, con in tasca il
comunicato con il quale le Br rivendicarono il rapimento. L’ingente somma di denaro ottenuta permise a
Moretti di consolidarsi come capo – padrone delle Br e di dotare l’organizzazione di una disponibilità
finanziaria quale mai ha avuto prima. Denaro che verrà utilizzato per acquistare armi, appartamenti e per
preparare l’operazione Moro», FLAMIGNI, La sfinge delle Brigate rosse, p. 189.
224 Il documento che annunciò la guerra, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
87
non ci hanno mai fatto comunicazione ai nostri servizi o allo Stato, perché
certamente le loro indicazioni potrebbero essere utili per la ricerca dei covi225.
Inoltre Moro ricevette diverse minacce scritte dalle Brigate rosse, sia nella sua abitazione
che nel suo ufficio di via Savoia. Ne parlò Pecorelli nell’articolo Moro era stato
minacciato dalle Brigate rosse, sottolineando come tutti, compreso le guardie del corpo
del politico, fossero preoccupati. Secondo il giornalista tutti tranne lo Stato.
Aldo Moro aveva informato dell’arrivo di questi messaggi intimidatori gli uffici
competenti. Ma, a quanto risulta, all’informazione non è stata data alcuna
importanza. I risultati si sono visti il 16 marzo in via Fani. Chi invece si era
preoccupato dei messaggi delle Br è stato il povero Oreste Leonardi, il sottoufficiale
che da quindici anni tutelava l’incolumità di Aldo Moro. Quasi mosso da un oscuro
presentimento, il Leonardi, la mattina del 16 marzo, aveva raddoppiato l’abituale
dotazione di proiettili per la sua pistola. Purtroppo le Br non gli hanno dato il tempo
di servirsene226.
«Osservatore politico» per la trattativa.
Nella fase iniziale del rapimento Moro, Carmine Pecorelli si pronunciò in favore della
fermezza di Stato ma, dall’inizio dell’aprile 1978, cominciò a scrivere numerosi articoli
in favore della possibile trattativa con i terroristi. Con l’articolo In nome del popolo:
trattare… infatti, il giornalista aprì la strada al partito della trattativa. Questo cambio di
posizione sarebbe avvenuto successivamente alla lettera dello statista a Cossiga227.
Al termine di affannose consultazioni, la segreteria democristiana ha deciso di non
trattare con le Brigate rosse lo scambio del presidente Moro […]. Aldo Moro sarà
sacrificato sull’altare della ragion di Stato. Di quale Stato?
Incapace di amministrare la giustizia, incapace di difendere i cittadini, incapace di
punire i disonesti e speculatori, incapace di offrire prospettive al Paese, privo di
225 Aldo Moro da FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 264.
226 Moro era stato minacciato dalle Brigate rosse, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
227 Aldo Moro da FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 265.
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autorità di ordine e di morale, questo Stato oggi si tiene in piedi solo rinnovando il
macabro rituale del sacrificio umano228.
Pecorelli si domandò per quale ragione, gli stessi uomini politici che si congratularono
con la Dc tedesca per aver trattato con il «Movimento 2 giugno» riguardo il rapimento
Peter Lorenz e gli stessi che si indignarono nei confronti della Repubblica Federale
Tedesca per non aver voluto trattare con i terroristi palestinesi nell’attentato di Palma De
Maiorca229, fossero assolutamente contrari alla trattativa per Moro.
Quelli stessi che oggi hanno rifiutato di salvare la vita a Moro, sono gli stessi che ieri
inveivano contro la Germania e contro Israele rei di non voler trattare con i terroristi
palestinesi; sono gli stessi che hanno plaudito alla Dc tedesca disposta a trattare per
Lorenz. Perché allora non trattare per Moro? A chi giova non trattare? La decisione
di non trattare è iniqua e inopportuna, ispirata da una logica perversa e suicida. Non
accettando le trattative, la Dc s’è detta indifferente alla sorte di Moro. Che succederà
se le Br non dovessero restituire il loro legittimo capo ai democristiani?230
Nell’articolo del 18 aprile 1978 «Osservatore politico» scrisse riguardo alla lettera del
prigioniero per la moglie Eleonora, intercettata dalla polizia l’8 aprile e consegnata alla
signora Moro. Pecorelli precisò d’aver preso visione di questa lettera prima del Viminale
e della Procura, dimostrandolo in tale articolo. Sebbene il testo integrale venne
pubblicato da «Op» solo il 13 giugno 1978, fu chiaro che il giornalista ne prese visione
ben prima, probabilmente grazie ai numerosi contatti con la P2, i servizi segreti ed il
Viminale231.
228 In nome del popolo: Trattare…, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
229 In questo articolo Pecorelli si riferisce al rapimento del politico Peter Lorenz, dell’Unione Cristiano
Democratica, rapito nel 1975 e dell’attentato ad opera del gruppo terroristico tedesco Rote Armee
Fraktion del 13 ottobre 1977 a Palma di Maiorca, dove un gruppo di quattro terroristi palestinesi dirottò
un Boeing 737 della Lufthansa, prendendo in ostaggio novantuno persone. La RAF pretese la liberazione
dei propri capi in cambio della vita degli ostaggi dell'aereo e dell'industriale tedesco Schleyer. Il governo
tedesco non si piegò al ricatto dei terroristi ed il 17 ottobre, con un'azione di forza, assaltò l'aereo
uccidendo 3 terroristi e liberando gli ostaggi.
230 In nome del popolo: Trattare…, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
231 «Pecorelli aveva contatti con il sostituto procuratore Luciano Infelisi, titolare dell’inchiesta»,
FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 272.
89
Innanzitutto dobbiamo precisare che le lettere di Moro alla famiglia sono quattro,
perché se è vero che il postino delle Br ha bussato solo tre volte alla porta del prof.
Rana, l’ultima ha recapitato due messaggi di Moro. La lettera più importante è
proprio questa. È scritta con una penna a biro su due fogli, con qualche cancellatura
e qualche ripetizione. Sul suo contenuto nulla è trapelato, perché il prof. Rana non
l’ha mostrata a nessuno, recapitandola personalmente alla moglie di Moro. Ciò
significa che il testo non è ancora stato visto né al Viminale né alla Procura. Per un
doveroso rispetto per il dolore dei familiari, evitiamo di riferire particolari che
riguardano un dramma tutto loro. Ma il nostro dovere professionale ci obbliga a
sottolineare le parti politiche della lettera di Moro, quelle relative alle accuse
all’interno del gruppo dirigente democristiano232.
Dunque il giornalista visionò la lettera prima del dovuto e lo ammise tacitamente
continuando a rivelarne i contenuti del prigioniero riguardo le soluzioni politiche. La
necessità della trattativa, lo scambio di prigionieri, ma soprattutto citando la frase «il mio
sangue ricadrà sulle teste di Cossiga e Zaccagnini»233.
Noi, unica vera voce controcorrente nel coro della stampa italiana, abbiamo detto
subito che bisognava trattare. Ci risulta che la nostra tesi è stata discussa a lungo nel
corso di un vertice del Viminale. Poi, chissà perché, è stata lasciata cadere. Si fosse
almeno cominciato a trattare, il presidente Moro non si sarebbe sentito abbandonato
al suo destino, il Paese non avrebbe dovuto assistere al reciproco crucifige dei suoi
massimi rappresentanti istituzionali. Che succederà adesso? Si sente ripetere dal
solito coro dei giornalisti che c’è il pericolo che Moro riveli alle Br segreti si stato.
Non prendiamoci in giro. Questo non è uno Stato che ha segreti da custodire. Il
pericolo vero è che Moro riveli segreti di uomini politici e partiti. Il processo
Lockheed è appena cominciato: che potrebbe accadere se rivelasse alle Br l’identità
232 La lettera segreta di Moro. Uno spettro s’aggira per i corridoi repubblicani, «Osservatore politico»,
18 aprile 1978.
233 «Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto
nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio
dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento
supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Nessuno si è
pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può
rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue
ricadrà su di loro», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 272.
90
dell’Antilope nazionale234? O l’elenco dei 554 conti svizzeri degli amici di Michele
Sindona?235
Nell’articolo Cade Cossiga, cade Zaccagnini…e dopo? del 18 aprile 1978 Pecorelli
analizzò l’accusa rivolta da Moro nei confronti del collega Emilio Taviani,
considerandola un atto di viltà verso un uomo ormai privo di potere.
Moro ha definito Taviani un «teppista di Stato». Taviani è da tempo un pezzo da
museo, un cadavere nell’armadio politico italiano, prendersela con lui significa voler
fare il maramaldo. In passato, quando era ancora un uomo di potere, dalle pagine
dell’agenzia Op, abbiamo più volte duramente polemizzato con il ministro genovese,
rimproverandogli d’essere stato il primo affossatore dell’ordine pubblico sostenendo
che in Italia esiste un solo terrorismo: quello nero236.
L’articolo fu in riferimento al comunicato numero cinque, recapitato dalle Brigate rosse
intorno alle 17.20 del 10 aprile 1978, con allegato ad esso un una fotocopia del
manoscritto di Moro su Emilio Taviani.
L’interrogatorio del prigioniero prosegue e, come abbiamo già detto, ci aiuta
validamente a capire le linee antiproletarie, le trame sanguinarie e terroristiche che si
sono dipanate nel nostro paese, ad individuare con esattezza le responsabilità dei vari
boss democristiani, le loro complicità, i loro protettori internazionali, gli equilibri di
potere che sono stati alla base trent’anni di regime Dc. L’informazione e la memoria
di Aldo Moro non fanno certo difetto ora che deve rispondere davanti a un tribunale
del popolo. Mentre confermiamo che tutto verrà reso noto al popolo e al movimento
rivoluzionario che saprà utilizzarlo opportunamente, anticipiamo le dichiarazioni che
il prigioniero Moro sta facendo, quella parziale ed incompleta, che riguarda il
teppista di Stato Emilio Taviani237.
234 Il politico italiano primo beneficiario delle tangenti nello scandalo Lockheed era coperto da
pseudonimo «Antelope Cobbler», Ibidem.
235 La lettera segreta di Moro. Uno spettro s’aggira per i corridoi repubblicani, «Osservatore politico»,
18 aprile 1978.
236 Cade Cossiga, cade Zaccagnini…e poi?, Ibidem.
237 Comunicato numero cinque, GOTOR, Il memoriale della repubblica, Einaudi, Torino 2011, p. 6.
91
Attraverso il documento Taviani, Aldo Moro sviluppò delle motivazioni atte a
giustificare una trattativa con le Brigate rosse attraverso lo scambio di prigionieri politici
e mosse una forte critica nei confronti del politico Taviani attraverso la ricostruzione
della sua carriera. Moro accusava il collega d’essere «andato in giro» per tutte le
correnti, portandovi la sua indubbia efficienza ed una grande spregiudicatezza; d’aver
avuto una condotta poco lineare, per le sue alleanze con il Msi e successivamente con il
Pci; per essere sempre stato influenzato dagli ambienti americani e per aver avuto forti
contatti con essi, ma soprattutto per la sua amicizia con l’ex direttore del Sid, Eugenio
Henke. Il documento oltre ad avere un valore rilevante dal punto di vista storico,
considerato parte del memoriale Moro, rivela dei possibili messaggi tra le righe lanciati
dal prigioniero al partito ed al mondo politico. Soltanto al termine della guerra fredda,
infatti, si sarebbe venuto a sapere che Taviani, nel suo periodo al ministero della Difesa e
quando il suo capo di gabinetto fu proprio Henke, fu il fondatore dell’organizzazione
segreta Stay-behind. Tale struttura venne costituita con l’unico scopo di difesa in caso
d’invasione sovietica, o nell’eventuale possibilità che il comunismo dilagasse in Europa.
L’appendice italiana di questa organizzazione, chiamata Gladio, era conosciuta solo da
un manipolo di uomini ai vertici dello Stato238. Dunque il fatto che la prima pagina degli
interrogatori di Moro divulgata attaccasse proprio il fondatore di Stay-behind, scosse
notevolmente questi uomini politici. Pecorelli non poteva saperlo, non cogliendo la frase
di Moro: «vi è forse, nel tener duro contro di me, un’indicazione americana o tedesca?».
Cinque giorni dopo, il 15 aprile 1978, il comunicato numero sei delle Br rivelò la
conclusione dell’interrogatorio e l’inevitabile condanna a morte del prigioniero.
Le Brigate rosse, mediante il solito volantino, annunziano che il «processo» ad Aldo
Moro è terminato e che «l’imputato» è stato condannato a morte. La stampa
commenta in maniera pressoché uniforme, si fa quadrato intorno alle istituzioni in
pericolo, si ribadisce la necessità del non cedimento – benché non appaia ben chiaro
su cosa eventualmente si dovrebbe cedere, dal momento che a tutt’oggi il tribunale
del popolo non adombra neppure l’alternativa alla condanna239.
238 Emilio Taviani, Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Aldo Moro, Giuseppe Saragat, Ugo La Malfa,
Luigi Longo, Ivi, p. 22.
239 Diario dell’irreale assoluto. Sabato 15 aprile: la condanna, «Osservatore politico», 25 aprile 1978.
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Il dossier di «Op» Diario dell’irreale assoluto del 25 aprile 1978, descrisse gli
avvenimenti nei cinque giorni che intercorsero tra il sesto comunicato Br ed il settimo.
Pecorelli dedicò ampio spazio anche al falso comunicato brigatista del 18 aprile 1978,
contenente l’annuncio dell’avvenuta esecuzione di Aldo Moro e le istruzioni per il
ritrovamento del corpo presso il Lago della Duchessa, in provincia di Rieti240. Un
enorme dispiegamento di forze alla ricerca del cadavere di Moro che lo stesso presidente
democristiano, nel suo memoriale, definì «la macabra grande edizione sulla mia
esecuzione»241.
Un volantino anomalo, rachitico, frettoloso e recapitato in una sola città
contrariamente ai precedenti, annuncia l’avvenuta esecuzione per suicidio di Aldo
Moro, ed il suo seppellimento in un laghetto di montagna. I leader dei partiti, sempre
più accasciati e con un che di ambiguo disorientamento, dispongono, pur
nell’incertezza sull’attendibilità del messaggio, le ricerche. La via per il lago
segnalata risulta impraticabile da terra a causa della neve e del gelo degli ultimi
giorni. Si muovono elicotteri che depositano sciatori, esperti anti-valanghe e
sommozzatori sul lago, il quale risulta oltre che coperto di neve fresca priva di
impronte, anche totalmente ghiacciato. Non rimane che perforarlo, e senza alcun
esito. Si dirottano le ricerche su un altro laghetto poco distante, che presenta
caratteristiche meno ostiche e improbabili. Nulla242.
L’articolo collegò il falso comunicato con la scoperta del covo Br di via Gradoli,
avvenuta lo stesso giorno. Per il giornalista si tratto di un’unica operazione
accuratamente pilotata243. Il rifugio venne scoperto grazie ad una fuga d'acqua, che
secondo i vigili del fuoco sembrò essere stata volutamente provocata: uno scopettone era
240 Il 18 aprile 1978 venne diffuso un falso comunicato, contenente l’annuncio dell’avvenuta esecuzione
di Aldo Moro. Venne indicato il luogo dove trovare il cadavere del presidente democristiano, nei fondali
del Lago della Duchessa in provincia di Rieti. Un comunicato falso che il Viminale dichiarò autentico,
FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 281.
241 Ivi, p. 284.
242 Diario dell’irreale assoluto. Lunedì 17 e martedì 18 aprile: la presunta esecuzione e la troppo
inequivocabile scoperta del covo, «Osservatore politico», 25 aprile 1978.
243 «L’infiltrazione d’acqua fu una manovra deliberatamente attuata per provocare la scoperta del covo Br
di via Gradoli 96 senza che ciò provocasse l’arresto di alcun brigatista. La teatrale scoperta del covo
venne sincronizzata con la diffusione del comunicato Br del Lago della Duchessa. E se la scoperta del
covo era chiaramente pilotata, il comunicato numero sette era palesemente falso», FLAMIGNI, Il covo di
Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro, Kaos 1999, p. 49.
93
stato appoggiato sulla vasca, sopra ad esso qualcuno aveva posato il telefono della doccia
in modo che l'acqua si dirigesse verso una fessura nel muro. Anche secondo Alberto
Franceschini, ex Br, la vicenda del Lago della Duchessa e di via Gradoli andrebbero
tenute insieme. Fu un messaggio preciso a chi deteneva Moro, per avvisare le Br che lo
Stato avrebbe potuto catturarli in qualsiasi momento. Un’ulteriore ipotesi avvalorerebbe
l’idea che il covo sia stato fatto scoprire appositamente da qualche brigatista contrario
all'uccisione di Moro. Recentemente Steve Pieczenik, il consigliere americano chiamato
al fianco di Francesco Cossiga per risolvere lo stato di crisi, nel libro Abbiamo ucciso
Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall'ombra di Emmanuel Ammara244,
ammise la sua responsabilità in accordo, con Cossiga, nella creazione di un falso
comunicato. Si rileva il dubbio di Pecorelli sulla vicenda grazie all’articolo Le
allucinanti avventure degli investigatori. Il giornalista, infatti, scrisse «Brigate rosse» e
«terroristi» tra virgolette, quasi a voler insinuare il dubbio riguardo ai veri autori di tale
scritto.
Ricevuta la copia del volantino delle “Brigate rosse” con il quale “i terroristi”,
comunicavano la località dove sarebbe stato abbandonato il corpo di Aldo Moro, gli
inquirenti si precipitano agli elicotteri messi a disposizione della Polizia e dei
Carabinieri per raggiungere nel più breve tempo possibile la zona della Duchessa245.
Il 20 aprile 1978 le Brigate rosse annunciarono, nel vero comunicato numero sette, che la
condanna di Moro sarebbe stata eseguita, lasciando uno specchio di ventiquattro ore per
il possibile scambio di prigionieri. Pecorelli raccontò quelle ore di ultimatum
nell’articolo del 25 aprile, La ventiquattresima ora.
Siamo costretti a chiudere il numero mentre mancano ancora 24 ore alla scadenza
dell’ultimatum delle Br. Trattare o non trattare? Sentiamo ripetere che lo Stato è in
preda al dilemma. Ma il dilemma presuppone una scelta. In questo caso lo Stato,
cioè la Dc e il Pci, si impediscono a vicenda di scegliere. La Dc vive un dramma nel
244 EMMANUEL AMMARA, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce
dall'ombra, Cooper, Roma 2008.
245 Diario dell’irreale assoluto. Le allucinanti avventure degli investigatori, «Osservatore politico», 25
aprile 1978.












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dramma. Partito di cattolici, dovrebbe anteporre il rispetto della vita alle ragioni
della politica. Solo una minoranza di democristiani sembra decisa a non sacrificare
la vita del suo presidente. Se la Dc è divisa, gli altri partiti lo sono altrettanto246.
Il 2 maggio 1978, ad una settimana dal futuro ritrovamento del corpo di Aldo Moro in
via Caetani, «Osservatore politico» offrì un’ampia analisi politica della situazione
italiana nell’articolo Il Paese si può e si deve salvare, cercando di dare un significato al
rapimento ed immaginando le possibili ripercussioni di tale vicenda sul Paese. L’Italia
apparse disorientata: comprese di vivere un momento politico cruciale tuttavia, secondo
il giornalista, non riuscì ad andare oltre questa accettazione. Offrì, inoltre, una nuova
interpretazione dell’eurocomunismo d’un partito scomodo ad entrambe le superpotenze
mondiali.
L’agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro
rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni
in un Paese industriale, integrato nel sistema occidentale. L’obbiettivo primario è
senz’altro quello di allontanare il Partito comunista dall’area del potere nel momento
in cui si accinge all’ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del paese. È
comune interesse delle due superpotenze mondiali mortificare l’ascesa del Pci, cioè
del leader del comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente
guidare un Paese industriale. Ciò non è gradito agli americani, perché altererebbe
non solo gli equilibri del potere economico nazionale ma ancor più i suoi riflessi nel
sistema multinazionale. Ancor meno è gradito ai sovietici. Con Berlinguer a Palazzo
Chigi, Mosca correrebbe rischi maggiori di Washington. La dimostrazione storica
che un comunismo democratico può arrivare al potere grazie al consenso popolare,
rappresenterebbe non soltanto il crollo del primato ideologico del Pcus sulla III
Internazionale, ma la fine dello stesso sistema imperiale moscovita. Ancora una
volta la logica di Yalta è passata sulle teste delle potenze minori. È Yalta che ha
deciso via Mario Fani247.
246 La ventiquattresima ora, «Osservatore politico», 25 aprile 1978.
247 Yalta in via Mario Fani, Ivi, 2 maggio 1978.
95
In previsione delle elezioni amministrative del 14 maggio, l’analisi politica continuò nei
successivi articoli. Sebbene Pecorelli fosse convinto dell’imminente liberazione del
leader democristiano248, descrisse le varie possibilità di governo nel caso della
liberazione di Moro o dell’esecuzione della sentenza del carcere del popolo. In questi
articoli Pecorelli si domandò quanto avrebbe potuto influire e che ruolo avrebbe avuto il
sequestro sull’opinione pubblica, divisa tra gli schieramenti favorevoli alla trattativa, il
Psi di Craxi in primis, e quelli contrari ad ogni dialogo come la Dc o lo stesso Pci.
Se Moro dovesse morire prima delle elezioni del 14 maggio, il Psi potrebbe
affermare che è stata l’intransigenza dei democristiani e dei comunisti ad aver
provocato il drammatico epilogo. Quale sarà allora la reazione dell’elettore Dc
medio? Egli sa che sono stati gli sforzi di Moro a permettere l’ingresso del Partito
comunista al governo, da ciò potrà dedurre che la Democrazia cristiana ha pagato un
prezzo troppo alto se poi questo governo non è riuscito a salvare il suo presidente249.
Poniamo invece che moro possa uscire vivo dall’avventura del sequestro. A
maggior ragione gli uomini della Dc, il Vaticano, gli osservatori esterni,
porterebbero eterna riconoscenza a Craxi. L’unico leader che dicendosi disposto a
trattare ha consentito alle istituzioni il superamento di un difficile scoglio250.
Nel primo caso (Moro morto), sotto la spinta dell’elettorato medio, probabilmente
gli attuali dirigenti Dc potrebbero essi stessi guidare il ritorno al rapporto
preferenziale col Partito socialista. Nella seconda ipotesi ciò è escluso
tassativamente: la Democrazia cristiana dovrà passare attraverso un travagliato e
penoso processo di rinnovamento251.
Il 9 maggio 1978 il corpo di Aldo Moro venne ritrovato nel baule posteriore di una
Renault4 rossa a Roma, in via Caetani. A pochi metri dalla sede della Democrazia
cristiana di Piazza del Gesù e poco distante da quella del Partito comunista italiano in via
delle Botteghe Oscure. I funerali di Stato si svolsero senza la presenza dei famigliari ed
248 «A questo punto è lecito, più che un’ipotesi, formulare una logica e razionale previsione. A nostro
avviso, non solo Moro non sarà soppresso dai suoi rapitori, ma è da ritenersi imminente la sua liberazione
che sarà seguita da cerimonie trionfali e festeggiamenti popolari paragonabili solo all’incoronazione di
Napoleone», Brigate rosse, arcangeli sterminatori arcangeli purificatori, «Osservatore politico», 2
maggio 1978.
249 Se Moro muore, voti alle colombe, Ibidem.
250 Se Moro vive, voti alle colombe, Ibidem.
251 In entrambi i casi la Dc dovrà cambiare linea, Ibidem.
96
in mancanza del corpo dello statista, un segnale di protesta e di rifiuto nei confronti del
mondo politico della famiglia Moro.
Questa è la cronaca del giorno in cui Moro venne ucciso. A Roma, più che dolore la
morte di Moro ha creato sdegno: contro le Brigate rosse che uccidendo il presidente
Dc hanno deluso l’aspettativa popolare la quale, pur senza identificarsi con esse,
sentiva di condividerne non pochi motivi di risentimento verso la classe politica. Ma
sdegno soprattutto contro quest’ultima, accusata non di avere preferito lo Stato alla
salvezza di Moro, ma di evidente e continua incapacità di salvare lo stesso Stato, alla
cui ragione Moro è stato sacrificato252.
In via Caetani Moro è tornato a noi. O fra i suoi. Con un’ironia atroce, le Brigate
rosse l’hanno fatto ritrovare in questa strada, nel centro storico di Roma: a due passi
dal Campidoglio, dal Milite Ignoto e da Palazzo Venezia. A pochissima distanza
dalle sedi di ogni centro di potere, in una strada che corre alle spalle di Berlinguer, e
di Zaccagnini […]253.
E concluse:
«E adesso a chi toccherà?», domanda un uomo vestito in un bellissimo completo di
velluto verde. Un vicino alza le spalle e scoppia in una risata stridula. «A rigore»,
dice, «a rigore dovrebbe toccare a tutti gli altri. A Leone, ad Andreotti e a Cossiga, a
Fanfani, e a La Malfa e anche a Berlinguer. Non perché hanno scelto di salvare lo
Stato e far morire Moro. L’avrei fatto anch’io. Ma perché anche con Moro morto, lo
Stato non lo salveranno. E allora a che cosa serviva la morte di Moro?254».
252 Il giorno del giudizio, «Osservatore politico», 23 maggio 1978.
253 In via Caetani, Ivi, 23 maggio 1978.
254 Ibidem.
97
«Osservatore politico», 13 giugno 1978.
98
Capitolo V
Il memoriale di Aldo Moro.
A trentacinque anni dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro restano
duecentoquarantacinque fotocopie del suo memoriale, una riproduzione degli autografi
dell’interrogatorio al quale venne sottoposto il leader democristiano durante la sua
prigionia. Il documento venne ritrovato in tre diversi momenti, nell’arco di dodici anni.
Otto pagine vennero allegate al comunicato numero cinque delle Brigate rosse, datato
10 aprile 1978, mentre quarantanove fogli furono ritrovati durante il sequestro dei
Carabinieri nel covo brigatista in via Monte Nevoso, il 1 ottobre dello stesso anno.
Durante dei lavori di ristrutturazione nello stesso appartamento, tenuto per anni sotto
sequestro, il 9 ottobre 1990 venne recuperata la terza parte. Un documento manoscritto,
poi battuto a macchina e fotocopiato dai carcerieri, che fu occultato, censurato e
disperso. Carmine Pecorelli, attraverso gli articoli di «Osservatore politico», lasciò
intendere d’aver visionato già dal 1978 la versione ritrovata ufficialmente nel 1990.
Le tre parti del memoriale
Il procedimento di stesura del memoriale dal carcere del popolo risultò complesso ed
articolato. Aldo Moro rispondeva in forma scritta ai quesiti delle Brigate rosse, le sue
risposte venivano battute a macchina e consegnate ad un comitato Br che valutava ed
eventualmente correggeva il testo. Successivamente la correzione veniva riconsegnata al
leader Dc, che riscriveva il testo a mano. Questi testi furono oggetto di studio da parte
dei massimi vertici politici italiani e dalla Stampa che, cercando d’interpretarne il
significato, si domandarono quanto vi fosse realmente di Moro in quelle parole. Lo
scritto contro Taviani, ad esempio, presentò alcune anomalie ed errori che suscitarono
perplessità nel gruppo democristiano. Il prigioniero attaccò lo «smemorato» Taviani, reo
d’aver smentito un’affermazione di Moro contenuta nella lettera a Zaccagnini del 4
aprile 1978. In questa nota il leader democristiano sostenne d’esser stato favorevole, nel
1974, alla trattativa per la liberazione del magistrato Mario Sossi255. L’accusa destò
255 L’operazione «Girasole» avvenne a Genova il 18 aprile 1974. Mario Sossi, sostituto procuratore della
Repubblica presso la Corte di Genova e Pubblico Ministero nel processo al Gruppo XXII Ottobre nel
99
perplessità non solo per l’inesattezza della dichiarazione, in quanto Moro durante il
sequestro Sossi fu realmente per la non trattativa, ma in virtù del fatto che Emilio
Taviani fu uno dei pochi membri del partito a dichiararsi assolutamente disposto a
trattare con le Br per Moro. Taviani ed il gruppo democristiano si domandarono se
questo attacco ingiustificato potesse racchiudere qualche significato nascosto256. Lo
stesso accusato si domandò se Moro, correlando il sequestro del magistrato della Procura
della Repubblica di Genova e l’attacco rivoltogli, volesse far capire d’esser prigioniero
della colonna genovese. A distanza d’anni e con il Memoriale completo delle sue tre
parti, si è in grado di ricostruire e comprendere in maniera più esaustiva i significati ed i
collegamenti scritti dal leader democristiano durante la sua prigionia. I segnali di Moro a
Taviani furono diversi. In un brano dell’interrogatorio, Moro raccontò una conversazione
avuta con il deputato Franco Salvi, capo della sua segreteria politica fino al 1963,
riguardante la strage di piazza della Loggia257 a Brescia nel 1974. Secondo Salvi, in
ambienti giudiziari bresciani si diffuse la convinzione che la Democrazia cristiana fosse
stata troppo indulgente sull’accaduto258. Aldo Moro ricordò nei dettagli la risposta data a
Salvi: «l’accusa, nata dall’effervescenza dell’emozione e vociferazione, era priva di ogni
consistenza. Ma auspicava che il deputato bresciano, non fosse come altri uno
“smemorato259”». In quell’attentato morì anche una parente di Salvi, che Moro non
mancò di citare nei suoi scritti. Una disperata strategia per comunicare con l’esterno
senza che i suoi carcerieri se ne rendessero conto. Una meticolosità nel descrivere
particolari dettagli, quasi a voler smentire i giornali che durante il sequestro parlarono di
un Moro «stoccolmizzato» o peggio, drogato dai suoi carcerieri. In un altro passo del
Memoriale ritornò sulla vicenda Salvi, raccontando ulteriori precisi dettagli e
1973, venne rapito sotto casa verso le otto di sera. Le Brigate rosse chiesero la liberazione dei loro
compagni in cambio della vita del magistrato. Venne rilasciato a Milano il 23 maggio 1974.
256 «Non mancarono quanti sospettarono la presenza di anagrammi e di messaggi in cifra nascosti tra le
righe. In un appunto datato 28 ottobre 1978 il giornalista dell’Ansa Marcello Coppetti annotò che un suo
collega de “Il Popolo” gli aveva rivelato come, durante il sequestro, avesse saputo che proprio nella
lettera su Taviani era presente una frase anagrammata che suonava così: sono sequestrato nei pressi della
Cassia. Coppetti, non poteva esimersi dall’osservare che via Gradioli, si trovava nei pressi della Cassia»,
MIGUEL GOTOR, Il memoriale della Repubblica, Einaudi, Torino 2011, p. 32.
257 La strage di piazza della Loggia avvenne il 28 maggio 1974 a Brescia, nella centrale piazza della
Loggia. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una
manifestazione contro il terrorismo neofascista. L'attentato provocò la morte di otto persone e il ferimento
di altre centodue.
258 «In ambienti giudiziari bresciani si era sviluppata la convinzione d’indulgenze e connivenze della Dc e
si faceva il nome dell’On. Fanfani», GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 25.
259 Ivi, p. 26.
100
commettendo due errori di rilievo. Il primo errore fu cronologico, quando la strage venne
collocata nel 1969; mentre la seconda svista riguardò gli incarichi costituzionali, dove
Moro invertì come ministro degli Interni Rumor al posto di Taviani. Il suo continuo
richiamo negli scritti di Moro e le due sviste narrative portarono a teorie non verificabili.
Probabile che Aldo Moro volesse tirare in ballo Emilio Taviani per alludere a Gladio e
convincere i pochi coinvolti ad utilizzare l’organizzazione per liberarlo dalle Brigate
rosse260.
Con l’operazione «Jumbo» del 1 ottobre 1978 il nucleo speciale del generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa colpì tre covi brigatisti situati nel quartiere milanese di Lambrate.
Nell’appartamento in via Monte Nevoso 8 venne scoperto un archivio, catalogato con
maniacale precisione, delle attività Br dal 1970 al 1978, un paio di macchine da scrivere
Olivetti (Lettera 35 e 32), centinaia di appunti fitti di analisi economiche, rassegne
stampa e diari. La scoperta più importante furono le due cartelline di colore azzurro
contenenti settantotto fogli dattiloscritti, di cui quarantanove fogli appartenenti al
Memoriale Moro. La verbalizzazione dei reperti presenti nel covo durò per cinque giorni
al termine dei quali i Carabinieri furono obbligati a lasciare l’appartamento. «La
decisione di ritirare i militari speciali in favore di quelli territoriali sarebbe stata il
prodotto di un compromesso ai vertici dell’Arma per evitare l’esplosione di un conflitto
aperto dalle imprevedibili conseguenze261». In base alla versione ufficiale l’itinerario a
noi noto dei dattiloscritti di Moro fu il seguente:
nel pomeriggio del Iº ottobre Dalla Chiesa fece un breve sopralluogo nel covo con il
procuratore della Repubblica di Milano Mauro Gresti e il giudice istruttore di Roma
Achille Gallucci, nel frattempo giunto in aereo dalla capitale. Le carte di Moro
verbalizzate furono richieste in copia all’autorità giudiziaria dal ministro dell’Interno
Virginio Rognoni ai sensi del decreto del 21 marzo 1978. Secondo il generale Bozzo
vennero fotocopiate in via Moscova e dunque portate fuori dall’appartamento
quando erano già state verbalizzate per essere consegnate l’indomani dal generale
Dalla Chiesa nelle mani del ministro; secondo Rognoni il ricevimento della
documentazione sarebbe avvenuto dopo qualche giorno. A seguito di un’opportuna
260 VLADIMIRO SATTA, Odissea nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso la documentazione
della Commissione Stragi, Edup, Roma 2008, p. 331.
261 GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 58.
101
valutazione politica, il governo per volontà del ministro dell’Interno, decise di
pubblicarle per evitare polemiche, strumentalizzazioni ed eventuali fughe di
notizie262.
Il colonello Umberto Bonaventura, durante un’audizione della Commissione stragi del
23 maggio 2000, dichiarò che i documenti di Moro furono prelevati da Monte Nevoso
prima della verbalizzazione, per essere fotocopiati e consegnati al generale Dalla Chiesa.
Ma il 1 luglio 2000 il colonnello del Sismi, davanti alla magistratura romana, affermò
d’essersi sbagliato e corresse la sua versione ribadendo che le carte furono sottratte dopo
la loro verbalizzazione263. Nel suo libro di memorie, il capitano dei carabinieri Roberto
Arlati, presente durante l’irruzione nel covo brigatista, confermò la prima versione di
Bonaventura. Le carte uscirono alle ore 11 del 1 ottobre, sostarono nella sede dei
carabinieri di Milano in via della Moscova fino alle 17.30 e poi fecero ritorno nel covo,
dopo essere state esaminate dal generale Dalla Chiesa. Solo allora vennero verbalizzate.
Sostenne che Bonaventura prelevò le carte contro la sua volontà perché Dalla Chiesa
le voleva leggere in privato. Arlati avrebbe voluto che l’ufficiale fosse scortato da un
altro carabiniere, ma Bonaventura gli rispose nel modo più insinuante possibile
nell’ambito di un rapporto gerarchico fra militari e non solo: «E che fai, non ti fidi di
me? Tranquillo, giusto il tempo tecnico delle fotocopie. Ti faccio riavere tutto.
Insomma Roberto, te lo già detto. Faccio fare le fotocopie e ti restituisco il tutto»264.
Per Arlati l’incartamento, al ritorno in via Monte Nevoso, sembrò «lievemente più magro
di quello che aveva affidato al mattino a Bonaventura», inoltre sette ore parvero
decisamente troppe per una semplice commissione di fotocopiatura. Considerando che
Bonaventura ritrattò, trentacinque anni dopo i fatti, vi sarebbe dunque solo un testimone
oculare in grado d’affermare che i dattiloscritti uscirono dal covo prima di venire
verbalizzati. Il dubbio sulla testimonianza di Arlati è legittimo, e restano inspiegabili le
motivazioni per cui il capitano abbia deciso di cambiare versione solo dieci anni fa,
262 Ivi, p. 60.
263 MANLIO CASTRONUOVO, Vuoto a perdere. Le Brigate rosse, il rapimento, il processo e
l'uccisione di Aldo Moro, Besa 2008, p. 414.
264 GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 62.
102
ricordando la sua indignazione, dopo la scoperta nell’intercapedine dell’appartamento
nel 1990, per coloro che azzardarono un’ipotesi di sparizione di materiale documentale.
Anche la magistratura milanese dichiarò davanti alla Commissione stragi di ritenere che i
carabinieri non potessero aver compiuto tale atto, difendendo la memoria di Dalla
Chiesa265. In un’intervista del Corriere della Sera del 19 aprile 1993, inoltre, Franco
Bonisoli, ex brigatista presente alla strage di via Fani, affermò che tutti gli interrogatori
dell'onorevole Moro furono ritrovati e pubblicati.
Per quanto riguarda le carte ritrovate nel 1990 sono convinto che si sia trattato di un
errore umano. E mi spiego. Quando mi arrestarono, pensai: hanno trovato le carte di
Moro. Erano, infatti, lì nel mio appartamento. Qualche giorno dopo, quando lessi il
verbale della perquisizione, fatto dai carabinieri, e non trovai segnate quelle carte,
oltre a cinquanta milioni che erano sempre conservati in via Monte Nevoso,
cominciai però a dubitare. Vuoi vedere che qualcuno all' interno degli apparati dello
Stato li ha trafugati? Era un chiodo fisso: vogliono eliminare, continuavo a ripetere,
la prova che il contenuto dei dattiloscritti di Moro, già pubblici, è autentico. Nel
1990, all'indomani della seconda scoperta di via Monte Nevoso, fui interrogato dal
sostituto procuratore Ferdinando Pomarici. Mi mostrò le foto del covo scattate dai
carabinieri dopo l'irruzione nel 1978. Riuscimmo a fare una ricostruzione dettagliata
di quanto avvenuto. Capii che i carabinieri dei nuclei speciali, che noi delle Brigate
Rosse consideravamo infallibili, avevano commesso un errore. Nell'appartamento
c'era tanto materiale. Moltissimi documenti. Ovunque. Ebbene, quegli stessi
carabinieri non avevano ritenuto necessario cercare ulteriori piccoli e normalissimi
nascondigli. […] Era un nascondiglio che ritenevamo una semplice precauzione nel
caso fossero entrati in casa o ladri o persone comunque esterne all'organizzazione.
Mi sembra normale. Le fotocopie integrali degli interrogatori di Moro erano in quel
nascondiglio266.
265 «Non in questo caso, in particolare non con quei carabinieri. Con loro, ho condiviso più notti di quante
non ne trascorressi a casa mia in quel periodo con i miei figli», il pubblico ministero Armando Spataro
alla Commissione Stragi, Ivi, p. 67.
266 Intervista a Franco Bonisoli, «Corriere della Sera», 19 aprile 1993.
103
Nel 28 maggio 1993, l’ex sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei
ministri, Franco Evangelisti raccontò di un incontro notturno avuto con Dalla Chiesa
l’indomani di Monte Nevoso.
Venne a trovarmi verso le due di notte e mi fece leggere un dattiloscritto di circa
cinquanta pagine, nelle quali si parlava anche di me, e mi disse che proveniva da
Moro e che il giorno successivo lo avrebbe consegnato ad Andreotti. Non ho saputo
se effettivamente Dalla Chiesa si sia recato da Andreotti267.
Il 6 ed il 7 ottobre 1978, «Repubblica» pubblicò tre articoli riguardanti presunte
rivelazioni sulle carte di Moro sottratte dal covo brigatista. Si tratta degli articoli di
Giorgio Battistini Altre due lettere inedite e Tutto contro Andreotti il memoriale di Moro.
Sono stati svelati anche segreti di Stato? ed Il generale tace e il giudice ignora di
Giorgio Bocca. Sebbene inizialmente questi articoli causarono un caos politico, la scelta
dei giornalisti di mantenere segreta la loro fonte rese inattendibile e quasi fantasiosa la
denuncia di Repubblica. La fonte segreta venne rivelata nel processo di Palermo contro
Giulio Andreotti del 7 novembre 1995. Battistini confessò d’aver avuto una serie
d’incontri segreti con il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, uomo fidato di Dalla
Chiesa.
Galvaligi mi disse che il generale Dalla Chiesa era entrato nel covo di via Monte
Nevoso alcune ore prima che arrivassero i magistrati e che con il materiale originale
rinvenuto (una settantina di cartelle dattiloscritte con errori di battitura, un nastro
registrato e/o una videocassetta) era stato portato a Roma da due ufficiali dei
carabinieri “a qualcuno molto in alto… a chi di dovere. Galvaligi usò queste
espressioni, ma non volle assolutamente farmi il nome di questa persona, che
comunque non apparteneva né alla magistratura, né all’Arma dei Carabinieri, bensì
al mondo politico istituzionale. Aggiunse che il materiale portato a Roma conteneva
parti in cui Moro parlava in termini molto duri di fatti riguardanti Andreotti. Parlava
di questo materiale e del suo contenuto in termini tali da indurmi a pensare che egli
l’avesse personalmente visionato268.
267 Franco Evangelisti cit. in GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 105.
268 Giorgio Battistini cit. in GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 97.
104
A seguito di tale incontro, il giornalista tornò in redazione e raccontò di quanto avvenuto
al direttore del giornale, Eugenio Scalfari. Quest’ultimo suggerì di contattare
telefonicamente Galvanigi per assicurarsi che fosse la stessa persona incontrata da
Battistini. Confermata l’identità dell’uomo decisero di pubblicare la notizia tacendo la
fonte e sdoppiando la responsabilità della pubblicazione, coinvolgendo anche una firma
di prestigio del quotidiano come Giorgio Bocca. La versione dei fatti venne confermata
davanti ai magistrati da Scalfari, Giorgio Bocca e da Giampaolo Pansa, anche lui al
corrente dei fatti. Il militare chiese un ulteriore incontro con Battistini il giorno
successivo, il 7 ottobre 1978.
In quella circostanza precisò che nel memoriale si affrontavano diciassette
argomenti, dall’inizio della militanza politica di Moro nell’azione cattolica, ai
rapporti internazionali, ai servizi segreti e ai misteri di Stato e che, in alcuni di essi,
Moro attaccava pesantemente il presidente del Consiglio Giulio Andreotti269.
Negli anni successivi al rapimento Moro, dunque, una serie di dichiarazioni lasciarono
intendere che più di un testimone oculare avesse letto già dal 1978 la versione che
venne ritrovata ufficialmente solo nel 1990. Altri testimoni affermarono d’aver
visionato un’ulteriore versione di memoriale che non corrispose, per ampiezza, ai
dattiloscritti divulgati dal governo il 17 ottobre 1978 ed alle riproduzioni dei manoscritti
ritrovati nel 1990. Tra questi, Carmine Pecorelli.
«Osservatore politico» contro lo Stato.
Nell’articolo del 10 ottobre 1978 Verità di ieri tragedie di oggi, Carmine Pecorelli
risollevò la questione della trattativa per la liberazione di Moro. Prendendo ad esempio i
segreti accordi dello Stato con i terroristi palestinesi, liberazione di prigionieri politici in
cambio d’immunità terroristica territoriale, colse l’occasione per aggredire le scelte
politiche nei confronti delle Brigate rosse.
269 Ivi, p. 98.
105
Con assoluta lucidità mentale (dove sono andate a finire le menzogne di Zaccagnini
e Cossiga a proposito di Moro drogato, Moro fuori di sé, Moro impazzito?) [nelle
sue lettere] Moro ha tracciato una perfetta analogia tra la sua condizione di
prigioniero minacciato di morte da terroristi politici organizzati e quella di tanti e
tanti innocenti e ignari italiani che negli ultimi anni hanno corso il pericolo di
perdere la vita in attentati e stragi minacciati dai palestinesi. «Dunque non una ma
più volte furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche
condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in
essere se fosse continuata la detenzione». Moro si riferisce a quell’accordo anomalo
stabilito al di fuori dello Stato ma sotto il controllo dello Stato, grazie al quale l’Italia
non è stata teatro di quei dirottamenti aerei, stragi ed attentati che tante vittime e
danni hanno provocato in Europa a partire dal’72. In quell’anno agenti del Sid
informarono il governo che terroristi palestinesi stavano preparando attentati agli
aeroporti italiani. Rumor e Moro giudicarono che l’unica strada per impedire che
l’Italia diventasse terreno di manovra dei palestinesi era quella di trattare con
Habash270 una sorta di mutuo patto di non aggressione. L’accordo stabilito dal Sid,
con l’unica misteriosa eccezione della strage di Fiumicino271, fu sempre rispettato. A
questo punto non resta che da chiedersi perché quelle trattative anomale impossibili
ed inammissibili in forma ufficiale, ma tuttavia stabilite dal superiore interesse dello
stato con i terroristi palestinesi, sono state prontamente scartate quando si trattava di
salvare la vita di Moro. Perché si è preferito seguire la grottesca via di Cossiga con i
suoi blocchi stradali, le mobilitazioni generali dell’esercito, le perquisizioni a caso su
interi quartieri, una via buona per far saltare i nervi ai custodi di Moro, e avvicinare
l’ora della tragedia finale, quando l’unica strada vincente conosciuta dallo Stato, una
strada che avrebbe consentito alle istituzioni di uscire dalla vicenda Moro con
fermezza e dignità rafforzate, era quella di trattative, anche se lunghe e laboriose?272
«Osservatore politico» ripropose la tesi secondo la quale i brigatisti si sarebbero potuti
accontentare di uno scambio simbolico da parte dello Stato, proprio come con i
270 George Habash fu il fondatore del Movimento nazionalista arabo, dalla cui sezione palestinese nacque
il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina nel 1967.
271 Il 27 dicembre 1985 un gruppo di uomini armati, dopo aver gettato bombe a mano, aprirono il fuoco
con raffiche di mitra sui passeggeri in coda per il check-in dei bagagli presso gli sportelli della compagnia
aerea nazionale israeliana El Al e della americana TWA, colpendo le loro vittime in modo indiscriminato.
272 Verità di oggi tragedie di oggi, «Osservatore politico», 10 ottobre 1978.
106
palestinesi. Allo stesso tempo mosse il dubbio che la liberazione del prigioniero sarebbe
potuta risultare scomoda per alcune strutture statali.
Ieri, trattare con i palestinesi non provocava alterazioni negli equilibri politici di
Montecitorio, Piazza del Gesù e Palazzo Chigi. Trattare con le Br invece, seguire la
via delle lettere, riportare Moro sano e salvo alla guida della Dc o addirittura al
Quirinale, avrebbe provocato un terremoto: il recupero di quelle strutture dello Stato
colpevolizzate e emarginate grazie ad istruttorie giudiziarie pilotate, e la fine della
cordiale, troppo cordiale intesa, tra il Partito comunista di Berlinguer e la Dc di
Zaccagnini. Per scongiurare pericoli del genere, è piccola cosa anche un sacrificio
umano. Dio solo sa quanto male può venire da questo male273.
Pecorelli incalzò la sua tesi nel successivo articolo del 17 ottobre 1978:
Diciamolo chiaro, in agosto Dalla chiesa sapeva già come e dove colpire le Br.
Probabilmente avrebbe saputo cosa fare anche in epoca precedente. Allora perché si
è ricorsi a lui soltanto a settembre? Perché non si è chiamato Dalla Chiesa subito
dopo la strage di via Fani, quando Moro, ancora vivo, era nelle mani delle Br? Uno
Stato, forte di un Dalla Chiesa, avrebbe potuto avviare trattative con i terroristi con
grosse probabilità di successo, specie disponendo di qualche buona pedina di
scambio. Purtroppo non era gradito alla maggioranza dell’arco quel “partito delle
trattative” che consigliava non già di cedere alla violenza, ma di salvare la vita di
Moro attraverso più duttili e meno pubblicizzati comportamenti dello Stato e delle
forze dell’ordine. Cossiga e Pecchioli, Zaccagnini e Berlinguer, intendevano
sfruttare l’emozione popolare provocata dal sequestro Moro per costruire un partito
unico, “cattocomunista”, e chiamavano a raccolta le piazze “bianche” e “rosse” in
nome di una non meglio precisata emergenza. Prima di rivolgersi all’Arma dei
carabinieri, prima di unificare nelle mani di un vero tecnico il comando
dell’antiterrorismo, hanno preferito attendere che si maturasse l’uva e si compisse il
peggio274.
273 Ibidem.
274 Perché solo adesso?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
107
Nel successivo articolo, pubblicato sotto forma di lettera al direttore, un immaginario
abbonato di «Op» pose al giornalista delle domande alla quale Pecorelli rispose
immediato. Si tratta di un testo pieno d’allusioni, virgolette, punti di sospensione, in un
immaginario botta risposta.
Signor Direttore, permetta un piccolo scritto da un suo affezionato lettore, che dopo
l’estate si è posto una domanda: «Cossiga sa tutto su Moro ma non parla?». E si è
risposto da solo: «non parlerà mai, altrimenti…» […]. Dice: ma il ministro non ne
sapeva niente, la Digos non ha scoperto nulla. I servizi poi… Si ribatte: il ministro di
polizia sapeva tutto, sapeva persino dov’era tenuto prigioniero; dalle parti del
ghetto… Dice: il corpo era ancora caldo… perché un generale dei Carabinieri era
andato a riferirglielo di persona nella massima segretezza. Dice: perché non ha fatto
nulla? Risponde: il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire
più in alto e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla loggia di Cristo in
Paradiso?275
Secondo questo articolo la prigione di Moro venne individuata senza nessuna difficoltà
dalla polizia che sarebbe stata bloccata da Cossiga. Il ministro, prima d’agire, avrebbe
dovuto consultare quella che Pecorelli definì «entità superiore», probabilmente
alludendo alla Loggia massonica Propaganda Due276.
Fatto sta, si dice, che la risposta il giorno dopo di quando il ministro la sentenziò fu
lapidaria: «Abbiamo paura di farvi intervenire perché se per caso ad un carabiniere
parte un colpo e uccide Moro, oppure i terroristi lo ammazzano, poi chi se la prende
la responsabilità?». Risposta da prete. Non se ne fece nulla e Moro fu liquidato
perché se la cosa si fosse risaputa in giro avrebbe fatto il rumore di una bomba! […]
C’è solo da immaginarsi, caro Direttore, chi sarà l’Anzà277 della situazione: ovvero
275 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
276 «Un superpotere che il giornalista insinua essere la P2 con le parole “due piedi” e “loggia di Cristo”»,
FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370.
277 «Il generale Antonino Anzà venne ritrovato morto nel suo studio il 12 agosto 1977. L’ufficiale era
stato colpito da un colpo di pistola alla testa, nella sua casa di Roma. L’immediata versione dei fatti
attribuisce il decesso al suicidio, ma l’arma era appoggiata alla scrivania, a due metri di distanza dal
corpo. Qualche giorno prima, a Messina, anche il colonnello Giansante venne ritrovato morto. In quel
periodo, si scoprirà successivamente, erano in gioco gli avvicendamenti al vertice degli stati maggiori di
Esercito e Difesa ed all’interno dei Corpi erano sorte faide per aspirare alle due cariche», GUARINO –
108
quale generale dei Cc sarà ritrovato suicida con una classica revolverata che fa tutto
da se, o col solito incidente d’auto radiocomandato, o la sbadataggine dei camionisti
spagnoli, o d’elicottero278. Sotto a chi tocca: chi sfida l’Internazionale fa questa fine
in questa Italia democratica. […] Purtroppo il nome del Generale Cc è noto279:
Amen280.
Tracce del memoriale negli articoli di «Osservatore politico». Pecorelli sapeva?
Nel’articolo del 17 ottobre 1978 intitolato Fase di attesa, il giornalista espresse i suoi
dubbi sulla effettiva quantità di materiale sequestrato nel covo di Monte Nevoso. Con
toni interrogativi espresse la sua convinzione riguardo alla possibilità che determinate
prove scomode potessero essere state insabbiate, tra le quali accennò ad un verbale e ad
alcune bobine degli interrogatori effettuati dalle Br con il prigioniero.
Il fatto politicamente più importante è stato certamente la brillante operazione
condotta dai Carabinieri del generale Dalla Chiesa contro le Brigate rosse a Milano
che ha tuttavia aperto, come è ormai consuetudine, numerose polemiche circa il
numero e l’identità degli arrestati, circa la quantità e la qualità del materiale
sequestrato. Ci sono o non ci sono le bobine con gli interrogatori di Moro, c’è o non
c’è il memoriale-verbale di questi stessi interrogatori? I magistrati sono arrivati
buoni ultimi a prendere visione di tutto ciò, e quali politici ne sono già al corrente
avendo avuto la possibilità di operare qualche prudenziale censura?281
Il primo indizio d’una lettura precoce del memoriale da parte di Pecorelli lo si può
trovare nello stesso numero di «Osservatore politico», nell’articolo Necrologi &
Memoriali. In tale scritto il giornalista commentò la morte, avvenuta a Lugano il 29
settembre 1978, del politico democristiano Giuseppe Arcaini. Deputato alla Costituente e
sottosegretario al Tesoro dal 1954 al 1957, Arcaini venne nominato direttore dell’istituto
RAUGEI, Gli anni del disonore. Dal 1965 il potere occulto di Licio Gelli e della loggia P2 tra affari,
scandali e stragi, Dedalo, Bari 2006, p. 155.
278 Carmine Pecorelli si riferì al generale dell’Arma dei carabinieri Enrico Mino, coinvolto in un incidente
mortale, dalle circostanze misteriose. L’elicottero precipitò su monte Covello, Catanzaro, il 31 ottobre
1977, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370.
279 «Qui Pecorelli allude in modo piuttosto chiaro al generale Dalla Chiesa», Ibidem.
280 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
281 Fase di attesa, Ivi, 17 ottobre 1978.
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di Credito delle Casse di Risparmio italiane, chiamato Italcasse. Coinvolto nello
“scandalo Italcasse”, si dimise nel 1977 con l’accusa di peculato, interesse privato verso
alcuni fondi neri e mutui concessi ad amici imprenditori ed al mondo politico. Nel
1977282 «Osservatore politico» pubblicò l’elenco, completo di codici bancari, di una
serie d’assegni incassati dalla Democrazia cristiana, in particolar modo da Andreotti, in
cambio di finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto283. Nel numero del 17
ottobre 1978 Pecorelli scriveva:
Morto il grande elemosiniere, i grandi elemosinati sono usciti dall’incubo. Arcaini
ha comunque lasciato in mani sicure un lungo memoriale per difendere il suo onore e
quello dei figli. Che succederebbe se nei prossimi giorni alle lettere di Moro si
aggiungesse la voce di questo secondo sepolcro?284
Il dato rilevante è l’appellativo con cui Pecorelli definì Arcaini «grande elemosiniere».
In relazione al direttore di Italcasse Aldo Moro usò la stessa denominazione, sebbene il
riferimento sia riscontrabile solamente nella versione del memoriale ritrovata
ufficialmente nel 1990. Pecorelli inoltre si ripeté nell’articolo Intanto Caltagirone si
compra un’altra banca del 24 ottobre 1978, collocando la stessa espressione tra le
virgolette. Tale accorgimento potrebbe apparire come una chiara intenzione, del
direttore Op, di dimostrare la sua pericolosa conoscenza riguardo gli interrogatori Br e
la vicenda Italcasse. Nel 1978 l’unico accenno allo scandalo si trovò negli articoli di
Galvaligi pubblicati da Repubblica, sebbene poco rilevanti poiché riferiti a dattiloscritti
non firmati e dunque non attribuibili ad Aldo Moro. Sebbene non vi sia certezza
riguardo la prematura visione degli scritti morotei da parte di Carmine Pecorelli, né si
conoscono le reali intenzioni del giornalista, «Osservatore politico» continuò ad offrire
indizi che potrebbero avvalorare tale ipotesi. Li riscontriamo nell’articolo Filo rosso del
17 ottobre 1978, nel quale si parlò di quattro polaroid di Moro dei giorni della prigionia
e centocinquanta fogli di carta extrastrong scritti dallo stesso presidente. Circostanze
282 Presidente Andreotti a lei questi assegni chi glieli ha dati?, «Osservatore politico», 14 ottobre 1977.
283 «Contributi a fondo perduto che l’Italcasse aveva elargito, fra gli altri, al gruppo chimico Sir di Nino
Rovelli, ai fratelli Caltagirone e alla società “Nuova Flaminia”, facente capo a Domenico Balducci,
organico alla banda della Magliana e al mafioso Giuseppe Calò», GOTOR, Il memoriale della
Repubblica, p. 225.
284 Necrologi & Memoriali, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
110
che vennero riscontrate solamente nel 1990. L’articolo Non c’è blitz senza spina,
contenuto nel numero del dossier del 24 ottobre 1978 Caso Moro: memoriali veri
memoriali falsi, gioco al massacro, fece riemergere la questione dei verbali
dell’interrogatorio Br già citati la settimana precedente.
Dalla Chiesa ha trovato ad attenderlo una bomba senza spoletta. Accanto a
documenti strategici di grande importanza e probabilmente sottovalutati dagli
inquirenti, accanto ad alcune mappe di prigioni sicure, all’elenco dei nomi di alcuni
capi colonna per la prima volta dimenticati in un nido terrorista, accanto alle schede
segnaletiche di alcuni nemici del popolo da sparare al più presto, c’erano:
- la ricostruzione del sequestro di Moro, secondo il punto di vista della Direzione
strategica dei brigatisti;
- considerazioni autocritiche sull’operazione militare di via Fani e sulla gestione
degli sviluppi;
- il memoriale scritto da Moro durante i 54 giorni di prigionia;
- gli schemi di alcune lettere che Moro non fece in tempo a scrivere;
- i testi di 6 lettere complete, anch’esse non inviate al destinatario;
- alcuni nastri con la viva voce del memoriale Moro285.
Pecorelli rispose agli interrogativi posti nel precedente articolo fase di attesa del 17
ottobre, lo fece evidenziando la notizia in corsivo quasi a volerne sottolinearne la portata.
Nello stesso articolo, non c’è blitz senza spina, si parla di stralci del memoriale riferiti a
Miceli e De Lorenzo.
Il memoriale Moro è un detonatore. Consegnato subito alla magistratura, il materiale
rinvenuto da Dalla Chiesa era protetto dal più rigoroso segreto istruttorio286. Ciò
nonostante due settimanali hanno pubblicato alcuni passi a loro avviso tratti dal
memoriale287. Non è la prima volta che in Italia il segreto istruttorio non viene
rispettato. Ma qui si tratta di affermazioni gravissime scagliate contro l’intero attuale
staff del partito di maggioranza, di accuse specifiche e ben determinate che
285 Non c’è blitz senza spina, «Osservatore politico», 24 ottobre 1978.
286 «Il segreto istruttorio è valido per il materiale effettivamente consegnato alla autorità giudiziaria: ma
Pecorelli ha già scritto che i magistrati arrivarono per ultimi, dopo che sul materiale era calata una
prudenziale censura», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 374.
287 Probabilmente Carmine Pecorelli si riferiva anche alla vicenda Galvaligi.
111
coinvolgono personaggi di spicco nei più clamorosi casi giudiziari degli ultimi
vent’anni. Chi avrebbe mai azzardato la carriera per favorire un giornalista amico?
La custodia del segreto giovava sia all’esecutivo che ai partiti dell’area di governo,
ma frasi, dettagli, giudizi di Moro, allusioni ai risvolti istituzionali dello scandalo
Lockheed, a Piazza Fontana, all’Italcasse, hanno egualmente raggiunto certa stampa,
polarizzando subito l’attenzione dell’opinione pubblica. Se il detonatore è il
memoriale, la bomba è proprio questa degli scandali e delle rivelazioni. […] C’è chi
sostiene che quegli stralci del memoriale Moro che si riferiscono a Miceli e De
Lorenzo non possono che essere veritieri288.
Il memoriale del 1978, in effetti, riportava ampi brani relativi a De Lorenzo. Mentre né
quello del 1978, né la versione manoscritta del 1990 si soffermava su Vito Miceli, il cui
nome compare solamente in una citazione relativa alla strategia della tensione. Da
sottolineare che in questo unico passaggio relativo a Miceli ed ai servizi segreti, Moro
inserì un doppio rimando289 che ad oggi non ha ancora trovato corrispondenza in nessuna
carta del memoriale. Che cosa volesse dire realmente Pecorelli non è possibile stabilirlo,
ma è un primo indizio per coloro che sostengono la teoria dell’esistenza di un Urmemoriale
di Moro, un testo tutt'oggi censurato e coperto da segreti di Stato. Nei
successivi numeri di «Osservatore politico» si continuò a parlare di un presunto
Memoriale censurato, sollevando dubbi sull’integrità delle carte che vennero rese note
nel 1978. Nel numero del 31 ottobre 1978, Carmine Pecorelli sottolineò due gravi
contraddizioni a riguardo.
La lettura del testo del memoriale Moro diffuso a cura del ministero dell’Interno, che
ha già sollevato dubbi sulla sua integrità e sulla genuinità, presenta due altre gravi
contraddizioni ancora da risolvere:
- nel memoriale, Moro sembra convinto che le sue ammissioni – confessioni
gli possano servire per la libertà. La contraddizione è questa: come poteva
un Moro, tutto sommato lucido, credere che il racconto di fatti già noti,
288 Non c’è blitz senza spina, «Osservatore politico», 24 ottobre 1978.
289 «Ho già detto altrove – ho già detto», GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 231.
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senza aggiunta di particolari significativi e nuovi, potesse farlo uscire sano e
salvo dal carcere delle Br?290
A questa contraddizione si rispose sostenendo la tesi di una marcata carenza teorica delle
Brigate rosse, un gruppo dunque efficiente dal punto di vista operativo ma incapace di
comprendere le reali verità che Moro avrebbe potuto rivelargli. Secondo Pecorelli questa
ipotesi è insostenibile.
A Milano, oltre al memoriale in due copie, sono stati trovati ben cinquemila
documenti inventariati, tra i quali alcuni che per una corretta interpretazione
richiedono un buon livello di competenza, tale dunque da rendere i carcerieri –
interroganti (o chi poi doveva ascoltare le bobine o leggere le trascrizioni291) in
grado di capire il valore insignificante delle dichiarazioni del presidente della Dc.
Gli interrogativi a questo punto si sommano spontanei: è vero che le Br hanno
promesso a Moro la libertà in cambio di determinate dichiarazioni? Il testo delle
dichiarazioni è stato, diciamo così, “concordato” tra Moro e i suoi carcerieri in modo
da assumere una intonazione antidemocristiana ma non eccessivamente
destabilizzante? Esiste infine un altro memoriale in cui Moro sveli invece importanti
segreti di Stato?292
Come sappiamo questo interrogativo verrà risolto in via Monte Nevoso nel 1990, quando
vennero ritrovate fotocopie dei manoscritti dove il leader Dc affrontò tematiche che nel
1978 sarebbero state altamente destabilizzanti per il mondo politico. Nello specifico e
principalmente riguardanti la struttura segreta della Nato «Stay Behind» e «Gladio». Nel
paragrafo successivo, Caso Moro. Un memoriale mal confezionato, Pecorelli dimostrò
d’essere a conoscenza delle manipolazioni subite dal memoriale.
La bomba Moro non è scoppiata. Il memoriale, almeno quella parte recuperata nel
covo milanese, non ha provocato gli effetti devastanti tanto a lungo paventati […].
290 Contraddizioni e nuovi interrogativi, «Osservatore politico», 31 ottobre 1978.
291 Pecorelli insiste sull’esistenza di bobine degli interrogatori che tutt’oggi non sono presenti.
292 Ibidem.
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Giulio Andreotti è un uomo molto fortunato ma a spianare il suo cammino questa
volta hanno contribuito una serie di circostanze, solo in parte fortuite293.
Ne diede prova, ancora, nei successivi numeri. In Brigate senza generali, infatti,
«Osservatore politico» sottolineò nuovamente che il memoriale reso pubblico non fu
tutto il memoriale scritto da Aldo Moro. Pecorelli mosse forti critiche nei confronti delle
Brigate rosse, colpevoli di non aver fatto trapelare nessuna notizia, rendendo gli scritti
innocui.
Ce li avevano dipinti come superuomini, invincibili e imprendibili banditi che
coprono di sangue via Fani, sequestrano ed uccidono Aldo Moro, entrano ed escono
a piacere dai più sorvegliati ed esclusivi uffici della capitale, infiltrano le loro spie in
alcuni delicati ministeri. Programmati come computer avveniristici, i terroristi delle
Brigate rosse diventati interlocutori di Paolo VI e del presidente dell’Onu294,
sembravano dei satelliti artificiali al paragone della fariginosa macchina del nostro
Stato. Che resta di quest’immagine di efficienza e di perfezione, dopo la
pubblicazione del dossier Moro? Dov’è la loro intelligenza superiore, è questo il
cervello del partito armato della rivoluzione? Perché sosteniamo che le Brigate rosse
sono un esercito di killer senza cervello e senza idee? È lo stesso memoriale Moro a
parlare. Anche se resta da stabilire perché “la Repubblica” dell’8 ottobre scriveva:
«Ieri è arrivata la conferma della magistratura. Le settanta pagine del dossier ci
sono», e perché il verbale del processo Moro distribuito alla stampa dal Viminale è
di solo quarantanove cartelline; anche se resta da stabilire se è tutto qui il materiale
raccolto dalle Br in cinquantaquattro giorni di interrogatori, posto che per compilare
cinquanta cartelle occorrono tre ore di conversazione, il memoriale Moro che tutti
conosciamo è tutto di Moro, cioè è tutto vero. Gli unici sbagliati sono gli
interlocutori. Lo abbiamo letto più volte, con grande attenzione. Non contiene nulla
che non sapesse già l’ultimo degli uscieri di Palazzo Madama. Sono forse
sensazionali i giudizi personali di Moro su Andreotti, sono forse sensazionali le
rivelazioni sulla «strage di Stato» o sulle faide tra ministeri per il controllo dei
293 Caso Moro. Un memoriale mal confezionato – L’ultimo messaggio è il primo, «Osservatore politico»,
31 Ottobre 1978.
294 GIACOMO FIORINI, Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Interventi di Paolo VI. Dibattito e
Riflessioni, Università degli studi di Padova, tesi di laurea, rel. Prof. G. Romanato, a.a. 2007 - 2008.
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servizi segreti? È roba trattata con larghezza di immaginazione da “Lotta continua” e
dalla stampa extraparlamentare295.
Dopo due mesi di silenzi sull’argomento, «Osservatore politico» tornò a parlare del
memoriale Moro, il 2 gennaio 1978, nell’articolo Silenzio di regime sul primo furto in
casa Moro. La tematica principale riguardò il furto nell’ufficio di Moro in via Savoia,
avvenuto nel dicembre del 1975, di alcuni documenti riguardanti il golpe Borghese.
Secondo il giornalista, il leader democristiano avrebbe voluto non far trapelare la notizia
di tale sottrazione di documenti, notizia che venne comunque trapelata alla stampa.
La storia del caso Moro deve essere ancora scritta. I retroscena della vicenda sono
ancora misteriosi e chissà ancora per quanto resteranno tali. Ai cronisti sembra
essere sfuggito, tra l’altro, un episodio: il furto verificatosi nell’ufficio di Aldo Moro
fra il Natale e il Santo Stefano del 1975. I ladri mirarono ad impossessarsi solo di
documenti. E non va dimenticato che in via Savoia 85 prestavano servizio di
sorveglianza una gazzella della Polizia e una Alfetta dei Carabinieri! Si trattò di ladri
tanto in gamba da farla in barba al servizio di vigilanza? O bisogna sospettare il
peggio?
Possiamo affermare che Moro, appena saputo dell’accaduto, esattamente il 27
dicembre, chiamo al telefono l’allora comandante generale dell’Arma dei
carabinieri, gen. Mino, per chiedergli di tacere sul fatto ed adoperarsi affinché la
notizia non venisse divulgata. Tuttavia il 28 dicembre qualche agenzia diffondeva un
breve e conciso comunicato sulla vicenda. Quale era il contenuto degli incartamenti
trafugati? Negli ambienti della Procura di Roma, da dove secondo i Carabinieri la
notizia era stata passata alla stampa, c’era chi sosteneva che tra le cartelle sottratte vi
fosse un dossier sul golpe Borghese. […] Del resto era notorio che Moro nutrisse un
particolare interesse per quella istruttoria, dato che dietro di essa si nascondeva la
mano di un suo collega di partito. La cosa trova conferma nelle affermazioni di
Moro prigioniero, secondo le quali tutto il processo Borghese è stato manipolato per
fini personali e politici. Moro sapeva molto sul golpe Borghese. E sapeva bene chi
era l’autore della macchinazione296.
295 Brigate senza generali, «Osservatore politico», 31 Ottobre 1978.
296 Silenzio di regime sul primo furto in casa Moro, «Osservatore politico», 2 gennaio 1979.
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Occorre soffermarsi su due importanti punti di questo articolo. Secondo Pecorelli la
«mano del collega di partito» sarebbe stata quella di Giulio Andreotti297, opinione che il
giornalista espresse in diversi numeri di «Op»298. In secondo luogo, nelle carte di Moro
ufficialmente ritrovate, non vi furono affermazioni su quello che disse Pecorelli, non vi è
accenno nella versione dattiloscritta del 1978 né in quella in fotocopia di manoscritto nel
1990. Un ulteriore indizio sulla incompletezza del memoriale Moro ritrovato fino ad
oggi, che va ad aggiungersi agli interrogativi riguardanti la parte del documento relativa
ai comportamenti dei servizi segreti e di Miceli. Il 16 gennaio 1979 nell’articolo
Terrorismo, antiterrorismo e riforma di polizia, Pecorelli mise in dubbio tutta la
ricostruzione ufficiale del caso Moro. Lasciò intendere di conoscere molte verità della
vicenda, annunciando di volerle rivelare.
Si è permesso così il dilagare di quella violenza che nel 1978 ha generato la morte di
ventinove persone, cinquanta feriti per attentati, ottantasei tra poliziotti e carabinieri
finiti all’ospedale per scontri di piazza e circa mille automobili distrutte. A questi
vanno aggiunti circa tremila attentati contro edifici pubblici, privati, sedi di partiti
politici, caserme della pubblica sicurezza, dei carabinieri, delle forze dell’ordine in
genere. Violenza politica che ha raggiunto il suo apice con l’uccisione Moro. Aldo
moro che pensava di essere liberato dalle Brigate rosse, e che temeva di rimanere
ferito in un conflitto a fuoco tra i carabinieri ed i suoi carcerieri, come ha pubblicato
“Panorama” in un articolo non firmato, notizia che avrebbe attinto dai documenti
sequestrati nel covo del brigatista Alunni, notizia che viceversa nel memoriale
diffuso dal ministero degli Interni non risulta. Ma torneremo a parlare di questo
argomento, del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbotto azzurro visto in via
Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine
servite all’operazione, del prete contattato dalle Brigate rosse, della intempestiva
lettera di Paolo, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse,
degli sciacalli che hanno giocato al rialzo, dei partiti politici che si sono arrogati il
297 «In una lettera testamento attribuibile al principe Borghese e attualmente agli atti della Procura di
Brescia, si affermava che l’autore della telefonata di contrordine al tentativo di golpe era stato Andreotti
in persona», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 234.
298«Sempre più strano questo processo al golpe Borghese. Potrebbe svolgersi tutto nell’anticamera dello
studio di Andreotti. Pensate: andreottiano il Pm Vitalone, andreottiana la longa manus della legge (nella
fattispecie Labruna e Maletti), andreottiani gran parte degli imputati», Golpe Borghese: Andreotti ieri e
oggi, «Osservatore politico», 10 giugno 1977.
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diritto di parlare in nome del Parlamento, dei presunti memoriali, degli articoli
redatti, cervellotici, scritti in funzione del fatto che lo stesso Moro, che avrebbe
intuito che i carabinieri potevano intervenire, aveva paura di restare ferito. Parleremo
di Steve R. Pieczenik, il vice segretario di Stato al Governo Usa il quale, dopo aver
partecipato per tre settimane alle riunioni di esperti al Viminale, ritornato in America
prima che Moro venisse ucciso, ha riferito al Congresso che le disposizioni date da
Cossiga in merito alla vicenda Moro erano quanto di meglio si potesse fare. […] A
questo punto vogliamo fare anche noi un po’ di fantapolitica. Le trattative con le
Brigate rosse ci sarebbero state. Come per i Fedayn. Qualcuno però non ha
mantenuto i patti299. Moro, sempre secondo le trattative, doveva uscire vivo dal covo
(al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario?), i carabinieri
avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciar andare via la macchina
rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva
comunque l’anticomunista Moro morto, le Br avrebbero ucciso il presidente della
Democrazia cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile
azione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica
299 «Vent’anni dopo il senatore Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione parlamentare
d’inchiesta su stragi e terrorismo, esprimerà concetti analoghi. La possibilità che Moro avesse rivelato
alle Br segreti sensibili aveva creato una situazione sicuramente più complessa e pericolosa dal punto di
vista dello Stato. Per cui poteva essere opportuno non forzare la situazione con un blitz. Se avessero fatto
irruzione in via Gradioli e avessero catturato Moretti, quale sarebbe stata la reazione degli altri brigatisti?
La Braghetti, Gallinari e Maccari, i carcerieri di Moro, che istruzioni avevano per una eventualità del
genere? Di uccidere il prigioniero? Di rendere pubblici i verbali e le videocassette del suo interrogatorio?
In questa chiave potrebbe anche capirsi perché non si volesse arrivare a via Gradioli, almeno fino a
quando non fosse stata scoperta la prigione in cui Moro era detenuto, e non si fosse raggiunta la certezza
di poter mettere le mani anche su tutto il materiale relativo al processo brigatista. È possibile che Cossiga
si sia fidato di certe persone e poi se ne sia pentito. Mi riferisco a qualche apparato nazionale o anche
estero che assunse su di sé il doppio compito di recuperare le “carte Moro” e di liberare il prigioniero. Ma
poi perseguì soltanto il primo obbiettivo e lasciò che Moro venisse ucciso, per regolare qualche vecchio
conto. In questo modo le tesi del “doppio ostaggio” e quella del “doppio delitto” verrebbero in qualche
modo a sovrapporsi. La sofferenza umana di Cossiga, tutte le volte che si affronta il caso Moro, a me è
parsa autentica. E credo che nasca non solo dalla perdita di un amico come Moro, ma anche da questa sua
sensazione d’essersi fidato di persone sbagliate, o di apparati sbagliati. È un’ipotesi assai verosimile, che
se fosse confermata porterebbe proprio a concludere che Cossiga è stato atrocemente beffato da mandatari
infedeli», da FASANELLA – SESTIERI – PELLEGRINO, Segreto di Stato, la verità da Gladio al caso
Moro, Einaudi 2000, pagg. 180-82 in FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 396.
117
campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama “De300” e il macellaio
Maurizio301.
L’enigmatico riferimento ad Alunni Corrado, brigatista arrestato il 13 settembre 1978 nel
covo in via Negroli a Milano, si collegò all’ipotesi che durante l’arresto fosse stato
trovato il memoriale e che le Br avessero distribuito le copie tra le varie colonne
brigatiste. Ciò spiegherebbe il perché nell’articolo di «Op» del 26 settembre 1978 Le
lettere di zombi, pubblicato dodici giorni prima di Monte Nevoso e una settimana dopo
l’arresto del brigatista, Pecorelli fosse già in grado di annunciare il ritrovamento di una
trentina di lettere di Moro. Un’altra anomalia si riferisce alla paura di Moro d’essere
ucciso in un conflitto a fuoco tra i terroristi ed i carabinieri, dato anche questo non
riscontrabile in nessun suo scritto ufficiale. «Osservatore politico», dunque, sostenne che
le carte divulgate nel 1978 fossero incomplete, dell’esistenza di una copia recuperata nel
covo di via Negroli due settimane prima dell’operazione di Monte Nevoso, che vi
fossero dei manoscritti di Moro autografi ed in fotocopia (che vennero ritrovati solo nel
1990) e che esistesse un memoriale tutt’oggi ignoto contenente rivelazioni non
riscontrabili nelle versioni del 1978 e del 1990. Difficile capire quali potessero essere le
fonti informative di Carmine Pecorelli, sebbene i principali sospetti cadrebbero sulla
figura del generale Dalla Chiesa e su Licio Gelli, comunque in ambienti contigui alla
Loggia Propaganda Due e ai servizi segreti. È probabile che il generale Dalla Chiesa si
servisse di Pecorelli, come fece con il generale Galvaligi, affinché trapelassero notizie
relative al ritrovamento delle carte di Moro, per costringere il governo a pubblicare la
versione che lui stesso gli consegnò. Una triplice responsabilità per dissimulare una fuga
di notizie. Oltre ai diversi articoli di «Osservatore politico» in cui venne elogiata la
figura di Dalla Chiesa, è accertata la collaborazione tra Pecorelli ed il generale nel 1979.
Nell’agenda del giornalista si trovarono appuntate le date dei loro incontri,
300«Questo “De” sembra essere un riferimento a Giustino De Vuono, presente nell’elenco dei terroristi
ricercati diffuso dal Viminale il 16 marzo 1978. De Vuono sarebbe stato riconosciuto da due testimoni
oculari del caso Moro. Quanto al “Maurizio” menzionato da Op, si scoprirà poi che era lo pseudonimo
brigatista del capo delle Br Mario Moretti. Pecorelli lo chiamava “macellaio” e in effetti, lo si scoprirà
anni dopo, Moretti è stato colui che ha materialmente assassinato Moro», Ivi, p. 397.
301 Terrorismo, antiterrorismo e riforma di polizia. Vergogna buffoni!, «Osservatore politico», 16 gennaio
1979.
118
particolarmente intensificati proprio nei mesi in cui Pecorelli rilasciò le sue dichiarazioni
sul memoriale.
Era stato Dalla Chiesa a chiedere d’incontrare Pecorelli e Mino me ne parlò subito
dopo, dicendomi che non aveva capito bene cosa volesse. Aveva avuto l’impressione
che Dalla Chiesa intendesse utilizzarlo in qualche maniera, ma non aveva capito se
per far filtrare notizie o per altro. Era perplesso perché Dalla chiesa non gli aveva
dato notizie302.
La testimonianza del maresciallo Angelo Incandela, comandante degli agenti di custodia
del carcere di Cuneo, confermò che nel gennaio del 1979 Dalla Chiesa e Pecorelli
collaborarono segretamente per recuperare delle fotocopie del manoscritto del
memoriale, che ritenevano fossero entrate nel carcere di Cuneo. Il maresciallo venne
convocato da Dalla Chiesa con l’ordine tassativo di mantenere la massima segretezza.
Nella deposizione del 27 giugno 1994 all’autorità di Palermo, Incandela raccontò
d’essersi incontrato con Dalla Chiesa in un’Alfa Romeo bianca. Il generale lo informò
della presenza di alcuni scritti riguardanti Aldo Moro nel carcere dove lavorava da pochi
mesi, documenti indirizzati al boss della malavita milanese Francis Turatello. Nell’auto
era presente una terza persona che sarebbe stata in grado di spiegare, secondo il generale,
come e dove fossero entrati quei documenti.
Gli scritti riguardanti il caso Moro erano entrati nel carcere attraverso le finestre del
corridoio dell’ufficio per i permessi di colloqui, dove sostavano i parenti dei detenuti
in attesa della perquisizione prima di essere ammessi ai colloqui. Lo sconosciuto mi
fornì una particolareggiata descrizione dei luoghi, specificandomi che le finestre del
corridoio ove sostavano i parenti prima di essere perquisiti, erano prive di reti, sicché
era agevole consegnare attraverso le stesse oggetti a detenuti che circolavano senza
nessuna sorveglianza nel cortile sul quale prospicevano dette finestre. […]Lo
sconosciuto proseguì specificandomi che gli scritti riguardanti il sequestro Moro
erano entrati nel carcere avvolti con un nastro adesivo da imballaggio303.
302 Franca Mangiavacca, compagna di Pecorelli, agli atti della sentenza della corte d’Assise di Perugia del
14 aprile 1993, FLAMIGNI, Dossier Pecorelli, p. 150.
303 Angelo Incandela, GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 250.
119
In una seconda deposizione del 25 luglio 1994, il maresciallo raccontò d’aver
riconosciuto il volto dello sconosciuto solo due mesi dopo, negli articoli che parlavano
dell’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli. Incandela seppe descrivere con
precisione gli occhiali che il giornalista portò in quella circostanza304, inoltre ricordò che
«il generale chiese allo sconosciuto di cercare un numero di telefono il quale rispose
d’averlo dimenticato in redazione305».
Dalla Chiesa continuò a sollecitarmi affinché io trovassi gli scritti del sequestro
Moro che si trovavano all’interno del carcere, nonché documenti concernenti l’on.
Andreotti e dopo quindici giorni di ricerche rinvenni l’involucro che Pecorelli mi
aveva descritto, all’interno di un pozzetto con un coperchio di lamiera profondo
circa venti – trenta centimetri che si trovava in un piccolo locale dove venivano presi
in consegna i generi di conforto portati ai detenuti dai loro familiari. L’involucro
aveva la forma di un salame ed era avvolto con un nastro isolante da imballaggio
color marrone. […] L’involucro poteva contenere un centinaio di fogli306.
Angelo Incandela spiegò come Dalla Chiesa fosse convinto dell’esistenza di ulteriori
fogli all’interno del carcere, riguardanti l’on. Giulio Andreotti.
Io sospetto che volesse in qualche modo incastrare Andreotti. Infatti, il generale
aveva delle riserve su quell’uomo politico; spesso mi faceva capire che lui su
Andreotti sapeva cose assai gravi. Ma Dalla Chiesa pur alludendo pesantemente non
mi disse mai con esattezza cosa aveva in mano, quali fossero gli elementi
d’accusa307.
Secondo il maresciallo Incandela, Dalla Chiesa e Carmine Pecorelli si misero alla ricerca
di documenti altamente segreti e destabilizzanti per il sistema politico di allora.
Documentazione che, probabilmente, avevano già visionato in forma dattiloscritta.
304 «cerchiati in oro piuttosto quadrati, chiari non scuri. Completamente diversi per foggia da quelli
comparsi nella foto pubblicata dopo la morte, con montatura nera e spessa», Ivi, p. 251.
305 Ibidem.
306 Ivi, pag. 252.
307 PINO NICOTRI, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. I misteri degli anni '80 nel racconto del
maresciallo Incandela, Marsilio, Venezia 1994, p. 112.
120
Mi disse che stavamo scrivendo la storia, che si può essere fedeli allo Stato in tanti modi e che
si può servire la Patria anche in modi non propriamente legali. Mi disse: Per la Patria, caro mio,
si può e si deve anche rischiare quando occorre. E quando si hanno i coglioni! Sempre a patto
naturalmente che il fine sia nell’interesse dello Stato e della Società308.
308 Carlo Alberto Dalla Chiesa, GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 254.
121
Bibliografia.
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protagonista esce dall'ombra, Cooper, Roma 2008.
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