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CAT_IMG Posted: 25/5/2023, 10:27 IL CASO TOBAGI - ZIO OT DICE LA SUA
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BISCIONE ---- IL MEMORIALE
ED COLETTI 1993

www.radioradicale.it/scheda/57723/...via-montenevoso


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www.collettiva.it/copertine/italia...rnalista-75688/

www.antimafiaduemila.com/home/mafi...te-di-moro.html

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L'assassinio Tobagi

e quella connessione con le carte di Moro


amduemila-1 29 Maggio 2020


tobagi walter moro aldo da aldomoro eudi AMDuemila






La pretesa di giustizia e verità di Benedetta Tobagi

Ieri era il giorno in cui ricorreva l'anniversario dell'uccisione di Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera, ucciso 40 anni fa, con cinque colpi di pistola, mentre usciva dalla sua casa in via Salaino, vicino al carcere di San Vittore a Milano. Aveva 33 anni. Gli sparò un commando della Brigata XXVIII Marzo, un gruppo di giovani terroristi di estrema sinistra che speravano con un’azione eclatante di farsi riconoscere dalle Brigate Rosse, il più noto gruppo terroristico italiano.

Quarant'anni dopo sono molti ancora i quesiti aperti sulle motivazioni che portarono a quell'assassinio. La figlia del giornalista, Benedetta Tobagi, da anni lotta per giungere ad una verità e ieri, la giornalista Maria Antonietta Calabrò, sull'huffingtsonpost ha ribadito la necessità di aprire gli archivi dell’antiterrorismo per approfondire lo scenario di quel delitto. In parte questo è stato fatto negli ultimi anni con la desecretazione voluta dal Governo Renzi del 2014 degli atti di Ministeri, Servizi segreti, Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza, relativi ad atti di strage e terrorismo.
Scrive la Calabrò che in quei documenti, versati alla commissione di inchiesta Moro2, si "dimostrano possibili connessioni tra l’assassinio di Tobagi e il caso Moro".

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Si circonda che Tobagi fu ucciso due mesi dopo l’irruzione nel covo brigatista di Genova in via Fracchia da parte degli uomini del generale dalla Chiesa, il 28 marzo 1980. E che proprio la strage di via Fracchia fu una degli ultimi importanti reportage di Tobagi, prima della morte.


La Calabrò mette in evidenza che Tobagi avrebbe avuto un "ruolo nella 'trattativa' milanese che Craxi instaurò durante il sequestro Moro per la salvezza dello statista Dc e che faceva perno sul generale dalla Chiesa. Una 'trattativa' distinta da quella 'romana' che coinvolse Piperno, Morucci e Faranda", e che è emersa proprio dal lavoro della Commissione Moro2.

Dell'impegno di Tobagi per salvare Moro ha parlato Umberto Giovine, ex Pse e militante nella Federazione milanese, con incarichi nell’ambito dell’Internazionale socialista e direttore di "Critica Sociale”, sentito dalla Commissione.

Un'altra traccia è data dalle parole di Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, che nel numero 1 di "Pagina" del 25 febbraio 1982, e nel periodico "Illustrazione Italiana”, n. 32, luglio 1986 riportò quanto avrebbe detto il procuratore della Repubblica di Genova


, Antonio Squadrito sull’irruzione nel covo brigatista di via Fracchia: "La verità è che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi... Soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc, al Paese”.

Purtroppo, però, quelle cartelle di Moro, che sarebbero state indicate dal magistrato, non compaiono agli atti del processo penale per la strage di via Fracchia.

E sono questi gli aspetti da cui è ripartita la Commissione Moro 2.

Nell'articolo si ricorda che anche "il presidente della Commissione Stragi (attiva fino al 2001), Giovanni Pellegrino, aveva elaborato l’ipotesi - che durante il sequestro Moro - ci fosse stato in realtà un doppio ostaggio: Moro, appunto, ma anche numerosa documentazione “sensibile” in mano alle Brigate Rosse (il memoriale completo, interrogatori...)". Elementi nuovi sarebbero poi emersi nei primi anni Duemila, quando sul Corriere Mercantile venne pubblicato un articolo con i ricordi raccolti dalla ″gente del civico 12″, tra cui quello di ″un uomo misterioso,

forse Riccardo Dura, che scavava con un piccone nell’erba alta delle aiuole”.




Sul giardino si è concentrata la Commissione Moro 2, perché "incredibilmente non trova esplicita menzione negli atti processuali, né viene evidenziato nella ricostruzione della planimetria dell’appartamento”.

E la Calabrò evidenzia come "anche lo scavo di un’ampia buca nel giardino del covo non fu riferito negli atti giudiziari del 1980,

ma è stato esplicitamente rievocato solo il 15 marzo 2017 nel corso delle dichiarazioni a Palazzo San Macuto dal pm Filippo Maffeo, intervenuto sul posto in qualità di pubblico ministero di turno, la mattina del 28 marzo 1980.

Il magistrato ha indicato con certezza il particolare che in giardino il terreno appariva smosso da poco tempo, precisando le rilevanti dimensioni dello scavo, corrispondente, a suo avviso, al volume di tre valigie di media grandezza.

Uno scavo immediato e verosimilmente mirato non poteva che scaturire dalla disponibilità di indicazioni precise. Quell′operazione dovette durare ore ed ore e terminare, appunto, prima dell’arrivo del magistrato di turno".

Altro elemento di mistero, portato in evidenza dall'articolo dell'huffingtonpost è la vicenda che riguarda Volker Weingraber (alias Karl Heinz Goldmann), un agente tedesco occidentale che operò in Italia durante il sequestro Moro e che a partire dal 1978 viveva in Italia nello stesso palazzo dove abitava Tobagi. Vi sarebbero delle informative del Sisde, desecretata dall’Aise (l’attuale servizio segreto estero) nel giugno 2017, in cui si dà atto del suo ruolo.
In particolare in un'informativa si dà atto dei suoi contatti con il terrorista Oreste Strano e un gruppo che preparava il sequestro di un imprenditore svizzero.
Tra i contatti, in un documento del 6 novembre 1978, si precisava anche che "la fonte infiltrata ha avuto contatti con Aldo Bonomi il quale gli avrebbe confermato di essere in grado di procurare armi e documenti falsi per sviluppare attività eversive″. La fonte - continua la citazione - "ritiene che Bonomi sia un provocatore e un confidente della Polizia. Sarebbe stato isolato dalle Br perché ha sempre evitato di assumersi compiti rischiosi nell’ambito dell’organizzazione”.


E in un'altra lettera del 2 novembre 1990, inviata dall’ammiraglio Martini, capo del Sismi, al capo della Polizia, prefetto Vincenzo Parisi, oggi desecretata, si svela che la fonte a cui si fa riferimento in quegli atti era proprio Weingraber.

Dalle carte emergerebbe anche che questi entrò in contatto, tramite Strano (che aveva una compagna tedesca), anche con Nadia Mantovani, "cioè la persona che aveva avuto l’incarico di battere a macchina il Memoriale Moro, e che prima del suo arresto, a Novara frequentava una radio di sinistra extraparlamentare collegata alla Rote Armee Fraktion". Piste, carte, documenti, quesiti e sospetti. Elementi che vanno approfonditi lungo il cammino per giungere alla verità.

In foto: Roma, 31 ottobre 1974. Walter Tobagi con Aldo Moro






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COLONNELLO BONAVENTURA


www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/1...-carte/1676011/



www.archivio900.it/it/articoli/art.aspx?id=5279



a morte del colonnello Umberto Bonaventura, del Sismi, occorre assegnare una protezione anche domiciliare a tutti coloro che sono a conoscenza di particolari segreti, in particolare agli agenti Ossi (operatori speciali dei servizi segreti chiamati anche Sezione K) ed a quelli della Gladio militare. A sostenerlo e' Falco Accame, presidente dell' Anavafaf (Associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle forze armate). Secondo Accame, "la deposizione del colonnello Bonaventura alla commissione Mitrokhin avrebbe certamente riportato in evidenza il contenuto delle carte di Moro rimaste segrete. E' dunque attorno a questo tema che occorre centrare l' attenzione, perche' il colonnello era certamente una delle persone che di tali carte era a conoscenza, come lo erano Pecorelli ed il generale Della Chiesa". Il segreto delle carte di Moro, rileva il presidente dell' Anavafaf, "consisteva nel fatto che nell' ambito dei servizi segreti e di Gladio esistevano degli operatori armati in contrasto con quanto previsto dalla Costituzione, tanto che due recenti atti della magistratura hanno considerato come eversive all' ordine costituzionale le operazioni degli Ossi". Di questo corpo speciale, prosegue, "erano a conoscenza persone che in essi avevano operato, come il maresciallo Vincenzo Li Causi, che mori' in Somalia colpito da una pallottola vagante, proprio prima che deponesse ad un processo. E' dunque ovvio - conclude - che la morte di Bonaventura in prossimita' di una deposizione importante non possa non far riaffiorare una serie di interrogativi che mai hanno avuto una risposta".


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LAURO AZZOLINI


https://it.wikipedia.org/wiki/Lauro_Azzolini


www.albadeifuneralidiunostato.org/tag/lauro-azzolini/






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VIA FRACCHIA 12

https://it.wikipedia.org/wiki/Irruzione_di_via_Fracchia


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www.ilsecoloxix.it/genova/2017/08/...moro-1.32077339


Due registrazioni e una fossa, un nesso tra i Br di via Fracchia e il caso Moro


ALESSANDRA COSTANTE

10 Agosto 2017 alle 08:31







Genova - Questa è la storia di due audiocassette e di una fossa scavata in un piccolo giardino.



Sono echi dal passato e secondo le carte in possesso della Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro, (ri)mettono Genova al centro della scena degli anni più bui del dopoguerra. La vicenda è quella delle Brigate Rosse genovesi, molto legate a Mario Moretti, del loro presunto coinvolgimento nel rapimento e nella prigionia del presidente della Dc e, forse, custodi di una parte del memoriale di Moro, mai ritrovato in originale.

Uno strano gioco delle carte che, a distanza di 39 anni, la commissione parlamentare di inchiesta sta ancora cercando di decifrare tra ricordi che sbiadiscono, memorie che zoppicano, ma soprattutto «lo sbarramento di chi sostiene che sul caso Moro non ci sia più niente da dire» osserva Federico Fornaro, senatore di Articolo 1- Mdp e segretario della commissione. «Agli atti della commissione ci sono documenti che saldano ulteriormente i rapporti tra i brigatisti genovesi e romani e aprono nuovi scenari sulle carte di Moro» afferma Fornaro. Ma non solo quello.

Si scopre che agli atti della commissione e quindi della «verità storico giuridica» c’è anche lo scavo, la buca di un metro per un metro, che i carabinieri del generale Dalla Chiesa fecero nel giardino del covo di via Fracchia, a Genova: «Diventa non inverosimile che sottoterra fossero nascoste le carte di cui ha parlato il giudice Carli nella sua audizione», è la suggestione che proviene dal segretario della commissione.





Voci dal passato


Il tassello iniziale è del 2015 quando la Commissione parlamentare affida al Ris di Roma l’esame di parecchio materiale: gli abiti che indossava Aldo Moro quando il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia, è stato ritrovato nel bagagliaio della Renault Rossa in via Caetani; oggetti rinvenuti nel covo di via Gradoli: spazzolini da denti, scarpe, pinzette su cui cercare il dna per confrontarlo con quello dei brigatisti condannati e capire davvero chi era stato sulla scena; una radio, una macchina da scrivere. E ci sono anche 18 audiocassette “stereo sette”, quelle in uso negli anni Settanta. Sono state ritrovate in vari covi: via Gradoli, via delle Nespole e in viale Giulio Cesare a Roma. La speranza della commissione era di trovare le tracce degli interrogatori di Moro. La voce del presidente della Dc non c’è, ma da due audiocassette repertate in viale Giulio Cesare ci sono tracce che portano a Genova. La più interessante è quella su cui, secondo il Ris, è stata incisa una voce maschile che parla “con accento piemontese o ligure”. Ecco la trascrizione: “Attenzione, messaggio n.13 delle Brigate Rosse: Aldo Moro è stato giudicato dal tribunale del popolo. Questa mattina, alle ore 12, è stato giustiziato. Potete trovare il suo corpo attorno al Forte di San Martino. Fine messaggio”. Per i carabinieri si tratta del Forte di San Martino a Genova.

La seconda cassetta, invece, è più complicata: è la registrazione dell’inizio della collaborazione con le forze dell’ordine di una donna genovese, che parla davanti «ad un uomo anonimo che vanta “conoscenze” al Ministero dell’Interno», spiega ai parlamentari Luigi Ripani, comandante del Ris di Roma. «Che indizi sono? Intanto sono documenti che interessano Genova e che vengono stranamente ritrovati a Roma e questa è già una prima cosa - osserva Fornaro - La seconda cassetta ci racconta quanto meno di una “talpa” negli ambienti investigativi, mentre la prima potrebbe essere un forte indizio che colloca i genovesi sulla scena della prigione di Moro». A sostenerlo, nel 1979, era stato il settimanale di area socialista Critica Sociale che, ad un anno dalla morte di Moro, parlava di un «cambio della guardia nel “carcere del popolo”: carcerieri “genovesi” con il compito di boia, al posto dei romani». «I rapporti tra Mario Moretti e i genovesi erano molto stretti - prosegue Fornaro - Se avessero avuto un ruolo attivo nelle ultime ore di Moro, chi dice che Moretti non avrebbe potuto affidare proprio a loro carte importanti?».



I bravi ragazzi di via Fracchia


E sull’onda delle domande che si sono poste i membri della commissione d’inchiesta si arriva così al covo di via Fracchia, a Genova, dove il 28 marzo 1980 i carabinieri fanno irruzione uccidendo quattro brigatisti. Sono Riccardo Dura “Roberto”, l’uomo che invece di gambizzare uccise il sindacalista Guido Rossa; Annamaria Ludmann “Cecilia”, la padrona di casa; e due torinesi temporaneamente trasferiti a Genova, Lorenzo Betassa “Antonio” e Piero Panciarelli “Pasquale”. Prima del blitz i carabinieri non hanno idea né di chi siano né di quanti siano i brigatisti nel covo, ma come ricorda il colonnello Michele Riccio in audizione arrivano all’appartamento su indicazione del pentito Patrizio Peci e «di un altro brigatista arrestato», «uno dei tanti componenti della banda 22 Ottobre», «...che aveva fatto sequestri e rapine per conto delle Brigate Rosse». In via Fracchia nessuno sospettava che fossero terroristi, una condomina spiegò ai carabinieri che sembravano «bravi ragazzi».

Al di là di ciò che accadde prima dell’alba di quel 28 marzo in via Fracchia, la Commissione parlamentare d’inchiesta ha puntato i suoi fari sulla buca che i carabinieri scavarono in giardino. Riccio conferma: «Li abbiamo fatti fare noi gli scavi in giardino». Per i parlamentari della Commissione d’inchiesta è la prima volta che viene ufficialmente indicato il giardino dell’appartamento di via Fracchia e, soprattutto, la buca, nascondiglio perfetto per documenti importanti e armi. «Ovviamente c’era nelle planimetrie dell’atto di compravendita della famiglia Ludmann, ma nei documenti delle indagini il giardino non c’è, non è mai indicato: una strana dimenticanza», sottolinea Fornaro.



La telefonata



Con quattro cadaveri a terra, un maresciallo gravemente ferito, e la zona di via Fracchia sostanzialmente protetta da un cordone di sicurezza entro il quale si muovono solo i carabinieri, Riccio (in quel momento capitano) nella casa della Ludmann riceve la telefonata di Dalla Chiesa che chiede: «Allora, cosa è stato trovato?». I testimoni vedono i militari trasportare fuori grandi sacchi neri: alla fine saranno più di 700 le cose repertate in via Fracchia, «compreso l’archivio dei volantini di oltre un centinaio di azioni delle Br del Nord Ovest» spiega Fornaro. Quanto ai documenti, Riccio taglia corto: «Vecchia documentazione, per lo più macerata nell’acqua», dice. Ma la Commissione d’inchiesta, invece, pensa che non fosse esattamente così. Ronzano ancora le parole pronunciate dal Procuratore di Genova, Antonio Squadrito nel 1982: «La verità? È che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi (...) e soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc e al Paese». C’è un antefatto nel blitz di via Monte Nevoso a Milano (1 ottobre 1978): lì i carabinieri trovarono carte di Moro (lettere e il cosiddetto Memoriale, ma non gli originali). «E’ plausibile che Dalla Chiesa avesse ricevuto da Andreotti l’ordine informale di recuperare tutto il materiale di Moro e che quindi nel 1980 il generale ancora fosse alla ricerca», sostiene Fornaro.

A corroborare questa tesi è l’ex magistrato della Procura di Genova Luigi Carli che durante l’audizione del 19 giugno scorso, in più punti, ammette di aver sentito parlare delle «carte di Moro in via Fracchia» nel corso di riunioni operative con i magistrati del distretto di Torino, ma di non averle mai viste nel fascicolo sull’irruzione; che «il provvedimento di sequestro e di perquisizione furono fatti dai torinesi»; e ancora: «Peci gli ha fatto i riferimenti su dove andare». E piomba la smentita di Giancarlo Caselli: «Non mi risulta nulla di quello che viene attribuito a Carli. È fuori da ogni logica che la magistratura torinese possa aver deciso l’irruzione in via Fracchia o possa essersene in qualche altro modo occupata. E ciò perché Patrizio Peci cominciò a collaborare solo dal 1 aprile del 1980». E così il gioco delle carte continua.

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https://genova.repubblica.it/cronaca/2017/...dura-173993914/




Genova, 37 anni dopo procura apre inchiesta per omicidio sulla morte di Riccardo Dura




Il covo di via Fracchia


Nel blitz nel covo delle Br in via Fracchia fu ucciso con un solo colpo alla nuca.

L'esposto di un assistente universitario all'epoca arrestato e poi prosciolto e r



GENOVA - A 37 anni di distanza dal blitz genovese nel covo Br di via Fracchia in cui vennero uccisi dai carabinieri quattro brigatisti rossi la procura della repubblica di Genova, in seguito alla presentazione di un esposto denuncia di un cittadino, ha aperto un fascicolo per omicidio "in danno di Riccardo Dura", uno dei terroristi uccisi.

"Un atto dovuto", come spiega all'Ansa il procuratore di Genova Francesco Cozzi nel confermare l'apertura del fascicolo. Che aggiunge: "Adesso valuteremo modi e tempi di eventuali accertamenti". A presentare l'esposto nei giorni scorsi, come scrive il Secolo XIX che stamane ha anticipato la notizia, è stato Luigi Grasso, ricercatore universitario che nel 1979 venne accusato di terrorismo e negli anni successivi completamente prosciolto.

"Quello di Dura è stato un omicidio volontario, venne ucciso con un solo colpo alla nuca" si legge nell'esposto presentato da Grasso. L'eventuale inchiesta sarà affidata dai magistrati ai poliziotti dell'antiterrorismo. Grasso alla decisione di presentare l'esposto è arrivato dopo una ricerca personale negli archivi giudiziari che gli ha permesso di ottenere il fascicolo di via Fracchia: in cui c'è la ricostruzione dei fatti spiegata da Michele Riccio, l'allora capitano che guidò l'assalto, uomo di fiducia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa al quale era stato affidato il compito di condurre la battaglia contro le Br. Dalla lettura di quei fatti Grasso è arrivato alla conclusione che l'uccisione del brigatista Riccardo Dura è un omicidio volontario.

Grasso aveva già manifestato i suoi dubbi su via Fracchia 19 anni fa durante la presentazione di un libro di Enrico Fenzi, docente universitario arrestato e condananto per episodi legati alla stagione brigatista.


''La vera luce sulla 'colonna' genovese delle Brigate rosse non e' stata ancora fatta - disse Grasso prendendo la parola - Il blitz del 17 maggio del '79 in cui vennero arrestati Enrico Fenzi e altre 16 persone e' stato frutto di una finta inchiesta messa in atto per favorire il permanere a Genova della 'colonna' brigatista, poi sgominata nell' 80 in via Fracchia dagli uomini del generale Dalla Chiesa''.

Grasso enunciò la sua tesi nel corso del dibattito sul libro ''Armi e bagagli'' di Enrico Fenzi, svoltosi a Genova nel convento di Santa Maria di Castello.

Grasso venne arrestato insieme al professore genovese, poi prosciolto e risarcito dallo Stato per riparare all' errore giudiziario (venne arrestato anche per il delitto Coco) nei suoi confronti. ''La vera realta' - sostenne Grasso - e' che Enrico, io e gli altri siamo stati arrestati non come brigatisti, ma per depistare le indagini.

Contesto percio' quanto scritto da Fenzi nel suo libro, che considero un buon romanzo, ma senza validita' storica''.

A queste parole Fenzi, fino a quel momento tra il pubblico, puntualizzò: ''A Grasso dico solo che non e' mai appartenuto alle Bierre, che e' stato percio' condannato ingiustamente.

Nel libro ho raccontato le cose che ho vissuto io''.

Argomenti
brigate rosse procura genova


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www.archivio900.it/it/libri/lib.aspx?id=408


ENRICO FENZI





"Troppo spesso mi sono sentito domandare: 'Perché? Perché l'hai fatto?' (curiosamente mai dagli amici). E può darsi che questo sia pure il tema nascosto di queste pagine: un lento paziente giro attorno alle risposte possibili". Così si apre uno dei primi capitoletti di "Armi e bagagli" di Enrico Fenzi, già docente di letteratura italiana presso l'Università di Genova, due volte arrestato e condannato per appartenenza alle Brigate Rosse. Tuttavia, penso che chi si accostasse a questo libro con l'intento di capire perché, perché la lotta armata in Italia, non ne caverebbe un ragno da un buco. O anche solo perché una persona dotata evidentemente quanto meno di una intelligenza normale si sia infilata in un'avventura così incredibile - nel senso di non credibile, sotto l'aspetto politico prima di tutto, ma anche umano - ne rimarrebbe probabilmente deluso.


Il racconto scorre, e scorre anche molto bene. I primi approcci con l'organizzazione, i primi volantinaggi clandestini davanti alle fabbriche, la prima azione, l'arresto, il carcere, il processo seguito dall'assoluzione. E poi di nuovo la voglia di ributtarsi nell'avventura, le riunioni con i vertici dell'Organizzazione, l'entrata in clandestinità, l'abbandono delle persone care, e infine il nuovo arresto. Il carcere...


La scrittura è accurata, colta, incisiva, sfaccettata. È un racconto bello, ma al contempo terribile. È bello perché lascia aperte mille domande, accenna, allude, evoca, non dà tagli netti, certezze. Anche nel momento della scelta iniziale, Fenzi s'interroga: "Ero affacciato su una buia voragine, mi ci stavo buttando dentro. Perché? (...) La risposta tanto vera quanto scontata sarebbe stata perché volevo combattere per un mondo migliore... (...) Tutto ciò era vero, ma ancora generico: valeva per me e per molti altri, non per me solo, lì, davanti a quei due, pronto a seguirli lungo una strada intrisa di sangue, di violenza, di terrore (...). Le risposte che mi davo erano confuse, deboli, perché non le davo con il cervello ma con il cuore...".
Eppure è un racconto terribile proprio per le stesse ragioni, perché non dà risposte, risposte a fatti che sono stati e che quindi vorrebbero una loro ragione. Perché tra questi, i più incolmabili, i più irreversibili, le morti - su qualsiasi sponda si siano date - sono effetti che ci è difficile, amaro, lasciare senza una causa.


Va subito detto che "Armi e bagagli" non è certamente un libro che vuole parlare di Storia. Non solo non è la Storia della lotta armata in Italia, ma neppure la Storia della se pur minima partecipazione ad essa di uno dei suoi attori. D'altro canto, credo sia impossibile fare Storia di sé stessi. Credo che questa nostra storia, così drammatica, pesante, che da tante estrose e plausibili premesse, sulle piazze, alla luce della fantasia e dell'ingegno, ci ha risucchiati a sé come in un gorgo nichilistico - pur avendone apparentemente tutt'altri connotati - sia ancora troppo scottante sulla nostra coscienza, per distaccarsi da noi come pelle secca e farsi Storia.


Le situazioni sono tracciate qui per brevi accenni, a volte con leggero distacco, altre con sottile umorismo, o ancora con profondo coinvolgimento, così come d'altronde capita nella vita - ferimenti, scontri di linee politiche, tensioni carcerarie, morti. Le motivazioni affiorano qua e là, disordinatamente, come foglie ingiallite spinte dal vento della casualità più che della causalità - il "tradimento" del Pci, la ristrutturazione selvaggia, la necessità di alzare lo scontro... Appena ci si avvicina al vivo di una qualche questione, il colore della descrizione distoglie la nostra attenzione dal nocciolo della stessa. Un colore sapientemente dosato, tenue, poetico, o ancora sferzante e stridente, quando è quello che ci vuole. Quasi un bisogno dell'autore di fare appello al contorno, agli oggetti, allo sfondo per non perdersi di nuovo in un incubo.


E qui probabilmente sta il problema. Le comprensibili - a mio avviso - lacune di questo "diario dalle Brigate Rosse", come recita il sottotitolo. Nell'impossibilità di trascrivere con la penna del poi le forzature ideologiche sottese alla lettura che le organizzazioni combattenti il "partito armato", facevano allora del presente, della società e dei suoi guai. Della posta in gioco sul tavolo del Potere - perché con le armi in pugno è di Potere che si tratta - e delle regole del gioco. Schemini rigidi, appiattenti. Che ritagliavano dalla complessità risposte rigide, appiattenti, e per questo terribili e crudeli. Impossibilità di trascrivere tutto questo pena una nuova condanna inferta di mano propria, pena riprecipitare con nuova gratuità in quel gorgo: pena riattaccarsi addosso quell'odore di paura e di morte emanato e vissuto. Ma soprattutto impossibilità di trascrivere tutto questo perché quel linguaggio, quella logica sono divenuti, col disinnesco del corto circuito semplificatorio, simulazioni quasi indecifrabili. È forse ancora più amaro, ma molto spesso è purtroppo così.


Qualcuno potrebbe obiettare che allora, se non si vuole rischiare "Tutta la Verità", meglio il silenzio. Forse. Anche se è vero che la Verità non è mai Tutta. O meglio, che non vi è una sola Verità.


È legittimo chiedersi, d'altro canto, se si tratti comunque qui di rimozione furba e consapevole o di naturale cesura della memoria. È difficile a dirsi. Certamente non spetta a me, anche se, personalmente, propenderei per la seconda ipotesi. Ma, comunque sia, un fatto mi pare certo: che di questa sua storia l'autore fa letteratura.


Né direi che di irresponsabilità si possa tacciare questo approccio alla conoscenza delle cose. Certamente fu più irresponsabile, nel senso immediato di fuga dalle proprie responsabilità individuali oltre che sociali, l'abbandono del terreno "di lotta" quotidiano, con i suoi invisibili movimenti, i suoi due passi avanti e due indietro, con la miopia e le scaltrezze della controparte, per quel miscuglio di piazza Rossa e di America Latina, di CIA e di Medio Oriente, che simulammo malamente, chi per un verso chi per un altro su un terreno irto di problemi - sul quale tra l'altro ci muovevamo diciamo pure con responsabilità, da anni- ma di ben altra natura.


E allora, tolta la griglia forte dell'ideologia impossibile, quello che rimane sono le persone, i contatti di pelle, gli odori, gli ambienti, le impressioni, le emozioni, le paure. Ma questa non è più storia è letteratura. D'altro canto anche la letteratura dice delle cose. Se cadiamo bene, un romanzo ci può far capire un contesto storico più di mille libri di storia. Solo, nega a priori l'oggettività del contenuto. È uno spaccato umano che non ha il dovere di dare i propri riferimenti, le proprie citazioni. L'unico dato indiscutibile è il nome dell'autore. Ma anche questo non deve dimostrare la veridicità del suo io narrante. E come tale pensiamo che "Armi e bagagli" vada letto. E che, sotto questa angolatura, possa anche dare degli spunti di conoscenza di quel fenomeno complesso che è stato il terrorismo. Fenomeno dai più diversi motori, che ci piacciano o no, e che prevedeva anche un professore che, a tempo perso, in mezzo a persone che si addestravano con le mitragliette, andava in biblioteca a preparare un saggio sul "Convivio" di Dante. Poiché questo l'autore, ci dice in un periodo, faceva.


E che prevedeva anche - come ci viene raccontato - episodi angosciosi ed emblematici come quello dell'operaio dell'Italsider che, legatosi attorno al collo, con la propria fragilità, il cappio di una ideologia fondata sulla coercizione, dopo vari maldestri tentativi, riesce a liberarsene solo stringendoselo definitivamente, una volta per tutte, in una buia cella di carcere.


Pagine di letteratura che ci colpiscono nel profondo, che non ci lasciano indifferenti.


Ma allora, ci domandiamo, perché a quei mutevoli personaggi da romanzo, che si stagliano sullo scenario del dramma, dare i nomi di persone realmente vissute? Visto che non di capatine in biblioteca per esse spesso si trattava, ma di ben altri "pranzi di gala", oggi deprecati? Poiché solo in un libro di Storia è importante sapere che Robespierre, ad esempio, fu il promotore del Terrore, mentre in un romanzo dei personaggi interessa solo ciò che essi significano, il senso che possono avere rispetto al contesto, o anche alle nostre vite.


Forse, comunque, al di là delle pecche di modestia dell'autore, al di là della buona scrittura che ci chiama complici, il pregio di questo romanzo è proprio la sua terribile assenza di risposte ai perché, la consapevolezza di non saper dare una risposta, che ci invita ancora a cercare le mille risposte possibili.
Perché ricercare la verità è un ottimo proposito, basta essere pronti a non trovarne una sola, quella che si vorrebbe. E comunque partecipare alla ricerca. E questo lo dico prima di tutti a me.Sullo stesso argomento
In biblioteca



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www.huffingtonpost.it/entry/le-car...b657fd3ccaa50e/



Le carte di Moro, la trattativa di Craxi.

Da dove ripartire per dare giustizia a Tobagi



Marco Minniti: "Nessun punto di Pil può essere scambiato con la parola libertà"


L'Europa al test dei rifugiati ucraini
Johnson vuole cacciare la Russia fuori da Swift. L'Europa no. Perchè è così importante da dividere l'Occidente
Politica
Le carte di Moro, la trattativa di Craxi. Da dove ripartire per dare giustizia a Tobagi
di
Maria Antonietta Calabrò
ANSA foto



Benedetta Tobagi, figlia dell’inviato del Corriere della Sera ucciso 40 anni fa, pone ancora oggi domande sull’assassinio del padre e sulla necessità di aprire gli archivi dell’antiterrorismo
28 Maggio 2020


Benedetta Tobagi, figlia dell’inviato del Corriere della Sera Walter Tobagi, ucciso come oggi 40 anni fa, pone alcune domande sull’assassinio del padre e sulla necessità di aprire gli archivi dell’antiterrorismo per approfondire lo scenario di quel delitto. In parte questo è stato fatto negli ultimi anni con la desecretazione voluta dal Governo Renzi del 2014 degli atti di Ministeri, Servizi segreti, Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza, relativi ad atti di strage e terrorismo.

Ho studiato gran parte di quei documenti (versati alla commissione di inchiesta Moro2) ed essi dimostrano possibili connessioni tra l’assassinio di Tobagi e il caso Moro. Quindi in base a quegli atti - dalla fine del 2018 pubblici - possiamo rispondere in prima approssimazione alla richiesta di nuova chiarezza avanzata della figlia.

Come è noto fu la Brigata “XXVIII marzo” ad uccidere Tobagi, esattamente due mesi dopo l’irruzione nel covo brigatista di Genova in via Fracchia da parte degli uomini del generale Dalla Chiesa, il 28 marzo 1980. La strage di via Fracchia fu una degli ultimi importanti reportage di Tobagi, prima della morte. Con lui furono inviati a Genova dall’allora direttore Franco Di Bella anche Antonio Ferrari e Giancarlo Pertegato.

Solo oggi però sappiamo che Tobagi - cattolico, socialista, vicino al segretario Bettino Craxi - ebbe un ruolo nella ″trattativa” milanese che Craxi instaurò durante il sequestro Moro per la salvezza dello statista Dc e che faceva perno sul generale Dalla Chiesa. Una “trattativa “ distinta da quella “romana” che coinvolse Piperno, Morucci e Faranda. Questo filone “milanese” è emerso solo negli ultimi anni grazie alle indagini della Commissione Moro2. Facendo emergere tanti fatti e circostanze che illuminano gli ultimi anni della vita di Tobagi, e forse, anche la sua morte. La conoscenza di quegli anni infatti è molto progredita, portando alla luce fatti sorprendenti, che potrebbero anche spiegare come mai nell’archivio di Villa Wanda sequestrato nel 1981 a Licio Gelli fosse conservata una copia del volantino di rivendicazione dell’assassinio di Tobagi.

L’impegno di Tobagi per salvare Moro.

Umberto Giovine, iscritto al Psi sin da ragazzo, militante nella Federazione milanese, con incarichi nell’ambito dell’Internazionale socialista e direttore di ”Critica Sociale”, ha dichiarato alla Commissione Moro 2 (tra il 2015 e il 2017) che l’input per cercare d’intervenire nella vicenda Moro per salvare la vita del sequestrato avvenne qualche giorno dopo il 16 marzo 1978, a Torino, durante il congresso del Psi. “Ebbi modo di parlare con Walter Tobagi, che conoscevo da molti anni, e mi disse che secondo lui avrei potuto e dovuto fare qualcosa attraverso Critica Sociale visto che lui personalmente, data la sua posizione al Corriere della Sera non poteva agire”, disse Giovine. “Craxi - aggiunge- in ogni caso poteva contare sull’appoggio e il contributo del generale Dalla Chiesa che era responsabile nazionale delle carceri di massima sicurezza e che in tale veste poteva muoversi anche in modo indipendente e senza specifiche autorizzazioni del Governo”. Il Corriere della Sera, il 2 aprile 1980, negli articoli che illustravano l’irruzione in via Fracchia segnalava che sarebbe stata trovata nel covo delle Br una cartellina con un appunto ”materiale da decentrare sotto terra”.

Il “tesoro” di Genova: tutte le carte di Moro.

Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, scriverà anni dopo la barbara uccisione di Tobagi, nel numero 1 di ”Pagina” del 25 febbraio 1982, e nel periodico ″Illustrazione Italiana”, n. 32, luglio 1986: ”Disse a caldo (dopo l’irruzione nel covo brigatista di via Fracchia, ndr) l’allora procuratore della Repubblica di Genova, Antonio Squadrito: La verità è che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi… Soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc, al Paese”. La rivelazione di Caprara è precisa e circostanziata. Ma di quelle trenta cartelle ″meticolosamente scritte da Aldo Moro”, indicate dal magistrato, che nel 1980 era al vertice della Procura del capoluogo ligure, non è stata trovata alcuna traccia agli atti del processo penale per la strage di via Fracchia.

I lavori della Commissione Moro 2 sono partiti da qui. La quantità e l’importanza del materiale sequestrato in via Fracchia si desumono esaminando il verbale di perquisizione e sequestro (acquisito agli atti della Commissione) che reca un impressionante elenco di 753 reperti, che certamente dal punto di vista investigativo poteva essere considerato un ″tesoro”. Tenuto conto degli interrogativi che sono nati dai parziali ritrovamenti documentali avvenuti nel covo di via Monte Nevoso a Milano (nel 1978 e nel 1990), la citata esternazione di Squadrito è apparsa meritevole di serio approfondimento, anche alla luce delle indicazioni sul ruolo che la colonna genovese guidata da Riccardo Dura, nel sequestro Moro. Già il presidente della Commissione Stragi (attiva fino al 2001), Giovanni Pellegrino, aveva elaborato l’ipotesi - che durante il sequestro Moro - ci fosse stato in realtà un doppio ostaggio: Moro, appunto, ma anche numerosa documentazione “sensibile” in mano alle Brigate Rosse (il memoriale completo, interrogatori…)

Solo agli inizi degli Anni Duemila, sono cominciati ad emergere nuovi fatti. Nell’articolo intitolato “Via Fracchia, ricordi indelebili. Quella donna in giardino, l’uomo con il piccone”, pubblicato venerdì 13 febbraio 2004, firmato da Simone Traverso sul Corriere Mercantile, storico quotidiano della città della Lanterna, vengono riportati i ricordi raccolti dalla ″gente del civico 12″, tra cui quello di ″un uomo misterioso, forse Riccardo Dura, che scavava con un piccone nell’erba alta delle aiuole”. Testimonianza questa che descrive una caratteristica peculiare del covo: la presenza anche di un giardino di pertinenza, a cui si accedeva dalla cucina e dalla sala da pranzo, e che conduceva alla parte posteriore dell’edificio. ″Un giardino che, incredibilmente – annota la Commissione Moro 2 – non trova esplicita menzione negli atti processuali, né viene evidenziato nella ricostruzione della planimetria dell’appartamento”.

Anche lo scavo di un’ampia buca nel giardino del covo non fu riferito negli atti giudiziari del 1980, ma è stato esplicitamente rievocato solo il 15 marzo 2017 nel corso delle dichiarazioni a Palazzo San Macuto dal pm Filippo Maffeo, intervenuto sul posto in qualità di pubblico ministero di turno, la mattina del 28 marzo 1980. Il magistrato ha indicato con certezza il particolare che in giardino il terreno appariva smosso da poco tempo, precisando le rilevanti dimensioni dello scavo, corrispondente, a suo avviso, al volume di tre valigie di media grandezza. Uno scavo immediato e verosimilmente mirato non poteva che scaturire dalla disponibilità di indicazioni precise. Quell′operazione dovette durare ore ed ore e terminare, appunto, prima dell’arrivo del magistrato di turno.

L’agente tedesco nella palazzina di Tobagi, le carte “segrete” di Moro.

Umberto Giovine (che ha illustrato da qualche anno il ruolo di Tobagi nella trattativa per Moro) ha anche parlato davanti alla Commissione della opaca vicenda di Volker Weingraber (alias Karl Heinz Goldmann), un agente tedesco occidentale che operò in Italia durante il sequestro Moro. Ecco, ben 6 informative del Sisde che lo riguardavano sono state desecretata dall’Aise (l’attuale servizio segreto estero) nel giugno 2017. In particolare, dagli atti del nostro servizio segreto – solo ora resi noti – risulta che Weingraber giunse a Milano nel febbraio 1978 e che si mise in contatto con diverse persone, tra cui il terrorista Oreste Strano e un gruppo che preparava il sequestro di un imprenditore svizzero.

L’informativa del 6 novembre 1978 precisava inoltre che ″la fonte infiltrata ha avuto contatti con Aldo Bonomi il quale gli avrebbe confermato di essere in grado di procurare armi e documenti falsi per sviluppare attività eversive″. La fonte – continua la citazione – ”ritiene che Bonomi sia un provocatore e un confidente della Polizia. Sarebbe stato isolato dalle Br perché ha sempre evitato di assumersi compiti rischiosi nell’ambito dell’organizzazione”.

Ma ″la fonte infiltrata″ – come risulta da un’altra lettera desecretata del 2 novembre 1990 inviata dall’ammiraglio Martini, capo del Sismi, al capo della Polizia, prefetto Vincenzo Parisi oggi desecretata – altri non era che proprio Weingraber, il quale lavorava in un’operazione congiunta del Sismi e dei servizi segreti tedesco e svizzero. Risulta inoltre che Weingraber – come confermato dal colonnello Giorgio Parisi al giudice Priore il 28 settembre 1990 e anche questo è in un documento desecretato– entrò in contatto, tramite Strano (che aveva una compagna tedesca), anche con Nadia Mantovani, cioè la persona che aveva avuto l’incarico di battere a macchina il Memoriale Moro, e che prima del suo arresto, a Novara frequentava una radio di sinistra extraparlamentare collegata alla Rote Armee Fraktion. Va pure segnalato che Weingraber alloggiò a partire dal 1978 in Italia nello stesso palazzo dove abitava Tobagi, ucciso il 28 maggio 1980. Ma poi fu lo stesso Strano a denunciare Weingraber pubblicamente come un infiltrato, dopo che al valico del Brennero vennero sequestrati a quattro cittadini tedeschi 800 fogli di documenti: ciò accadde poche settimane prima della seconda scoperta di materiale proveniente dal sequestro Moro nel covo di via Monte Nevoso 8, a Milano, nel novembre 1990”.

Walter Tobagi, odiato senza ragione Su Rai Storia il ricordo del cronista a 40 anni dalla morte














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Il delitto Tobagi e le polemiche infinite



Posted on 27 Maggio 2020

L’omidicio di Tobagi si trasformò in una resa dei conti tra differenti organizzazioni sindacali del giornalismo lombardo che vedevano contrapposti craxiani e giornalisti del Pci. Ne venne fuori una narrazione complottista che vedeva negli autori del delitto dei semplici manovali. Le tesi dietrologicche furono rilanciate dopo la scoperta delle dichiarazioni di un confidente che aveva indicato in Tobagi un possibile obiettivo e che aprirono un nuovo fronte di polemiche, stavolta tra ex appartenenti all’antiterrorismo. Davide Steccanella ripercorre dettagliatamente l’intricata vicenda
di Davide Steccanella

Tobagi targa errata

La targa sbagliata del Liceo Parini che attribuisce l’omicidio alle Brigate rosse

Nel libro Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi, 2009) Benedetta Tobagi ha scritto: «scegliendo di montare tasselli poco chiari, si possono tessere trame verosimili, ma non verificabili, oppure riesumare polemiche già consumate contando sulla memoria corta dei mezzi d’informazione». Vanamente verrebbe da dire, perché come per l’omicidio di Aldo Moro anche per quello di Walter Tobagi, guarda caso i due delitti di maggiore rilevanza mediatica tra i tanti compiuti durante i cosiddetti “anni di piombo”, non manca chi ancora oggi sostiene che sarebbero stati condannati gli esecutori e non i “mandanti” o che comunque permangano irrisolti misteri.

Nel “caso Tobagi” si verificò persino uno scontro istituzionale senza precedenti tra il Presidente della Repubblica e i membri togati del CSM che nel dicembre del 1985 si dimisero in blocco per il divieto posto da Francesco Cossiga alla fissata trattazione in seduta plenaria delle dichiarazioni rese qualche giorno prima dall’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi.



Ricapitoliamo i fatti in ordine cronologico



Walter Tobagi fu ucciso il 28 maggio 1980 e l’omicidio fu rivendicato da una sigla, Brigata 28 marzo, che pochi giorni prima, 7 maggio, aveva rivendicato il ferimento del giornalista di Repubblica Guido Passalacqua.

Il nome richiamava la data di un’operazione dei carabinieri di due mesi prima in una base genovese delle Brigate rosse in via Fracchia nel corso della quale erano morti i quattro i militanti che si trovavano al suo interno; il giorno dopo Walter Tobagi aveva scritto sul Corriere della sera un articolo dal titolo: Adesso si dissolve il mito della colonna imprendibile.


L’operazione era stata resa possibile dalle rivelazioni fatte ai magistrati torinesi dal primo brigatista pentito, Patrizio Peci, in merito al quale il 20 aprile Tobagi aveva firmato un secondo articolo dal titolo Non sono samurai invincibili.


In quello che sarà uno dei suoi ultimi scritti (l’ultimo, Senza promettere la luna, dedicato alle imminenti elezioni, sarà pubblicato il 23 maggio) si legge: «Le notizie delle ultime ore, la tragedia dell’avvocato Arnaldi a Genova o l’arresto di Sergio Spazzali a Milano, sembrano iscriversi in quel filone aperto da Peci e dagli altri brigatisti pentiti. L’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze. E forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascano non dalla paura, quanto da dissensi interni, laceranti sull’organizzazione e sulla linea del partito armato».


L’indagine affidata agli ufficiali della sezione antiterrorismo dei carabinieri di Milano Umberto Bonaventura e Alessandro Ruffino e coordinata dal Sostituto Procuratore della Repubblica Armando Spataro fu particolarmente rapida e dopo soli quattro mesi vennero arrestati tutti i responsabili.
Dai documenti d’indagine risulta che il 5 giugno viene posta sotto osservazione un’abitazione di via Solferino 34 intestata a Caterina Rosenzweig, nota agli inquirenti perché arrestata il 23 marzo di due anni prima, avendo la stessa dimenticato passaporto e guanti nel corso di un attentato incendiario alla Bassani Ticino di Venegono Inferiore (VA) rivendicato dalle Formazioni Comuniste Combattenti, nella cui base milanese di via Negroli il 13 settembre 1978 era stato arrestato Corrado Alunni.


Gli inquirenti sapevano del suo legame con Marco Barbone perché costui le aveva inviato in carcere alcune lettere e l’11 giugno dispongono l’intercettazione delle utenze telefoniche della Rosenzweig e di coloro che, oltre a Barbone, risultavano in costante contatto con lei: Paolo Morandini, Silvana Montanari e Stefano Mari.


Contemporaneamente viene disposta una perizia per confrontare la grafia che compariva sulle buste di rivendicazione di due attentati del 1979 ai giornali L’Unità e Il Corriere della sera siglati Guerriglia Rossa, con quella, che risultava identica, del manoscritto di rivendicazione di una rapina del 1978 in via Colletta reperita in via Negroli e quella, pure apparentemente simile, delle lettere inviate da Barbone alla fidanzata.


Il 5 luglio Barbone parte per il servizio militare ad Albenga e a settembre L’Espresso pubblica le dichiarazioni rese l’8 luglio dal generale Dalla Chiesa alla Commissione Moro in cui riferiva che per l’omicidio Tobagi stavano indagando su ex militanti delle FCC di Alunni e sulla base dell’esito confermativo del 16 settembre della perizia sulla sua grafia, il 25 settembre Barbone viene arrestato per la rapina di via Colletta, per evitare, diranno gli inquirenti, che messo in allarme da quell’articolo si desse alla fuga e tradotto nella caserma Porta Magenta di via Tolentino.


Il 2 ottobre Barbone interrogato nega ogni addebito, al termine il PM Spataro lo informa che è sospettato anche per l’omicidio Tobagi e gli attentati di Guerriglia Rossa, il giorno dopo chiede un incontro riservato con il generale Dalla Chiesa in caserma e il 4 ottobre verbalizza al PM i nominativi degli altri cinque componenti della 28 marzo che vengono tutti arrestati.


Si tratta di due operai e tre studenti: Paolo Morandini, 21 anni, Daniele Laus, 22 anni, ex militante nella SAP (Squadra Armata Proletaria) Sempione, Manfredi De Stefano, 23 anni, operaio IRE di Varese ed ex militante in altra SAP legata alle FCC, Mario Marano, 27 anni, e Francesco Giordano, 28 anni, entrambi ex militanti delle Unità Comuniste Combattenti di Guglielmo Guglielmi.
Morandini e Laus confessano subito (il secondo ritratterà in istruttoria) e il processo denominato Rosso-Tobagi inizia il 1° marzo 1983 e si conclude il 28 novembre dello stesso anno con la condanna dei sei imputati e la scarcerazione di Barbone e Morandini in applicazione della legge premiale n. 304 del 1982.



La campagna dell’Avanti


Sin dalla conclusione dell’istruttoria il PSI, sollecitato da alcune affermazioni dell’allora direttore del Corriere Franco Di Bella (successivamente risultato iscritto alla P2 di Licio Gelli), che riteneva che il movente dell’omicidio fosse da ricercare nell’impegno sindacale del giornalista, monta una campagna stampa su L’Avanti in cui mette in discussione la verità di Barbone, sostenendo che fosse stata concordata con la Procura in cambio dell’impunità per la fidanzata Caterina Rosenzweig, perché il testo della rivendicazione dell’omicidio appariva un elaborato troppo tecnico per non essere stato scritto da un giornalista professionista.


Il 27 maggio 1983, in occasione della campagna elettorale, il segretario Bettino Craxi (che il 4 agosto diventerà il nuovo Presidente del Consiglio) dichiara in un comizio al Castello Sforzesco che «Gli organi di polizia e la magistratura fin dal dicembre 1979 erano a conoscenza che gruppi terroristici progettavano un attentato a un giornalista milanese che la fonte confidenziale indicava in Walter Tobagi, informandoli del luogo esatto dove l’attentato sarebbe stato compiuto».


Procura e carabinieri smentiscono indignati, affermando che quando il nome di Tobagi era stato trovato nel gennaio del 1979 in una valigetta attribuibile ai Reparti Comunisti d’attacco (gruppo collegato alle Formazioni Comuniste Combattenti) al giornalista fu proposta una scorta che lui rifiutò, ma dopo le polemiche all’esito del processo per la scarcerazione di Barbone e Morandini, il 19 dicembre 1983 l’allora Ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro rivela l’esistenza di un appunto riservato del 13 dicembre 1979 in cui un carabiniere che si firma Ciondolo riporta la notizia ricevuta da una fonte confidenziale.
«Secondo il postino, il (segue il nome di un altro confidente) e gli altri avrebbero lasciato il proposito di compiere azioni in Varese ma avrebbero in programma un’azione a Milano. Costui non ha lasciato capire pienamente quale possa essere il loro obiettivo ma ha riferito al postino che si tratta di un vecchio progetto delle Formazioni comuniste combattenti. Per quanto riguarda l’azione da compiere qui a Milano e la zona nella quale il gruppo sta operando il postino ritiene che vi sia in programma un attentato o il rapimento di Walter Tobagi e la zona in cui il gruppo sta operando dovrebbe essere quella di piazza Napoli-piazza Amendola-via Solari dove il Tobagi dovrebbe abitare».


L’Avanti pubblica il documento e il carabiniere Ciondolo viene prontamente identificato nel brigadiere Dario Covolo e così pure il postino: si tratta di un ex militante varesino delle FCC, Rocco Ricciardi, arrestato il 16 novembre 1981, il quale sin dal marzo del 1979 aveva iniziato a collaborare segretamente con i carabinieri consentendo loro di arrestare nel maggio dello stesso anno a Como sette componenti di rilievo delle FCC, che di lì a poco cesseranno di esistere.
La fonte di Ricciardi in realtà non era un altro confidente, ma, come si legge nel documento, Pierangelo Franzetti, ex operaio IRE di Varese, militante nei Reparti Comunisti d’Attacco.



Quel documento era difficilmente collegabile al delitto



A quel punto, posto che meno di sei mesi dopo Walter Tobagi fu effettivamente colpito in via Solari da Barbone che aveva militato nelle FCC di cui aveva parlato Ricciardi e meno di quattro mesi dopo gli inquirenti furono già in grado di arrestarlo, si disse che non si era voluto impedire una morte annunciata e si era imbastita una versione di comodo.


In realtà, ad un’attenta lettura, quel documento non era facilmente collegabile al delitto di sei mesi dopo e tanto meno a Barbone e non perché, come disse qualcuno, ancora non poteva esistere la sigla Brigata 28 marzo (che si riferiva alla data di un fatto accaduto l’anno successivo), ma per altre ragioni.
Ricciardi si limita a dire che secondo lui il fatto che Franzetti gli avesse detto che il suo gruppo stava cessando azioni su Varese per spostarsi a Milano per un precedente progetto delle FCC poteva significare il sequestro di Tobagi, perché agli inizi del 1978 era stato uno degli obiettivi del gruppo. Ricciardi, che ben conosceva Barbone e la Rosenzweig (e proprio per il progettato sequestro Tobagi), non li nomina con riferimento al Franzetti e neppure quando, parlando di altro, cita ex militanti delle FCC (Balice, Serafini, Belloli), per cui dedurre che da quell’appunto gli inquirenti avrebbero potuto risalire al futuro fondatore della 28 marzo, ai tempi persona incensurata, appare una forzatura.


Neppure col senno di poi tuttavia, quando nel dicembre del 1983 tutte le indagini su quei gruppi si erano ormai concluse, quell’appunto appare collegabile all’omicidio di sei mesi dopo. Le successive indagini accerteranno infatti che nel dicembre 1979 il gruppo che l’anno dopo avrebbe assunto la sigla 28 marzo si era appena formato e organizzava rapine di autofinanziamento e Barbone aveva cessato da tempo ogni contatto con gli ex FCC, tanto che Ricciardi rimasto in contatto con loro nulla più sapeva di lui, né di Guerriglia Rossa né di altro. Per cui si può affermare con adeguata certezza che nel dicembre del 1979, contrariamente all’idea che si era fatta il Ricciardi, non era ancora in preparazione un attentato al giornalista del Corriere, né da parte del gruppo di Barbone né da parte di quello di Franzetti.



La querela di Spataro


Ma le polemiche non si placano e Spataro sporge querela per diffamazione contro il direttore dell’Avanti Ugo Intini, il vicedirettore Francesco Gozzano, i giornalisti Adolfo Fiorani e Piervittorio Scorti, il sociologo Roberto Guiducci e i deputati PSI Salvo Andò e Paolo Pillitteri, mentre Ricciardi scrive un memoriale dove nega di avere fatto a dicembre il nome di Barbone, ammettendo di essere stato contattato dai Carabinieri dopo l’omicidio di Tobagi: «Per parte mia mi impegnai nella ricerca di notizie sulla 28 marzo. In proposito riuscii a riferire ai carabinieri una sola voce: Marchettini mi aveva detto che un tale Manfredi che conoscevo personalmente, parlando in un bar con il Franzetti alla presenza di Marchettini stesso, aveva lasciato vagamente intendere che aveva rapporti con la 28 marzo. I CC, sempre durante l’estate, identificarono questo Manfredi per Manfredi Di Stefano ed io ne riconobbi la foto».
Nel 1985, al processo di appello (nel frattempo Manfredi De Stefano era morto il 6 aprile 1984 nel carcere di Udine) la versione di Barbone viene confermata da Marano e Laus, che, scrive Leo Valiani: «il 4 giugno in una lucida deposizione ha corretto le precedenti forzature tese a lasciar bollire nell’ambiguità l’ipotesi dei mandanti del delitto, di mani estranee e specializzate nella stesura del volantino e a diradare le possibili ombre di un coinvolgimento di Caterina Rosenzweig».


Ricciardi, intervistato il 14 giugno 1985 dall’Unità prima di deporre, dichiara: «Intendo dire tutto con chiarezza perché sono state commesse leggerezze sul mio conto anche dall’onorevole Scalfaro che ha fatto il mio nome in Parlamento, esponendomi a rappresaglie e mettendo in pericolo i miei familiari. Si è detto che avrei preannunciato l’omicidio di Walter Tobagi. Ma questo non è vero. Per conto mio percepii che Franzetti potesse parlare di Tobagi giacché nei suoi confronti c’era stato da parte delle Formazioni Comuniste Combattenti quel vecchio progetto di sequestro nel gennaio 1978. Fu una mia personale ipotesi e in questi termini la riferii ai carabinieri».


Il 7 ottobre 1985 la Corte di appello conferma la sentenza di primo grado (con sconti di pena per Marano e Laus), che diviene definitiva nell’ottobre dell’anno successivo.


Il 23 Novembre 1985 il Tribunale di Roma condanna Intini, Andò, Pillitteri, Gozzano e Fiorani per diffamazione ai danni di Spataro e il Presidente del consiglio Craxi dichiara al Tg «Faccio mie parola per parola tutte le affermazioni ed i giudizi che hanno determinato la condanna dei compagni socialisti», affermazione che apre un “caso” senza precedenti al CSM perché il 5 dicembre il Presidente della Repubblica Cossiga ne vieta la discussione determinando le dimissioni (poi rientrate) di tutti i membri togati.


In appello interviene l’applicazione della sopraggiunta amnistia con conferma del risarcimento danni a Spataro, ribadito dalla Cassazione nel 1987 e il 21 maggio 1993 il Tribunale di Milano assolve tutti gli imputati delle FCC, tra cui Barbone, Ricciardi e la Rosenzweig, per il tentato sequestro di Walter Tobagi del 1978, perché il fatto non sussiste.



Le accuse di Magosso e Arlati


La vicenda sembrerebbe finita, quando nel 2003 il giornalista Renzo Magosso e l’ex capitano Roberto Arlati pubblicano per Franco Angeli il libro Le carte di Moro, perché Tobagi che riprende le accuse ai carabinieri e il 17 giugno 2004 Magosso pubblica sul settimanale Gente un’intervista a Dario Covolo dal titolo Tobagi poteva essere salvato che accusa i superiori Ruffino e Bonaventura di avere chiuso le sue note in un cassetto e di avere subito mobbing per quel fatto.

Il 18 giugno 2004 alla Camera il deputato verde Marco Boato dichiara: «A distanza di 24 anni sono ricorrenti gli interrogativi sulle gravi omissioni da parte di ufficiali dei carabinieri dell’epoca che nascosero e non diedero seguito a una nota informativa preventiva redatta da un sottufficiale del nucleo antiterrorismo» e l’ex deputato Claudio Martelli allestisce uno speciale su Canale 5, seguito nel 2005 da Giovanni Minoli sulla RAI che dedica al “caso Tobagi” un’intera puntata di La storia siamo noi, in cui trasmette un’intervista a Covolo (da tempo traferitosi all’estero), che ribadisce la tesi del “delitto annunciato”.



Un’altra querela

Ruffino e la sorella di Bonaventura (deceduto nel 1992) querelano per diffamazione Magosso, Covolo e il direttore di Gente Umberto Brindani e nel corso del processo che si celebra avanti il Tribunale di Monza, all’udienza dell’11 luglio 2007 Dario Covolo viene esaminato come imputato di reato connesso e quando gli viene mostrato l’appunto del 13 dicembre 1979 dichiara: «ci sono degli appunti successivi a questo, dove si fa nome e cognome di quelli che devono ammazzare. O per lo meno si fa il nome e si dice: Guarda che il gruppo che sta operando dovrebbe essere la Caterina e il suo fidanzato, il suo convivente, Barbone Marco, non mi si fanno i nomi degli altri però quei nomi vengono fatti in successivi appunti».


Questi “ulteriori appunti” non verranno mai rintracciati e il 23 luglio 2007, nel corso di una conferenza a Milano dal tiolo Le verità nascoste. Il caso Tobagi, sempre Covolo dichiara: «Spiegai per tempo in un rapporto che un attentato sarebbe stato fatto nei confronti di Walter Tobagi e diedi i nomi di chi l’avrebbe compiuto. Ma non venne preso alcun provvedimento. Dopo la morte di Tobagi ho avuto una discussione molto accesa con Ruffino perché gli avevo detto che volevano uccidere Tobagi e gli avevo fatto i nomi di Marco Barbone e altri. Queste cose le ho anche ripetute come testimone al processo in corso a Monza davanti a lui. L’incredibile è che per aver fatto il mio dovere ora devo risponderne legalmente».


Il 20 settembre 2007 il Tribunale di Monza condanna Magosso e Brindani e la sentenza viene definita dal Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Franco Abruzzo «lesiva della libertà di stampa», ma nel settembre dell’anno successivo viene condannato anche Covolo, condanne tutte confermate nel 2009 in Appello e definitive nel 2010.



Le polemiche continuano, arriva anche la commissione Moro


Al termine del libro Ragazzi di buona famiglia di Fabrizio Calvi (Piemme) si legge che: «Dopo ventisette anni, il barbaro assassinio di Walter Tobagi non ha ancora smesso di far discutere – e indignare – l’Italia».


Nel 2009 Benedetta Tobagi pubblica per Einaudi Come mi batte forte il tuo cuore in cui definisce la nota di Covolo troppo «generica» per costituire prova che i carabinieri fossero stati avvertiti sei mesi prima dell’omicidio del padre e dopo avere direttamente parlato con Covolo non ritiene sia stato «perseguitato per quel documento».


Nel 2010 Armando Spataro pubblica per Laterza Ne valeva la pena in cui racconta che l’indagine sulla 28 marzo si concentrò sull’area gravitante intorno alla sigla Guerriglia rossa sia perché aveva come obiettivo il mondo della stampa sia per le identiche modalità di recapito delle rivendicazioni a mezzo posta a vari giornalisti, e che fu Ruffino a rilevare per primo l’evidente identità di grafia tra la rivendicazione della rapina di via Colletta trovata due anni prima in via Negroli e quella sulle buste di rivendicazione di Guerriglia rossa e sulle lettere di Barbone alla Rosenzweig.


Ancora una volta la vicenda sembrerebbe conclusa, ma il 19 ottobre 2016 nel corso della seduta n. 107 della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro presieduta da Giuseppe Fioroni, l’ex deputato Umberto Giovine torna a parlare della vicenda Tobagi in termini accusatori:


«Come mai Caterina Rosenzweig rimane fuori dall’inchiesta? È una cosa inaudita. La giustificazione che dette – e lo dico con nome e cognome – Armando Spataro è ancora peggio del fatto in sé. Disse che, siccome Caterina Rosenzweig apparteneva a una «famiglia bene» di Milano – una cosa che un giudice non dovrebbe neanche pensare (io sono nipote di un magistrato), figuriamoci dirla – per questo è rimasta fuori dall’inchiesta; poi questi assassini hanno avuto delle pene irrisorie. Dopo l’affare Moro questa è la cosa che mi fa più andare in bestia quando penso all’Italia, non so se qualcuno ha il potere di intervenire ex post su una cosa del genere, ma che fosse una cosa invereconda lo si capì subito, solo che noi socialisti non ci comportammo in modo intelligente. Anziché muoverci in termini di diritto e contestare ogni mossa di Spataro, la buttammo in politica».



Il flop delle nuove rivelazioni


L’ingente elaborato finale della nuova Commissione Moro non approda a particolari novità, ma il 16 gennaio 2018 i media danno ampio risalto a una conferenza stampa organizzata da Renzo Magosso presso la sala dell’associazione lombarda giornalisti di via Monte Santo in cui vengono annunciate «nuove rivelazioni sull’omicidio Tobagi». Alla conferenza è presente il Giudice Guido Salvini, il quale, pur escludendo ogni «complotto», afferma che non essendo credibile che senza la nota Covolo i carabinieri abbiano potuto mirare proprio a Barbone nella scelta del reperto grafico da comparare con quello reperito due anni prima nella base di Alunni, vi fu una iniziale sottovalutazione di quel documento e dopo l’omicidio si è voluto celare la cosa.
Il giorno dopo Il Corriere della sera, forzando non poco il contenuto di quelle affermazioni, titola: «L’ultima verità sull’assassinio di Tobagi, il giudice Salvini: ‘Si poteva salvare’», e ne seguono nuove polemiche.


In realtà, a quella conferenza non fu esibito nessun nuovo elemento rispetto a quelli già noti. L’appunto di Bonaventura a Bozzo era stato depositato nel corso del processo di Monza, come risultava da una interpellanza presentata dal Partito Radicale riportata in un articolo datato 2008 reperibile sul sito web di Franco Abruzzo, dove si legge: «In quest’ultimo processo è emerso ora un fatto nuovo, giudicato dai Radicali grave e sconvolgente. Il generale Niccolò Bozzo – è scritto nell’interpellanza dei Radicali -, all’epoca dei fatti stretto collaboratore del generale Dalla Chiesa, sentito come teste, ha presentato un documento riservato preparato dai suoi superiori, nel quale venivano date indicazioni a Bozzo per fornire, se interrogato dalla magistratura, la versione ‘concordata’ sulle indagini». La scansione dei primi atti d’indagine era già stata riferita da Spataro nel libro Ne valeva la pena di otto anni prima (pagg. 82 e ss.) e l’articolo su L’Occhio del 25 settembre 1980, dove Magosso scriveva «Preso Marco Barbone delle Br, l’informazione viene da Varese», era stato citato da Stefania Limiti in un post datato 20 ottobre 2009 leggibile sul sito Miccia Corta.


Sempre nel 2018 Zona Contemporanea pubblica Vicolo Tobagi di Antonello De Stefano, il quale ricorda che il fratello fu arrestato mentre era con lui la sera del 3 ottobre ad Arona davanti al Bar Stadio, un giorno prima quindi della data del verbale di confessione di Barbone, confermando che Manfredi conosceva Marchettini perché avevano lavorato insieme all’IRE di Varese. Nel libro compare un’intervista a Francesco Giordano che dice di avere conosciuto i membri di quel gruppo alla fine del 1979 tramite Mario Marano, con loro vennero organizzate due rapine di autofinanziamento, la prima a ridosso di Natale 1979 a Castelpalasio e la seconda nel gennaio del 1980, e la proposta di un attentato a Tobagi gli fu fatta da Barbone dopo il 28 marzo del 1980.


Il 15 agosto 2018 Antonello De Stefano rilascia un’intervista a Roberto Pietrobelli sul Fatto Quotidiano in cui dichiara: «Mio fratello non è morto per un aneurisma e qualche inquirente ha falsificato le carte. Ho aspettato così a lungo a prendere un’iniziativa ufficiale sulla morte di mio fratello, perché ho voluto studiare i 138 faldoni del processo e leggere i 220 mila documenti che essi contengono. Manfredi venne picchiato nel carcere di San Vittore e salvato dalle guardie. Poi fu trasferito a Udine. Ed è all’amministrazione penitenziaria che mi sono rivolto». Si legge nell’articolo: «Pochi giorni fa De Stefano ha scritto a Francesco Basentini, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, nonché per conoscenza al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e ai ministri della Giustizia, della Difesa e degli Interni: Mi trovo nella condizione di richiederle le cartelle cliniche del detenuto Manfredi De Stefano, mio fratello, a far data dal 3 ottobre 1980 e fino al 6 aprile 1984, data della sua morte».




Anche la corte di Strasburgo dice la sua


Passano altri due anni e il 16 gennaio 2020 la Corte di Strasburgo condanna l’Italia per violazione del diritto alla libertà d’espressione di Renzo Magosso e Umberto Brindani assegnando loro un risarcimento di 15mila euro perché, si legge nella sentenza CEDU: «Legittimamente i querelanti potevano dolersi con il brigadiere che ha fatto le affermazioni riportate nel settimanale, per contestare l’eventuale falsità o parzialità delle sue dichiarazioni. Viceversa, quanto al cronista e al direttore responsabile del settimanale, l’oggetto della contesa non poteva riguardare la verità dei fatti narrati ma solo se il cronista si fosse limitato a riportare le frasi dell’intervistato, svolgendo ragionevoli verifiche sulla sua attendibilità, e non avesse operato proprie inserzioni e considerazioni offensive sulla narrazione riferita», aggiungendo che sul punto i tribunali nazionali «non hanno fornito motivi rilevanti e sufficienti per ignorare le informazioni fornite e i controlli effettuati dai ricorrenti, che sono stati il risultato di un’indagine seria e approfondita».


Nel commentare la sentenza a lui favorevole Magosso dichiara al Dubbio: «Se hanno saputo di Barbone solo successivamente, per quale motivo sono andati a controllare? A giugno del 1980 venni contattato dal direttore del Corriere, Franco Di Bella, che mi disse: il generale Dalla Chiesa mi ha detto che ad ammazzare Tobagi è stato il figlio del nostro direttore generale Donato Barbone. Così andai a verificare con Umberto Bonaventura, che confermò la circostanza, aggiungendo di essere arrivato a Barbone tramite un manoscritto anonimo su un attentato mai avvenuto ordito dalle Fcc nel quale riconobbe la calligrafia del giovane. Non ci ho creduto, ma lui mi disse che era un’informazione sicura che veniva da Varese. Così gli chiesi di informarmi dell’arresto, cosa che fece. Su L’Occhio scrissi: preso Marco Barbone delle Br, l’informazione viene da Varese. Otto giorni prima che confessasse. Come fa la magistratura a dire che non ne sapeva nulla?».


Anche qui, fermo restando che la CEDU non ha confermato la versione di Covolo, limitandosi a stabilire che non è perseguibile il giornalista che riporta dichiarazioni altrui dopo avere svolto adeguata inchiesta (che non significa inconfutabile), si potrebbe obiettare che quanto ricorda Magosso non smentisce la versione degli inquirenti. A giugno i carabinieri erano già sulle tracce di Barbone per cui l’anticipazione di Dalla Chiesa a Di Bella è imprudente ma compatibile; l’informazione da Varese poteva riferirsi a quanto riferito da Ricciardi su De Stefano dopo l’omicidio per averlo appreso dal Marchettini e non al precedente appunto del 13 dicembre 1979; se Magosso scrive il 25 settembre che Barbone è delle BR mostra di non essere troppo informato su costui, che comunque indica come arrestato e non come l’assassino di Tobagi.

In ogni caso, questi sono i fatti e ognuno è libero di interpretarli come ritiene, ma poiché ritengo probabile che per il quarantennale dell’assassinio di Walter Tobagi la vicenda della nota Covolo verrà ripresa, pareva corretto ricostruirla.

Pubblicato in Anni 70, Lotta armata, Teorie del complotto | Contrassegnato Alessandro Ruffino, Armando Spataro, Bettino Craxi, Brigata XXVIII marzo, Caterina Rosenzweig, Ciondolo, Dario Covolo, Davide Steccanella, FCC, Formazioni comuniste combattenti, Guerriglia Rossa, Marco barbone, Renzo Magosso, Rocco Ricciardi, Umberto Bonaventura, Walter Tobagi | 1 Risposta








Edited by barionu - 21/4/2024, 21:10
CAT_IMG Posted: 24/5/2023, 11:24 IL CASO MARIO FERRARO E MICHELE LANDI - ZIO OT DICE LA SUA












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La strana morte di Mario Ferraro, agente del Sismi







AutoreFabrizio ColarietiPubblicato11 Novembre 20113 commentisu La strana morte di Mario Ferraro, agente del Sismi




Roma, via della Grande Muraglia Cinese 46, 16 luglio 1995.

È domenica e a Roma è una giornata molto calda. Il tenente colonnello dell’Esercito, Mario Ferraro, 46 anni, calabrese, distaccato al Sismi, esperto in informatica, traffici di armi e terrorismo internazionale, è in casa insieme alla sua compagna, Maria Antonietta Viali, per gli amici Antonella. Sono al quinto piano, in un attico nel quartiere Torrino, accanto all’Eur. La coppia è in assoluto relax dopo aver trascorso una giornata serena e scandita da poche e semplici azioni, ignari che quella sia la loro ultima domenica insieme. La mattina si sono alzati tardi, intorno alle undici, hanno fatto colazione e poi sono andati sul terrazzo, portando con loro riviste, bibite e gli amati Toscani, a prendere il sole fino alle quattordici. Sono riscesi nell’appartamento per pranzare e hanno trascorso gran parte del pomeriggio in casa a ridere, scambiarsi baci, carezze e fare programmi per il futuro.

Verso le 19, quando il caldo è meno insopportabile, sono ritornati in terrazzo dove il ponentino, la brezza che arriva dal mare, comincia a rinfrescare l’aria e hanno giocato a scalaquaranta fin verso le venti quando Mario ha deciso di uscire a fare quattro passi. Mario ha infatti finito i suoi sigari, passione che ha in comune con la sua compagna e ha voglia di mangiare un gelato, per cui propone a Maria Antonietta di andare in tabaccheria e poi alla gelateria Giolitti, in viale Oceania. Lei vuole rimanere in casa per cui, dopo aver insistito un po', decide di uscire lo stesso, da solo. Fa la doccia, si veste sportivo con una polo e un paio di jeans e torna di nuovo in terrazzo per vedere se per caso Maria Antonietta ha cambiato idea. Lei è decisa a rimanere in casa a preparare la cena e poco prima che lui esca fa in tempo solo a chiedergli cosa vuole mangiare.



Un passo indietro. La storia di Maria Antonietta e Mario è molto bella, tra loro, infatti, scatta il classico colpo di fulmine. Quando si conoscono sono entrambi separati ma Mario vive ancora in casa con la ex moglie Lidia D.B. da cui ha avuto due figlie: la primogenita, Fabiana, (nel 1995 diciassettenne) e un'altra bimba, Roberta, portata via da un tumore nel 1987 a 5 anni. Mario ha due fratelli, Salvatore e Luigi, che frequenta abitualmente, e un’anziana madre. Tra loro comincia tutto cinque anni prima, nel novembre del 1990. Lavorano entrambi al civico sessantasei di viale Pasteur, all’Eur, dove Maria Antonietta fa la pierre nel ramo immobiliare e finanziario.

Una mattina, parcheggiando l’auto sotto il suo ufficio, conosce Fabio Marcelli, un uomo distinto, gentile e dai modi affabili, che si presenta alla donna come un funzionario di una ditta di import-export, la Cerico che ha i suoi uffici nello stesso palazzo. Fabio in realtà è Mario Ferraro, che usa questa copertura per ragioni di sicurezza essendo un agente del Sismi. I due si piacciono subito. Passano un paio di mesi, continuano a frequentarsi con la scusa di posteggiare le auto vicine, vanno al bar, fanno lunghe passeggiate attorno al laghetto dell’Eur e dopo poco la loro amicizia diventa una vera e propria relazione. Vanno in vacanza insieme diverse volte, in settimana bianca, passano molti weekend fuori Roma. Mario si lega sempre più a questa donna e lei a lui, a febbraio, dunque, fanno una scelta importante e coraggiosa: decidono di andare a vivere insieme, in una mansarda presa in affitto vicino la Cecchignola.

Nonostante tutto Maria Antonietta ancora non conosce la vera identità di quell’uomo con cui ha scelto di vivere né il suo vero lavoro, anche se, a causa di alcune circostanze, comincia a nutrire dei dubbi. Un giorno, infatti, è lo stesso Mario a tradirsi esclamando: “che stupido che sei, Mario” e nell'ufficio di Maria Antonietta in molti dicono che nella società di import-export, dove lavora il suo compagno, ci sono nascoste le barbe finte, gli 007. Lei non sa neanche cosa siano le barbe finte, è roba da film, è ingenua, è semplicemente innamorata di quell’uomo, ma alla fine chiede in giro e scopre informazioni che le confermano che Mario le nasconde molte cose.

Lo affronta, lui all’inizio nega, i due discutono, poi alla fine confessa: “Sono Mario Ferraro, un agente del Sismi, il servizio segreto militare”. Quell’ufficio, quella strana società che si occupa di import-export non è altro che una delle tante ditte di “copertura”: un ufficio distaccato del Sismi che si occupa di traffici internazionali, di armi e di terrorismo. Ma non c’è solo il Sismi in quel palazzo, addirittura qualcuno parla anche di una strana società israeliana e di agenti del Mossad che vanno e che vengono. La prima conseguenza della svelata identità è che il Sismi dopo pochi mesi richiama l’agente in sede, gli fa abbandonare l’ufficio “coperto” di viale Pasteur e lo fa rientrare a Forte Braschi, la sede centrale a Roma.





Fino a quel momento la carriera di Mario Ferraro è ricca di successi, non ultima la promozione al grado di tenente colonnello giunta a giugno del 1995, appena un mese prima della sua tragica scomparsa. Nel 1980, infatti, a soli 31 anni è tenente e passa dall’Esercito al neonato Sismi. Quattro anni dopo viene trasferito nel delicatissimo Ufficio sicurezza interna, la divisione, che sulla carta non esiste, ma che di fatto controlla il lavoro di tutti gli 007 del servizio segreto militare. Il suo ufficio è mascherato, si nasconde dietro l’Istituto per le Relazioni italo-arabe con sede in viale del Policlinico, ed egli riferisce direttamente al direttore, l’ammiraglio Fulvio Martini, nome in codice “Ulisse”, detto il “bastardo”, appena nominato ai vertici del Sismi. Mario Ferraro è un agente operativo, un esperto di affari internazionali, in particolare di traffici di armi ed esplosivi; ha al suo attivo un gran numero di missioni all’estero, un po’ in tutto il mondo. Nel 1986 viene inviato per tre mesi a Beirut dove indaga su traffici di armi. Al suo ritorno viene mandato all’ottava divisione, quella che si occupa di sicurezza industriale e di armamenti, che ha sede proprio in viale Pasteur. È un uomo riservato e sa il fatto suo. Quando viene trasferito a Forte Braschi fa carriera, da capitano a maggiore, lavorando nella divisione controspionaggio, la prima dove si occupa alacremente di flussi migratori. Porta avanti indagini importanti: nel 1993 si reca a Johannesburg, in Sud Africa, e nel 1994 in Somalia. All’Ufficio Sicurezza Interna gli passa per le mani ogni genere di porcheria commessa in giro per il mondo dai suoi colleghi ed è proprio lì che tra il 1984 e il 1988 comincia a inimicarsi un gran numero di persone. Nelle sue memorie, dove sono ben descritte le guerre e le gelosie interne al Servizio segreto militare, si comprende che lui era l’uomo giusto nel posto sbagliato. Nel luglio 1995, poco prima di morire, stava organizzando una missione in Albania: aveva programmato di recarsi a Tirana, dopo le ferie, intorno al 7 agosto. In quel periodo stava lavorando a qualcosa di delicato, forse un traffico tra l’Italia e il Paese delle Aquile, ma nessuno arriverà mai a scoprire di cosa si trattasse.



Una volta svelata a Maria Antonietta la sua identità non cambia solo ufficio, ma modifica profondamente il proprio atteggiamento con lei, nell’arco di un anno, infatti, tra il 1994 il 1995, in lui cambia qualcosa. Il trasferimento e la promozione a tenente colonnello lo avevano inizialmente reso felice, avevano festeggiato con una cena a lume di candela, e lui già pensava all'imminente divorzio e a programmare per l’autunno le nuove nozze, ma poi improvvisamente era diventato guardingo, sospettoso, quando rientrava dall’ufficio non aveva più il sorriso sulle labbra, come una volta, era pensieroso. Con Maria Antonietta era sempre stato riservato riguardo al suo lavoro, ma ora era evidente che c’era qualcosa che lo preoccupava, che lo faceva tornare teso dall’ufficio e sentire sicuro solo dopo essersi chiuso la porta di casa dietro le spalle. A confermare le sue ansie accadevano sempre più frequentemente alcuni fatti inquietati che lo rendevano ancora più vulnerabile: riceveva diverse telefonate mute al numero riservato di casa, oppure spesso, di notte, solo nel loro attico andava via la corrente, mentre nel resto del palazzo no. Era convinto che qualcuno ce l'avesse con lui ed era deciso a scoprire chi fosse. Aveva per questo adottato una serie di precauzioni, che, agli occhi della sua compagna erano inspiegabili: parlava raramente al telefono cellulare, usava sempre più spesso i telefoni pubblici, si affacciava dal balcone per controllare le auto in sosta, prima di parcheggiare faceva sempre diversi giri del palazzo fissando lo specchietto retrovisore. Aveva paura di essere pedinato e intercettato, ma non era preoccupato solo per sé, anche per la sicurezza della sua compagna. Fece adottare anche a lei una serie di precauzioni e voleva essere informato di ogni suo spostamento. Le raccomandava, nel caso mancasse improvvisamente l’energia elettrica, di non abbandonare l’appartamento per nessun motivo. La obbligava, quando usciva per fare delle passeggiate, a cambiare sempre orario e itinerario. Il 16 luglio, il giorno della sua morte, Mario, si era liberato di una grande quantità di documenti bruciandoli e buttandoli in un grosso sacco della spazzatura.



Anche mentre Mario è fuori per prendere sigari e gelato, accadono delle stranezze. Non appena l’ufficiale varca il portone di casa Maria Antonietta sente degli strani rumori provenire dall’ascensore del palazzo ma in quel momento non gli dà peso, lo ricorderà solo dopo. Sente lo scatto della fotocellula della porta della cabina ripetersi a intervalli regolari, per parecchi minuti, come se, dirà poi alla polizia, qualcuno stesse cercando di tenere aperta la porta dell’ascensore coprendo le cellule. Passa circa un’ora da quando Mario è uscito e quello strano ritardo insospettisce Maria Antonietta che scende dal terrazzo e rientra nell'appartamento chiedendo: “Mario sei rientrato? Dove sei?”. Lui non risponde. Dal corridoio la donna vede un po’ di luce che esce dalla porta del bagno leggermente aperta. Si rasserena perché pensa che sia lì e lo chiama ancora, ma dal bagno non esce alcun rumore. Bussa e poi spinge la porta, che però non si apre. Spinge con più forza e la scena che si mostra ai suoi occhi è terribile: Mario Ferraro è impiccato con la cinghia dell’accappatoio, lunga poco più di un metro assicurata al tubo di un appendiasciugamano fissato al muro a circa un metro e venti dal pavimento. La sua posizione è anomale e sospetta, infatti, sebbene egli sembri seduto a terra, il fondo schiena non poggia sulle mattonelle, ma è sospeso a circa dieci centimetri. Il cappio gira attorno al collo dell’ufficiale, è serrato e gli segna la pelle.



Mario è già morto e cianotico, ma, come affermerà poi Maria Antonietta, ha lo sguardo sereno e il collo leggermente reclinato su un lato. La donna è in stato di shock, pensa a tutto, anche che sia uno scherzo, lo chiama ancora, gli tocca la faccia, che è gelida. Afferra le forbici e taglia la cinta. Mario si accascia su se stesso. La donna gli bagna il viso, lo scuote, ma niente. Nessun segno. Nessuna risposta. A questo punto Maria Antonietta entra nel panico, chiama il medico di famiglia, gli dice che Mario sta male, di raggiungerla e di fare presto. Lui le raccomanda di sentirgli il polso, e la rassicura che arriverà presto, sarà infatti lui, più tardi, ad accertarne la morte. Passa del tempo, Maria Antonietta tergiversa, è confusa, si siede, poi torna da Mario e come le aveva detto il medico sente il polso e lì, capisce che è veramente morto. A questo punto chiama Salvatore, uno dei due fratelli di Mario, e gli urla che Mario non c’è più.



I primi a entrare nell’appartamento di Ferraro sono gli agenti del commissariato “Esposizione”. Poi arriva il fratello Salvatore. L’ispettore che redige il primo verbale, quello che verrà poi trasmesso alla Procura, dimentica di scrivere che Ferraro è un agente segreto, perché nel portafogli, come si vedrà in avanti, l’ufficiale ha un tesserino di copertura della polizia. A indagare è il sostituto procuratore Cesare Martellino, di turno quella sera. Piombano in casa anche gli agenti del Servizio segreto militare avvertiti da Maria Antonietta, che, come si accerterà poi, sono alla ricerca di materiale “classificato”, debbono, cioè, come si dice in gergo, bonificare l’appartamento. Lo fanno con gli agenti del commissariato “Esposizione” presenti sulla scena del crimine. Nessuno annota cosa fanno i colleghi dell'ufficiale, si muovono con disinvoltura, entrano nel bagno, girano per la casa, aprono cassetti, di fatto inquinano la scena.
Mario non può essersi suicidato. Non ci credono familiari e nemmeno Maria Antonietta che è distrutta, isolata. Mentre la polizia scientifica entra ed esce da quel bagno lei resta lì, immobile. È lucida e ripensa subito alla fotocellula dell’ascensore. Osserva poi l’appendiasciugamano, il cappio e grida a tutti: “Come ha fatto a suicidarsi, il portasciugamano è più basso di lui?” Ripensa anche al pomeriggio appena trascorso. Ricorda che prima di andare a letto, subito dopo pranzo, Mario aveva chiuso la serranda della camera ma non quella del salotto che dà su un terrazzo accessibile dal balcone condominiale. Era ossessionato dalla sicurezza, ma per caso quel giorno l'aveva dimenticata aperta e da lì sarebbe stato possibile entrare nel loro appartamento. C’è un altro fatto: le chiavi. Quando rientrava Mario, proprio perché temeva per la sua incolumità, chiudeva a chiave la porta, metteva il chiavistello e lasciava le chiavi nella serratura dopo aver dato tutte le mandate. Ma quella sera la porta è chiusa a chiave dall’interno e le chiavi non sono infilate nella serratura ma dentro un cassetto. È insolita come cosa, è più che un sospetto per Maria Antonietta che conosce tutte le ritualità del suo uomo. Ferraro non può aver chiuso quella porta in quel modo, mettendo la chiave nel cassetto. Perché non lo ha mai fatto. Allora la donna ripensa subito alla finestra aperta del salotto che da sul terrazzo e si delinea in lei il sospetto che mentre erano a letto, tra le quindici e le diciannove, qualcuno sia entrato, abbia prese le chiavi e ne abbia fatto una copia.




Una possibile ricostruzione, suggerita successivamente da un testimone dell'inchiesta, Antonino Arconte, è che qualcuno, dopo essere entrato nel loro appartamento dal terrazzo condominiale, abbia preso le chiavi, la cinghia dell’accappatoio e abbia atteso Mario fuori dall’ascensore. Qui lo ha aggredito, incappucciato con una bustina di plastica fino a soffocarlo, lo ha portato nel bagno e lo ha appeso all’appendiasciugamano inscenando il suicidio.
Il fratello di Mario Ferraro, Salvatore commenterà così ai giornalisti quello che ha visto: “ho trovato Mario seduto per terra, aveva un’espressione serena, non quella di un uomo che ha compiuto un gesto disperato. L’avevo sentito al telefono venerdì, tre giorni prima: era tranquillo, non aveva manifestato alcuna apprensione”. Parla anche Maria Antonietta con i giornalisti: “Mario negli ultimi tempi era preoccupato, si sentiva pedinato. Quando era uscito per il gelato, ho sentito strani rumori, ero sul terrazzo, provenivano dall’ascensore del palazzo: lo scatto della fotocellula della porta si ripeteva a intervalli regolari per parecchi minuti, come se qualcuno cercasse di tenere aperta la porta dell’ascensore. Mario non può essersi suicidato”. Maria Antonietta non è la sola ad avere più di un sospetto. Vengono sentiti anche i vicini e si accerta che nessuno, intorno a quell’ora, ha utilizzato l’ascensore. Passano alcuni giorni, la polizia lavora al caso, i giornalisti incalzano Maria Antonietta.



Alla Procura di Roma il 20 luglio si riuniscono, per parlare del caso Ferraro, il procuratore capo Michele Coiro, il pm Cesare Martellino, di turno la sera del fatto, e il sostituto Italo Ormanni. Partecipano anche il capo della Digos, Marcello Fulvi, e quello della Squadra Mobile, Rodolfo Ronconi. In quei giorni vengono sentiti anche gli agenti del commissariato “Esposizione” che per primi hanno visto il corpo di Ferraro. Poi verranno interrogati, come persone informate sui fatti, anche la prima moglie di Ferraro, Lidia D.B., alcuni colleghi del Sismi, Maria Antonietta e i due fratelli dell’ufficiale. In quelle ore si attende, inoltre, l’esito dell’autopsia, affidata alla dottoressa Simona Del Vecchio, e di quattro perizie (medica, tossicologica, istologica e meccanica) ordinate dal pm Martellino.


Dell’operato degli agenti del commissariato non convince, l’aver omesso, nei primissimi atti trasmessi alla Procura, il fatto che Mario Ferraro non fosse un semplice ufficiale dell’Esercito bensì un agente del Servizio segreto militare. Il questore di Roma, Vincenzo Sucato, dispone, infatti, un’inchiesta interna sulle modalità con cui gli agenti del commissariato hanno svolto il primo intervento. La Procura, parallelamente, non tarderà a iscrivere quegli agenti nel registro degli indagati e il 23 luglio cominciano a circolare le prime voci sulle ipotesi di reato che di lì a poco verranno delineate: istigazione al suicidio, poi omicidio a carico di ignoti. Due giorni dopo l’assistente capo Salvatore S. del commissariato “Esposizione”, colui che inviò alla Procura la prima relazione senza l’indicazione dell’appartenenza di Ferraro al Sismi, è indagato. La Procura, nei suoi confronti, ipotizza il reato di omissione d’atti d’ufficio. L’agente si difende ammettendo che nel primo fonogramma non si indicava che Ferraro era del Sismi ma in quello successivo, trasmesso due ore dopo il fatto e in quello inviato in Procura il lunedì mattina, tale indicazione c’era. Dietro quell’omissione, aggiunge l’agente, non c'era alcuna intenzionalità di nascondere l’appartenenza ai Servizi dell’ufficiale ma solo una dimenticanza.



Il 25 luglio il Capo della Mobile, Rodolfo Ronconi e il sostituto procuratore Italo Ormanni effettuano un sopralluogo nell’appartamento di via della Muraglia Cinese. Con loro c’è anche il medico legale e un ingegnere chiamato dalla Procura a valutare le “forze di trazione” esercitate sull’appendiasciugamano. Rimangono lì dal primo pomeriggio fino alle diciassette e trenta. Con loro c’è anche Maria Antonietta. Intanto un altro pm viene chiamato a occuparsi del caso al fianco di Ormanni e Martellino, è Nello Rossi che diventerà presto titolare delle indagini.



Il 27 luglio gli inquirenti si recano anche negli uffici del Sismi, a Forte Braschi e interrogano i colleghi dell’ufficiale, in particolare uno di quelli che la sera del fatto era entrato nell’appartamento di Ferraro: il generale Silvano Saitta, Capo della prima divisione del Sismi. È un superiore di Ferraro, ma anche un suo amico e per questo nel corso dell’interrogatorio ribadirà più volte ai magistrati di essersi recato a casa di Ferraro a titolo esclusivamente di amicizia in seguito a una drammatica telefonata di Maria Antonietta e solo dopo aver avvertito anche i superiori. L’ufficiale si recò nell’appartamento anticipato da un suo collaboratore che lui stesso aveva allertato. Quello stesso giorno, parlando con i giornalisti, il procuratore capo Michele Coiro si lascia sfuggire che per lui la morte di Ferraro è un omicidio “vero e proprio”. La prima svolta c’è il giorno dopo, il 28 luglio. I magistrati ascoltano per ore Maria Antonietta poi si consultano. Sono passati dodici giorni dalla morte dell’ufficiale e la Procura di Roma decide di procedere per omicidio. In questo modo, rubricando il fatto da suicidio a omicidio, ha a disposizione un più ampio margine di azione e di verifica di tutte le ipotesi. Lo stesso giorno, dopo l’agente del commissariato, la Procura decide di procedere, per abuso d’ufficio, proprio nei confronti del generale Saitta al quale viene contestata la sparizione, dall’abitazione di Ferraro, di un’agenda, di un telefono cellulare, entrambi recuperati, tre giorni dopo, solo dopo un ordine di sequestro emesso dalla Procura, e di una tessera di riconoscimento della Polizia di Stato utilizzata come copertura dall’agente. Per la Procura fu lui a prelevare dall’appartamento di Ferraro gli oggetti. Egli si difenderà affermando che telefono, agenda e tesserino furono portati via dall’appartamento in quanto di proprietà del Sismi, in particolare il cellulare, per tutelare i numeri di altri agenti e le altre informazioni in possesso dello 007. Le prime indiscrezioni sull’autopsia eseguita dalla dottoressa Simona Del Vecchio su delega della Procura di Roma, parlano di una morte perfettamente compatibile con il suicidio, inoltre non sono state rilevate tracce di violenza. L’ufficiale è morto per strangolamento, queste le prime conclusioni dell’anatomopatologo, e il decesso rientra nella casistica dei suicidi. Anche i primi risultati degli esami tossicologici non lasciano dubbi: nessuna traccia di sostanze esterne.



Maria Antonietta non regge la tensione, è sola e ha tutti contro. Il 30 luglio si sfoga per la prima volta ai microfoni del Tg3:

Da un mese e mezzo Mario non era sereno perché sospettava di essere seguito e questo l’ho detto anche ai magistrati. Se aveva timori non me li ha mai trasmessi. Si sappia la verità. Io sono stata sola in questa battaglia. I magistrati hanno capito, sono stati tenaci. Spero che si vada fino in fondo, ma, forse, il nome dell’assassino non si saprà mai.

L’11 agosto la donna racconterà inoltre, in esclusiva, al settimanale Panorama, la sua storia con Mario Ferraro, dai giorni in cui lo conobbe come Fabio Marcelli a quella maledetta sera in cui lo trovò morto in bagno.

Nei primi giorni di agosto la lista degli indagati si allunga con il dirigente del commissariato “Esposizione”, Francesco S., e l’ispettore capo Marcello D’A.. Nei confronti del dirigente del commissariato “Esposizione”, Francesco S., e l’ispettore capo Marcello D’A., il procuratore aggiunto Italo Ormanni e il sostituto Nello Rossi ipotizzano, come nel caso dell’assistente capo Salvatore S., il reato di omissione di atti d’ufficio in relazione al primo verbale dei fatti trasmesso alla Procura con l'omissione dell’appartenenza di Ferraro al Sismi. Il 4 agosto i pm Ormanni e Rossi interrogano il generale Saitta. Egli ribadisce davanti ai magistrati che la sottrazione dell’agenda, del tesserino e del telefono cellulare dall’abitazione di Ferraro era collegata a una necessità di tutela del segreto. L’alto ufficiale, una volta giunto nell’appartamento al Torrino, insieme a un altro agente del Sismi, prima di prelevare gli oggetti si fece autorizzare da due poliziotti, uno della Digos e uno della Mobile.


Il 18 agosto il Tg3, durante il telegiornale delle 19, diffonde il contenuto di una lettera-memoria di sei pagine, rinvenuta nell’abitazione di Ferraro, in cui l’ufficiale denuncia un conflitto durissimo all’interno del Sismi e manifesta il timore di essere ucciso. Qui l’ufficiale del Sismi fa riferimento a una missione a Beirut che un suo superiore, Bruno Boccassin, gli aveva chiesto di compiere con la massima segretezza.

Il Tg3 legge alcuni passaggi della lettera:

Francamente che qualcosa non andava o perlomeno che l’operazione non era fine a se stessa lo avevo percepito proprio mentre il buon Boccassin mi dava l’incarico. Era imbarazzato, rosso in viso (sono i classici sintomi di quando uno dice una bugia) occhi e sguardo abbassati…

Scrive ancora Ferraro:

Anche Armando Fattorini dice che sto facendo una cazzata e che Boccassin gli aveva detto espressamente che ormai mi aveva utilizzato per quello che doveva e che quindi era giunto il momento di disfarsene. Usa e getta, è questo il motto che Boccassin avrebbe detto ad Armando Fattorini consigliandolo di fare altrettanto.

Secondo il Tg3 Ferraro interpreta alcune frasi riportategli da colleghi:

Speriamo che non torni con i piedi avanti. Ad Armando Fattorini era rimasto impresso il tono e la freddezza con cui (Boccassin) aveva detto questa frase, come se lo dava per scontato e senza preoccuparsi.

Poi Mario Ferraro fa un'altra riflessione, prima di concludere:

Come fa uno come Boccassin servendosi di me a far fuori un uomo così… (si riferisce all’uomo del Sismi di Beirut).

La lettera si chiude così:

Vendetta per i mafiosi: Armando Fattorini, Bruno Boccassin, Rajola, Cersa e Benito Rosa.

In pratica l’agente elenca i vertici di Forte Braschi: Armando Fattorini, scomparso nel 1986, nel 1984 è capocentro a Fiumicino, Bruno Boccassin, è capo della divisione di cui fa parte Ferraro, Luca Rajola Pescarini è capo della seconda divisione, quella che si occupa di servizi all’estero, Pasquale Cersa è capo del personale del Sismi, e Benito Rosa è Capo di Stato Maggiore del Sismi.
Il Tg3 confermerà, nel corso dello stesso servizio, che sul passaporto diplomatico del colonnello Ferraro c’è un visto per Beirut del 1986 e ipotizza che la memoria sia stata scritta prima di quella missione.
In casa dell’ufficiale, allegato a un’altra lettera, scritta almeno un anno prima, verrà rinvenuto anche un cedolino di una polizza sanitaria stipulata con la compagnia Ina. Nella lettera, che di fatto non è un testamento, Ferraro dà anche precise disposizioni: “desidero che l’importo, di cui allego la ricevuta, sia devoluto a Maria Antonietta Viali”. Ma le polizze sanitarie non hanno un importo a differenza di quelle sulla vita. Secondo gli inquirenti Ferraro nella lettera non si riferisce a quel cedolino bensì a un’altra polizza di cui però nell’appartamento non vi è traccia. Si trova, invece, un fondo del Ministero della Difesa, una sorta di indennità di cravatta, a favore di Ferraro che ammonterebbe a circa cinquanta milioni di lire. La somma corrisponderebbe alle indicazioni di Ferraro, cioè di destinare quei soldi alla donna, ma non è chiaro perché allegò alla lettera solo la ricevuta di una polizza sanitaria.
Maria Antonietta, che intanto aveva perso anche il lavoro, non verrà mai in possesso di quei soldi e, il 31 agosto, parla delle polizze all’Ansa:

Certo, ero a conoscenza di quella polizza sanitaria, ma si trattava di un contratto che Mario aveva sottoscritto circa sette anni fa, prima di conoscere me, e che aveva intestato oltre che a se stesso anche a sua moglie e a sua figlia. Io non c’entro proprio nulla. Di quel fondo di 50 milioni per altro non so proprio niente, so che Mario ha lasciato una lettera che ho consegnato alla magistratura insieme con altri documenti ma non mi risulta che si parlasse di quella cifra o di altro. Questa vicenda mi ha distrutto sono uscita allo scoperto per difendere la memoria del mio uomo e adesso mi ritrovo senza lavoro anche a causa di tutte le sciocchezze che sono state dette.

La Procura di Roma lavora anche ai tabulati del cellulare di Ferraro, ma ci sono delle evidenti stranezze: l’uomo, non ricevette e non effettuò chiamate per un mese, dal 16 giugno fino al giorno della morte. Per la Procura questa circostanza risulterà “inverosimile” e anche per Maria Antonietta che dichiarerà, sbalordita, che da quei tabulali della Telecom sono scomparse le decine di chiamate, anche più di una al giorno, che lei stessa faceva al suo compagno e che lui faceva o riceveva in sua presenza. Nel suo ufficio, a Forte Braschi, gli inquirenti trovano un catalogo di libri con cinque titoli sottolineati: riguardano tutti storie di suicidi e morti sospette.
A novembre i magistrati ascoltano l’ex capo del Sismi, l’ammiraglio Fulvio Martini, in carica come direttore al Sismi dal 1984 al 1991, e altri ufficiali del Servizio. Gli inquirenti, con questo atto, intendono appurare se i vertici del Sismi erano a conoscenza del fatto che da un’indagine interna svolta da Mario Ferraro (compiendo anche intercettazioni) era emerso che nel 1986 due ufficiali del servizio segreto militare avevano chiesto e ottenuto del denaro (80 milioni in parte in oro e in parte in contante) da un imprenditore che doveva fornire a Forte Braschi apparecchiature elettroniche per lo spionaggio. Ferraro, in quel periodo faceva parte della Divisione sicurezza interna e nell’ambito delle sue mansioni aveva indagato su quelle tangenti. I due ufficiali in questione si ritroveranno indagati per concussione. Si tratta dei generali, nel 1995 già in pensione, Vincenzo Dell’Elce e Tindaro Italiano. Entrambi dirigevano la quinta divisione del Sismi, quella che si occupa di intercettazioni, microspie e altre apparecchiature elettroniche per lo spionaggio. L’inchiesta, nata dalle indagini sulla morte di Ferraro, era partita dopo il ritrovamento in casa dell’ufficiale di alcune cassette registrate in cui egli parla con un imprenditore di un caso di concussione facendo anche i nomi dei due ufficiali. I magistrati puntano a capire se proprio da quelle delicate e fastidiose indagini interne compiute dall’agente siano emersi degli illeciti o se il Sismi omise di denunciare fatti di rilevanza penale alla magistratura.
Non mancano testimonianze, confessioni-depistaggio e scritti anonimi sulla morte di Ferraro: uno in particolare, sotto forma di esposto e firmato “Un anonimo”, viene recapitato il 9 aprile 1996 alla Procura di Roma e per conoscenza al quotidiano Il Messaggero:

Riferimento delitto Mario Ferraro della scorsa estate un anonimo abitante in via della Grande Muraglia, 46 già a suo tempo riferito ai competenti uffici giudiziari di aver visto quella sera in cui fu ucciso alto ufficiale ho notato Antonio C. dipendente del Sisde coinquilino dello stesso Ferraro sostare nel pianerottolo del suddetto Ferraro l’ho notato salire le scale a fatica come se avesse un impedimento fisico. Ora a distanza di qualche mese il C. ha cambiato residenza dopo di questo mi permetto ancora una volta di segnalare queste anomalie dato che non è stato fatto un minimo di indagine ma veramente questi agenti possono permettersi tutto senza essere minimamente sospettati.

Effettivamente nel palazzo, dove si consuma la tragedia di Mario Ferraro, c’è qualcosa di strano. C’è uno insolito viavai di "spioni" in quella zona, l’anonimo, addirittura, indica alla procura il nome di un agente del Sisde, Antonio C., ma in quelle stesse ore circola anche un’altra e più insistente voce: sotto l’appartamento di Ferraro, ci sarebbe stato un altro ufficio coperto del Sismi, un’altra società di copertura costituita ad hoc per proteggere l’attività di controspionaggio.
Una fonte attendibile conferma infatti che, non si sa bene a quale piano e se fosse stato in uso al Sismi o al Sisde, nel corso della notte, quando la polizia aveva ormai abbandonato il palazzo e il corpo di Ferraro era già all’obitorio, alcuni agenti segreti avrebbero bonificato a fondo l’appartamento, svuotandolo completamente di ogni cosa e caricando tutto su un furgone. Gli 007, per compiere questa operazione, avrebbero atteso che tutto si fosse calmato, per poi entrare in azione. Il motivo per cui quell’ufficio fu abbandonato solo poche ore dopo la morte dell’ufficiale, le identità degli agenti che operavano sotto copertura al suo interno e quale sia il ruolo di Antonio C. in questa storia, sono tutte domande che non avranno mai una risposta.
Si dirà anche che lo stesso attico di Mario Ferraro era di proprietà a sua volta di una società di copertura dei Servizi. Ma a smentire quest’ultima circostanza sarà la stessa Maria Antonietta, che riferirà ai magistrati di aver preso in affitto quell’appartamento dall’Enpam, sottoscrivendo a suo nome un regolare contratto.
Di cose strane da questo momento se ne dicono tante, cominciano infatti a parlare diversi personaggi, apparentemente non collegati, che da una parte all’altra del paese improvvisamente svelano rapporti diretti o semplici riferimenti alla figura di Mario Ferraro che sembra delinearsi più complessa e misteriosa di quanto fosse emerso fino ad ora.
Il 21 dicembre, infatti, i pm che indagano sulla morte dell’agente del Sismi, interrogano un ufficiale della Guardia di Finanza in relazione ad alcune dichiarazioni rilasciate dal faccendiere siciliano Francesco Elmo, supertestimone dell’inchiesta della Procura di Torre Annunziata, denominata “Cheque to cheque” che tenta di fare luce su un traffico internazionale di valuta, armi e preziosi. Elmo dichiara si essere stato un informatore del Sismi e di avere avuto l’ordine di controllare un agente della Cia, Roger D’Onofrio. A chiedergli di controllare l’agente americano sarebbe stato un ufficiale di Forte Braschi che si era presentato con il nome di Bobby. Elmo farà mettere a verbale che Bobby in realtà era Mario Ferraro. D'Onofrio, ha 72 anni, è italiano di origini, di Solopaca in provincia di Benevento, paese che ha lasciato nel 1957. Fino al 1993 è stato uno dei funzionari più importanti di Langley; in Italia, tuttavia, si è già sentito parlare di lui nel 1983, nell’ambito di un’altra indagine e sempre per un traffico di armi verso il Medio Oriente. D'Onofrio finirà in manette il 2 dicembre 1995: i pm di Torre Annunziata - dopo aver raccolto le rivelazioni di tre indagati nell’ambito di “Cheque to cheque”, Enrico Urso, lo stesso Francesco Elmo e il belga Jean Luc Herigers - lo andranno a catturare proprio a Solopaca, dove era tornato a godersi la pensione. Le cronache di quei giorni raccontano che l’agente della “ditta” sarebbe stato uno degli uomini di maggior rilievo, addirittura il regista, se non il promotore, dell'organizzazione che traffica in armi, valuta e preziosi e per gli inquirenti di Torre Annunziata vantava, grazie al suo ruolo di spione, anche contatti con Cosa nostra negli Stati Uniti. Forse il Sismi è interessato a questo agente della Cia proprio perché avrebbe svolto un ruolo fondamentale nel commercio clandestino di materiale bellico proveniente dalla Croazia e fatto arrivare in Italia via Albania dove negli ultimi tempi si erano concentrate le missioni e le indagini di Mario Ferraro. Di questo aspetto si occuperà anche un'inchiesta di Mixer, il cui servizio va in onda il 4 marzo 1996, dal quale emerge che l’alto ufficiale del Sismi si stava occupando di un traffico di titoli di credito clonati, di speculazioni valutarie e di un traffico di armi per 4500 miliardi di vecchie lire tra l'Italia e alcuni paesi dell'Est, in particolare l'Albania.
Successivamente, nell’aprile del 1996, l’antiquaria milanese Stefania Ariosto teste “Omega” del processo per corruzione giudiziaria contro l’ex parlamentare di Forza Italia Cesare Previti, si presenta in procura a Roma, dopo aver parlato anche con i giudici di Milano, e racconta ai pm che indagano sulla morte di Mario Ferraro che lo 007 dava fastidio proprio a Cesare Previti. Fa riferimento in particolare a una conversazione ascoltata dalla donna mentre, nell'estate del 1994, si trovava a bordo di uno yacht in navigazione all'Argentario. La Ariosto giura di aver sentito Previti - che allora era ministro della Difesa del governo Berlusconi - parlare della ristrutturazione dei servizi e dire: “C'è un certo Ferraro che mi sta creando dei problemi”. È un “osso durissimo”, avrebbe aggiunto ancora il ministro.
Alcuni indizi collegherebbero, ancora, Ferraro all’uccisione di un altro agente del Sismi, il maresciallo Vincenzo Li Causi, morto, in circostanze altrettanto misteriose, durante un conflitto a fuoco in Somalia, il 12 novembre 1993. Li Causi, Ferraro, nomi che compariranno più volte nell’inchiesta sull’uccisione, avvenuta sempre in Somalia, della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del suo cameraman Mirhan Hrovatin. Tali oscuri legami emergeranno, ancora una volta, dalle dichiarazioni di Francesco Elmo. Secondo quanto riferirà Fausto Bulli, che finirà nei guai per aver tentato di rifilare una “bufala” alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi, Ferraro avrebbe fornito alla giornalista informazioni utili a smascherare le connivenze del Sismi in traffici di armi con la Somalia e per questo sarebbe stato ucciso con la messinscena del suicidio nel bagno.
La morte di Ferraro si intreccia anche con il caso di Davide Cervia, l’esperto di guerra elettronica scomparso, e mai più ritrovato, da Velletri il 13 settembre 1990. Un ex sergente della Marina Militare, Luigi D’A., (processato per calunnia su denuncia dei familiari di Ferraro e condannato a un anno di reclusione), dichiarerà, infatti, che a organizzare il sequestro di Cervia, compiuto dagli iracheni, era stato proprio l’agente Mario Ferraro.
Altre rivelazione inquietanti arrivano dalle dichiarazioni di uno strano personaggio, Franco Fuschi, padovano di nascita, ex incursore della Marina Militare, tiratore scelto e grande esperto di armi da fuoco. Lasciata la Marina, nei primi anni Settanta si trasferisce a Mattie in Valsusa dove si dà all’agricoltura. A un certo punto l’uomo si autoaccusa di aver compiuto undici omicidi riusciti e altri due tentati che sarebbero stati compiuti, tra il 1977 e il 1994, nella provincia di Torino. Fuschi è un personaggio strano, davanti ai magistrati si accolla ogni sorta di stragi e delitti, anche i più inverosimili. Per esempio: dice di aver piazzato la bomba a Piazza Fontana, di essere implicato nella morte di Roberto Calvi, il banchiere trovato impiccato sulle rive del Tamigi, e si autodefinisce più volte uno 007 al soldo dei Servizi. A un certo punto l’uomo parla anche di Ferraro: “Si lo conoscevo - giura ai magistrati - tre delitti mi furono commissionati proprio da lui”.
C’è un altro suicidio, un’altra morte sospetta, che si collegherebbe, passando per l’Albania, al destino di Mario Ferrato. Un’altra pista, subito battezzata dai giornali come la “pista albanese”, che verrà battuta dagli investigatori e che porta a Vetralla, in provincia di Viterbo. Lì il 4 luglio 1995, cioè dodici giorni prima la morte di Ferraro, si era tolto la vita il 53enne Roberto Pancani direttore generale della Banca Italo-Albanese, dove, secondo gli inquirenti, sarebbero transitati fondi e titoli sospetti. La morte di Pancani è sospetta quanto quella di Ferraro: si sarebbe suicidato nei giardini pubblici di Vetralla sparandosi un colpo di pistola alla tempia, con una 7,65 priva di caricatore. In realtà a tutti sembra un’esecuzione, i familiari dicono che il direttore negli ultimi tempi era preoccupato, teso e accennava spesso al fatto di essere stato costretto ad autorizzare operazioni finanziarie illegali passate per la sua banca. Operazioni, credono gli inquirenti, che sarebbero finite anche sotto la lente del Sismi e in particolare dell’agente Mario Ferraro che nell’ultimo periodo stava lavorando molto su Tirana. Anche la compagna di Ferraro accennerà, parlando con gli investigatori, ad alcune telefonate intercorse tra il suo compagno e un tale di nome Pancani.
Addirittura salta fuori anche uno strano documento del Ministero della Difesa che lega la morte di Mario Ferraro al sequestro dell’onorevole Aldo Moro. Si tratta di una velina "a distruzione immediata", tuttavia mai distrutta, battuta a macchina su carta filigranata azzurrina, che riferisce circostanze non di poco conto. L’oggetto della velina, datata 2 marzo 1978 - cioè quattordici giorni prima l’agguato di via Fani (16 marzo 1978) che permetterà alle Brigate Rosse di sequestrare il presidente della DC Aldo Moro - è:

Autorizzazione ministeriale a G-219. È autorizzato ad ottenere informazioni di 3° grado e più, se utili alla condotta di operazioni di ricerca contatto con gruppi del terrorismo M.O. (mediorientale, NdA) al fine di ottenere collaborazione e informazioni utili alla liberazione dell’On. Aldo Moro.

Ecco, invece, il testo della strana velina:

Ai fini dell’autorizzazione sopra detta la condotta di operazioni di ricerca da parte del personale militare e Marinai Servizio Macchine ed ex fuochisti della Marina Militare, di cui all’Organizzazione Gladio, la suindicata ordinanza dovrà essere eseguita agli ordini e dipendenze di G-216. Si certifica che il latore della presente, Macchinista Navale, in forza dal 06.03.1978 sul M/n Jumboemme Matricola G-71VO155M classe 1954 ha ricevuto in consegna il plico contenente n. 5 Passaporti e questo ordine diramato dal S.I.M.M. presso l’Ammiragliato e proveniente dal Ministero della Difesa.

Il primo elemento discordante è proprio il fatto che qui si parla della liberazione di Aldo Moro quattordici giorni prima del suo sequestro. All’interno del documento, firmato da un capitano di vascello, si fa riferimento, poi, a due “gladiatori”, G-216 e G-71. La velina viene prelevata a Roma da G-71 e recapitata via nave dallo stesso a Beirut il successivo 12 marzo, cioè quattro giorni prima della strage di via Fani. I “gladiatori” sono gli 007 che appartengono a GladioApre in una nuova finestra, nome di un'organizzazione clandestina di tipo “stay-behind” promossa dalla Nato per contrastare un eventuale invasione sovietica dell'Europa occidentale. A rivelare l'esistenza di Gladio nel nostro Paese è per la prima volta, il 24 ottobre 1990, alla Camera, Giulio Andreotti, l'allora capo del Governo. Quando la sua esistenza diviene pubblica viene diffuso anche l'elenco dei 622 “gladiatori”, un elenco che è considerato ancora oggi incompleto. Il Sismi all’epoca aveva una divisione, la settima, che sovraintendeva a Gladio. Detto questo è necessario scoprire chi si nasconde dietro quelle due sigle, G-71 e G-216. Il primo, colui che avrà nelle mani la busta contenente quella velina diretta a Beirut, è anche il gladiatore che diffonderà questo documento: Antonino Arconte. Mentre chi si cela dietro G-216, a detta dello stesso Arconte, è proprio il colonnello del Sismi Mario Ferraro. Il documento regge anche la prova della perizia, nel 2002, infatti, la dottoressa Maria Gabella, esperta nella studio di tracce e di documenti, consulente di numerose procure italiane nelle indagini sulle Br, certificherà, anche su richiesta del periodico Famiglia Cristiana, che quella velina è autentica. La dottoressa Gabella, dopo una attenta analisi al microscopio a scansione, non ha dubbi: “quel documento non è recente, ha almeno tre anni e mezzo, il che non esclude che sia ancora più “antico”; non è un manufatto dozzinale; se falso, è opera di esperti”. Arconte, G-71, dopo essere uscito allo scoperto, nel 1996 realizza un sito internet dove racconta la sua storia e poi scrive anche un libro dove ricostruisce così il tragitto di quella velina da Roma a Beirut:

Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi islamici per aprire un canale con le BR, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro.

Antonino Arconte parla lungamente della vicenda di Mario Ferraro e di quella velina anche con me, nel corso di alcuni colloqui via e-mail:

Ci eravamo visti (con Ferraro, NdA) in quell'anno (l’anno della morte di Ferraro, NdA) a marzo, credo il 29 marzo 1995, all'Eur a Roma, sotto casa sua c'era un bar tabacchi, lo stesso dove doveva acquistare le ultime sigarette.

Poi ci vedemmo al terminal Tirrenia di Olbia a giugno, credo di ricordare verso metà del mese, mi consegnò quel documento (la velina, NdA) e mi disse di averne altri e di attendere sue notizie per decidere se partecipare con me alla denuncia pubblica del tutto.

Poco meno di un mese dopo lessi che l'avevano suicidato. Come puoi capire non ebbi dubbi che si trattasse di assassinio simulato da suicidio, anche senza conoscere le modalità di esecuzione, ma la stessa cosa accadde con Gardini, eppure... simulazione perfettamente riuscita, anche se maldestra! Qualcosa vorrà dire, no? Anche lui (Ferraro, NdA) era stato fatto oggetto di inchieste giudiziarie di tipo persecutorio e intimidatorio... un classico! Ma ha tentato di ricattare (anche se in maniera legittimata da tutta la situazione) coloro che pretendevano il silenzio e questo è stato un errore fatale: i morti non parlano!”

Prosegue ancora G-71:

Io so, però, che sulla vicenda di G-219 come su altre è calato il silenzio e il segreto. Se pensi che la morte di G-65 (il gladiatore Tano Giacomina, NdA) a Capo Verde è stata sepolta da una nota del Sismi utilizzata per spingere il gip ad archiviare l'inchiesta per omicidio in maniera assurda e a negare la riesumazione chiesta dal padre. Che ci possiamo fare? Come dice il saggio: questo è il paese. Del resto, come ben saprai, uno che finisce dichiarato suicida nei modi e tempi della vicenda Ferraro... non possono permettere che se ne parli troppo. Occorre mettere a tacere tutto e subito. Da parte mia, però, sbagliano, perché questo è un popolo ormai abituato a sentire di tutto e a fregarsene, se non per pochi che protestano, anche se rendessero pubbliche quelle inverosimiglianze non succederebbe proprio niente.

Lo 007 di Gladio, a questo punto, immagina un possibile scenario in cui si sarebbe consumata la tragedia:

Lo scenario era quello di tre persone arrivate con l’ascensore che l'hanno preso per le braccia, uno ha stretto un cappio intorno al collo e l'hanno strangolato quando è uscito per andare all'ascensore a prendere le sigarette. Poi dovevano simulare un suicidio e sono entrati in casa. Essendo G-219 abbastanza robusto non sono riusciti a far di meglio che attaccarlo al portasciugamani. Nessuna magistratura potrebbe archiviare come suicidio una cosa simile, quella Italiana sì. Noi in Italia abbiamo suicidi che si mettono la pistola nella cintura dopo essersi sparati. E altri che la poggiano sul tavolino all'uscita della camera dove si sarebbero sparati, senza toccare la pistola e usando guanti per evitare tracce di polvere che sono anche spariti, ma la magistratura corregge questi “errori” e archivia come suicidi. Poi i protagonisti di questi depistaggi fanno tutti carriere brillantissime. Uno è presidente della... non farmelo dire.

Tutto questo sembra voler suggerire che l'esistenza di una rete nascosta di Gladio potrebbe essere all'origine della strana morte del colonnello Mario Ferraro che sarebbe stato ucciso perché reo di aver divulgato, tramite G-71, i contenuti di un documento classificato che proverebbe che i servizi, cioè Gladio, erano a conoscenza, almeno quindici giorni prima, che Aldo Moro sarebbe stato sequestrato. Il sospetto finisce sui giornali il 23 luglio, otto giorni dopo la sua morte, con una lunga serie di dichiarazioni rilasciate all’Ansa. L’ex presidente della Commissione Difesa della Camera, Falco Accame, esperto di questioni militari e di intelligence, riferendosi alla morte di Ferraro, pone una serie di interrogativi e chiede di fare luce sulla circostanza che nell’abitazione di Ferraro sia stata sequestrata una tessera da commissario di polizia con la foto di Ferraro. "I Servizi per legge possono svolgere solo compiti di intelligence e non di polizia giudiziaria. Il rilascio illegale della tessera di commissario prevedeva l'esecuzione di particolari operazioni non previste dalla legge e quali?” è solo uno degli interrogativi che avanzerà in quelle ore Accame. Altro punto: "Premesso che sia vero: a quale titolo è stata concessa l'autorizzazione ad agenti dei Servizi di entrare nella casa di Ferraro con compiti che ovviamente la legge non consente loro." Per il parlamentare il “presunto suicidio del colonnello Ferraro” potrebbe essere stato determinato dalle polemiche nate all'interno dei servizi segreti dopo le inchieste, abusivamente condotte, dall'Ufficio interno di sicurezza, di cui Ferraro faceva parte tra il 1986 e il 1987. Un ufficio, chiarirà Accame, che non era previsto dalla legge: “fu istituito abusivamente, dopo essere esistito sotto altra forma già all'epoca del colonnello Musumeci. Il colonnello Ferraro è morto in circostanze non ancora chiare, denunciò addirittura la presenza di una cupola mafiosa all'interno dei Servizi”. “C'è da chiedersi quali inchieste siano state condotte dal nucleo di ufficiali che facevano parte dell'Ufficio interno di sicurezza del Sismi e quali soggetti hanno riguardato. Non c'è da escludere che le inchieste avessero creato delle forti tensioni interne al Servizio”. Accame conosce il sottobosco e ci mette poco ad arrivare al nocciolo del discorso. Quell’ufficio, secondo l’ex presidente della Commissione Difesa della Camera, per esempio, potrebbe essersi occupato di questioni scomode che vanno dall’uso, assai disinvolto, dei fondi riservati, delle fonti “fasulle” pagate dai Servizi e delle società di comodo facenti capo a persone dei Servizi. Ma nel mirino di questo Ufficio sarebbero finite anche altre questioni, sempre secondo il parlamentare: assunzioni clientelari e vari contrasti interni sull'operato degli 007, la mancata comunicazione all'autorità giudiziaria di fatti illeciti e la copertura, che di fatto c’è stata, sulla vicenda Gladio di cui la direzione di sicurezza del Sismi si era di certo occupata.




Siamo alle conclusioni. Per la procura è suicidio. Ferraro si è impiccato perché era depresso a causa della morte della figlia e per la separazione dalla moglie. Il pm Nello Rossi si arrende e presenta un’istanza di archiviazione al gip del tribunale di Roma. Alla fine l’inchiesta della Procura, partita inizialmente contro ignoti per istigazione al suicidio e successivamente rubricata in omicidio per la necessità di svolgere ulteriori accertamenti tecnici, conclude che la morte del colonnello Ferraro è compatibile con l’ipotesi suicidiaria e verrà archiviata dal giudice per le indagini preliminari il 1° ottobre 1999. Nessun omicidio. Nessuna istigazione al suicidio. Nessun complotto dietro una morte con tante stranezze. Le perizie, gli esami tossicologici non danno adito a dubbi. Tutto conferma l’ipotesi di un atto autolesionista.


La perizia meccanica, una delle quattro ordinate dal pm, tuttavia, evidenzia una stranezza: la cinta dell’accappatoio con la quale si sarebbe tolto la vita Ferraro si sarebbe dovuta strappare, non avrebbe potuto resistere oltre i cinquanta chili di carico. Ferraro, come già accennato, era un uomo robusto, pesava 86 chili, quindi ben oltre quella soglia.


Ma non è tutto. Sempre secondo la perizia meccanica le quattro viti a tassello che reggevano l’appendiasciugamano in ottone a cui Ferraro avrebbe assicurato la cinta, a poco più di un metro dal pavimento, sotto quel carico, avrebbero dovuto cedere, staccarsi dal muro. Invece Ferraro viene trovato quasi seduto a terra, con il collo leggermente reclinato, l’espressione serena.


La cinta era intatta, l’ha tagliata Maria Antonietta nel disperato tentativo di salvargli la vita, e la staffa dell’appendiasciugamano era ancora ben salda alla parete. Anche la perizia istologica parla di stranezze, due ecchimosi sul collo, compatibili con un’azione di soffocamento, sono delle strozzature, pressioni eseguite in tempi diversi; mentre quella medico-legale e quella tossicologica parlano di suicidio. Non basta, è poco. La dinamica della morte viene definita comunque insolita da destare perplessità, ma non sono emersi elementi specifici che facciano pensare a un delitto.

© Fabrizio Colarieti – Editing Marina Angelo (per nottecriminale.it)












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JL CASO MICHELE LANDI





Il vizio assurdo di chi indaga:

a un certo punto, suicidarsi



di Gianni Cirone







Ormai non parler� pi�. Una corda al collo � servita. Trenta metri di corda, un’esagerazione, per usarne solo un metro e mezzo. Un metro e mezzo che non baster� per sollevare del tutto quel corpo, alto, robusto, da terra: le gambe rimarranno flesse, sul divano sottostante. Per nulla gonfie.
Aveva detto che era possibile, quel corpo. “Si pu� risalire all’autore delle 500 e-mail”, aveva detto. Parlava della rivendicazione dell’assassinio di Marco Biagi, spedita per Internet con abnorme generosit�. Aveva visto interrompersi la propria relazione da circa tre mesi, quel corpo. La sua ex, da allora, aveva un nuovo partner: un carabiniere.


Michele Landi, 36 anni, alle 22 del 4 aprile scorso viene trovato impiccato. Solo il 5 aprile, alle ore 12.30 le prime agenzie ne danno comunicazione. In estremo ritardo. Super esperto di informatica, responsabile di sicurezza del settore tecnologico della Luiss Managment, � rinvenuto nel suo appartamento, in via Lucera, nel borgo di Montecelio di Guidonia (Rm), dove si � trasferito da circa un anno e mezzo. Prima, ha sempre abitato nel quartiere dell’Eur, a Roma. Nello stesso quartiere dove, qualche anno fa, viene rinvenuto cadavere un altro strano impiccato. Il corpo, legato al collo con la cinta dell’accappatoio, � quasi seduto: � quello del colonnello Ferraro, uomo dei servizi.


Un suicidio, come quello di Landi, il cui cadavere � scoperto dai Carabinieri di Sant’Angelo che, dopo, verranno sostituiti da quelli della Compagnia di Tivoli. Dovranno sfondare la porta con l’ausilio dei Vigili del Fuoco. La segnalazione � di un’intima amica: dopo averlo cercato telefonicamente per tutto il giorno, la donna va a Montecelio, trova la porta chiusa, la luce accesa, (sembra) una finestra aperta. Nessuno risponde, da quella piccola casa a due piani, nel cuore del borgo. Cellulare spento, il telefono di casa che squilla, nel vuoto.


Il 5 aprile stesso, il capitano dei Carabinieri, Giuliano Palozzo, sequestra i computer su cui lavora Landi, due portatili, oltre al computer fisso trovato in casa. Il materiale va al vaglio degli inquirenti. Per capire cosa? Probabilmente per scoprire le operazioni di hackeraggio che Michele Landi effettua a fin di bene. Landi, infatti, � ormai un perito informatico ampiamente utilizzato da diversi organi inquirenti. Si � occupato dell’assassinio D’Antona, ad esempio. Entra in quella vicenda come perito di parte, nominato dalla difesa di Alessandro Geri, il giovane ancora indagato dalla procura di Roma in quanto sospettato di essere stato il telefonista che, il 19 maggio del ’99, rivendica l’attentato di via Salaria con telefonate a due quotidiani. La pista Geri sar� infruttuosa, anche se innescher� aspre polemiche tra Arma e Polizia, perch� ritenuta invece una buona pista: ma “bruciata” in grande fretta.


Incaricato da Rosalba Valori, difensore di Geri, Landi partecipa alla consulenza disposta dal pool antiterrorismo della Capitale sul computer e sul contenuto di circa 200 tra cd e floppy disk, sequestrati nell’abitazione dell’indagato. Con due ingegneri nominati dalla procura, Landi procede ad analizzare il materiale sequestrato: deve accertare se ci sono state operazioni informatiche volte a modificare le date contenute in alcuni file. Le indagini, decise dalla procura, intendono verificare l’alibi di Geri che, da parte sua, ha sempre sostenuto che il giorno dell’agguato a D’Antona ha lavorato al computer di casa con una collega. Gli accertamenti, da quanto si sa, non porteranno a risultati da ritenere efficaci per l’inchiesta.


Landi, comunque, � apprezzato per il proprio lavoro. Un esempio? La reazione del colonnello Umberto Rapetto, responsabile del Gat, il Gruppo anticrimine tecnologico della Guardia di Finanza, alla notizia della sua morte. “Non credo - sostiene Rapetto - che una persona come lui possa essersi tolta la vita. Non riesco a credere che si sia suicidato. Oltre a essere uno dei massimi esperti italiani nel campo della sicurezza informatica era un ragazzo eccezionale. Lo conoscevo da dodici anni. Era uno che amava la vita. Un ex paracadutista. Il migliore nel suo campo”. Il colonnello della Gdf dice il vero: ha da poco proposto Landi come coordinatore della task force che � in via di costituzione presso il ministero dell’Innovazione Tecnologica: una struttura la cui creazione � ancora in cantiere e che avr� come compito quello di vigilare sulla sicurezza della Rete Web. Landi, tra l’altro, sta svolgendo un programma di formazione proprio agli uomini del Gat, alla Luiss.


“L’hanno ‘suicidato’ i servizi segreti,

come storicamente in Italia sanno fare”.


Dopo il dubbio pi� che esternato del colonnello Rapetto, questo altro giudizio non proviene dal solito dietologo di turno. Sono parole di Lorenzo Matassa, per 10 anni pm a Palermo, da quasi un anno trasferito alla procura di Firenze. “Chi si vuole suicidare - afferma Matassa, che nonostante il recente trasferimento a Firenze, � ancora ‘applicato’ a Palermo per seguire la conclusione di alcuni procedimenti - non ha gioia di vivere e invece, per come lo conosco io, Landi era una persona piena di vita, piena di iniziative. L’ho sentito appena quindici giorni fa, ero a Roma e gli ho telefonato per salutarlo: stava benissimo, non era per nulla turbato, mi ha proposto subito di andare con lui a Guidonia a fare volo a vela, lo sport che amava di pi�”. I due hanno lavorato assieme, tra il ’95 e il ’97, nella conduzione di accertamenti tecnologici relativi all’inchiesta su una societ� che ha informatizzato i servizi comunali di Palermo, e in altre analoghe indagini su irregolarit� commesse attraverso l’informatica. “Per me - sostiene Matassa - Landi � stato un valido collaboratore, ma anche un amico, e non ho paura di affermare apertamente la mia convinzione: in Italia, il Paese delle stragi impunite, il Paese delle stragi di Stato, l’esperto di computer che stava lavorando, senza incarico ufficiale, alla rivendicazione via Internet dell’omicidio di Marco Biagi, non si � tolto la vita ma � stato ‘suicidato’ dai servizi segreti”.


Il “buco nero Landi”, comunque sia, c’�. L’autopsia viene effettuata il 6 aprile. Risultato: suicidio. Adesso non resta che dichiarare che i suoi archivi informatici non presentano nulla di interessante. � solo questione di tempo. Peccato, per�, che a pochi sia venuto in mente che Landi non era un “militarizzato”. Landi non si sentiva tenuto al silenzio ed ha comunicato pi� di quanto non si presuma. Insomma, chi lo ha accompagnato a casa, nella sua ultima notte terrena, avr� dovuto “cercare” parecchio prima di fargli interrompere le comunicazioni: compresa quella strana, insulsa, ultima e-mail mandata ad un amico, che si preoccupava delle e-mail porno transitanti sul proprio computer.


Chi ha detto che sia stata mandata da un Landi vivo e vegeto?







CAT_IMG Posted: 22/5/2023, 19:22 ANAGRAMMI - ZIO OT DICE LA SUA







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Il delitto Tobagi e le polemiche infinite



Posted on 27 Maggio 2020

L’omidicio di Tobagi si trasformò in una resa dei conti tra differenti organizzazioni sindacali del giornalismo lombardo che vedevano contrapposti craxiani e giornalisti del Pci. Ne venne fuori una narrazione complottista che vedeva negli autori del delitto dei semplici manovali. Le tesi dietrologicche furono rilanciate dopo la scoperta delle dichiarazioni di un confidente che aveva indicato in Tobagi un possibile obiettivo e che aprirono un nuovo fronte di polemiche, stavolta tra ex appartenenti all’antiterrorismo. Davide Steccanella ripercorre dettagliatamente l’intricata vicenda
di Davide Steccanella

Tobagi targa errata

La targa sbagliata del Liceo Parini che attribuisce l’omicidio alle Brigate rosse

Nel libro Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi, 2009) Benedetta Tobagi ha scritto: «scegliendo di montare tasselli poco chiari, si possono tessere trame verosimili, ma non verificabili, oppure riesumare polemiche già consumate contando sulla memoria corta dei mezzi d’informazione». Vanamente verrebbe da dire, perché come per l’omicidio di Aldo Moro anche per quello di Walter Tobagi, guarda caso i due delitti di maggiore rilevanza mediatica tra i tanti compiuti durante i cosiddetti “anni di piombo”, non manca chi ancora oggi sostiene che sarebbero stati condannati gli esecutori e non i “mandanti” o che comunque permangano irrisolti misteri.

Nel “caso Tobagi” si verificò persino uno scontro istituzionale senza precedenti tra il Presidente della Repubblica e i membri togati del CSM che nel dicembre del 1985 si dimisero in blocco per il divieto posto da Francesco Cossiga alla fissata trattazione in seduta plenaria delle dichiarazioni rese qualche giorno prima dall’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi.



Ricapitoliamo i fatti in ordine cronologico



Walter Tobagi fu ucciso il 28 maggio 1980 e l’omicidio fu rivendicato da una sigla, Brigata 28 marzo, che pochi giorni prima, 7 maggio, aveva rivendicato il ferimento del giornalista di Repubblica Guido Passalacqua.

Il nome richiamava la data di un’operazione dei carabinieri di due mesi prima in una base genovese delle Brigate rosse in via Fracchia nel corso della quale erano morti i quattro i militanti che si trovavano al suo interno; il giorno dopo Walter Tobagi aveva scritto sul Corriere della sera un articolo dal titolo: Adesso si dissolve il mito della colonna imprendibile.


L’operazione era stata resa possibile dalle rivelazioni fatte ai magistrati torinesi dal primo brigatista pentito, Patrizio Peci, in merito al quale il 20 aprile Tobagi aveva firmato un secondo articolo dal titolo Non sono samurai invincibili.


In quello che sarà uno dei suoi ultimi scritti (l’ultimo, Senza promettere la luna, dedicato alle imminenti elezioni, sarà pubblicato il 23 maggio) si legge: «Le notizie delle ultime ore, la tragedia dell’avvocato Arnaldi a Genova o l’arresto di Sergio Spazzali a Milano, sembrano iscriversi in quel filone aperto da Peci e dagli altri brigatisti pentiti. L’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze. E forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascano non dalla paura, quanto da dissensi interni, laceranti sull’organizzazione e sulla linea del partito armato».


L’indagine affidata agli ufficiali della sezione antiterrorismo dei carabinieri di Milano Umberto Bonaventura e Alessandro Ruffino e coordinata dal Sostituto Procuratore della Repubblica Armando Spataro fu particolarmente rapida e dopo soli quattro mesi vennero arrestati tutti i responsabili.
Dai documenti d’indagine risulta che il 5 giugno viene posta sotto osservazione un’abitazione di via Solferino 34 intestata a Caterina Rosenzweig, nota agli inquirenti perché arrestata il 23 marzo di due anni prima, avendo la stessa dimenticato passaporto e guanti nel corso di un attentato incendiario alla Bassani Ticino di Venegono Inferiore (VA) rivendicato dalle Formazioni Comuniste Combattenti, nella cui base milanese di via Negroli il 13 settembre 1978 era stato arrestato Corrado Alunni.


Gli inquirenti sapevano del suo legame con Marco Barbone perché costui le aveva inviato in carcere alcune lettere e l’11 giugno dispongono l’intercettazione delle utenze telefoniche della Rosenzweig e di coloro che, oltre a Barbone, risultavano in costante contatto con lei: Paolo Morandini, Silvana Montanari e Stefano Mari.


Contemporaneamente viene disposta una perizia per confrontare la grafia che compariva sulle buste di rivendicazione di due attentati del 1979 ai giornali L’Unità e Il Corriere della sera siglati Guerriglia Rossa, con quella, che risultava identica, del manoscritto di rivendicazione di una rapina del 1978 in via Colletta reperita in via Negroli e quella, pure apparentemente simile, delle lettere inviate da Barbone alla fidanzata.


Il 5 luglio Barbone parte per il servizio militare ad Albenga e a settembre L’Espresso pubblica le dichiarazioni rese l’8 luglio dal generale Dalla Chiesa alla Commissione Moro in cui riferiva che per l’omicidio Tobagi stavano indagando su ex militanti delle FCC di Alunni e sulla base dell’esito confermativo del 16 settembre della perizia sulla sua grafia, il 25 settembre Barbone viene arrestato per la rapina di via Colletta, per evitare, diranno gli inquirenti, che messo in allarme da quell’articolo si desse alla fuga e tradotto nella caserma Porta Magenta di via Tolentino.


Il 2 ottobre Barbone interrogato nega ogni addebito, al termine il PM Spataro lo informa che è sospettato anche per l’omicidio Tobagi e gli attentati di Guerriglia Rossa, il giorno dopo chiede un incontro riservato con il generale Dalla Chiesa in caserma e il 4 ottobre verbalizza al PM i nominativi degli altri cinque componenti della 28 marzo che vengono tutti arrestati.


Si tratta di due operai e tre studenti: Paolo Morandini, 21 anni, Daniele Laus, 22 anni, ex militante nella SAP (Squadra Armata Proletaria) Sempione, Manfredi De Stefano, 23 anni, operaio IRE di Varese ed ex militante in altra SAP legata alle FCC, Mario Marano, 27 anni, e Francesco Giordano, 28 anni, entrambi ex militanti delle Unità Comuniste Combattenti di Guglielmo Guglielmi.
Morandini e Laus confessano subito (il secondo ritratterà in istruttoria) e il processo denominato Rosso-Tobagi inizia il 1° marzo 1983 e si conclude il 28 novembre dello stesso anno con la condanna dei sei imputati e la scarcerazione di Barbone e Morandini in applicazione della legge premiale n. 304 del 1982.



La campagna dell’Avanti


Sin dalla conclusione dell’istruttoria il PSI, sollecitato da alcune affermazioni dell’allora direttore del Corriere Franco Di Bella (successivamente risultato iscritto alla P2 di Licio Gelli), che riteneva che il movente dell’omicidio fosse da ricercare nell’impegno sindacale del giornalista, monta una campagna stampa su L’Avanti in cui mette in discussione la verità di Barbone, sostenendo che fosse stata concordata con la Procura in cambio dell’impunità per la fidanzata Caterina Rosenzweig, perché il testo della rivendicazione dell’omicidio appariva un elaborato troppo tecnico per non essere stato scritto da un giornalista professionista.
Il 27 maggio 1983, in occasione della campagna elettorale, il segretario Bettino Craxi (che il 4 agosto diventerà il nuovo Presidente del Consiglio) dichiara in un comizio al Castello Sforzesco che «Gli organi di polizia e la magistratura fin dal dicembre 1979 erano a conoscenza che gruppi terroristici progettavano un attentato a un giornalista milanese che la fonte confidenziale indicava in Walter Tobagi, informandoli del luogo esatto dove l’attentato sarebbe stato compiuto».
Procura e carabinieri smentiscono indignati, affermando che quando il nome di Tobagi era stato trovato nel gennaio del 1979 in una valigetta attribuibile ai Reparti Comunisti d’attacco (gruppo collegato alle Formazioni Comuniste Combattenti) al giornalista fu proposta una scorta che lui rifiutò, ma dopo le polemiche all’esito del processo per la scarcerazione di Barbone e Morandini, il 19 dicembre 1983 l’allora Ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro rivela l’esistenza di un appunto riservato del 13 dicembre 1979 in cui un carabiniere che si firma Ciondolo riporta la notizia ricevuta da una fonte confidenziale.
«Secondo il postino, il (segue il nome di un altro confidente) e gli altri avrebbero lasciato il proposito di compiere azioni in Varese ma avrebbero in programma un’azione a Milano. Costui non ha lasciato capire pienamente quale possa essere il loro obiettivo ma ha riferito al postino che si tratta di un vecchio progetto delle Formazioni comuniste combattenti. Per quanto riguarda l’azione da compiere qui a Milano e la zona nella quale il gruppo sta operando il postino ritiene che vi sia in programma un attentato o il rapimento di Walter Tobagi e la zona in cui il gruppo sta operando dovrebbe essere quella di piazza Napoli-piazza Amendola-via Solari dove il Tobagi dovrebbe abitare».
L’Avanti pubblica il documento e il carabiniere Ciondolo viene prontamente identificato nel brigadiere Dario Covolo e così pure il postino: si tratta di un ex militante varesino delle FCC, Rocco Ricciardi, arrestato il 16 novembre 1981, il quale sin dal marzo del 1979 aveva iniziato a collaborare segretamente con i carabinieri consentendo loro di arrestare nel maggio dello stesso anno a Como sette componenti di rilievo delle FCC, che di lì a poco cesseranno di esistere.
La fonte di Ricciardi in realtà non era un altro confidente, ma, come si legge nel documento, Pierangelo Franzetti, ex operaio IRE di Varese, militante nei Reparti Comunisti d’Attacco.



Quel documento era difficilmente collegabile al delitto


A quel punto, posto che meno di sei mesi dopo Walter Tobagi fu effettivamente colpito in via Solari da Barbone che aveva militato nelle FCC di cui aveva parlato Ricciardi e meno di quattro mesi dopo gli inquirenti furono già in grado di arrestarlo, si disse che non si era voluto impedire una morte annunciata e si era imbastita una versione di comodo.
In realtà, ad un’attenta lettura, quel documento non era facilmente collegabile al delitto di sei mesi dopo e tanto meno a Barbone e non perché, come disse qualcuno, ancora non poteva esistere la sigla Brigata 28 marzo (che si riferiva alla data di un fatto accaduto l’anno successivo), ma per altre ragioni.
Ricciardi si limita a dire che secondo lui il fatto che Franzetti gli avesse detto che il suo gruppo stava cessando azioni su Varese per spostarsi a Milano per un precedente progetto delle FCC poteva significare il sequestro di Tobagi, perché agli inizi del 1978 era stato uno degli obiettivi del gruppo. Ricciardi, che ben conosceva Barbone e la Rosenzweig (e proprio per il progettato sequestro Tobagi), non li nomina con riferimento al Franzetti e neppure quando, parlando di altro, cita ex militanti delle FCC (Balice, Serafini, Belloli), per cui dedurre che da quell’appunto gli inquirenti avrebbero potuto risalire al futuro fondatore della 28 marzo, ai tempi persona incensurata, appare una forzatura.
Neppure col senno di poi tuttavia, quando nel dicembre del 1983 tutte le indagini su quei gruppi si erano ormai concluse, quell’appunto appare collegabile all’omicidio di sei mesi dopo. Le successive indagini accerteranno infatti che nel dicembre 1979 il gruppo che l’anno dopo avrebbe assunto la sigla 28 marzo si era appena formato e organizzava rapine di autofinanziamento e Barbone aveva cessato da tempo ogni contatto con gli ex FCC, tanto che Ricciardi rimasto in contatto con loro nulla più sapeva di lui, né di Guerriglia Rossa né di altro. Per cui si può affermare con adeguata certezza che nel dicembre del 1979, contrariamente all’idea che si era fatta il Ricciardi, non era ancora in preparazione un attentato al giornalista del Corriere, né da parte del gruppo di Barbone né da parte di quello di Franzetti.



La querela di Spataro


Ma le polemiche non si placano e Spataro sporge querela per diffamazione contro il direttore dell’Avanti Ugo Intini, il vicedirettore Francesco Gozzano, i giornalisti Adolfo Fiorani e Piervittorio Scorti, il sociologo Roberto Guiducci e i deputati PSI Salvo Andò e Paolo Pillitteri, mentre Ricciardi scrive un memoriale dove nega di avere fatto a dicembre il nome di Barbone, ammettendo di essere stato contattato dai Carabinieri dopo l’omicidio di Tobagi: «Per parte mia mi impegnai nella ricerca di notizie sulla 28 marzo. In proposito riuscii a riferire ai carabinieri una sola voce: Marchettini mi aveva detto che un tale Manfredi che conoscevo personalmente, parlando in un bar con il Franzetti alla presenza di Marchettini stesso, aveva lasciato vagamente intendere che aveva rapporti con la 28 marzo. I CC, sempre durante l’estate, identificarono questo Manfredi per Manfredi Di Stefano ed io ne riconobbi la foto».
Nel 1985, al processo di appello (nel frattempo Manfredi De Stefano era morto il 6 aprile 1984 nel carcere di Udine) la versione di Barbone viene confermata da Marano e Laus, che, scrive Leo Valiani: «il 4 giugno in una lucida deposizione ha corretto le precedenti forzature tese a lasciar bollire nell’ambiguità l’ipotesi dei mandanti del delitto, di mani estranee e specializzate nella stesura del volantino e a diradare le possibili ombre di un coinvolgimento di Caterina Rosenzweig».
Ricciardi, intervistato il 14 giugno 1985 dall’Unità prima di deporre, dichiara: «Intendo dire tutto con chiarezza perché sono state commesse leggerezze sul mio conto anche dall’onorevole Scalfaro che ha fatto il mio nome in Parlamento, esponendomi a rappresaglie e mettendo in pericolo i miei familiari. Si è detto che avrei preannunciato l’omicidio di Walter Tobagi. Ma questo non è vero. Per conto mio percepii che Franzetti potesse parlare di Tobagi giacché nei suoi confronti c’era stato da parte delle Formazioni Comuniste Combattenti quel vecchio progetto di sequestro nel gennaio 1978. Fu una mia personale ipotesi e in questi termini la riferii ai carabinieri».
Il 7 ottobre 1985 la Corte di appello conferma la sentenza di primo grado (con sconti di pena per Marano e Laus), che diviene definitiva nell’ottobre dell’anno successivo.
Il 23 Novembre 1985 il Tribunale di Roma condanna Intini, Andò, Pillitteri, Gozzano e Fiorani per diffamazione ai danni di Spataro e il Presidente del consiglio Craxi dichiara al Tg «Faccio mie parola per parola tutte le affermazioni ed i giudizi che hanno determinato la condanna dei compagni socialisti», affermazione che apre un “caso” senza precedenti al CSM perché il 5 dicembre il Presidente della Repubblica Cossiga ne vieta la discussione determinando le dimissioni (poi rientrate) di tutti i membri togati.
In appello interviene l’applicazione della sopraggiunta amnistia con conferma del risarcimento danni a Spataro, ribadito dalla Cassazione nel 1987 e il 21 maggio 1993 il Tribunale di Milano assolve tutti gli imputati delle FCC, tra cui Barbone, Ricciardi e la Rosenzweig, per il tentato sequestro di Walter Tobagi del 1978, perché il fatto non sussiste.



Le accuse di Magosso e Arlati


La vicenda sembrerebbe finita, quando nel 2003 il giornalista Renzo Magosso e l’ex capitano Roberto Arlati pubblicano per Franco Angeli il libro Le carte di Moro, perché Tobagi che riprende le accuse ai carabinieri e il 17 giugno 2004 Magosso pubblica sul settimanale Gente un’intervista a Dario Covolo dal titolo Tobagi poteva essere salvato che accusa i superiori Ruffino e Bonaventura di avere chiuso le sue note in un cassetto e di avere subito mobbing per quel fatto.

Il 18 giugno 2004 alla Camera il deputato verde Marco Boato dichiara: «A distanza di 24 anni sono ricorrenti gli interrogativi sulle gravi omissioni da parte di ufficiali dei carabinieri dell’epoca che nascosero e non diedero seguito a una nota informativa preventiva redatta da un sottufficiale del nucleo antiterrorismo» e l’ex deputato Claudio Martelli allestisce uno speciale su Canale 5, seguito nel 2005 da Giovanni Minoli sulla RAI che dedica al “caso Tobagi” un’intera puntata di La storia siamo noi, in cui trasmette un’intervista a Covolo (da tempo traferitosi all’estero), che ribadisce la tesi del “delitto annunciato”.



Un’altra querela

Ruffino e la sorella di Bonaventura (deceduto nel 1992) querelano per diffamazione Magosso, Covolo e il direttore di Gente Umberto Brindani e nel corso del processo che si celebra avanti il Tribunale di Monza, all’udienza dell’11 luglio 2007 Dario Covolo viene esaminato come imputato di reato connesso e quando gli viene mostrato l’appunto del 13 dicembre 1979 dichiara: «ci sono degli appunti successivi a questo, dove si fa nome e cognome di quelli che devono ammazzare. O per lo meno si fa il nome e si dice: Guarda che il gruppo che sta operando dovrebbe essere la Caterina e il suo fidanzato, il suo convivente, Barbone Marco, non mi si fanno i nomi degli altri però quei nomi vengono fatti in successivi appunti».
Questi “ulteriori appunti” non verranno mai rintracciati e il 23 luglio 2007, nel corso di una conferenza a Milano dal tiolo Le verità nascoste. Il caso Tobagi, sempre Covolo dichiara: «Spiegai per tempo in un rapporto che un attentato sarebbe stato fatto nei confronti di Walter Tobagi e diedi i nomi di chi l’avrebbe compiuto. Ma non venne preso alcun provvedimento. Dopo la morte di Tobagi ho avuto una discussione molto accesa con Ruffino perché gli avevo detto che volevano uccidere Tobagi e gli avevo fatto i nomi di Marco Barbone e altri. Queste cose le ho anche ripetute come testimone al processo in corso a Monza davanti a lui. L’incredibile è che per aver fatto il mio dovere ora devo risponderne legalmente».
Il 20 settembre 2007 il Tribunale di Monza condanna Magosso e Brindani e la sentenza viene definita dal Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Franco Abruzzo «lesiva della libertà di stampa», ma nel settembre dell’anno successivo viene condannato anche Covolo, condanne tutte confermate nel 2009 in Appello e definitive nel 2010.



Le polemiche continuano, arriva anche la commissione Moro


Al termine del libro Ragazzi di buona famiglia di Fabrizio Calvi (Piemme) si legge che: «Dopo ventisette anni, il barbaro assassinio di Walter Tobagi non ha ancora smesso di far discutere – e indignare – l’Italia».
Nel 2009 Benedetta Tobagi pubblica per Einaudi Come mi batte forte il tuo cuore in cui definisce la nota di Covolo troppo «generica» per costituire prova che i carabinieri fossero stati avvertiti sei mesi prima dell’omicidio del padre e dopo avere direttamente parlato con Covolo non ritiene sia stato «perseguitato per quel documento».
Nel 2010 Armando Spataro pubblica per Laterza Ne valeva la pena in cui racconta che l’indagine sulla 28 marzo si concentrò sull’area gravitante intorno alla sigla Guerriglia rossa sia perché aveva come obiettivo il mondo della stampa sia per le identiche modalità di recapito delle rivendicazioni a mezzo posta a vari giornalisti, e che fu Ruffino a rilevare per primo l’evidente identità di grafia tra la rivendicazione della rapina di via Colletta trovata due anni prima in via Negroli e quella sulle buste di rivendicazione di Guerriglia rossa e sulle lettere di Barbone alla Rosenzweig.
Ancora una volta la vicenda sembrerebbe conclusa, ma il 19 ottobre 2016 nel corso della seduta n. 107 della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro presieduta da Giuseppe Fioroni, l’ex deputato Umberto Giovine torna a parlare della vicenda Tobagi in termini accusatori:
«Come mai Caterina Rosenzweig rimane fuori dall’inchiesta? È una cosa inaudita. La giustificazione che dette – e lo dico con nome e cognome – Armando Spataro è ancora peggio del fatto in sé. Disse che, siccome Caterina Rosenzweig apparteneva a una «famiglia bene» di Milano – una cosa che un giudice non dovrebbe neanche pensare (io sono nipote di un magistrato), figuriamoci dirla – per questo è rimasta fuori dall’inchiesta; poi questi assassini hanno avuto delle pene irrisorie. Dopo l’affare Moro questa è la cosa che mi fa più andare in bestia quando penso all’Italia, non so se qualcuno ha il potere di intervenire ex post su una cosa del genere, ma che fosse una cosa invereconda lo si capì subito, solo che noi socialisti non ci comportammo in modo intelligente. Anziché muoverci in termini di diritto e contestare ogni mossa di Spataro, la buttammo in politica».



Il flop delle nuove rivelazioni


L’ingente elaborato finale della nuova Commissione Moro non approda a particolari novità, ma il 16 gennaio 2018 i media danno ampio risalto a una conferenza stampa organizzata da Renzo Magosso presso la sala dell’associazione lombarda giornalisti di via Monte Santo in cui vengono annunciate «nuove rivelazioni sull’omicidio Tobagi». Alla conferenza è presente il Giudice Guido Salvini, il quale, pur escludendo ogni «complotto», afferma che non essendo credibile che senza la nota Covolo i carabinieri abbiano potuto mirare proprio a Barbone nella scelta del reperto grafico da comparare con quello reperito due anni prima nella base di Alunni, vi fu una iniziale sottovalutazione di quel documento e dopo l’omicidio si è voluto celare la cosa.
Il giorno dopo Il Corriere della sera, forzando non poco il contenuto di quelle affermazioni, titola: «L’ultima verità sull’assassinio di Tobagi, il giudice Salvini: ‘Si poteva salvare’», e ne seguono nuove polemiche.


In realtà, a quella conferenza non fu esibito nessun nuovo elemento rispetto a quelli già noti. L’appunto di Bonaventura a Bozzo era stato depositato nel corso del processo di Monza, come risultava da una interpellanza presentata dal Partito Radicale riportata in un articolo datato 2008 reperibile sul sito web di Franco Abruzzo, dove si legge: «In quest’ultimo processo è emerso ora un fatto nuovo, giudicato dai Radicali grave e sconvolgente. Il generale Niccolò Bozzo – è scritto nell’interpellanza dei Radicali -, all’epoca dei fatti stretto collaboratore del generale Dalla Chiesa, sentito come teste, ha presentato un documento riservato preparato dai suoi superiori, nel quale venivano date indicazioni a Bozzo per fornire, se interrogato dalla magistratura, la versione ‘concordata’ sulle indagini». La scansione dei primi atti d’indagine era già stata riferita da Spataro nel libro Ne valeva la pena di otto anni prima (pagg. 82 e ss.) e l’articolo su L’Occhio del 25 settembre 1980, dove Magosso scriveva «Preso Marco Barbone delle Br, l’informazione viene da Varese», era stato citato da Stefania Limiti in un post datato 20 ottobre 2009 leggibile sul sito Miccia Corta.


Sempre nel 2018 Zona Contemporanea pubblica Vicolo Tobagi di Antonello De Stefano, il quale ricorda che il fratello fu arrestato mentre era con lui la sera del 3 ottobre ad Arona davanti al Bar Stadio, un giorno prima quindi della data del verbale di confessione di Barbone, confermando che Manfredi conosceva Marchettini perché avevano lavorato insieme all’IRE di Varese. Nel libro compare un’intervista a Francesco Giordano che dice di avere conosciuto i membri di quel gruppo alla fine del 1979 tramite Mario Marano, con loro vennero organizzate due rapine di autofinanziamento, la prima a ridosso di Natale 1979 a Castelpalasio e la seconda nel gennaio del 1980, e la proposta di un attentato a Tobagi gli fu fatta da Barbone dopo il 28 marzo del 1980.


Il 15 agosto 2018 Antonello De Stefano rilascia un’intervista a Roberto Pietrobelli sul Fatto Quotidiano in cui dichiara: «Mio fratello non è morto per un aneurisma e qualche inquirente ha falsificato le carte. Ho aspettato così a lungo a prendere un’iniziativa ufficiale sulla morte di mio fratello, perché ho voluto studiare i 138 faldoni del processo e leggere i 220 mila documenti che essi contengono. Manfredi venne picchiato nel carcere di San Vittore e salvato dalle guardie. Poi fu trasferito a Udine. Ed è all’amministrazione penitenziaria che mi sono rivolto». Si legge nell’articolo: «Pochi giorni fa De Stefano ha scritto a Francesco Basentini, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, nonché per conoscenza al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e ai ministri della Giustizia, della Difesa e degli Interni: Mi trovo nella condizione di richiederle le cartelle cliniche del detenuto Manfredi De Stefano, mio fratello, a far data dal 3 ottobre 1980 e fino al 6 aprile 1984, data della sua morte».




Anche la corte di Strasburgo dice la sua


Passano altri due anni e il 16 gennaio 2020 la Corte di Strasburgo condanna l’Italia per violazione del diritto alla libertà d’espressione di Renzo Magosso e Umberto Brindani assegnando loro un risarcimento di 15mila euro perché, si legge nella sentenza CEDU: «Legittimamente i querelanti potevano dolersi con il brigadiere che ha fatto le affermazioni riportate nel settimanale, per contestare l’eventuale falsità o parzialità delle sue dichiarazioni. Viceversa, quanto al cronista e al direttore responsabile del settimanale, l’oggetto della contesa non poteva riguardare la verità dei fatti narrati ma solo se il cronista si fosse limitato a riportare le frasi dell’intervistato, svolgendo ragionevoli verifiche sulla sua attendibilità, e non avesse operato proprie inserzioni e considerazioni offensive sulla narrazione riferita», aggiungendo che sul punto i tribunali nazionali «non hanno fornito motivi rilevanti e sufficienti per ignorare le informazioni fornite e i controlli effettuati dai ricorrenti, che sono stati il risultato di un’indagine seria e approfondita».


Nel commentare la sentenza a lui favorevole Magosso dichiara al Dubbio: «Se hanno saputo di Barbone solo successivamente, per quale motivo sono andati a controllare? A giugno del 1980 venni contattato dal direttore del Corriere, Franco Di Bella, che mi disse: il generale Dalla Chiesa mi ha detto che ad ammazzare Tobagi è stato il figlio del nostro direttore generale Donato Barbone. Così andai a verificare con Umberto Bonaventura, che confermò la circostanza, aggiungendo di essere arrivato a Barbone tramite un manoscritto anonimo su un attentato mai avvenuto ordito dalle Fcc nel quale riconobbe la calligrafia del giovane. Non ci ho creduto, ma lui mi disse che era un’informazione sicura che veniva da Varese. Così gli chiesi di informarmi dell’arresto, cosa che fece. Su L’Occhio scrissi: preso Marco Barbone delle Br, l’informazione viene da Varese. Otto giorni prima che confessasse. Come fa la magistratura a dire che non ne sapeva nulla?».


Anche qui, fermo restando che la CEDU non ha confermato la versione di Covolo, limitandosi a stabilire che non è perseguibile il giornalista che riporta dichiarazioni altrui dopo avere svolto adeguata inchiesta (che non significa inconfutabile), si potrebbe obiettare che quanto ricorda Magosso non smentisce la versione degli inquirenti. A giugno i carabinieri erano già sulle tracce di Barbone per cui l’anticipazione di Dalla Chiesa a Di Bella è imprudente ma compatibile; l’informazione da Varese poteva riferirsi a quanto riferito da Ricciardi su De Stefano dopo l’omicidio per averlo appreso dal Marchettini e non al precedente appunto del 13 dicembre 1979; se Magosso scrive il 25 settembre che Barbone è delle BR mostra di non essere troppo informato su costui, che comunque indica come arrestato e non come l’assassino di Tobagi.

In ogni caso, questi sono i fatti e ognuno è libero di interpretarli come ritiene, ma poiché ritengo probabile che per il quarantennale dell’assassinio di Walter Tobagi la vicenda della nota Covolo verrà ripresa, pareva corretto ricostruirla.

Pubblicato in Anni 70, Lotta armata, Teorie del complotto | Contrassegnato Alessandro Ruffino, Armando Spataro, Bettino Craxi, Brigata XXVIII marzo, Caterina Rosenzweig, Ciondolo, Dario Covolo, Davide Steccanella, FCC, Formazioni comuniste combattenti, Guerriglia Rossa, Marco barbone, Renzo Magosso, Rocco Ricciardi, Umberto Bonaventura, Walter Tobagi | 1 Risposta








Edited by barionu - 25/5/2023, 11:27
CAT_IMG Posted: 23/4/2023, 13:32 BOLOGNA LO STUDIUM I BIDELLI E LE MAZZE - ZIO OT DICE LA SUA







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Dalle “Cose Notabili …” di Giuseppe Guidicini.


Bononia Docet.






Questo titolo onorevolissimo di cui andò fregiata la nostra patria, fu un dono procuratogli dai sommi Dottori si esteri che nazionali, che il Governo seppe scegliere e generosamente compensare per comporre la primaria Università d’Europa alla quale accorrevano studenti dalle più remote regioni. Non vi ha bisogno adunque di ricorrere all’apocrifo diploma di Teodosio il juniore dei 9 maggio 433 per provare la celebrità e supremazia del nostro studio, per cui terna inamissibile l’importanza che si appone allo scrigno nel quale è conservato quale reliquia nell’ archivio degli atti notarili di Bologna. Sulla falsità del diploma Teodosiano hanno scritto molti autori ma specialmente il padre D. Celestino Petracchi nella sua Basilica di S. Stefano, stampata l’ anno 1747.



Riccobaldo autore Ferrarese del tredicesimo secolo scrisse in latino la storia degli Imperatori da Carlo Magno fino al 1298 intitolata Pomerium, la quale tradotta dal Boiardo sul finire del secolo decimo quinto. Dice Riccobaldo che alla Dieta della Roncaglia tenuta da Federico I intervennero molti Giuriconsulti di Bologna, ove era lo studio instituito già da Enrico.


Se l’ Autore Ferrarese intese di parlare di Enrico I, regnò questi dal 919 o 920 fino al 4 luglio 936, o come altri vogliono fino alli 2 luglio 937 , se poi l’ Enrico da lui citato fu il secondo cominciò il suo regno li 6 giugno 1002, e lo terminò li 14 luglio 1024; se poi parlò di Enrico III, imperò dal 1039 fino alli 5 ottobre del 1056. Dunque secondo Riccobaldo l’ instituzione dell’Accademia Bolognese non può essere anteriore al 919, nè posteriore al 1056.


Oddofredo racconta, che non essendovi più studio di Giurisprudenza in Roma furono trasportati i libri di legge a Ravenna, e da Ravenna a Bologna , dove Pepone di propria autorità cominciò a leggere il jus. L’ Alidosi dice che Pepone insegnava nel 980, e che precedette di 150 anni Irnerio. Irnerio godeva fama di gran giurisconsulto in Patria e fuori nel 1113, quindi l’ Alidosi non si allontana dal vero che di 17 anni. Questo Irnerio creduto Tedesco, Milanese o Fiorentino fu invece Bolognese, per tale comprovato da tre monumenti del duodecimo secolo. Da prima fu maestro d’ Arti, poi ristauratore di giurisprudenza Romana. Variano gli autori nello stabilire l’ epoca della sua morte , ma è certo che dopo il 1118 non si ha di lui più memoria alcuna.


Nel novembre del 1158 Federico I imperatore presiedette la seconda Dieta della Roncaglia, alla quale intervennero quattro dottori in leggi del nostro studio. Bulgaro di Alberto Bulgari, Martino Gosia , Ugolino e Giacomo di Porta Ravegnana, i quali compilarono la Pragmatica Sanzione delle giurisdizioni imperiali in Italia.


Il Savioli nei suoi Annali produce l’atto di Federico. col quale concede dei privilegi agli scolari in leggi dello studio di Bologna.


Lo stesso trascrive la lettera di Alessandro III diretta a Gerardo Vescovo, ai canonici della Chiesa di Bologna e ai Maestri dello studio in data del 5 ottobre 1159, partecipandogli la sua elezione al Pontificato. Per ultimo trascrive la lettera di Tommaso Vescovo di Canterberryi diretta circa il 1166 a Ubaldo Vescovo d’ Ostia, nella quale fa elogi dei Giuristi bolognesi come imparziali, e incoruttibili ne’ loro giudizi.


Clemente III, nel 1188 scomunicò tutti que’ Maestri e scolari dello studio di Bologna, che avanti il tempo delle conduzioni delle case avessero contrattato quelle abitate dai maestri o scolari senza il reciproco assenso.


Si trova che nel 1189 gli interpreti delle leggi erano obbligati prestar giuramento al cospetto de’ Consoli di Bologna, col quale si vincolavano dinon extra Bononiensem Gimnasium Scientiam juris tradere. Si ha la formola di questo giuramento, che è l’atto più antico comprovante l’interesse che per il Magistrato, e il pubblico attribuiva gli affari dello studio. Il primo dicembre del predetto anno diede il giuramento Lotario Cremonese; li 11 ottobre 1199 fu dato da Guglielmo Porta Piacentino; li 30 dicembre dello stesso anno, Bandino Formagliari Pisano; li 23 ottobre 1213, Guido Boncambi, Giacomo Balduini Giuriconsulti bolognesi, Oddone di Landriano milanese e li 27 ottobre susseguente Benintendi e Ponzio Castellani I. C. Bolognesi.




Nel 1204 i dottori davano – Licentiam -.


Nel registro grosso fol. 215 anno 1205 trovansi i regolamenti fatti per lo studio.


Innocenzo III scrisse nel 1211 al Podestà e popolo di Bologna acciò si staccassero da Salinguerra e dalla fazione imperiale, altrimenti minaccia di privar dello studio la città di Bologna. Questo è il primo atto di dominio mostrato dal Papa sulle nostre scuole.

1217 Nacque differenza per certo statuto fra il Podestà, e gli scolari. Questo è il primo tratto d’ insubordinazione della scolaresca verso l’ autorità locale.

1218 27 Giugno. Convien credere che alcuni di poca capacità arbitrariamente insegnassero il Gius, poichè fu ordinato – In Bologna leggono uomini illitterati. Nessuno legga senza licenza dell‘arcidiacono.

1219 28 Giugno. Onorio III scrisse all’ Arcidiacono di Bologna. Che avvenendo sovente, che i meno dotti assumevano di insegnare con disonore dei dottori, e con discapito degli scolari, così vuole che niuno insegni senza licenza dell’ Arcidiacono, da non rilasiarsi che dietro diligente esame, e se qualcuno non si sottomettesse a questi ordini vuole che sia punito dall‘ecclesiastiche Censure. Lo stesso Pontefice diede facoltà al medesimo Arcidiacono di approvare gli scolari, essendo il primo fondamento dell’ uso , da lui addottato per addottorare.

Lambertino di Tommasino Ramponi fu il primo dei nostri Professori nominato nei pubblici atti Nobilis, et sapiens Miles Legum Professor e precisamente ai 23 settembre 1218.

Li 6 aprile 1220 lo stesso Onorio III revoca la Costituzione che obbligava gli scolari dello studio di Bologna al giuramento di non trasferirsi per i loro studi in altra Università.

1243. Il Consiglio decretò che anche per guerra urgente i dottori e gli scolari fossero esenti dalla milizia.

Nel 1252 si trova il primo statuto relativo alle scuole e nello stesso anno l’ordinazione, che le case abitate dagli scolari non potesser esser distrutte per qualunque malefizio, delitto e ribellione dei Lambertazzi.

1253. II Idus Ianuari. Innocenzo IV, scrive all’Arcidiacono di Bologna, e a frate Danielle Domenicano, che facciano osservare gli statuti fatti per i Rettori e gli scolari di Bologna da lui confirmati. Questo è il primo documento che certifichi dell’esistenza della dignità dei Rettori i quali si eleggevano fra gli scolari, come vedrem più abbasso.

Nel 1295 fu emanato il decreto del Consiglio e dell’Università di Bologna, col quale vengono assolti gli scolari dai delitti e dalle pene ad essi imposti per la tentata translazione e mutazione dello studio e ciò in seguito di istrumento di concordia col quale furono composte le discordie degli scolari dello studio e stabilite molte massime per la quiete, e per i regolamenti del medesimo.

Correndo l’anno 1309 Clemente V scrive, che essendo restituita l’Accademia di Bologna al più alto suo splendore, intende rinnovare i privilegi compartiti dal Cardinal Legato e Diacono di S. Adriano Napoleone. Il medesimo ad accrescimento della dignità dello studio concede nel 1312 ai dottori laureati, di poter professare le loro scienze in qualunque altra accademia di qualunque nazione essa sia. Poi ordina che nessun legato apostolico possa togliere da Bologna l’ Accademia nè assoggettarla all’interdetto, perchè riservata a lui solo.
1341 V idus Februarii. Benedetto XII scrive da Avignone a Taddeo Pepoli raccomandandogli che il Rettore e gli scolari dello studio prestino giuramento all’osservanza degli statuti fatti e da farsi.
1362 30 Giugno. Innocenzo VI scrive, che per gli egregi meriti dei Bolognesi accorda il diritto di professare la Teologia in Bologna, non è però da questa concessione che si debba fissare l’insegnamento di questa facoltà in Bologna, mentre sappiamo che Pietro Lombardo e Rolando Bandinelli il qual ultimo fu poi Alessandro PP. III, creato li 7 settembre 1159, morto li 30 agosto 1181, insegnò la Teologia ai tempi che Bulgaro ed altri interpretavano le leggi. Credesi che alla Teologia unissero i sacri Canoni e che i professori di quella scienza leggessero in S. Pietro ma particolarmente in S. Stefano e in S. Procolo.
1416 28 Marzo. I Riformatori decretarono, che i dottori in leggi e in arti professori dell’Università fossero esenti da qualunque peso personale, reale e misto.
Eugenio IV con bolla del 1437 determinò per dote dello studio la rendita della Gabella grossa e non bastando quella pure del dazio del sale.
Giulio II nel 1509 per assicurare ai Lettori i loro onorari tolse il maneggio della Gabella grossa al Tesoriere, e deputò una Congregazione di dottori del Collegio composta di quattro di legge Canonica, di quattro di legge civile e di quattro di medicina.
Clemente VIII con suo breve aggiunse ai dottori un assunteria di Senatori.
1448. Nicolò V ordinò con Bolla, che la laurea Dottorale fosse conferita gratis agli scolari poveri, purché idonei a sostenerla.
Lo stesso Pontefice stabilì le materie, che si dovevano leggere in qualunque facoltà.
Il detto Papa nello stesso anno ordinò che i lettori si dovessero confirmare d’ anno in anno.
Li 25 luglio 1450 lo stesso Pontefice stabilì il numero dei lettori stipendiati a 45, e che lo stipendio dei medesimi non oltrepassasse lire 600 annue.
1540 15 Febbraio il Senato Consulto, vietò in perpetuo ai lettori esteri di insegnare nell’Archiginnasio a riserva delle quattro scienze eminenti, e cioè leggi, filosofia, medicina e lettere umane.
1556 29 Ottobre. Fu decretato che tutti i cittadini avanti il dottorato debbono dare pubbliche Tesi.
1568 5 Giugno. Pio V, scrisse al Rettore e all’Università, ordinando che tutti i lettori e gli aspiranti alla laurea dottorale dovessero far prima la loro professione di fede.
1578 10 Marzo. Il Senato Consulto proibì ai dottori esteri e forensi di poter essere lettori nell’Archiginnasio. A questa legge fu poi derogato non poche volte.
Nel 1677 si contavano quasi 150 lettori fra ordinari e straordinari che erano come supplenti, ma godevano d’ un onorario. Quest’instituzione è antichissima.
In diverse epoche furono pubblicate dai legati delle ordinazioni per con servare la dignità e riputazione dello studio di Bologna, e cioè:
1565 25 Maggio e 5 agosto. Dal Cardinale Legato Cesi.
1575 17 Ottobre. Dal Vice-legato Fabio Mirri Frangipane.
1586 23 Settembre. Dal Cardinale Legato Gaetano.
1602 29 Ottobre e 14 novembre. Dal Pro-legato Landriani.
1639 8 Febbraio. Dal Cardinale Legato Sacchetti e pubblicate li 12 luglio 1641 dal Cardinale Legato Durazzo.
1649 6 Ottobre. Dal Cardinale Legato Savelli.
1713 8 Marzo. Dal Cardinale Legato Casoni.
1617 24 Luglio. Il Senato Consulto, ordinò che i dottori prima d’ essere ammessi lettori pubblici debbano provare l’originaria civiltà.
1641 10 Novembre. Scomunica lanciata contro chi in pubblico o in secreto leggesse scienze, o arti, che s’insegnano nelle pubbliche scuole, senz’essere inscritto nel numero dei lettori.
1720 30 Marzo. Fu proibito a tutti i religiosi di poter come sopra insegnare se non ascritti tra i lettori dell’Università.
Nel 1793 il numero dei lettori fu di 65, i quali ebbero di onorario. L. 28930. 00
e di distribuzione L. 7207.10.
Totale L. 36137. 10.
I professori antichi e celebri che hanno letto nell’Università di Bologna sono:
Irnerio nel 1102. Pietro Damiano Cardinale nel 1028. Graziano autore delle Decretali nel 1138 Antonio da Padova de’ Minori. Alberto Magno Raimondo di Pennafort nel 1222. Pietro Thoma Fondatore del Collegio dei Teologi nel 1364.
1214. Ugo di Luca medico dimandò di esser fatto cittadino esibendosi di servire la Città di Bologna come medico chirurgo e non come lettore. Quest’è il primo modico del paese ricordato nel mondo letterario. Vedi Borgo Riccio numero 192.
Prima del 1301 tacevasi l’ anatomia nella nostra Università , e ciò è comprovato dal sapersi che nel 1301 gli scolari di Padova per formare le costituzioni di esso studio si servirono di quello di Bologna anche sul conto dell’ anatomia, (cosi gli Annali del Negri 1301).I lettori anatomici erano da prima chirurghi, poi dottori. Mondino del Luzzo celebre medico leggeva questa facoltà nel 1324; e per legge dello studio doveva qualunque fosse l’anatomico uniformarsi al metodo di quel celebre professore. Cesare Aranzi fu il primo a sostenere pubblicamente il suo sistema anatomico nel carnevale del 1564 e l’ultimo fu Giuseppe Fabbri della Barigella nel carnevale del 1796.
Giuseppe Ambrosi nella sua opera sulle sette dei Giuriconsulti cominciando dalla riformazione della Giurisprudenza Romana, ossia della pretesa invenzione delle Pandette nel sacco d’ Amalfi dà la seguente divisione delle allora esistenti scuole:

SCUOLA PRIMA
Irnerio circa il 1102, di Irnerio bolognese, si ha per prima memoria certa nel maggio 1113 e si ritiene morto circa il 1140.
Martino Cremonese.
Bulgaro.
Ugolino di Porta Ravenn. morto 1168.
Alberico di porta Ravenn. ) Scolaro di Bulgaro
Giovanni Bosiano. ) Scolaro di Bulgaro
Azzone Porti morto nel 1200) Scolaro di G. Bossiano
Lotario Cremonese. ) Scolaro di G. Bossiano
Iacopo Balduino. ) Scolaro di Azzone
Oddofredo Scolari ) Scolaro di Azzone
Francesco Accursio morto nel 1279. ) Scolaro di Azzone
Cino da Pistoia morto 1236. ) scolaro di Accursio
Dino da Mugello morto,1303. ) scolaro di Accursio
Iacolo Belvisi. )scolaro di Accursio
SCUOLA SECONDA
Bartolo di Sasso-ferrato di Cino morto nel 1355.
Riccardo da Saliceto, scuolaro di Bartolo morto nel 1360.
Bartolomeo da Saliceto di Riccardo morto nel 1412.
Paolo de Castro, scolaro di Baldo morto nel 1437.
Alessandro Tartagna, scolaro di Paolo de Castro morto nel 1477.
Bartolomeo Soccino morto nel 1507. ) scolaro di Tartagna
G. Maino morto nel 1519. ) scolaro di Tartagna
Andrea Alciati, scolaro di Giasone morto nel 1550.
Antonio Agostino collegiale di S. Clemente, studiò in Bologna da Andrea Alciati.

I salari dei lettori si cominciano a trovare nei libri d’ entrata, e spesa del 1377.
Il 16 agosto 1396 essendo ammontate le spese dello studio nell’ anno precedente a lire 13000 fu decretato che quelle del susseguente anno non oltre passassero le 12000.
Nel 1416. I Riformatori assegnarono per i salari dei dottori il Dazio dei folicelli. In seguito gli onorari dei lettori si prendevano dalle rendite della Gabella grossa.
Nel 1617 Matteo Veniero Vescovo di Corfù, e Alvise di lui fratello fondarono nello studio di Bologna la lettura detta Veniera.
Nel 1723 lo studio contava sessantacinque lettori salariati, che costavano complessivamente L. 28930 di appuntamento e L. 7207. 10 di distribuzione. Totale L. 36137. 10 e ragguagliatamente L. 555. 19. 5 per cadauno.


Nel 1196 (orig. 1796. Evidente errore di cui il Breventani non si accorse). Oddofredo parlando di un obbligazione di certo scrittore, che aveva obbligata l’ opera sua a scrivere, ed essendo nata questione dice che la decisione fu emanata dagli antichi dottori radunati nella chiesa di S. Pietro per certo esame. Si desume, che quando prima del 1200 (dicendo antiqui Doctores) si radunavano collegialmente in S. Pietro, (et pro quadam examinatione) probabilmente per dare gli esami per conferire il grado esisteva una specie di Collegio.


1463 30 Giugno. Pio II in data di Siena revoca la facoltà ai Lateranensi di dottorare in pregiudizio dell’ Università degli studi di Bologna.
Si distinguevano tre classi di lettori. Emeriti che erano giubilati, numerari che erano pagati, e onorari che non erano stipendiati. Tutti potevano leggere in casa propria, e nelle pubbliche scuole.


L’ aspirante alla lettura doveva essere laureato, e aver fatto l’ esperimento di pubbliche conclusioni nell’Archiginnasio nella sua facoltà. Incombeva al Reggimento il dispensare le cattedre, di fissare gli onorari, ed accordare gli aumenti. Un professore cominciava dal stipendio mai maggiore di annue L. 100, e poteva in sua vecchiaia aver ottenuto tanti aumenti da non oltrepassare però mai l’annuo emolumento di lire 1100.


Si cominciò nel 1438 a fare il rotulo o tabella dei lettori. Col tempo se ne fecero due; li 3 ottobre si appendevano lateralmente alla porta del Archiginnasio e vi rimanevano esposti per alcuni giorni. In uno vi era la classe dei lettori leggisti la loro facoltà, e l’ ora in cui dovevano trovarsi nelle scuole per insegnarla. Nell’ altro vi era la classe degli artisti. Si leggeva la mattina e il dopo pranzo ed il suono della campana grossa di S. Petronio, che volgarmente si diceva la scolara, indicava l’ora nella quale gli scolari dovevano intervenirvi.


Il lettore doveva presentarsi vestito di toga, all’ora prefissa nel rotulo, alle pubbliche scuole, ma non leggeva se non nel caso che alcuni oltre il numero di tre lo avessero chiesto. Il presentarsi all’Archiginnasio era di pura formalità, e i corsi si davano dai professori nelle proprie case.


Il Reggimento nominava un’ Assunteria detta dello studio, la quale sorvegliava al buon regolamento e all’ osservanza degli statuti dell’ Università.

Il Negri nei suoi Annali dice che il primo Rettore dello studio sia stato un Lottario tratto in errore dal significato attribuito al giuramento dato da lui nel 1189 come non Rettore, ma come interprete delle leggi. Trovò egli – Regam Scholas – e lesse Rettore, quando è una frase che vuol dire insegnar materia monastica da cui è venuto nei religiosi conventuali il titolo di Reggente.






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I due primi Rettori dello studio dei quali si sappia il loro nome sono del 1244 e cioè D. Ioannes Verazius o Verenus e D. Puetrelus de Venetiis. Il P. Sarti ricorda solamente un Gerardus de Cornazano di Parma rettore nel 1275.



I Rettori erano distinti in leggisti, e artisti. Questa carica era sostenuta da due scolari eletti dal corpo intero della rispettiva Università nel mese d’aprile e prendevano possesso con solennità il primo maggio , prestando giuramento nelle mani del Legato. Il rettorato durava un anno.


Nicolò V, li 8 febbraio 1448 ordinò “a Rectori Universitatis Studi. Bonon. in recompensum expensarum, et laborum conceditur, quod pervenire valeat ad gradum doctoris – Gratis“.


Il Reggimento li 20 marzo 1508 decretò la precedenza dovuta al Rettore degli scolari sulle scuole e per le funzioni spettanti allo studio sopra il giudice degli Anziani.


L’ ultimo rettore leggista fu Lopez Verona Spagnuolo nel 1579. Dopo 25 anni fu eletto nel 1604 Giovanni Battista Spinola Genovese, e in seguito non si incontra più alcun rettore leggista.


L’ ultimo rettore artista fu Giuseppe Pallavicini marchese di Varano da Borgo S. Donino nel 1546.


Il Legato pro tempore di Bologna assunse il titolo e le funzioni di Rettore perpetuo delle due Università, ed allora i giuristi, e gli artisti nominarono due Priori, quattro Presidenti, un dato numero di Consiglieri, quattro bidelli, e due ‘ cancellieri.


La nazione Allemanna rappresentava un corpo separato, ed eleggeva due consiglieri e un sindaco che nelle funzioni erano preceduti dai soli priori e presidenti, giuristi e artisti.


I priori degli scolari uno detto dei giuristi, l’altro degli artisti durante il tempo della loro carica semestrale, davano tre patenti, le quali per decreto del Legato Alberoni del 6 aprile 1742 duravano due anni.


Nel 1444 vi erano tre Rettori dello studio come rilevasi dal decreto sulla cavalcata da farsi nella chiesa della B. V. del Monte, nel quale vien loro assegnalo il posto subito dopo gli Anziani e in precedenza del Podestà.


ll Rettore delle arti ossia, di filosofia, e medicina, si sceglieva prima fra i Lombardi, poi fra i Romani, l’ultimo fra i Toscani, ripigliando lo stess’ ordine per i susseguenti anni. La sua elezione si faceva nel mese di aprile, ed entrava in carica per un anno il primo di maggio. ll possesso si prendeva con la massima pompa. In casa del Rettore si convocavano tutti i lettori, i consiglieri dello studio ed i magistrati della Città. Partivano dalla casa del Rettore con quest’ ordine.


Precedevano i Bidelli colle mazze d’argento dorate,


seguivano i Consiglieri delle due Università disposti nel modo con cui sedevano nell’Università, veniva poi il Rettore e cosi s’incamminavano verso il pubblico palazzo.

Che se poi intervenivano i Magistrati, gli Anziani, il Confaloniere, i Tribuni della Plebe , i Giudici ecc. questi tenevano nel mezzo il Rettore. Intervenendo le autorità pontificie, in allora il primo posto lo aveva il Legato o il Prolegato, il secondo lo occupava il Gonfaloniere, il terzo il Rettore, dopo dei quali venivano gli Anziani, i Tribuni della plebe i Giudici civili e criminali, i Lettori secondo l’ordine di loro anzianità indi la nobiltà nazionale e straniera secondo la loro età, ed il loro grado.


Per essere Rettore occorrevano i requisiti di morigerato, onesto, quieto, giusto, studente almeno da cinque anni a proprie spese, e dell’età di anni 25 e non meno.


L’ elezione del Rettore oltramontano si faceva il primo giorno del mese di maggio, e quella del Rettore citramontano ai 3 dello stesso mese.
L’oltremontano si sceglieva il primo anno fra gli scolari Francesi, i Borgognoni, i Savoiardi della provincia di Berry, i Guasconi e i Torinesi. Nel secondo anno fra i nazionali della Castiglia, del Portogallo , della Provenza , della Navarra, dell’ Aragona e della Catalogna. Nel terz’ anno cadeva il turno per gli Alemanni, per gli Ungari, per i Polacchi, Boemi, Inglesi e Fiamminghi.


Il Citramontano era nel primo anno un Romano, nel secondo un Toscano, nel terzo un Lombardo, poi si ricominciava il turno. L’elezione dei Rettori si faceva per schede nel luogo solito delle radunanze nell’Università.
Era d’ uso che i priori delle due Università dei leggisti, e degli artisti separatamente presentassero quando fioccava la prima neve un bacile della medesima al Legato, Arcivescovo, Vicelegato, Gonfaloniere, Podestà, Uditori del Torrone, Rettori dei Collegio di Spagna, e di Montalto, e a tutti i Lettori pubblici dello studio per ricevere la solita regalia, che impiegavano a far Memorie nell’Archiginnasio.
Si pretende che questa cerimonia avesse origine da una regalia che annualmente facevano gli ebrei ai Rettori, poi ai Priori della scolaresca per essere risparmiati dagli oltraggi a quali erano continuamente fatto segno, e che quando furon cacciati da Bologna il tributo della perduta regalia venisse assunto dai suddetti personaggi previo formalità di tale presentazione.
Il numero degli scolari fu mai sempre straordinario, massime negli antichi tempi, come precedentemente fu accennato, perciò non è a meravigliare se i matricolati godessero esenzioni e privilegi, fino a poter concedere ai loro servitori un bollettino che gli autorizzava a portar armi proibite.
Vi ha un decreto che prescrive il numero delle lezioni a cento almeno ogni anno.
La campana mezzana della chiesa di S. Petronio suonava la scolara o la squilla dello studio, in ogni tempo dell’ anno non prima d’ un ora dopo la messa di S. Pietro, e in tutti i giorni di lezione nello studio. Si trova che li 11 aprile 1502 era già in uso di suonare la squilla, o scolara delle scuole.
Sotto il regno d’ Italia l’Università fu sott’ altro piedi dell’ anteriore al 1796. Ripristinato il Governo Pontificio in questa Provincia , la bolla del 28 agosto 1824 comincia. – Quod Divina Sapientia ecc. – che fu ed è la regolatrice del nostro studio.










CAT_IMG Posted: 23/4/2023, 13:14 CHI NON PRENDE LA SUA SPADA E NON MI SEGUE - Ebraismo










[MATTEO X , 38


CHI NON PRENDE LA SUA SPADA


E NON VIENE DIETRO A ME ,

NON E' DEGNO DI ME



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Quindi non croce , ma spada


non stauron

σταυρὸν


ma machairan

μάχαιραν.



Questo tema d' indagine è di Angelo Filipponi , mio carissimo amico , e compare

nel suo libro jehoshua o jesous ?

www.ibs.it/ebook/ser/serpge.asp?aut=0&txt=Filipponi+Angelo




34 Μὴ νομίσητε ὅτι ἦλϑον βαλεῖν εἰρήνην ἐπὶ τὴν γῆν· οὐκ ἦλϑον βαλεῖν εἰρήνην ἀλλὰ μάχαιραν.
35 ἦλϑον γὰρ διχάσαι ἄνϑρωπον κατὰ τοῦ πατρὸς αὐτοῦ καὶ ϑυγατέρα κατὰ τῆς μητρὸς αὐτῆς καὶ νύμϕην κατὰ τῆς πενϑερᾶς αὐτῆς,
36 καὶ ἐχϑροὶ τοῦ ἀνϑρώπου οἱ οἰκιακοὶ αὐτοῦ.
37 ῾Ο ϕιλῶν πατέρα ἢ μητέρα ὑπὲρ ἐμὲ οὐκ ἔστιν μου ἄξιος· καὶ ὁ ϕιλῶν υἱὸν ἢ ϑυγατέρα ὑπὲρ ἐμὲ οὐκ ἔστιν μου ἄξιος·
38 καὶ ὃς οὐ λαμβάνει τὸν σταυρὸν αὐτοῦ καὶ ἀκολουϑεῖ ὀπίσω μου, οὐκ ἔστιν μου ἄξιος.
39 ὁ εὑρὼν τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἀπολέσει αὐτήν, καὶ ὁ ἀπολέσας τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἕνεκεν ἐμοῦ εὑρήσει αὐτήν.
40 ῾Ο δεχόμενος ὑμᾶς ἐμὲ δέχεται, καὶ ὁ ἐμὲ δεχόμενος δέχεται τὸν ἀποστείλαντά με.


34 Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada. 35 Perché sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; 36 e i nemici dell'uomo saranno quelli stessi di casa sua. 37 Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me. 38 Chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me. 39 Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.


L' esegesi cattolica ha penosamente tentato di mascherare questa frase da sempre :

www.chiesacattolica.it/documenti/20...ma_una_spa.html


intanto i bravi redattori falsari dei vangeli hanno semplicemente sostituito la parola spada

con la parola croce .

Perchè è impensabile che un Ebreo osservante possa pronunciare una frase che

costituisce per se stesso e gli altri un preciso anatema :






DEUTERONOMIO XXI , 23

www.mechon-mamre.org/f/ft/ft0521.htm

כג לֹא-תָלִין נִבְלָתוֹ עַל-הָעֵץ, כִּי-קָבוֹר תִּקְבְּרֶנּוּ בַּיּוֹם הַהוּא--כִּי-קִלְלַת אֱלֹהִים, תָּלוּי; וְלֹא תְטַמֵּא, אֶת-אַדְמָתְךָ, אֲשֶׁר יְהוָה אֱלֹהֶיךָ, נֹתֵן לְךָ נַחֲלָה. {ס}


23 Il suo cadavere non rimarrà tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai senza indugio lo stesso giorno, perché il cadavere appeso è maledetto da Dio, e tu non contaminerai la terra che il SIGNORE, il tuo Dio, ti dà come eredità.



כִּי-קִלְלַת אֱלֹהִים, תָּלוּי


KY QILELAT ELOHIM TALUY

perché il cadavere appeso è maledetto da Dio,



Assurdo che Yeshùa possa pronunciare una simile bestemmia per la sua tradizione ,

e ancora più assurdo che proponga una simile bestemmia a un pubblico Ebraico .




Quello che il MASHYACH sta enunciando

è un preciso editto militare di reclutamento


Vieni via con me, Albanese e il battesimo della 'Ndrangheta


Il rituale dell'affiliazione messo in scena da Antonio Albanese nella trasmissione di Fabio Fazio e Roberto Saviano




https://video.repubblica.it/spettacoli-e-c...eta/56626/55680




che nei secoli è stato ripreso da molte organizzazioni


« Prima della famiglia, dei genitori, dei fratelli, delle sorelle viene l’interesse e l’onore della società, essa da questo momento è la vostra famiglia
e se commetterete infamità, sarete punito con la morte. Come voi sarete fedele alla società, così la società sarà fedele con voi e vi assisterà nel bisogno, questo giuramento può essere infranto solo con la morte. Siete disposto a questo? »


https://it.wikipedia.org/wiki/Riti_della_%27Ndrangheta







Questo capitolo di Matteo doveva essere molto, molto famoso .

Sicuramente scritto in Ebraico , è stato abilmente manipolato dai falsari greci solo

sostituendo una parola ....

in ottemperanza al pensiero del più infame criminale della storia PAOLO DI TARSO


ROMANI XIII

1 Ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori; perché non vi è autorità se non da Dio; e le autorità che esistono sono stabilite da Dio.
2 Perciò chi resiste all'autorità si oppone all'ordine di Dio; quelli che vi si oppongono si attireranno addosso una condanna;

3 infatti i magistrati non sono da temere per le opere buone, ma per le cattive. Tu, non vuoi temere l'autorità? Fa' il bene e avrai la sua approvazione,

4 perché il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male.

5 Perciò è necessario stare sottomessi, non soltanto per timore della punizione, ma anche per motivo di coscienza.

6 È anche per questa ragione che voi pagate le imposte, perché essi, che sono costantemente dediti a questa funzione, sono ministri di Dio.



E cosi Santa Romana ha costruito la figura di un obbediente inchiodato e di una umanità che deve soffrire

nella sottomissione alle autorità fiscali ...nel medioevo era nota la locuzione Christus fiscus

www.identitanazionale.it/rece_7071.php

Nel settimo saggio, Kantorowicz affronta la curiosa analogia Christus-fiscus (pp. 175-185). Se "al pensiero giuridico dell’Alto Medioevo non era nota una vera e propria distinzione tra l’ufficio e la persona del sovrano, tra la "Corona" sovrapersonale e il suo esclusivo detentore" (p. 175) a partire dal XIII secolo questa differenziazione si va affermando, insieme al "[...] passaggio dai beni impersonali del sovrano al fisco impersonale" (p. 178). Alla luce di tale passaggio si comprende la massima fiscus non moritur, ma soprattutto il paragone tra i beni della Chiesa e quelli del fisco, elevati a res quasi sacrae.




esemplari le parole di Richard Carrier su Paolo

DA

https://originidellereligioni.forumfree.it/?t=70893438



HAVILAND "... Non ti chiami" piccolo", se quello che vuoi è un potere politico ..."

CARRIER - Oh, sì tu lo fai.

L'umiltà è una tattica comune di coloro che vogliono guadagnare influenza.

E Paolo usa un tono auto-umiliante per tutte le sue lettere esattamente in quel modo (egli evidenzia ripetutamente fino a quanto egli aspira alle cose e come sia debole e come sia inferiore agli altri apostoli yadayada).

Lui addirittura dice: "io sono il minimo degli apostoli", 1 Cor. 15: 9. Questo è lo stratagemma di un predicatore. Proprio come i predicatori che affermano che una volta erano aitanti atei e peccatori prima di vedere la luce.

''Oh, me tapino. Vedi come io non mi aggrappo al potere o non agisco affatto in modo arrogante? Sono affidabile, vedi? Così dammi qualche potere, per favore!"

Ecco come funzionava. Oggi noi chiamiamo questa tattica passiva-aggressiva.

Allora si trattava di una strategia retorica.




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<b>

E' ora di liberarsi di questa Santa Romana

che ha appestato Gea







ALPHAVILLE

Sounds Like A Melody
(Special Long Version)
(1984)

( proposto dal nick Michaela, mia grande amica )

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CAT_IMG Posted: 22/4/2023, 14:46 UFO ! - ZIO OT DICE LA SUA



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chi scrive è il nick

AYALON




La Torah e la vita extraterrestre

billions

Uno degli aspetti unici del Giudaismo è la sua universalità di vasta portata. Non solo il Giudaismo fornisce una lezione per ogni essere umano, ma i suoi insegnamenti si estendono ai confini stessi dell’Universo.

Si tratta di un assioma del Giudaismo il quale afferma che l’intero Universo è stato creato per il bene dell’uomo. In un punto, il Talmud calcola che ci sono alcune (dieci elevato alla diciottesima potenza) stelle dell’Universo osservabile, e afferma esplicitamente che sono state tutte create per il bene dell’uomo. Inoltre va ad affermare che tutti gli angeli e mondi spirituali esistono anche solo per questo scopo.Naturalmente, questo pone immediatamente una domanda che molti trovano molto difficile. Come è possibile che l’uomo, che vive su un granello di polvere chiamato pianeta Terra, dovrebbe essere il centro dell’Universo? I nostri Saggi hanno realizzato il vasto numero di stelle nell’Universo, e anche reso conto che molte di esse erano di ordine di grandezza maggiori della Terra (Maimonide – Fondamenti della Torah 3:8).

… Dovrebbe essere abbastanza semplice da capire che la dimensione e la quantità da sole sono prive di significato a un Dio infinito. Non c’è assolutamente alcun dubbio che il cervello umano sia di gran lunga più complesso di quanto lo sia la più grande galassia, e, inoltre, che contiene più informazioni di tutto l’Universo osservabile inanimato. Oltre a ciò, l’uomo è dotato di un’anima divina che sovrasta persino le più alte gerarchie di angeli.

Anche se la creazione di un tale vasto Universo per il bene dell’uomo non sfida la logica, abbiamo ancora bisogno di cercare una ragione per la sua necessità. Alcune fonti affermano che contemplando la grandezza dell’Universo, si può cominciare a capire di Dio, e in tal modo temerlo tanto di più (Maimonide – Fondazioni della Torah 2:2).

Tuttavia, se si parla della possibilità di vita extraterrestre, dobbiamo approfondire la questione un pò di più.



LA QUESTIONE DEL LIBERO ARBITRIO

Uno dei primi a discutere la questione della vita extraterrestre in generale fu il Rabbino Chasdai Crescas (Or Hashem 4:2). Dopo una lunga discussione, giunse alla conclusione che non c’è nulla nella teologia ebraica che precluda all’esistenza di vita su altri mondi. Come possibile evidenza per la vita extraterrestre, cita l’insegnamento Talmudico (Avoda Zara 3b) che “Dio vola attraverso 18.000 mondi“.

Dal momento che si richiede la sua Provvidenza, si può supporre che essi siano abitati.Naturalmente, questa citazione Talmudica non è un mezzo assoluto di prova, perché può riferirsi a mondi spirituali, di cui un numero infinito è stato creato.

Si potrebbe anche tentare di sostenere questa opinione dal versetto (Salmi 145:13), “Il tuo regno è un regno di tutti i mondi“. Tuttavia, anche qui, può anche essere che si stia parlando di universi spirituali.Di parere esattamente opposto è quello del Rabbino Yosef Albo, autore dello “Ikkarim“. Egli afferma che, poiché l’Universo è stato creato per il bene dell’uomo, nessun altro può esistere in possesso di libero arbitrio. Dal momento che ogni vita extraterrestre sarebbe non in possesso del libero arbitrio, né in grado di servire una creatura con il libero arbitrio (come gli animali e le piante terrestri servono ad un uomo terrestre), non avrebbero ragione di esistere e quindi del tutto superflue.

Si potrebbe portare un pò di supporto al secondo parere proveniente dalla dottrina Talmudica che ogni terra in cui non è stata decretata per l’uomo di viverci, non è mai stata in seguito abitata. Tuttavia, in questo caso, non è la prova assoluta, dal momento che questo può solo fare riferimento al nostro pianeta.



LA STELLA DI MEROZ

Tra questi due estremi, troviamo il parere del Sefer Habris che afferma che la vita extraterrestre esiste, ma che non possiede il libero arbitrio. Quest’ultimo è di possesso esclusivo dell’uomo, per il quale l’Universo è stato creato. I 18.000 mondi accennati in precedenza, a suo parere, sono mondi fisici abitati. La prova che egli porta per la sua tesi è più geniale. Nella canzone di Deborah, troviamo il versetto, “Maledetto è Meroz … maledetti sono i suoi abitanti” (Giudici 5:23). Nel Talmud, troviamo l’opinione che Meroz è il nome di una stella. In base a tale parere, il fatto che la Scrittura affermi, “Maledetto è Meroz … maledetti sono i suoi abitanti” è la prova evidente di vita extraterrestre, direttamente dalle parole provenienti dei nostri Saggi.

Naturalmente, anche questa prova è soggetta a confutazione, per lo Zohar segue anche l’opinione che Meroz sia una stella, ma si afferma che la frase “i suoi abitanti” si riferisca al suo “campo“, cioè, molto probabilmente, per i pianeti che la circondano.

Tuttavia, il semplice significato del versetto sembra supportare il parere del Sefer Habris.Il Sefer Habris continua a dire che non dovremmo aspettarci che le creature di un altro mondo assomiglino alla vita terrestre, non più di quanto le creature marine rassomiglino a quelle della terraferma.

Inoltre egli afferma che, anche se le forme di vita extraterrestri possono possedere l’intelligenza, di certo non possono avere la libertà della volontà. Il secondo elemento è un esclusivo attributo dell’uomo, a cui è stata data la Torah e i suoi comandamenti.

Egli dimostra la tesi sulle basi della sopra menzionata dottrina Talmudica, la quale afferma che tutte le stelle dell’Universo osservabile sono state create per il bene dell’uomo.



ALI PER FUGGIRE DALLA TERRA

… La premessa di base della esistenza di vita extraterrestre è fortemente sostenuta dallo Zohar. Il Midrash ci insegna che ci sono sette terre. Anche se l’Ibn Ezra cerca di sostenere che queste si riferiscono ai sette continenti, lo Zohar afferma chiaramente che le sette terre sono separate da un firmamento e sono abitate. Anche se non sono abitate dall’uomo, sono il dominio di creature intelligenti. Troviamo pertanto la tesi di base del Sefer Habris, supportate da una serie di chiare dichiarazioni dei nostri Saggi. Ci possono anche essere altre forme di vita intelligente nell’Universo, ma forme di vita del genere non hanno il libero arbitrio, e, pertanto, non hanno una responsabilità morale.

La libertà di volontà, tuttavia, non è affatto una quantità osservabile. Anche nell’uomo, la sua esistenza è stata oggetto di accesi dibattiti dei filosofi laici. Infatti, la prova principale che l’uomo ha davvero il libero arbitrio deriva dal fatto che Dio gli ha dato la responsabilità morale, vale a dire la Torah. E’ in questo sublimare, ancora di qualità non osservabile, che l’uomo è unico.Tuttavia, se si assume che questo possa essere vero, ci sarebbe utile tornare alla questione fondamentale del Rabbino Yosef Albo, accennata in precedenza: se tali creature non hanno alcuna utilità per l’uomo, qual’è la loro ragione d’esistere?



Troviamo una risposta più affascinante a questa domanda nello Tikunei Zohar.

Parlando del versetto (Canto dei Canti 6:8), “Mondi senza numero“, nello Tikunei Zohar si afferma: “Le stelle sono certamente senza numero, ma ad ogni stella si richiama un mondo separato. Questi sono i mondi innumerevoli...”.

Inoltre nello Tikunei si afferma che ogni Tzaddik (persona onesta) regnerà su di una stella, e quindi in possesso di un mondo per se stesso. Il quesito dei 18.000 mondi menzionati sopra sarebbe pertanto risolto dichiarando che il numero di stelle, sopra presieduto dai 18.000 Tzaddikim, viene accennato nel versetto (Ezechiele 48:35), “Intorno a Lui sono 18.000.” Tuttavia, essi possono fare riferimento solo a questi mondi visitati quotidianamente dalla presenza divina, ma ci possono essere innumerevoli mondi per lo Tzaddikim minore.Abbiamo dunque un motivo più affascinante per cui sono state create le stelle, e perché contengono forme di vita intelligente. Dal momento che una Terra sovrappopolata non darà l’ampiezza dello Tzaddikim di cui hanno bisogno, ad ognuna sarà dato il suo pianeta, con tutta la sua popolazione per migliorare la sua crescita spirituale.

Una volta che sappiamo che le stelle e i loro pianeti sono stati creati come una dimora per lo Tzaddikim, viene naturalmente spontaneo chiedersi come saranno trasportati ad essi. Tuttavia, il Talmud fornisce anche una risposta a questa domanda.
Discutendo il passaggio (Isaia 40:31), “Essi si alzano in volo come aquile”, il Talmud afferma che nel mondo futuro, Dio concederà le ali Tzaddikim per fuggire dalla Terra.

Lo Zohar fa un passo avanti e afferma che “Dio darà loro ali per volare attraverso l’intero Universo“.
In un certo senso, questo insegnamento prevede l’avvento dei viaggi nello spazio. Ma più di questo, ci fornisce almeno uno dei motivi per cui il volo spaziale sarebbe inevitabile come parte del preludio dell’era messianica. Questo, naturalmente, potrebbe portarci ad una discussione generale del ruolo della tecnologia moderna nella prospettiva della Torah, un lungo argomento a sé stante.


FONTE


https://ebreieisraele.forumfree.it/?t=79100156#lastpost


REPERTORIO

www.mosaico-cem.it/cultura-e-socie...iOQebhJQhLaU-5M

https://ebreieisraele.forumfree.it/?t=79099416




CAT_IMG Posted: 22/4/2023, 10:54 ELOHYM E TETRAGRAMMA - Ebraismo




EL SHADDAI , sempre in corsivo

Gentile Stefano Manni,

Nel suo scritto, Lei ha omesso di menzionare la connessione tra l'uso del termine "he" come forma di rispetto del Tetragramma e la questione in oggetto. Invece, ha sostenuto che Yahweh non fosse ancora il Tetragramma, e ciò costituisce un imbroglio sostanziale dell'argomento. Inoltre, non ha fatto alcun riferimento alla vaghezza del commento di Rashi cosa che invece dava per certa associandolo con Biglino senza presentare prove a sostegno della sua posizione, ancorchè quando non sono mai state sostenute dallo stesso. Inoltre, nonostante si vanti di conoscere l'ebraico, ha utilizzato Google Traduttore per tradurre il commento di Rashi in inglese e ha giudicato la traduzione come "orrenda". La questione sulla conoscenza dell'ebraico è chiara e non lascia spazio a dubbi. Tuttavia, desidero comunicare che non desidero proseguire questa discussione.

Distinti saluti,

Luigi Castiglioni.






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Nel suo scritto, Lei ha omesso di menzionare la connessione tra l'uso del termine "he" come forma di rispetto del Tetragramma e la questione in oggetto.


si vede che non leggi , o sei veramente distratto quando leggi , te lo riposto :



Qui proprio non hai capito ...

E' ovvio che Rashy non scrive il Tetragramma e sigla solo con una HE ה

e lo fa in tutto il libro dei commenti :

è sufficiente vedere il commento a


דְּבָרִים ]DEVARYM VI, 4

DEUTERONOMIO VI , 4


4 Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo.

www.laparola.net/testo.php



www.chabad.org/library/bible_cdo/a...h/Chapter-6.htm

שְׁמַ֖ע יִשְׂרָאֵ֑ל יְהֹוָ֥ה אֱלֹהֵ֖ינוּ יְהֹוָ֥ה | אֶחָֽד:


ה' אֱלֹהֵינוּ ה' אֶחָֽד: ה' שֶׁהוּא אֱלֹהֵינוּ עַתָּה, וְלֹא אֱלֹהֵי הָאֻמּוֹת, הוּא עָתִיד לִהְיוֹת ה' אֶחָד, שֶׁנֶּאֱמַר (צפניה ג') כִּי אָז אֶהְפֹּךְ אֶל עַמִּים שָׂפָה בְרוּרָה לִקְרֹא כֻלָּם בְּשֵׁם ה', וְנֶאֱמַר (זכריה י"ד) בַּיּוֹם הַהוּא יִהְיֶה ה' אֶחָד וּשְׁמוֹ אֶחָד (ע' ספרי):
[/size]


www.chabad.org/library/bible_cdo/a...h/Chapter-6.htm



Hear, O Israel: The Lord is our God; the Lord is one. דשְׁמַ֖ע יִשְׂרָאֵ֑ל יְהֹוָ֥ה אֱלֹהֵ֖ינוּ יְהֹוָ֥ה | אֶחָֽד:
The Lord is our God; the Lord is one: The Lord, who is now our God and not the God of the other nations-He will be [declared] in the future “the one God,” as it is said: “For then I will convert the peoples to a pure language that all of them call in the name of the Lord” (Zeph. 3:9), and it is [also] said: “On that day will the Lord be one and His name one” (Zech. 14:9). (see Sifrei)




MA NON ERA QUESTO CHE INTENDEVO

PER LA NON ESISTENZA DEL TETRA !




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Invece, ha sostenuto che Yahweh non fosse ancora il Tetragramma, e ciò costituisce un imbroglio sostanziale dell'argomento.




Scusa EL, ma perchè hai scritto il TETRAGRAMMA ?

Eri ubriaco ?

Ti invito a fare attenzione maxima , prima di fare questa figure da corbelleria estrema .





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Inoltre, non ha fatto alcun riferimento alla vaghezza del commento di Rashi cosa che invece dava per certa associandolo con Biglino senza presentare prove a sostegno della sua posizione, ancorchè quando non sono mai state sostenute dallo stesso.


Comincio ad affrontare la questione proprio dai prossimi post , forse da domani ...

El , ma che fretta che hai ? Hai una tratta in scadenza ?

Ho almeno altri 10 post in preparazione .




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Inoltre, nonostante si vanti di conoscere l'ebraico, ha utilizzato Google Traduttore per tradurre il commento di Rashi in inglese e ha giudicato la traduzione come "orrenda".

No caro , io ho riportato l' esatta traduzione inglese presente nel sito :

www.chabad.org/library/bible_cdo/aid/8165/showrashi/true

controlla , invece di giocare a ramino mentre sei al PC , sperando che tu sappia almeno l' inglese ....


Orrenda è quella in Italiano , che ho fatto con google per ragioni tempo .... leggi quella in Inglese caro ...




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La questione sulla conoscenza dell'ebraico è chiara e non lascia spazio a dubbi


No guarda, qui i dubbi cominciano venire a me , sulla tua inettitudine come appartente al Popolo della Torah ,

e al tuo stato di totale confusione nel formulare critiche ridicole et inconsistenti .






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Tuttavia, desidero comunicare che non desidero proseguire questa discussione.


Di questo sono dispiaciuto , io proseguo in questo topic con molti altri post ,

e poi una nuova versione riveduta, corretta , et ampliata .





zio ot :B):


























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