Origini delle Religioni

Posts written by barionu

CAT_IMG Posted: 10/9/2023, 16:09 ALMAH - Ebraismo
CITAZIONE (barionu @ 14/11/2012, 03:08) 
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www.loc.gov/exhibits/scrolls/scr3.html


https://video.repubblica.it/spettacoli-e-c...eta/56626/55680

www.stretta-music.it/checkout/


https://cleverclassic.com/trending/colonia...852506807690486











www.loc.gov/exhibits/scrolls/scr3.html

wiki italia ( che ha sede in una parrocchia dentro al vaticano )

dice

https://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele


Deriva dal nome ebraico

עִמָּנוּאֵל

(ʼImmanuʻel), che significa "hashem è con noi"[1][3][4][5],


nome utilizzato dal profeta Isaia per indicare il Messia[1][5] e per questo ripreso nel Vangelo di Matteo come appellativo di Gesù.


La versione originale del nome, Emmanuel, è menzionata per la prima volta nella Bibbia dal profeta Isaia (7:14 e 8:8) durante il regno di Acaz (761-746 a.C.). In Matteo 1:23, l'unica altra volta che ricorre, Emanuele è un nome o titolo attribuito a Cristo il Messia.


ISAIA VII , 14




יד לָכֵן יִתֵּן אֲדֹנָי הוּא, לָכֶם--אוֹת: הִנֵּה הָעַלְמָה, הָרָה וְיֹלֶדֶת בֵּן, וְקָרָאת שְׁמוֹ, עִמָּנוּ אֵל.


LA CEI

14 Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele.

LA NUOVA RIVEDUTA

14 Perciò il Signore stesso vi darà un segno:
Ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio,
e lo chiamerà Emmanuele.


עַלְמָה almàh : giovane donna


עִמָּנוּ אֵל immanu el : con noi è hashem







Ma quale vergine ?????


ISAIA VII , 14



in seguito a

http://cristianesimoprimitivo.forumfree.it/?t=42048888

http://cristianesimoprimitivo.forumfree.it/?t=30470547





Precisazione :

Nel Tanakh esiste un vocabolo ben preciso per definire una donna che non ha ancora

conosciuto un uomo , ovvero : vergine : betulàh

בְּתוּלָה


Celebre l' episodio di Genesi XXIV , 16.

www.mechon-mamre.org/f/ft/ft0124.htm

quando compare Rebecca , Rivqàh


רִבְקָה




La ragazza era assai bella di aspetto , era vergine , non aveva conosciuto uomo

וְהַנַּעֲרָ, טֹבַת מַרְאֶה מְאֹד--בְּתוּלָה, וְאִישׁ לֹא יְדָעָהּ; וַתֵּרֶד הָעַיְנָה, וַתְּמַלֵּא כַדָּהּ וַתָּעַל.


בְּתוּלָה


Betulàh nel Tanakh compare 13 volte

http://search.freefind.com/find.html?id=64...6%B8%D7%94&s=ft

DEUTERONOMIO XXII ,28

כח כִּי-יִמְצָא אִישׁ, נַעֲרָ בְתוּלָה אֲשֶׁר לֹא-אֹרָשָׂה, וּתְפָשָׂהּ, וְשָׁכַב עִמָּהּ; וְנִמְצָאוּ.

28 Se un uomo trova una fanciulla vergine che non sia fidanzata, l'afferra e pecca con lei e sono colti in flagrante,





mentre è noto che in Isaia VII 14

compaia il vocabolo Almah

עַלְמָה


con il significato generico di : giovane donna


לָכֵן יִתֵּן אֲדֹנָי הוּא, לָכֶם--אוֹת: הִנֵּה הָעַלְמָה, הָרָה וְיֹלֶדֶת בֵּן, וְקָרָאת שְׁמוֹ, עִמָּנוּ אֵל.


עַלְמָה


Almah Nel Tanakh

http://search.freefind.com/find.html?id=64...6%B8%D7%94&s=ft




Da notare che Rebecca viene prima chiamata naaràh

נַּעֲרָה

e poi si specifica : betulàh.





Naarah nel Tanakh

http://search.freefind.com/find.html?id=64...6%B8%D7%94&s=ft


Il Dizionario Giuntina Ebraico per definire una giovane donna, ragazza, cita anche bachuràh


בַּחוּרָה



ma non l'ho trovato nel Tanakh

Da approfondire la differenza d'uso di almah, naarah e bahurah.






JOAN JETT READY PLAYER ONE












CAT_IMG Posted: 5/9/2023, 14:04 DA EPIFANIO , IL PANARION - Cristianesimo












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ζ zeta

σ sigma







https://digilander.libero.it/Hard_Rain/Nazareno.pdf


cit dal capitolo 6 : conclusioni










Νάσάράιοι nasaraioi


Νάζωράίοί nazoraioi





Epifanio, Haereses, XXIX, 9, 4 – “… [I Nazarei] posseggono il Vangelo secondo Matteo,
assolutamente integrale, in ebraico, poiché esso è ancora evidentemente conservato da loro come fu
originariamente composto, in scrittura ebraica.

Ma non so se abbiano soppresso le genealogie daAbramo fino a Gesù…”


Questa citazione testimonia della esistenza di un antico Vangelo di Matteo scritto in ebraico.



Esistono anche altre importanti testimonianze dei padri della Chiesa che testimoniano a favore
dell’esistenza di un testo originale di Matteo scritto in lingua ebraica; vedi in part. Papia di Gerapoli
Ireneo di Lione , o Origene .



Secondo H.H. Schaeder i “Nazarei” intesi da Epifanio non sarebbero i Nazareni del Nuovo Testamento,

cioè i giudeo-cristiani.

Epifanio non utilizza il termine


Νάζωράίοί nazoraioi


bensì il lemma

Νάσάράιοι nasaraioi


inoltre egli è il primo e l’unico autore a parlarci di


questa setta così che la sua esistenza è storicamente incerta.




CAT_IMG Posted: 5/9/2023, 09:02 IL CASO GARIBALDI - ZIO OT DICE LA SUA
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PARADOSSALE CHE UN FALSO

RISTABISCA LA VERITA' ....



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www.amazon.it/confessioni-Joseph-M...ZBgGcbrheOnNhoM



Giuseppe Garibaldi, qualche giorno prima di morire, scrive una lunga lettera allo scrittore Carlo Lorenzini, noto come Carlo Collodi, l'autore di Pinocchio.Si dichiara francese, a partire dal nome, Joseph Marie Garibaldì (accento sulla i finale), e mostra rimorso verso tutte le ingiustizie che vennero perpetrate nel nome di un'Italia che mai venne ad essere una nazione unita.Una storia non agiografica, che si discosta in modo deciso dalle versioni ufficiali sull'Unità d'Italia e la Spedizione dei Mille.Una interpretazione degli eventi che getta una luce nuova, che costringe a riflettere su un revisionismo che, se non stridesse con gli interessi attuali, sarebbe degno di esami e valutazioni oggettive.Il nostro, spogliatosi della veste d'eroe, chiede giustizia alle vittime tramite Collodi, confessandosi ad uno dei parlamentari del nuovo Stato unificato.La giustizia potrà essere dunque una meticolosa ricostruzione di ciò che fu e che non doveva essere.La storia chiede giustizia.













https://forum.termometropolitico.it/815365...-garibaldi.html


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Predefinito Chi fu veramente Garibaldi?

Trascrivo l'intero intervento...Un po' lungo ma interessantissimo...

L’Eroe dei due mondi.


GARIBALDI


Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente.(Indro Montanelli)



Garibaldi era di corporatura bassa, alto 1,65, ed aveva le gambe arcuate. Era pieno di reumatismi e per salire a cavallo occorreva che due persone lo sollevassero. Portava i capelli lunghi perché, avendo violentato una ragazza, questa gli aveva staccato un orecchio con un morso. Era un avventuriero che nel 1835 si era rifugiato in Brasile, dove all’epoca emigravano i piemontesi che in patria non avevano di che vivere. Fra i 28 e i 40 anni visse come un corsaro assaltando navi spagnole nel mare del Rio Grande do Sul al servizio degli inglesi che miravano ad accaparrarsi il commercio in quelle aree. In Sud America non è mai stato considerato un eroe, ma un delinquente della peggior specie. Per la spedizione dei mille fu finanziato dagli Inglesi con denaro rapinato ai turchi, equivalente oggi a molti milioni di dollari. In una lettera, Vittorio Emanuele II ebbe a lamentarsi con Cavour circa le ruberie del nizzardo, proprio dopo "l’incontro di Teano": "... come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene - siatene certo - questo personaggio non è affatto docile né cosí onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa".




SBARCO DI MARSALA:



fu di proposito "visto" in ritardo dalla marina duosiciliana, i cui capi erano già passati ai piemontesi, e fu protetto dalla flotta inglese, che con le sue evoluzioni impedí ogni eventuale offesa. Tra i famosi "mille", che lo stesso Garibaldi il giorno 5 dicembre 1861 a Torino li definí "Tutti generalmente di origine pessima e per lo piú ladra ; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto", sbarcarono in Sicilia, francesi, svizzeri, inglesi, indiani, polacchi, russi e soprattutto ungheresi, tanto che fu costituita una legione ungherese utilizzata per le repressioni piú feroci. Al seguito di questa vera e propria feccia umana, sbarcarono altri 22.000 soldati piemontesi appositamente dichiarati "congedati o disertori".




CALATAFIMI:


contrariamente a quanto viene detto nei libri di storia, il Garibaldi fu messo in fuga il giorno 15 maggio dal maggiore Sforza, comandante dell’8° cacciatori, con sole quattro compagnie. Mentre inseguiva le orde del Garibaldi, lo Sforza ricevette dal generale Landi l’ordine incomprensibile di ritirarsi. Il comportamento del Landi risultò comprensibilissimo quando si scoprí che aveva ricevuto dagli emissari garibaldini una fede di credito di quattordicimila ducati come prezzo del suo tradimento. Landi qualche mese piú tardi morí di un colpo apoplettico quando si accorse che la fede di credito era falsa: aveva infatti un valore di soli 14 ducati.




PALERMO:


il Garibaldi, il 27 maggio, si rifugiò in Palermo praticamente indisturbato dai 16.000 soldati duosiciliani che il generale Lanza aveva dato ordine di tenere chiusi nelle fortezze. Il filibustiere cosí poté saccheggiare al Banco delle Due Sicilie cinque milioni di ducati ed installarsi nel palazzo Pretorio, designandolo a suo quartier generale. In Palermo i garibaldini si abbandonarono a violenze e saccheggi di ogni genere. A tarda sera del 28 arrivarono, però, le fedeli truppe duosiciliane comandate dal generale svizzero Von Meckel. Queste truppe, che erano quelle trattenute dal generale Landi, dopo essersi organizzate, all’alba del 30 attaccarono i garibaldini, sfondando con i cannoni Porta di Termini ed eliminando via via tutte le barricate che incontravano. L’irruenza del comandante svizzero fu tale che arrivò rapidamente alla piazza della Fieravecchia. Nel mentre si accingeva ad assaltare anche il quartiere S. Anna, vicino al palazzo di Garibaldi, che praticamente non aveva piú vie di scampo, arrivarono i capitani di Stato Maggiore Michele Bellucci e Domenico Nicoletti con l’ordine del Lanza di sospendere i combattimenti perché ... era stato fatto un armistizio, che in realtà non era mai stato chiesto.



L’8 giugno tutte le truppe duosiciliane, composte da oltre 24.000 uomini, lasciarono Palermo per imbarcarsi, tra lo stupore e la paura della popolazione che non riusciva a capire come un esercito cosí numeroso si fosse potuto arrendere senza quasi neanche avere combattuto. La rabbia dei soldati la interpretò un caporale dell’8° di linea che, al passaggio del Lanza a cavallo, uscí dalle file e gli gridò "Eccellé, o’ vvi quante simme. E ce n’aimma’í accussí ?". Ed il Lanza gli rispose : "Va via, ubriaco". Lanza, appena giunse a Napoli, fu confinato ad Ischia per essere processato.
I garibaldini nella loro avanzata in Sicilia compirono efferati delitti. Esemplare e notissimo è quello di Bronte, dove "l’eroe" Nino Bixio fece fucilare quasi un centinaio di contadini che, proprio in nome del Garibaldi, avevano osato occupare alcune terre di proprietà inglese.



MILAZZO:

Il giorno 20 luglio vi fu una cruenta battaglia a Milazzo, dove 2000 dei nostri valorosissimi soldati, condotti dal colonnello Bosco, sgominarono circa 10.000 garibaldini. Lo stesso Garibaldi accerchiato dagli ussari duosiciliani rischiò di morire. La battaglia terminò per il mancato invio dei rinforzi da parte del generale Clary e i nostri furono costretti a ritirarsi nel forte per il numero preponderante degli assalitori. Nello scontro i soldati duosiciliani, ebbero solo 120 caduti, mentre i garibaldini ne ebbero 780. Eroici, e da ricordare, furono i valorosi comportamenti del Tenente di artiglieria Gabriele, del Tenente dei cacciatori a cavallo Faraone e del Capitano Giuliano, che morí durante un assalto.


Episodi di tradimento si ebbero anche in Calabria, dove nel paese di Filetto lo sdegno dei soldati arrivò tanto al colmo che fucilarono il generale Briganti, che il giorno prima, senza nemmeno combattere, aveva dato ordine alle sue truppe di ritirarsi.



NAPOLI:


Il giorno 9 settembre arrivarono a Napoli i garibaldini. Mai si vide uno spettacolo piú disgustoso. Quell’accozzaglia era formata da gente bieca, sudicia, famelica, disordinata, di razze diverse, ignorante e senza religione. Occuparono all’inizio Pizzofalcone, poi nei giorni seguenti si sparsero per la città, tutto depredando, saccheggiando ogni casa. Furono violentate le donne e assassinato chi si opponeva. Furono lordati i monumenti, violati i monasteri, profanate le chiese. Il giorno 11 il Garibaldi con un decreto abolí l’ordine dei Gesuiti e ne fece confiscare tutti i beni. Furono incarcerati tutti quei nobili, sacerdoti, civili e militari che non volevano aderire al Piemonte, mentre furono liberati tutti i delinquenti comuni. Il Palazzo Reale fu spogliato di tutto quanto conteneva. Gli arredi e gli oggetti piú preziosi furono inviati a Torino nella Reggia dei Savoia. Il filibustiere con un decreto confiscò il capitale personale e tutti beni privati del Re dal Banco delle Due Sicilie, che fu rapinato di tutti i suoi depositi. Napoli in tutta la sua storia non ebbe mai a subire un cosí grande oltraggio, eppure nessun libro di storia "patria" ne ha mai minimamente accennato.





CAPUA, VOLTURNO, GARIGLIANO, GAETA:



eliminati i generali traditori i soldati duosiciliani dimostrarono il loro valore in numerosi episodi. La vittoriosa battaglia sul Volturno non fu sfruttata solo per l’inesperienza dei nostri comandanti militari. In seguito, la vile aggressione piemontese alle spalle costrinse il nostro esercito alla ritirata nella fortezza di Gaeta, dove il giovane Re Francesco II e la Regina Maria Sofia, di soli 19 anni, diventata poi famosa con l’appellativo di "eroina di Gaeta", si coprirono di gloria in una resistenza durata circa 6 mesi. Gaeta non poté mai essere espugnata dai piemontesi, ma solo bombardata. Con la resa di Gaeta (13.2.61), di Messina (14 marzo) e di Civitella del Tronto (20 marzo), il Regno delle Due Sicilie cessò di esistere. I Piemontesi non rispettarono i patti di capitolazione e i soldati duosiciliani in parte furono fucilati, altri vennero deportati in campi di concentramento
in Piemonte. Di questi soldati, morti per la loro Patria, oggi non c’è nemmeno una segno che li ricordi e non meritavano l’oblio cui li ha condannati la leggenda risorgimentale.




PLEBISCITO.



Il giorno 21 ottobre 1860 vi fu a Napoli e in tutte le provincie del Regno la farsa del Plebiscito. A Napoli, davanti al porticato della Chiesa di S. Francesco di Paola, proprio di fronte al Palazzo Reale, erano state poste, su di un palco alla vista di tutti, due urne: una per il Sí ed una per il NO. Si votava davanti ad una schiera minacciosa di garibaldini, guardie nazionali e soldati piemontesi. Il giorno prima erano stati affissi sui muri dei cartelli sui quali era dichiarato "Nemico della Patria" chi si astenesse o votasse per il NO. Votarono per primi i camorristi, poi i garibaldini, che erano per la maggior parte stranieri, e i soldati piemontesi. Qualcuno dei civili che aveva tentato di votare per il NO fu bastonato, qualche altro, come a Montecalvario, fu assassinato. Poiché non venivano registrati quelli che votavano per il Sí, la maggior parte andò a votare in tutti e dodici comizi elettorali costituiti in Napoli. Allo stesso modo si procedette in tutto il Regno, dove si votò solo nei centri presidiati dai militari con ogni genere di violenze ed assassini.



FONTE PRINCIPALE:
LE CONFESSIONI DI JOSEPH MARIE GARIBALDÍ
Autore: Francesco Luca Zagor Borghesi
Garibaldi racconta la vera storia dell’unificazione d’Italia




LA LETTERA DI GARIBALDI A CARLO COLLODI.



Giuseppe Garibaldi, qualche giorno prima di morire, scrive una lunga lettera allo scrittore Carlo Lorenzini, noto come Carlo Collodi, l’autore di Pinocchio.

Si dichiara francese, a partire dal nome, Joseph Marie Garibaldì (accento sulla i finale). Mostra rimorso verso tutte le ingiustizie che vennero perpetrate nel nome di un’Italia che mai venne ad essere una nazione unita.


Il protagonista ricorda, con dovizia di particolari, l’infanzia, la giovinezza, ma soprattutto l’evoluzione della propria coscienza. Confessa con sincerità le molte debolezze, prime, tra le tante, il sogno di ricchezza, le donne, il potere.
Garibaldì si accorge troppo tardi di aver procurato, direttamente o indirettamente, male e dolore a tante persone. Anche per colpa sua, generazioni future conosceranno ancora privazioni.
Ammette di aver servito diversi Stati e quindi di non essere patriota. Conferma di aver amato decine di donne, a volte per una notte a volte per qualche anno. Sottolinea di aver abbandonato i figli e quindi di non essere simbolo dell’unione neppure per la famiglia.


La Spedizione dei mille e il Risorgimento



Per conoscere la vera storia dell’unificazione d’Italia ci vuole un testimone veritiero. Borghesi utilizza Garibaldi per evidenziare una verità ormai nota ai più. Un punto di vista sui protagonisti dell’Unità d’Italia. Piemonte, Inghilterra, Regno di Napoli, Stato Pontificio. Questi gli attori di un intreccio che portò il ricco Sud ad essere invaso da un Nord in cattive acque.
“Le confessioni di Joseph Marie Garibaldì” è un romanzo storico, frutto di studi accurati e non di semplici tradizioni, riportate per interesse.
Fatti immodificabili sui quali accendere la luce della verità
Ovviamente si tratta di una storia non agiografica, che si discosta in modo deciso dalle versioni ufficiali sull’Unità d’Italia e la Spedizione dei Mille.
Una interpretazione degli eventi che getta una luce nuova, che costringe a riflettere. Un revisionismo che, se non stridesse con gli interessi attuali, sarebbe degno di esami e valutazioni oggettive.
Il nostro, spogliatosi della veste d’eroe, chiede giustizia alle vittime tramite Collodi, confessandosi ad uno dei parlamentari del nuovo Stato unificato.
La giustizia potrà essere dunque una meticolosa ricostruzione di ciò che fu e che non doveva essere.
Il Sud dalla Borbonia felix al carcere di Fenestrelle. Perché non sempre la storia è come ce la raccontano.
Roma, 2a Ediz. Ottobre 1996, pp. 256
Rocco Chinnici
magistrato italiano 1925 – 1983










Edited by barionu - 7/9/2023, 08:46
CAT_IMG Posted: 24/8/2023, 11:54 GLI APOFASIMENI - Intrecci, commistioni e dipendenze fra varie religioni



https://blog.libero.it/PippoDePippis/10820150.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Filippo_Buonarroti




]LA SETTA DEGLI APOFASIMENI A BOLOGNA[/size]



di GIOVANNI GRECO



Università Bologna






La setta degli Apofasìmeni fu una società segreta fondata negli anni venti dell’Ottocento che partecipò anche ai moti del 1831.

La setta fu guidata da Carlo Bianco di Saint-Jorioz che la organizzò in Francia e nelle colonie britanniche, e nel 1831 entrò a farvi parte anche Giuseppe Mazzini che successivamente, attraverso la Giovine Italia, l’assorbì (“una costola buonarrotiana inserita nella Giovine Italia”).

gli esponenti di rilievo Filippo Buonarroti, che contribuì peraltro, fra il 1831 e il 1834, a costituire una catena di società segrete.

Gli Apofasimeni ebbero in Toscana, in Piemonte, a Bastia, a Napoli, a Parma e a Bologna le zone di più intensa diffusione, anche perché riuscirono a combinare elementi carbonari e patriottici dell’area romagnola e dell’area bolognese.

Il nome della setta derivava dal verbo apofasizo che in greco moderno significa sentenziare, e voleva equivalere a “uomini della sentenza già scritta”, persone disposte a tutto, disposte a rischiare sino alla morte, “condannate a morte”: d’altra parte, “è rischio di morte il nascimento” (G. Leopardi).

L’etimologia è piuttosto ricca e variegata, tant’è che l’apofasimeno è ritenuto un “inguaribile malato”, ovverosia un uomo che, mentre da un lato coltiva i suoi ideali e una visione “romantica” della vita in generale, e della massoneria in particolare, dall’altro è profondamente teso alla realizzazione concreta dei suoi obiettivi culturali e umani.

Senza dimenticare la definizione che Guerrazzi fornisce dell’apofasimeno: milite e cittadino ardito, deciso, costante, intraprendente, capace di servire in modo appassionato l’istituzione, ardente “amatore” del nostro paese.

Secondo Napoleone de’ Masini, fu Filippo Buonarroti, cospiratore inesauribile, che, dopo il convegno massonico di Aarau del luglio 1823, al fine tra l’altro d’infondere nuovo vigore e linfa alla carboneria, creò la setta degli Apofasimeni, con un nome strano, “duro a pronunciare, difficile a ritenere, e fatto apposta per imbrogliare i delatori e spaventar le polizie”.

In effetti, i giudici della Sacra Consulta, che a lungo indagarono le caratteristiche della setta, arrivarono alla conclusione che apofasimeno significava “dimostrante forza e furore”, mentre per Annibale Alberti gli apofasimeni erano “gli insoddisfatti”.

Carlo Bianco partecipò all’organizzazione della setta accentuandone il livello cospirativo e la struttura schiettamente militare. Essa era divisa in tende, centurie, castelli e campi, seguendo schemi derivati direttamente dalle strutture dell’esercito romano. Poteva diventare un apofasimeno ogni “cittadino italiano” capace di dimostrare di aver già arrecato danni “ai nemici della nostra auspicata patria”, per cui più “compromesso” era l’aderente, più possibilità aveva di essere accolto nelle file degli Apofasimeni.

Ciascun profano veniva a lungo “tegolato” da un centurione, il quale doveva convincersi che non perseguisse fini individuali, ma esclusivamente patriottici. Ogni apofasimeno doveva essere all’ordine assoluto dei suoi superiori, doveva costantemente operare per la nascita della nostra patria e considerare tutti gli italiani fratelli alla stessa maniera. All’atto dell’iniziazione, dopo aver effettuato tutta una serie di giuramenti, fra cui il celebre giuramento dei supplizi, il neo-apofasimeno doveva appunto ripetere testualmente:



Ho prestato il presente giuramento perché sono convinto della bontà e santità della causa per la difesa della quale entrai in questa Società, e se mancassi ad una delle parti o a tutto quanto ho volontariamente giurato, voglio che mi sian levati gli occhi dalla testa, strappata la lingua dalla bocca, tagliato e scorticato il corpo, a poco a poco; che mi vengano stracciate le budella; che un veleno corrosivo mi corroda con dolore e spasimo i polmoni e lo stomaco con i più acerbi dolori; che il mio corpo venga squartato e che un cartello nel luogo del supplizio faccia vedere ai viaggiatori e passeggeri contemporanei e posteri la mia infamia; seguito dalla immediata punizione, portando scritte in lettere cubitali: qui fu giustamente punito N.N. infame, e così Dio protettore dei veri amanti della Patria mi protegga nell’adempimento dei miei doveri.



Tutti gli apofasimeni avevano un nome di battaglia e dovevano essere sempre pronti al combattimento con la baionetta, con sessanta cartucce e la coccarda rosso-verde-turchina ricevuta in consegna al momento dell’ingresso nella setta. Marco Bruto era il santo protettore degli Apofasimeni e il giorno della festa della società era l’anniversario della morte di Cesare.

Gli Apofasimeni erano considerati uomini pronti a tutto: si chiamavano militi e giuravano di prendere le armi al solo ordine del centurione “senza indagare le cause, né il perché”.

Una delle fonti maggiormente qualificate per comprendere l’essenza stessa della setta fu Mazzini, che entrò anche a farne parte (è conservata ancora la sua tessera firmata dal Gran Maestro): sosteneva, fra l’altro, che la setta era “diretta da ottimi capi, animati dagli stessi principii, cammina d’accordo colla nostra e saremo uniti al dì del pericolo”, e che gli Apofasimeni e la Giovine Italia erano ruote dello stesso carro e che lui, Mazzini, rappresentava l’anello di congiunzione fra i due gruppi: “Siamo già forti di due forze e spero che andremo raccogliendone altre con noi: abbiamo in Italia elementi sufficienti a rigenerarci, purché s’uniscano”.

La setta di Buonarroti e Bianco, per Mazzini, era costituita da “bassa gente”, montanari e marinai, artigiani e patrioti provenienti dalle professioni liberali, oltre a studenti e soldati. Bianco scrisse prima gli Statuti degli Apofasimeni e poi i “Nuovi statuti della società degli Apofasimeni in aggiunta e soppressione dei primi”[1]. Questi nuovi statuti furono redatti dal Bianco dopo l’ingresso nell’orbita del Mazzini e vennero riformulati in senso maggiormente egualitario, nel 1832, in concomitanza con l’accordo tra la buonarrotiana società dei “Veri italiani” e la Giovine Italia.

In particolare, nelle nuove istruzioni per gli Apofasimeni si leggeva:



Dalla rigenerazione che gli Apofasimeni preparano deve nascere per l’Italia un assetto uniforme alla giustizia, vale a dire a quell’uguaglianza che la natura ha posto fra gli uomini tutti. Quindi è che, mentre da noi si combatte per l’indipendenza, l’unità e la libertà della patria, dobbiamo studiare di svellere dal ruolo della medesima ogni seme di quei barbari istituti che tengono il popolo nel bisogno e nella dipendenza.

Questi istituti soni i privilegi per mezzo dei quali le ricchezze trovansi ristrette in poche mani a danno della libertà e degli agi di tutti gli altri; finché tali vizi infesteranno l’Italia, imponibil cosa fia il renderla veramente indipendente e libera. Un grande incarico è questo che Dio c’impone.



Indubbiamente l’“Istruzione generale” ha un’impronta tipicamente giacobino-rivoluzionaria, attraverso la dichiarazione dei diritti e delle leggi naturali, l’abolizione dell’esistenza dei privilegi conseguenti, la sostituzione delle alte gerarchie ecclesiastiche con “un semplice sistema parrocchiale”.

Alla fine degli anni venti, inizio anni trenta, circolavano numerosi opuscoli di propaganda degli Apofasimeni che contribuirono a far registrare diverse adesioni grazie anche all’operato di Giuseppe Galletti, Giuseppe Petroni, Augusto Aglebert, Cesare Guidicini – ricordato anche nelle carte del Museo civico del Risorgimento di Bologna – ed altri.

Giuseppe Galletti (1798-1873), bolognese, si dedicò alla professione forense e alla vita politica. Dalla fine degli anni venti dell’Ottocento, si occupò alacremente della propaganda e dell’organizzazione all’interno della setta, riunita spesso nella sua stessa abitazione, punto di lavoro e di coagulo cospirativo, adoperandosi anche nei moti del 1831 e partecipando alla presa di Cento, che gli valse la nomina a rappresentante delle Province Unite. Venne costantemente posto sotto occhiuta vigilanza poliziesca, e il suo nominativo fu inserito nel Libro dei sospetti (1832).
In questa fase, sostiene Marco Adorni, “risulta appartenente alla setta degli Apofasimeni di Bologna e mantiene contatti con gli esuli… [fra cui] l’avvocato romano Montecchi, ma l’intrapresa corrispondenza venne intercettata dalla polizia pontificia e gli costò arresto e processo insieme ai suoi complici”. Successivamente appartenne alla loggia “Galvani” e fu membro della Società di mutuo soccorso fondata dal fratello Livio Zambeccari.

Giuseppe Petroni (1812-1888), avvocato bolognese, si arruolò, nei moti del ’31, nella legione degli studenti universitari bolognesi; nel ’32, si iscrisse alla setta degli Apofasimeni col nome di battaglia di Marco Canonico, e venne arrestato nel ’34. Fondamentale fu l’incontro con l’avvocato Tognetti ai fini della sua decisione di sposare la causa liberale e cospirativa, e fortissimo il suo rapporto con Giuseppe Mazzini, di cui si conservano consistenti faldoni epistolari. Dell’avvocato Tognetti, che ricevette anche un elogio ad opera di Francesco de’ Marchi, pure Silvio Pellico aveva scritto: “Si è estinto ora in Bologna un giovine generoso, una delle speranze d’Italia, l’avvocato Tognetti”(12). Successivamente fu ministro di Grazia e Giustizia sotto la Repubblica Romana e Gran Maestro della massoneria italiana dal 1882 al 1885.

Augusto Aglebert(1810-1882), bolognese anch’egli, “partecipò ai moti del ’31 e come molti altri massoni venne schedato dalla polizia pontificia particolarmente puntuale nello specificare la qualificazione ‘massone’ a fianco dei compromessi”. Negli anni quaranta scrisse una commedia intitolata Di male in peggio e partecipò al moto insurrezionale di Savigno nell’agosto 1843. Fu prima nella loggia “Concordia”, poi partecipò ai lavori di fusione della loggia “Severa” con la “Concordia Umanitaria”, sorta sulle ceneri dell’antica “Concordia”, contribuendo alla nascita della loggia “Galvani” in cui operò in qualità di segretario, nella sede di via Santo Stefano 96.

Ebbe un ruolo notevolissimo nella ricerca di una unità massonica nazionale. In una lettera al fratello Piancastelli ebbe a dire: “La massoneria ha principi che si elevano sopra le istituzioni sociali, sopra tutte le religioni, sopra ogni parola di morale. La massoneria riguardando governi e religioni come istituzioni, ne giudica l’andamento e le opere secondo i principi di libertà, eguaglianza, fraternità, che professa per dettato della Grande Madre della massoneria: la filosofia”.


Fra gli altri appartenenti alla setta si segnalano altresì il livornese Carlo Bini, il medico bolognese Gabriello Rossi, docente presso l’università di Urbino, il già menzionato De’ Masini, che inserì Petroni nella centuria bolognese, e Ignazio Ribotti.


In particolare, Gabriello Rossi veniva da Parigi, portatore delle idee e degli scritti di Saint-Simon, e fu precettore di Luigi Tanari (“in breve tempo si conquista la stima e la devozione del giovane allievo”); era membro della prestigiosa società medico-chirurgica di Bologna e professore di patologia e medicina legale. Socialista, scrisse alcune opere fra cui ricordiamo

Sulla condizione economica e sociale dello stato pontificio confrontata specialmente con quella della Francia e dell’Inghilterra (Bologna 1848). Alla stessa stregua di Napoleone De’ Masini, ufficiale della Guardia civica, possidente, che secondo Bottrigari era il comandante della centuria bolognese, di Ignazio Ribotti, giunto dalla Spagna ufficiale, che comandò circa duecento uomini e che con chiari riferimenti agli Apofasimeni parla di “uomini disperati”, e di Federico Comandino, professore dell’Accademia di belle arti, che nel ’32 fu sotto il comando del De’ Masini.

Alla fine, dopo l’inglobamento degli Apofasimeni nella Giovine Italia, a Bologna trovò un certo spazio anche la Legione Italica, fondata a Malta nel 1837 dal modenese Nicola Fabrizi[2], così come la società dei Veri Italiani[3], società segreta vicina a Casa Savoia. Tutto ciò avveniva in un clima di estrema difficoltà data la presenza militare austriaca sino al 1838, con persecuzioni ed arresti all’ordine del giorno.

Nel 1840, proprio a Bologna si svolsero alcune riunioni di rilievo di cospiratori di ogni appartenenza, incontri che portarono anche al moto di Savigno del 1843, promosso da Nicola Fabrizi, ma osteggiato da Mazzini.
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ORIENTAMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI



M. Adorni, Massoni bolognesi nelle vie di Bologna, in G. Greco (a cura di), Bologna massonica. Le radici, il consolidamento, la trasformazione, Bologna, 2007.

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G. Rizzo Schettino, Terrorista per sistema, non per cuore. Vita e pensiero di Carlo Bianco, Roma, 2007.



[1] Lo Statuto e le norme della Società degli Apofasimeni sono conservati presso la Domus Mazziniana a Pisa.



[2] G. Greco, Nicola Fabrizi, teorico della guerra per bande, in AA. VV., Il pensiero di studiosi di cose militari meridionali in epoca risorgimentale. Atti, Roma, 1978. Fabrizi fu altresì al centro della cospirazione napoletana, con legami anche con Pisacane. Cfr. G. Greco, Le carte del Comitato segreto di Napoli, Napoli, 1979, e G. Greco, L’utopia di Pisacane attraverso le carte del Comitato, in Idealità politica e azione rivoluzionaria di Carlo Pisacane. Atti del Convegno nazionale di studi, Salerno, 1992.

[3] Oltre che a Bologna, i Veri italiani operavano pure a Vercelli, mentre a Livorno fra gli animatori vi furono anche due ebrei, Ottolenghi e Montefiore.


www.bibliomanie.it/setta_apofasimeni_bologna_greco.htm


Anche

http://bologna.repubblica.it/cronaca/2011/...rioti-13699086/


https://it.search.yahoo.com/yhs/search?hsp...e&p=apofasimeni

vedi filippo buonarroti

.com/yhs/search;_ylt=A7x9UnlO5idUdXEA3ypHDwx.?ei=UTF-8&hsimp=yhs-sweet_page&hspart=Elex&p=napoleone+de+masini+setta+degli+apofasimeni&SpellState=&fr2=sp-qrw-corr-top



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GHISILBERTI




www.risorgimento.it/rassegna/index....ricerca_libera=


Napoleone De' Masini e gli Apofasimeni

FONTI E DOCUMENTI

NAPOLEONE DE' MASINI E GLI APOFASIMENI[/size]





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Quando, dopo le molte vicende della sua vita avventurosa, Filippo Buonarroti si stabilì a Bruxelles, non rinunciò all'opera di organiz-zione e di riforma settaria. Fedele, sostanzialmente ai vecchi ideali carbonari, parzialmente modificati, come rammenta il Sòriga, dopo i gravi insuccessi del 1820-21, nel convegno massonico di Aarau del luglio 1823, si sforzava d'infondere nuovo vigore, di alimentare nuove linfe nelTormai esaurito organismo della Carboneria.

Tra le varie associazioni alle quali diede vita in questo periodo l'inesauribile cospiratore fu quella degli Apofasimeni dallo strano nome, ce duro a pronunziare, difficile a ritenere, e fatto apposta per imbrogliare i delatori e spaventar le polizie (1). Per mezzo del conte Carlo Bianco di Saint Jorioz la setta si diffuse dopo il 1830 in Italia, con qualche successo in Piemonte, in Toscana, nelle Romagne e in mezzo agli emigrati politici (2).


(1): A. D'ANCONA, Memorie e documenti di storia italiana dei secoli XYin e xix, Firenze, Sansoni, 1914, p. 202. Mentre l'estensore del ristretto processuale contro il De* Masini, di cui parleremo più avanti, interpreterà nel 1835 il nome nel significato forse di abnegazione ad ogni vincolo , i giudici della Sacra Conralla riterranno a. etimologia più probabile dimostrante forza, furore.


(2) R. SORICA, in Enciclopedia Italiana, v. DI, p. 665 ritiene il conte fondatore della setta, come già prima 6. LA CECILIA, Memorie storico-polìtiche dal 1820 al 1876, Roma, Aiterò, 1876-77, v. II, p. 45. Più recentemente la stessa idea ha accettato À. Luzro nel Corriere della Sera del 6 aprile 1932 (Il primo bio-grafp di G. Garibaldi). Ma è piuttosto da ritenere che il Bianco ne -Àa stato il diffonditore, cfr. G. ROMANO-CATANIA, Filippo Buonarroti, Palermo, Sandron. 1902, p. 182, in coi ai conferma quanto scriveva già il Mozzini: a capitanata da lui [Bianco] sotto l'alta direzione dì Buonarroti >->. V. anche sugli Apofasimeni G. DE CASTOO. Il mondo segreto Milano, Duelli, 1864, voi. Vili, p. 79; E. MICHEL in M. Rosi, Dizionario dei Risorgimento Nazionale, Milano, Vallardi, 1931, v. I, pagina 44.




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Gli Apofasimeni avevano un'organizzazione essenzialmente soldatesca: tende, centurie, castelli e campi sostituivano le baracche e le vendite carbonare; la gerarchia militare romana aveva fornito il modello, e cosi si avevano decurioni, capi manipoli, centurioni, capi coorte.

Ogni gregario doveva essere cittadino italiano, ardito e deciso a tutto, capace di servire la patria, intraprendente, costante, ardente amatore d'Italia e disposto a sacrificare vita e averi per renderla una, indipendente e libera sotto forma repubblicana. Prima di essere ammessi nell'associazione, che aveva rispetto alle altre consimili un più accentuato carattere unitario, gli aspiranti dovevano provare di aver a portato danno copertamente e scopertamente ad un nemico d'Italia .

Esaminato poi a lungo da un Centurione, il neofita doveva giurare solennemente che entrava nella società non per interesse particolare, ma per il fine sociale, ce essendo pienamente convinto che la sola unità, indipendenza e libertà possono rendere l'Italia florida e potente, senza di che non può esservi vera felicità per gli Italiani .

E s'impegnava ad obbedire ciecamente agli ordini del proprio Centurione, a compiere lavoro assiduo per realizzare l'unità, l'indipendenza e la libertà della patria, a non riconoscere alcuna differenza tra gli Italiani delle varie provincie, a considerarli tutti fratelli, figli di una stessa madre e degni di una sorte migliore, a non rifuggire da alcun mezzo atto a raggiungere gli scopi della società.


Un'invocazione teatralmente truculenta ammoniva sulla spaventosa sorte degli spergiuri: <c Ho ff prestato il presente giuramento perchè sono convinto della bontà a e santità della causa per la difesa della quale entrai in questa Società, <l e se mancassi ad una delle parti, o a tutto quanto ho volontariati mento giurato, voglio che mi sian levati gli occhi dalla testa, strap-a pata la lingua dalla bocca, tagliato e scorticato il mio corpo, a poco or a poco; che mi vengano stracciate le budella; che un veleno corro-<c sivo mi corroda con dolore e spasimo il petto, i polmoni e lo stomaco coi più acerbi dolori; che il mio corpo venga squartato e che un cartello sul luogo del supplizio faccia vedere ai viaggiatori e pas-a seggeri contemporanei e posteri la mia infamia, seguita dalla im- mediata punizione, portando scritto in lettere cubitali: Qui fu giu-a stamcnle punito N. N. infame; e così Dio protettore dei veri amanti 9. della Patria mi protegga nell'adempimento dei miei doveri ,


Ogni milite assumeva un nome di guerra romano dei tempi gloriosi della Repubblica e doveva tener pronto un fucile con baionetta, sessanta cartucce e una coccarda rosso-verde-turchina. L'anniversario della morte di Cesare era il giorno festivo dell'associazione, che vene-


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rava come suo santo protettore Marco Bruto. L'ordinamento della società appariva accentuatamente soldatesco e irrigidito nel forma* lismo di una disciplina esteriore che finiva per soffocare rentusiasmo e malamente teneva luogo di un principio morale predominante (3),
Il 19 febbraio 1831 nella Terra di San Casciano la polizia toscana perquisiva l'abitazione del piemontese Felice Ansaldi, cui Ira altre carte sequestrava gli statuti e varie istruzioni per gli Apófasimeni, Pochi mesi più tardi, in Marsiglia, anche il Mazzini aveva notizia della setta ed accettava di farne parte col nome di Trasea Peto, ritenendola utile come elemento materiale della sua federazione (4).
L'ingresso del Mazzini ebbe come conseguenza il versamento degli Apófasimeni nella Giovine Italia. Sia che comprendesse veramente <r l'efficacia e l'alto valore dell'apostolato mazziniano a risvegliare i popoli d'Italia, ad infondervi nuovi ardimenti, a rigenerarli , sia che sentisse come ormai fosse tramontata l'età d'oro della Carboneria, certo è che il Buonarroti permise al conte Bianco di fondere gli Apófasimeni nella Giovane Italia ed incaricò lo stesso Bianco di metter questa in contatto con la Giovine Carboneria dei Veri Italiani (5). Dal canto suo il Mazzini cercava di convincere i suoi amici che la società degli Apófasimeni era diretta da capi ottimi e animati dagli stessi principii e perfettamente d'accordo sulla via da seguire con la Giovine Italia: due ruote dello stesso carro . Le due associazioni sarebbero state unite nel giorno del pericolo. Da quanto afferma il Mazzini appare che gli Apófasimeni erano principalmente


(3) Le istruzioni dei militi apófasimeni stampò già E. MICHEL in F. D. Guerrazzi e le cospirazioni polìtiche in Toscana, Roma-Milano, Soc. ed. Dante Alighieri, 1904, pp. 165-177, e prima ancora, desumendole dalla copia che si conserva nel Museo del Risorgimento di Bologna' tra i documenti di Gerolamo Tipaldo de' Pretenderi (cfr. E. MASI in II segreto di re Carlo Alberto, Bologna, Zanichelli, 1890, p. 255 n.), A. OCCHJ nei Cenni sulla rivoluzione dell'anno 1831 a Bologna, Chiavari, Battilana, 1900, pp. 80-86. Un accenno anche in A. Luzio, op. cit. Attendiamo: là 'pubblicazione delle carte Cuneo per giudicare delle affermate modificazioni mazziniane agli statuti che negli esemplari finora noti appaiono impregnati dello spirito e infarciti dei luoghi comuni cari al vecchio carbonarismo, anche se la formula unità, indipendenza e liberta degli Apófasimeni rammenti quella mazziniana di libertà, indipendènza ed unione, della lettera a Carlo Alberto

(4) E. MICHEL, op. cit. p. 25; G. MAZZINI, Scritti editi ed inediti, ediz. naz., V, p. 50 n., xvm, p. 322 n., ov'è riprodotta la tessera di Apofasimcno del Mazzini.


(5) ROMANO-CATANIA, op. city * 21:0- Ved. la lettera di Mazzini a S. figlioli (Marsiglia, 9 agosto 1831) in SIX, V, pp. 49-50. Cfr. anche LA CECILIA, op. city, v. II, p. 45.




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sparsi ce tra la bassa gente, * montagnuoli,. marinai etc. , quasi a rappresentare principalmente l'elemento materiale. Con il giugno 1832 le due associazioni appaiono legate da un vero e proprio vincolo federale, /use, dirà il Mazzini, ma non così che non sorgessero dall'una parte e dall'altra diffidenze, riluttanze, opposizioni, come appare da più luoghi dell'epistolario mazziniano (6).
E l'innaturale accordo non poteva durare troppo a lungo. Il contrasto spirituale tra le due associazioni era stridente: gli Apofasimeni, anche se ritoccati e nobilitati dall'ardente spiro mazziniano, tradivano sempre l'angustia originaria delle formule carbonare e non potevano piacere al Mazzini, cui dorrà più tardi che la Legione Italica ne copiasse l'organizzazione complicata, minuta, e mancasse di un corpo di principii come già gli Apofasimeni. Son le solite cose ineseguibili, che tutti gli uomini della società siano soldati, che tutti vadano sui monti, etc. etc. . Il ricordo sfavorevole durò a lungo in Mazzini, anche dopo che la Giovine Italia ebbe praticamente tolti di mezzo gli Apofasimeni, assorbendone gli elementi migliori (7).
Nelle Romagne forse fu primo introduttore il greco Gerolamo Tipaldo de* Pretender!, aggregato alla Carboneria italiana, il quale ebbe qualche parte negli eventi bolognesi del 1831-32. Ma l'opera sua, che non dovette durare oltre il 1833, non pare abbia dato risultati efficaci (8). Ne maggior successo sembra riportasse Napoleone De' Ma-sini, che tra il 1833 e il 1834 tentò di far proseliti e di organizzare una centuria apofasimena. Ma poiché le notizie che si hanno sngli Apofasimeni sono per ora scarse, di lui e dell'opera sua si dà qui qualche cenno secondo i documenti dell'Archivio di Stato' di Roma (9).

(6) S.E.I., V, p. 98 (lettera a Elia Bensa); ivi, p. 101. Ved. anche ivi. p. 103 le istruzioni per le cose da intendersi ; ivi, p. 121, lettera del settembre 1832 al MelegariL

(7) S.E.I., XVI' p. 322, lettera al Melegari (30 dicembre 1839). Siiamo facendo (niello che rimprovera virino un tempo ai Veri Italiani, agli Apofasinumi, etc.* ivi, XIX, p. 363, lettere al Fabrizi (1 dicembre 18-10); ivi, XXH1, p. 29, lettera al Giannone (28 gennaio 1842). Ved. anche Protocollo della Giovine Italia, tÉC, p. 1(11, lettera del Lamberti al Mazzini (20 Hcttembrc 1844):

(8) E. MASI, op. cit., pp. 209 e 255-256.

(9) Per non citare continuamente le stesse fonti ricordo ohe questo stadio è condotto sulla base del ristretto processuale della causa Bologna di nuova società segreta contro Napoleone Marina, Enrico Curii, Giovanni Salvigni (Roma 1835) e eoi documenti del R. Archivio di Stato di Roma: Miscellanea politica 1835, B.* 96, num. 2948 e Processi politici della Sagra Consulta, 46 B nero e 28 nero B. Purtroppo, mancano i costituti originali




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Napoleone De' Masìni Pierattini (ma anche solamente Masini e più frequentemente Masina), nato sui primi dell'Ottocento a Bologna (all'atto dell'arresto aveva 34 anni) era, secondo appare dal ristretto processuale della causa politica che gli fu intentata, antico settario, noto per aver sempre manifestato massime contrarie alla religione e al governo pontificio e in modo particolare durante i turbinosi eventi del 1831-32. Nemico al governo s'era dimostrato <c sino dall'adolescenza e in tale atteggiamento aveva sempre persistito, unendosi alla gioventù più ardita e depravata . Nella notte del 4 febbraio 1831 era stato uno dei conduttori degli armati e più tardi aveva marciato agli ordini del Sercognani alla volta di Roma, giungendo fino a Otricoli e Amelia. Nelle agitazioni seguite al primo ritiro degli Austriaci dalle Legazioni, nel cosidetto periodo della Civica, aveva avuto nuova parte: si era segnalato come aiutante presso il Patuzzi con l'incarico particolare di provvedere all'abbigliamento dei Civici, aveva partecipato come tenente con la Civica bolognese al combattimento di Cesena del gennaio 1832. Frequentatore assiduo del famoso Caffè Spisani ce cognito ridotto de' Settari , soleva intrattenersi con individui notoriamente designati per liberali e vi teneva discorsi sediziosi, sparlando del governo e dei preti, spesso esprimendo l'augurio: a Venisse presto il momento di tornare a comandare! , come più tardi riferirà al processo qualche zelante testimone.
Né contegno più cauto pareva tenere quando andava alla Por-retta per ragione d'affari o per far visita alla propria sorella. Nel periodo febbraio-marzo 1833 vi si era recato per una settimana e anche questa volta non aveva cessato di farsi vedere colli cogniti nemici del governo , suscitando nuovi sospetti sulla sua condotta. Sospetti che si accrebbero in occasione di un suo successivo soggiorno dell'agosto, che provocò una maggiore sorveglianza della polizia nei suoi riguardi.


E si venne a conoscere prosegue il ristretto fiscale che il Masina praticava con tutte le persone sospette al governo perchè ritenute di mene perverse e contrarie al governo stesso ed alla religione t choj teneva si In casa di alcuni dì tali persone, e di una sorella di egnal carattere colà maritata, unioni scerete di notte con tutti i liberali del paese* pc? cui dall'autorità stessa si venne in qualche sospetto sulle medesime riunioni: che inoltre si risapesse doversi fare una cena da tali soggetti amici del Mattina dove doveva esservi in tavola una bandiera tricolore, qual ceno però fosse fatta invece in casa della sorella, in altro luogo, ed essendo sopraggiunta la vigilia, si mangiasse anche di carne... .



Tutte cose queste che Indussero il governatore di Porretta e sfrattare il De* Masini da questa località il 21 settembre 1833.



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Ora proprio in questo tempo il De' Masini aveva cominciato ad accogliere di notte in casa sua, in Via Cavaliera, presso la Chiesa di S. Niccolò degli Alberi, giovani per lo più baffuti e barbuti , come deporrà più tardi una cameriera, con i quali si chiudeva in una camera in misteriose confabulazioni. E durante il giorno continuava a fare insinuazioni alla gioventù di massime contrarie al governo, cercando di convincere i suoi interlocutori ad arruolarsi in una società o unione patriottica, pagando il socio qualche paolo al mese, società diretta alla libertà d'Italia , alla quale, egli assicurava, a molti bravi giovani già s'erano associati . Un altro testimone, cui qualche giorno di prigione rese meno incerta la memoria e meno reticente la lingua, si rammentò che il De' Masini, trovandosi a bere con Itti e con altri giovani all'osteria, aveva tenuto discorsi relativi alia libertà , sostenendo essère ormai tempo che tutti i giovani appartenessero al partito liberale, e a lui testimone aveva chiesto della sua passata attività politica e confidato che vi era persona che andava associando dei giovani per una certa unione in caso si rinnovasse un qualche imbroglio . E il testimone, decisamente indotto a più matura riflessione dopo essere stato et sperimentato col carcere , aveva ben compreso che l'arruolatore doveva essere lo stesso De* Masini (10).
Così, un po' troppo facile alle confidenze, il De* Masini andava facendo propaganda. Tra i primi a dargli ascolto fu il giovane chirurgo Giovanni Corazza, che assunse nella centuria apofasimena il nome di guerra di Catone (11). E il Corazza fu il tramite per le aggregazioni di altri giovani, tra i quali furono Luigi Bertoccbi, spedizioniere, di 26 anni (nome di guerra Virginio) e gli studenti Enrico Curii, diciannovenne (Euribiade), Giovanni Salvigni, ventiduenne (Aristide), Giuseppe Petrosi, ventenne (Tiberio Gracco), Federico Mazzoli, ventiduenne (Scipione), Cesare Guidicini, ventitreenne (Decio), Gaetano Colombarini (Camillo), ventunenne (12). Di altri associati il processo del 1835 non dà i nomi, ma un accenno delle memorie inedite di Augusto Aglebert, conservate nel Museo del Risorgimento di Bo-


(10) Sol De' Musini, v. per ora A. M. GHISALBERTI, in M. Rosi, Dizionàrio cit. v. Ili, pagina 519.


(11) Il Corazza aveva 23 anni Non potè essere arrestato perchè fin dal 10 agosto 1833 era partito con regolare passaporto per Algeri.


(12) Brevi cenni sulla parte presa noi moti del *31 da Pctroni, Corazza, Corti, Guidicini, Mazzoli, Salvigni sono in G. NATALI, Intorno ai moti del 1831 in Bologna, in li Comune di Bologna, 1921, pp. 29, 37, 38, 40, 41, 44 dell'estratto. Cesare Guidicini era fratello di un altro compromesso del 1831, Luigi, ivi, p. 26, e così pare Giovanni Salvigni (ivi, cenno su suo fratello Luigi, p. 45). Ignoro se




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logna, assegna agli Apofasimeni del De' Masini Felice Orsini, Giù-seppe Galletti e un Marzoli. La memoria, però, deve aver tradito l'antico patriota, che Felice Orsini non potè certo appartenere allora alla setta, essendo nato nel 1819 e la società disciolta nel 1834 (può forse trattarsi di suo padre, Giacomo Andrea), e il Marzoli non può già identificarsi nel Mazzoli compagno dei Bandiera e morto poi in Grecia* di cui parla l'Aglébert, perchè quello si chiamava Tommaso e non Federico. Così pure è errata la data del 1838 indicata dall'Aglehert per gli arresti.
I misteriosi convegni e gli imprudenti discorsi non dovevano restare a lungo nascosti alla polizia, che per mezzo di un segreto confidente ebbe presto notizia che il De' Masini oc potesse aver fondata in Bologna una nuova società segreta sotto la denominazione di Milizia Apofasimena e che ne fosse Centurione. Furono allora dati gli ordini per una perquisizione, che venne effettuata in casa di lui la notte dal 25 al 26 settembre 1834. E fu perquisizione fruttuosa, perchè si trovarono nascoste armi militari ed altri effetti non che le carte più interessanti relative alla società suddetta e queste occultate nel camerino della latrina, e murate nella celata superiore della medesima insieme con due stili, un coltello fermo al manico, una coccarda tricolore, una fascia di lana bianca, rossa e verde, cioè proprio il materiale, che secondo l'articolo 5 del Regolamento degli Apofasimeni ogni socio doveva tenere presso di se (13).



anche Cesare Salvigni, suicida a 30 anni, cugino di Felice Orsini, fosse parente di Giovanni e Luigi. Cfr. F. ORSINI, Memoirs and adventures, Edimburgo 1857, p. 24. Sul Petroni, più famoso di tutti, cfr. A. COMANDINI, Cospirazioni di Romagna e Bologna, Bologna, Zanichelli, 1899, pp. 509-513, G. MAIOLI, Giuseppe Petroni, in // Comune di Bologna, gennaio 1929. n. 1, S. GUCLIELMETTI, G. Mazzini e i suoi seguaci di Roma, in Rassegna storica del Risorgimento, XVI (1929), fase. I, id. in M. Rosi, Dizionario, cit., v. HI, pp. 862-863. Su lui v. pure MAZZINI, S.E.I. cit., voi. XLVHT, XL1X, L, passim. Gaetano Colomharìni prese poi parte con il fratello Raffaele al moto di Savigno.


(13) A p. 7 del Ristretto le armi sequestrate sono così specificate: ce Quattro fucili militari con sue baionette ben conservati, perchè involti con cimose di lana, e ben organizzali, cosi giudicati dal perito archibugiere; una spada con cintura di corame; una sciabola militare; un cappello appuntato alla militare; un giaccò di soldato d'infanteria ; un bonnet di panno verde filettato rosso con striscia bianca in argento; quattro giberne; un capotto di panno alla militare; una mun-tura di panno verde, con mostregialure rosse; un sottocorpetto di stessa uniforme; ottantatrè cartuccie formate di polvere sulfurea, a palle di piombo per uso di fucile; un fucile a due canne da caccia; e due pugnali triangolari della lunghezza fra manico e lama di nove onde, ed un quarto con manico di osso negro e tra-versetto di ottone; un coltello scrratore a molla a scrocco, lungo fra manico e lama 14 oncie, con punta accumulata , armi tutte proibite quoad omnia .




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Di notevole interesse apparvero subito i documenti sequestrati con le armi:
il catechismo della setta carbonica col tenore del giuramento che prestavano quei settori; una còpia di lettera, che sembra responsiva, che tratta dello scopo della società, cioè di render libera l'Italia... quale incomincia Fratello, salute ed amor di Patria Non è nostro intendimento di segregarci in alcun modo ...e termina colla sottoscrizione Il Direttore Aud.; tre scacchi di carta con indicazioni dei mesi con numero progressivo al nove per ciascun mese, ed in ogni numero con lettera alfabetica iniziale i cognomi dei socj sottoscritti con cifre di baj. e numeri di 10 o 30 o più ecc.; il regolamento dell'anione milizie Apofasi-mene...; il foglio contenente lo scritto del giuramento colle sottoscrizioni di otto socj ed una striscia di carta col nome; iteli nono socio relativamente alla detta unione; una stampa in forma di supplica di tenor sedizioso e ribelle sottoscritta da più avvocati e causidici bolognesi rigettando i Regolamenti giudiziari dei 5 ottobre e 5 novembre 1831; ed una copia di una lettera incendiaria e sediziosa scritta dal Piemonte in giugno 1832 da un Italiano, che incomincia Il Simulacro del Dispotismo sta per crollare... (14).
H regolamento, a giudicare dal rapido riassunto giudiziario, doveva essere uguale a quello già pubblicato dalla Occhi e dal Michel. Esso notava il processante:
istituisce in Italia una Società patriottica, sotto il titolo di Milizia Apofasimena nello scopo di procurare con ogni mezzo l'indipendenza, la libertà e l'unità d'Italia per rivendicargli l'antica potenza e splendore col mezzo del maggior numero possibile di Militi Apofasimeni in Città e sino ai più piccoli Villaggi. Il titolo del medesimo porta le parole odio ai tiranni indipendenza unità libertà * alla gloria dei grandi maestri di libertà Marco Giunto Bruto immortali italiani*
a Si compone il Regolamento di sette capitoli che all'iniquità dello scopo non aggiunge verun allettamento personale di vantaggio, e solo sembra istituita per fare mtt'il male possibile, nel solo amore del male.
Le qualità personali per essere ascritto milite (escludendosi chiunque non sia Italiano ed insieme domiciliato) consistono nel carattere ardito, deciso, intraprendente, costante, amatore della libertà, nemico del dispotismo, persuaso che l'Italia non può esser felice se non è unita in una sola Nazione, e libera nel suo interno politico governativo sistema; subordinato, segreto, disinteressato e pronto a sagrifìcare vita e sostanza. La forinola del giuramento si compone in sostanza dei medesimi elementi del regolamento .
Arrestato immediatamente il De' Maaini, si provvide anche all'arresto di quelli che apparivano firmatari della formula del giuramento sequestrato, ma il Corazza era partito fin dall'anno prima per l'Africa, il Mazzoli e il Colombari ni non furono trovati. Quest'ultimo, allora in campagna a Malalbergo, appena ebbe notizia dell'incarceramento


(14) Ristretto eie, pp. 8-9.





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del De' Masini, si recò nascostamente a Bologna il 25 settembre, e di qui, senza passaporto, fuggì in Toscana. Poco dopo potè imbarcarsi a Livorno per la Francia, ove, trovandosi privo di mezzi, si arruolò nella Legione Straniera la quale, dopo aver sostenute varie battaglie sulle coste dell'Africa, fu donata a Donna Cristina di Spagna , come è detto nel nuovo Ristretto contro il Colombarini.


Raggiunsero così il De1 Masini in carcere il Petroni, il Bertocchi, il Guidicini, il Curti e il Salvigni. I primi tre, a dispetto dei classici soprannomi, non ambirono affatto a crearsi una fama di eroi, che fin dal primo momento

a confessarono limpidamente di essere stati sedotti dal contumace Corazza lutti separatamente in novembre o decembre 1832 a recarsi in differenti sere e ciascuno isolatamente in casa del Masiua per far parte di una unione patriottica, e di essere stati costretti a firmare la formula del giuramento avanti un Crocifisso ed un pugnale senza essersi potuto ricusare di farlo, sebbene contro volontà dopo la prima giovanile imprudenza di aver ceduto all'invito benché non potessero immaginare che si volessero indurre a tanta enormità .

Il Curti e il Salvigni tentarono di difendersi negando tenacemente durante gli interrogatori di essere mai stati in casa De9 Masini, smentendo che le firme incriminate fossero le loro, pur ammettendo una certa somiglianza di scrittura. Ma anche questo loro contegno durò poco. Né più felici, anche se più recise, furono, come vedremo, le difese del De' Masini.

Sottoposte intanto le risultanze all'esame della Segreteria di Stato e fattasene relazione al Pontefice (23 gennaio 1835), questo si degnò di prendere in considerazione l'inesperienza dell'età dei tre confessi , le buone loro qualità precedenti, <c il pentimento dimostrato nell'aver ammesso il fallo , il fatto che quando firmarono non s'era ancora consolidato l'ordine pubblico, l'impossibilità di provare altro accesso dei medesimi in casa del Masina, o altra unione sediziosa con persone sospette e ordinò fossero messi in libertà a coi vincoli e comminatorie che il S. Padre rimise al prudente arbitrio dell'E.mo Commissario (15).

Quando il Curti e il Salvigni seppero della liberazione dei tre confessi Petroni, Bertocchi e Guidicini, decisero di mutar contegno e il 6 febbraio lo stesso giorno in cui elessero a proprio difensore pressò il Turno speciale della Sacra Consulta l'avv. Giuseppe Morandi chiesero di essere sottoposti a nuovo costituto. In mancanza degli atti


(15) Dispaccio 24 gennaio 1835, n. 25473. La liberazione avvenne il 31 gennaio.



CAT_IMG Posted: 24/8/2023, 11:47 GUARNERIUS WERNERIUS bononiensis - Intrecci, commistioni e dipendenze fra varie religioni






IRNERIO[/size]


www.rmoa.unina.it/3997/

https://archive.org/search.php?query=GAUDENZI%20AUGUSTO

http://irnerio.cirsfid.unibo.it/

https://catalog.hathitrust.org/Record/100473396

https://it.wikipedia.org/wiki/Scuola_bolog..._dei_glossatori



I ROTULI DELLO STUDIO

www.euarchives.org/index.php?sch=3&...1_2_1_1&lng=nat

www.archiviodistatobologna.it/it/bo...nza-berardo-pio

https://collezioni.genusbononiae.it/products/dettaglio/15340






https://it.wikipedia.org/wiki/Irnerio

www.treccani.it/enciclopedia/irneri...iero:-Diritto)/



IL CODEX SECUNDUS

Il Digesto e il volgarismo

C'è stato uno scambio di idee utile per avvicinarsi a un problema molto complesso come quello della ricomparsa del Digesto e le teorie filologiche che si sono succedute sul punto. Anche le risposte qualitativamente migliori contengono qualche inesattezza: ad esempio, che la Florentina sia il manoscritto madre dal quale parte tutta la tradizione è la teoria del Torelli, che è stata smentita. Perciò la presenza dell'errore "conguntivo" (cioè che dimostra una derivazione o una parentela fra tradizioni) dell'inversione di fogli è spiegato non con la copia del misterioso "codex secundus" direttamente dalla Florentina, ma con l'esistenza di un modello comune che conteneva già l'inversione. Altrimenti non si spiegherebbe come mai in certi passaggi la Vulgata ha un testo corretto e la Florentina ha degli errori.


Anche la Bononiensis (e non bolognensis, che è un volgarismo) è stata un po' fraintesa.


E' il nome che Pescani ha dato al testo che troviamo copiato nei manoscritti della scuola di Bologna, che danno origine alla Vulgata. Bononiensis sarebbe quel manoscritto del Digesto che Irnerio o chi per lui hanno trovano e usato come modello. Non è lo stesso che usò il compilatore della Collectio Britannica. Questo non lo ho spiegato a lezione per non farvi morire, ma la cosa complica ancora di più il problema.


Capite perché alcuni studiosi che si sono dedicati al problema da giovani sono poi morti senza averlo risolto?

A me basta che entriate in contatto con questo problema, perché sappiate che i testi antichi e medievali sono molto spesso incerti, e che la loro storia coincide a volte con quella della cultura.


C'era anche una domanda sul volgarismo e il diritto volgare. Il termine volgarismo è stato usato dagli studiosi di diritto romano per indicare singole deviazioni di singoli istituti da alcuni principi di diritto classico. L'immagine storica degli ultimi secoli dell'Impero sembra quella di un edificio classico che il tempo deteriora e che viene restaurato con aggiunte di gusto dubbio. Invece l'immagine del diritto volgare è molto più ampia e forte: indica il sistema giuridico che si impone in quel lungo periodo storico che copre la fine dell'antichità e l'inizio del Medioevo. Consente di interpretare il passaggio da un'epoca all'altra e coglie linee di fondo unitarie negli istituti che si consolidano per consuetudine o per legislazione.


Dal punto di vista della storiografia, la chiave dei volgarismi è stata usata dagli studiosi del diritto romano classico, mentre quella del diritto volgare è preferita dagli studiosi del diritto medievale.


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Irnerio non fu, sicuramente, il primo ad applicarsi allo studio dei testi del diritto romano giustinianeo (integranti quello che in seguito sarà detto Corpus iuris civilis), ma per primo nell’affrontarli usò in modo sistematico i metodi della scolastica, apponendo a essi glosse e manipolandoli per studiarli e renderli accessibili a un indefinito pubblico d’utenti; il suo nome fu ben presto riconosciuto dunque come quello d’un vero caposcuola, con l’appellativo di 'lucerna del diritto', eletto a simbolo di quella rinascita giuridica della fine dell’11° sec. che determinò il contemporaneo formarsi dell’inedita scientia iuris e della figura del suo interprete (legisdoctor, iurisperitus) per mezzo di un’entità educativa conosciuta poi come Università (Studium).

La vita


Appare impossibile scindere la vicenda biografica di Irnerio dall’operato di esegeta-divulgatore dello ius civile, determinante la sua importanza storica in assoluto. Per secoli, a disegnarne il mito è stata la tradizione universitaria bolognese, grazie principalmente a Odofredo Denari (m. 1265), secondo il quale i libri legum da Roma giunsero a Ravenna e poi a Bologna; un certo dominus Pepo cominciò a far lezione su essi, ma senza lasciare duratura traccia in confronto al primo vero docente, il dominus Irnerio, già magister in artibus, che iniziò a spiegare le leggi romane, in modo profondo, tanto da essere riconosciuto come primus illuminator scientie nostre.

Ignoti i dati biografici essenziali; in varie epoche solo sulla base di induzioni sono state formulate proposte – spesso condizionate dalla visuale del fenomeno 'origine dello Studium bolognese' accettata dal proponente di turno – di date e luoghi di nascita e di morte, di status personale. Gli studiosi concordano nell’identificare il territorio e il periodo che una volta si dicevano ‘di fioritura’, cioè Bologna, ultimo ventennio dell'11° sec. e primo del seguente; per il resto, possediamo elementi divisibili in tre classi: sicuri, probabili e oggetto di discussione, del tutto leggendari.

La figura storica di Irnerio ci viene proposta da una serie di documenti, quattordici, appartenenti agli anni compresi tra il 1112 e il 1125 (sono atti giudiziari, una donazione privata, privilegi concessi dall’imperatore Enrico V), nei quali egli compare come causidicus e iudex bononiensis; nonché dalle vicende romane del 1118, quando magister Guarnerius de Bononia et plures legisperiti appaiono coinvolti nell’elezione dell’antipapa Maurizio Burdino, arcivescovo di Braga (Portogallo); che precedettero ma forse non furono la causa diretta della scomunica fulminata nel 1119 dal Concilio di Reims nei confronti dell’imperatore e dei suoi fautori, compreso Irnerio (Mazzanti 2000, pp. 120-25).

Irnerius è forma tarda, della fine del 12° secolo. Prima, il nome compare in varie forme, da Warnerius e Wernerius a Guarnerius, Vuarnerius e Gernerius; il mutamento si spiega con l’interazione con gli usi dei parlanti il volgare in partibus Lombardie (Padovani 2006, pp. 1087-93), e probabilmente con la confusione di lingue regnante nell’ambiente internazionale dell’universitas scholarium bolognese. Collegato, il problema della sigla con cui viene indicato nelle glosse. Meno frequenti quelle firmate o attribuite in modo chiaro, come 'War.' o 'Varn.' e simili; moltissime appaiono siglate con l’iniziale 'Y', sicuramente a lui riferibile, per la quale si sono tentate varie spiegazioni. Importante appare la rivendicazione al grande maestro delle sigle 'J' e 'I', finora attribuite all’allievo Iacopo (Padovani 2006, pp. 1093-109).

Discussa appare l’origine nazionale perché, nonostante la qualifica di bononiensis prevalente nei documenti, esiste una tradizione che lo designa come theutonicus; in qualche modo connessa è l’identificazione, di proposta antica o recente, con persone dello stesso nome documentate in vari luoghi, tra le quali un Guarnerius presbiter nel 1101, de Brigey nel 1106 a Briey in Lotaringia (Mazzanti 2000, pp. 154-62; Cortese 2004, p. 600). Una delle leggende più note lo vuole scegliere il proprio successore tra gli allievi (detti quatuor doctores) Bulgaro, Martino, Iacopo e Ugo.

Il profilo intellettuale del maestro

Al celebre glossatore, Hermann Kantorowicz nel 1938 attribuiva, pubblicandoli, lavori introduttivi al Codex e alle Institutiones, staccando definitivamente la comoda etichetta 'Irnerio' dalla decina d’opere più o meno anepigrafe cui era stata, specie nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, attaccata da alacri e peraltro benemeriti ricercatori (Hermann H. Fitting, Augusto Gaudenzi, Giovanni Battista Palmieri); le Questiones de iuris subtilitatibus, la Summa Codicis, le Exceptiones Petri, il Formularium tabellionum, e altri scritti antichi e notevoli, dovevano ritenersi prodotti di epoca e ambiente diversi e successivi. Restavano le molte glosse, edite sotto il nome d’Irnerio in vari tempi, riprese, discusse e rielaborate dagli epigoni; e proprio queste, che presentano spesso caratteristiche particolari, quali la capacità di risolvere con un colpo di genio grosse difficoltà gnoseologiche o quella di sintetizzare ardui problemi, dobbiamo eleggere a guida fondamentaleper ricostruire il profilo intellettuale del maestro, cercando di accordare le indicazioni ricavabili da tale produzione con quanto risulta dai documenti sicuri e con le tradizioni storiografiche antiche.

I placiti e gli altri atti documentari (ripubblicati in Spagnesi 1970), dei quali solo l’ultimo appare di dubbia autenticità (Mazzanti 2009), presentano quasi tutti un legame con i territori ‘matildici’, vale a dire appartenenti a, o governati da, Matilde di Canossa, e poi entrati alla di lei morte nel 1115 in una questione ereditaria assai complessa, con strascichi ideologici fino al 1700, e forse anche oltre. Irnerio accompagna Enrico V nella ‘discesa’ del 1116-1118, fatta dall’imperatore anche per prendere possesso dell’eredità di Matilde, in parte come superiore feudale, in parte come cugino, parente più prossimo in mancanza d’altri eredi. Una faccenda eminentemente politica, ben concordante con il sostegno all’Impero accordato da una delle più celebri glosse irneriane, dove si dicono passati dal popolo al sovrano, tramite la cosiddetta lex regia, i poteri di governo.



Due le controprove: la firma aggiunta da Irnerio a quella dell’arcivescovo e cancelliere – strano evento, per la diplomatica – al privilegio dell’imperatore, del 15 maggio 1116, con il quale si proteggono «le persone di tutti i cittadini bolognesi, i loro beni mobili e immobili, presenti e futuri».


Come se si volesse riconoscere al giurista di aver svolto una specie di mediazione in una vicenda importante per lo sviluppo del Comune (Spagnesi 1970, pp. 154-59); e soprattutto l’elezione dell’antipapa nel 1118 – che prese il nome di Gregorio VIII, a significare sia la convinzione di essere il papa ‘autentico’, sia la volontà di continuare in qualche modo la grande opera del ‘matildico’ Gregorio VII opponendosi a Gelasio II, eletto regolarmente ma fuori di Roma, a Gaeta, per non sottostare alle pressioni del popolo.




I giuristi, tra i quali Irnerio, convocarono la cittadinanza facendo illustrare da quidam expeditus lector alcuni decreta pontificum – verosimilmente quelli non autentici (Cortese 1995, 1° vol., pp. 359-60; 2° vol., pp. 69-74) – de substituendo papa.

Altro tipo di problema, ma collegato, il ruolo del giurista nel riconoscimento dell’autenticità dei testi giustinianei

. Dietro le leggende raccolte da Odofredo vi sono certo verità che hanno segnato la scuola, specie sul ritrovamento e il recupero ‘a pezzi’ del Digesto (Vetus, Infortiatum, Novum) con l’attribuzione a Irnerio del nome Infortiatum – dove il racconto copre un evento fortuito a noi sconosciuto causante la strana divisione – e sulla vicenda del Liber authenticorum. Irnerio dapprima l’avrebbe giudicato una falsificazione operata «a quodam monacho», cambiando opinione prestamente per ricavarne le autentiche apposte in luoghi opportuni del Corpus. Aneddoto, questo, chiaramente originato da una glossa irneriana (al § 4 della costituzione Cordi, ove Giustiniano annuncia novellae constitutiones), importante come rivelatrice del metodo: lì si trovano critiche molto nette al Liber authenticorum, considerato appunto nella sua essenza e fisionomia giuridica di ‘libro’; mentre tale non è perché: a) il suo stile non concorda con quello delle altre costituzioni imperiali;

b) nella collezione non sono presenti né un principio, né una fine (vale a dire: clausole ‘di stile’ usate per tali eventualità), né un ordine;

c) le nuove costituzioni promesse nella Cordi dovrebbero riguardare solo ‘nuovi negozi’, non, come si nota nell’Authenticum, casi già regolati e soltanto corretti nel loro disciplinamento (E. Spagnesi, Iurisprudentia, stilus, au(c)toritas, in Cristianità ed Europa. Miscellanea di studi in onore di Luigi Prosdocimi, a cura di C. Alzati, 2° vol., 2000, pp. 153-54).

Qui, al di là dell’amplificazione odofrediana, sono adombrate grosse questioni relative alla trasmissione e conoscenza in Occidente delle Novellae raccolte nella collezione detta appunto Authenticum, che sostituì l’Epitome Iuliani proprio con l’avvento della scuola di Bologna. Alcuni manoscritti testimoniano la circolazione congiunta dei due testi per un uso didattico, volto alla migliore comprensione delle Novellae – nell’Autentico in versione latina – attraverso l’Epitome (L. Loschiavo, Il codex graecus e le origini del Liber authenticorum, «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung», 2010, 127, pp. 115-71, in partic. p. 147).

Le ipotesi di attribuzione e di sistemazione delle opere


Nel suo complesso, l’attività di riconoscimento, di sistemazione e d’interpretazione-divulgazione dei testi va considerata fondamentale per stabilire un ‘ordine’ ove il diritto assumeva le valenze da allora caratterizzanti la civiltà occidentale (P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, 1995). Avvertenza utile ad affrontare gli altri autori (oltre Odofredo) cui Irnerio apparve personaggio eccezionale o eroico.


Si tratta di Roberto di Torigni (m. 1186), abate del monastero normanno di Mont Saint Michel, che parlando di Lanfranco di Pavia (poi passato a Bec e infine a Canterbury dove fu arcivescovo dal 1070 per morirvi nel 1089) asserisce che Lanfranco e Guarnerio suo allievo, trovate a Bologna le leggi romane, s'erano dedicate a insegnarle, collocando l’episodio nel 1032;



di Radulfus Niger (Rodolfo il Nero), teologo, storico e letterato inglese di educazione parigina, che in uno scritto databile tra il 1179 e il 1189 esalta Pepo per aver fatto trionfare giusti principi in un processo per l’uccisione di un servo, facendo applicare norme tratte dal diritto romano contro inique leggi longobarde; lo designa come «aurora iuris civilis», mentre da lui Irnerio è presentato come colui che riuscì a far accettare il diritto romano dalla curia di Roma, determinando la fortuna universale di esso;


e di Burcardo di Biberach (m. dopo il 1231), il cui Chronicon urspergense cita Irnerio in un brano diviso in due parti: nella prima si dice ch’egli

libros legum, qui dudum neglecti fuerant nec quisquam in eis studuerat, ad petitionem Mathilde comitisse renovavit et secundum quod a dive recordationis imperatore Iustiniano compilati fuerant, paucis forte verbis alicubi interpositis, eos distinxit;



(rinnovò, a richiesta della contessa Matilde, i libri delle leggi, che fino ad allora erano stati neglietti, e nessuno li aveva studiati; e li ripartì sistematicamnete secondo le indicazionidel loro compilatore, l'imperatore Giustiniano di divina memoria, solo interponendovi qua e là poche parole)nella seconda parte si descrive il contenuto dei testi giustinianei.





Vanno considerati l’ottica e gli scopi degli autori menzionati: le parole del cronista Roberto, rifiutate in genere perché considerate risultato di un’informazione confusa e fuorviante, è stato dimostrato (Padovani 2007) come siano collegate al fervido ambiente anglo-normanno nel quale si svilupparono correnti di studio teologico e giuridico dalle caratteristiche assolutamente peculiari, anche grazie all’opera di un glossatore lombardo, Vacario, cui è dovuto l’inizio dell’insegnamento del diritto romano in Inghilterra, in particolare a Oxford, autore di un’opera conosciuta come Liber pauperum, di grandissima influenza e valore per le sorti della compilazione giustinianea. Nel brano del teologo inglese si tratteggia la posizione reciproca dei due maestri, che Rodolfo differenzia nei ruoli e anche per la conoscenza dei Digesta. Pepo riuscì a imporsi sulle leggi barbariche in giudizio davanti all’imperatore – essendo peraltro baiulus soltanto delle Institutiones e del Codex e ignorando completamente le Pandette; mentre il secondo, magister Guarnerius, avrebbe avuto il merito di far accettare alla curia romana lo ius civile, presentandolo religioso scemate, cioè secondo uno schema a essa gradito.

Ma è il passo della cronaca urspergense a offrire le maggiori possibilità di comprensione del lavoro di Irnerio. Attrasse l’attenzione la notizia del rinnovamento dei libri legali a richiesta della contessa Matilde. Si giunse a spiegare quelle parole con un ‘incarico ufficiale d’insegnamento’ conferito al giurista, anche in virtù di un preteso ‘vicariato italico’ di Matilde. Rigettata l’ipotesi, oggi s’insiste sulla richiesta d’una specie di edizione critica delle opere giustinianee, in conformità della preparazione in artibus e della vocazione filologica d’Irnerio (Cortese 1995, 2° vol., pp. 61-64; Cortese 2004, p. 602).

In realtà occorre percorrere altra strada. L’accostamento tra il magister Gratianus e il doctor Wernerius – proposto dal cronista e talvolta ritenuto dalla storiografia giustificato dalla nuova disciplina fondata, per il rispettivo campo, dai due capiscuola – deve collegarsi strettamente al tipo di operazioni fatte dai due maestri e al risultato del loro lavoro, situando la somiglianza a un livello quasi fisico, tra il Decretum grazianeo, e un’opera irneriana che non ci è pervenuta. Importante stabilire la fonte delle notizie date dal cronista Burcardo: quelle su Graziano le aveva reperite nelle Summae dei ‘decretisti’, per Irnerio, analogamente, in una materia operis civilistica, come si vede dalla seconda parte del brano, che non è una copiatura senza valore di un celebre passo di Paolo Diacono, ma un adattamento dovuto a un esperto del lavoro fatto sui libri di diritto, con cambiamenti significativi dovuti all’intento di adeguarne la sequenza a una visuale precisa di natura propriamente logico giuridica. Ciò induce a ritenere che la prima parte del brano fosse tratta da un prodotto dello stesso genere, vale a dire un proemio-dedica (accessus ad auctorem o exordium operis): le due sezioni del passo della cronaca si completavano a vicenda, conservando, se lette insieme, il ricordo dell’approccio prescritto dalle regole della scolastica alle ‘opere’ e agli ‘autori’. La contessa Matilde doveva essere soltanto la dedicataria di un lavoro specifico (così come successe per Donizone, cantore dei Canossa, il cui poema si conserva nell’originale con tanto di lettera di dedica in testimone unico), il che spiega perché si parli di petitio, termine molte volte impiegato come topos retorico giustificante il prodotto presentato in omaggio (Spagnesi 2006).

La ricostruzione concorda con quanto desumibile dal Liber divinarum sententiarum, opera basata sugli scritti di sant’Agostino, attribuita a certo «Guarnerio giurisperitissimo», la cui paternità irneriana, respinta, all’epoca della scoperta, come impossibile, in seguito generalmente non riconsiderata, da poco è stata invece riproposta come estremamente probabile (Mazzanti 1999; Spagnesi 2001); essa ci propone una fattiva ‘specializzazione’ nel ‘magistero delle arti’ del famoso giurista, e indirizza verso la vicenda, analoga, del Liber pauperum definito dall’autore Vacario un ‘compendio’ del Codice giustinaneo e del Digesto, con inserzione delle ‘autentiche’, che integravano o modificavano i testi ‘principali’ di questa grande composizione ‘a mosaico’, destinata a sopperire i mezzi necessari per risolvere gl’infiniti casi pratici offerti dalla vita quotidiana.

Possibilmente intitolata Wernerii librorum Iustiniani imperatoris renovatio l’opera, scomparsa – forse perduta per sempre, al pari d’un prodotto funzionale, ‘di consumo’, da non conservare, e comunque ritenuto ‘superato’ dalla scuola – antologizzava excerpta da tutte le quattro parti del corpus iuris, distinti in libri alla maniera scolastica e seguendo la falsariga del Codex, raccordati da dicta d’autore, anche accompagnati da altri passi testuali di spiegazione «in glose locum» (come accade nel Liber pauperum). Ciò spiega la frase riferita dall’Urspergense «solo interponendovi qua e là poche parole (paucis forte verbis alicubi interpositis)», anche questa riconducibile a un’autopresentazione, da parte d’Irnerio, del proprio limitato intervento, e analogamente l’inciso «e nessuno li aveva studiati (nec quisquam in eis [i libri legali] studuerat)» si riferisce al ligio rispetto della metodologia scolastica. Ovviamente tale renovatio non intendeva sostituire i testi originali, considerati libri ‘autentici’ e ordinario oggetto di lectura, cioè di ‘reverente’ esposizione raccolta in prodotti ‘magistrali’, bensì affiancare al recupero e al commento di essi un compendio indispensabile alla penetrazione nel mondo del sapere ‘di base’, ovvero un agilissimo attrezzo di contrasto del diritto barbarico, uno strumento di studio conformato ai metodi scolastici, alla cultura ‘giusnaturalista’ della cristianità, e ai suoi bisogni socioeconomici. L'opera poteva esser classificata unicamente come renovatio, sia perché il materiale è desunto per intero dalla compilazione giustinianea, sia perché valorizzava la figura principale di Giustiniano, generico ‘compilatore’ dei volumi delle leggi, come auctor e promulgator delle costituzioni imperiali (Spagnesi 2006).

Si applicava così al mondo laico il metodo usato dai Padri della Chiesa per i testi biblici, consistente da un lato nell’interpretazione di un testo collegata a quella di altri appartenenti alla stessa materia; dall’altro nel servirsi di un’unica collezione di norme per la soluzione di tutte le controversie (A. Padoa Schioppa, Riflessioni sul modello del diritto canonico medievale, in Id., Italia ed Europa nella storia del diritto, 2003, pp. 183-88).

Un esempio di applicazione pratica dei modelli teorici risultanti è fornito dal confronto tra una glossa di Irnerio, l’architettura quadripartita del Formularium tabellionum (G. Orlandelli, Scritti di paleografia e diplomatica, 1994, pp. 495-526) e la donazione fatta da un conte a una donna il 15 novembre 1116, attuata mediante un instrumentum simplicis donationis (Spagnesi 1970, pp. 79-81), cui presenziò Warnerius iudex, redatto da due notai, Bonando e Angelo, autori del rinnovamento nei moduli grafici dell’epoca poi messo al servizio dello sviluppo dello Studium (Spagnesi 1970, pp. 164-73).

Bibliografia

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G. Mazzanti, Introduzione, in Guarnerius iurispertissimus, Liber divinarum sententiarum, a cura di G. Mazzanti, Spoleto 1999.

G. Mazzanti, Irnerio, contributo a una biografia, «Rivista internazionale di diritto comune», 2000, 11, pp. 117-181.

E. Spagnesi, Irnerio teologo, una riscoperta necessaria, «Studi medievali», 2001, 42, 1, pp. 325-79.

E. Cortese, Irnerio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 62° vol., Roma 2004, ad vocem.

A. Padovani, Il titolo "De Summa Trinitate et fide catholica" (C 1.1) nell’esegesi dei glossatori fino ad Azzone. Con tre interludî su Irnerio, in Manoscritti, editoria e biblioteche dal Medioevo all’età contemporanea. Studi offerti a Domenico Maffei per il suo ottantesimo compleanno, a cura di M. Ascheri, G. Colli, 3° vol., Roma 2006, pp. 1076-123.

E. Spagnesi, Magister Gratianus, dominus Wernerius. Le radici d’un antico accostamento, in Proceedings of the XIth congress of Medieval canon law, Città del Vaticano 2006, pp. 205-26.

A. Padovani, Roberto di Torigni, Lanfranco, Irnerio e la scienza giuridica anglo-normanna nell’età di Vacario, «Rivista internazionale di diritto comune», 2007, 18, pp. 71-140.

G. Mazzanti, Un falso irneriano? Riconsiderazioni sul documento del 1125, in Il contributo del monastero S. Benedetto Polirone alla cultura giuridica italiana (secc. XI-XVI), Atti del Convegno, San Benedetto Po (29 settembre 2007), a cura di P. Bonacini, A. Padovani, San Benedetto Po 2009, pp. 39-44.



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Riproduzione+fotografica


Biblioteca+Malatestiana+De+legatis+et+fideicommissis.

la littera fiorentina e la vulgata

http://www1.unipa.it/~dipstdir/portale/rom...#sdfootnote7sym

ORLANDELLI GIANFRANCO

http://opac.regesta-imperii.de/lang_en/anz...atica&pk=103978

PROGETTO IRNERIO BOLOGNA

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GILLES


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ALESSANDRO VOLTA LA PILA


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LANTANIDI


https://it.wikipedia.org/wiki/Lantanoidi





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BIRINGUCCIO



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https://it.wikipedia.org/wiki/Alessio_Piemontese

https://it.wikipedia.org/wiki/Sangue_di_dr...%20usi%20simili.

www.imss.fi.it/milleanni/cronologia/crchim/chim1400.html




BIRINGUCCI, Vannoccio

di Ugo Tucci - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 10 (1968)


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BIRINGUCCI (Bernigucio), Vannoccio



Figlio di Paolo di Vannoccio e di Lucrezia di Bartolomeo, nacque a Siena, dove fu battezzato il 20 ott. 1480.


Suo padre fece parte dell'ufficio dei "viarii", che era preposto alla rete stradale cittadina e ai ponti e alle strade, e ne 1504 era "operaio" delle muraglie del palazzo comunale. Non sappiamo nulla del corso dei suoi studi, che l'Ugurgieri qualifica essenzialmente matematici; essi, tuttavia - anche se non raggiunsero l'eccellenza di quelli del suo contemporaneo Giorgio Agricola e per quanto Benedetto Varchi, suo intimo amico, parli di lui "come quegli il quale avea molta pratica e non molta scienza" - debbono essere stati di discreto livello, quale se non altro poteva convenirsi ad un giovane di famiglia insignita della "civiltà" cittadina. È probabile che, come il suo concittadino Giovanni Sfortunati, autore del Nuovo Lume - libro de arithmetica (Venezia 1545), li abbia condotti alla scuola dei Moreschi e del carmelitano Bernardino Landucci.

Ma molto presto egli fece pratica nelle miniere di ferro di Boccheggiano, appartenenti a Pandolfo Petrucci, signore di Siena, e più tardi gli fu affidata la direzione di una miniera argentifera sul monte Avanza, in Carnia, che mantenne fino a quando, nel 1508, ebbero inizio le ostilità fra Venezia e l'imperatore Massimiliano. Per conoscere i metodi che vi erano usati, aveva compiuto due viaggi in Germania, e dopo la chiusura della miniera visitò Sbozzo (Schwaz?), Pleiper (Bleiberg), Innsbruck, Alla (Hall), Arottimberg (Rattenberg) e numerosi centri minerari italiani. Soggiornò anche a Milano, dove prese grandissimo interesse alle fornaci per la fabbricazione dell'ottone. In questi anni dovrebbero collocarsi i suoi soggiorni a Ferrara, al servizio di Alfonso I d'Este, e a Venezia.

Il B. tornò poi a Siena e fu inviato dal Petrucci a sovrintendere alle miniere di Bocchiaggiano: qui ebbe modo di apportare numerosi perfezionamenti, in particolare alla messa in opera dei mantici.

Sempre godendo della protezione dei Petrucci, per i quali parteggiava, sebbene la sua famiglia fosse del Monte dei Riformatori, nel 1513 venne nominato "operaio" dell'armeria del Comune e in quello stesso anno ebbe l'incarico d'innalzare archi trionfali in onore del cardinale di Gurk, che passava per la città insieme col duca Francesco Sforza. Il 3 febbr. 1514, in società con Alessandro Vigni, ottenne l'appalto della zecca senese per cinque anni, ma nel 1515 fu costretto a fuggire insieme con Borghese Petrucci e i suoi fautori, sotto l'accusa di aver alterato, per istigazione di lui e con la correità dell'orefice Francesco Castori, la lega delle monete coniate. A detta di Sigismondo Tizio, cronista contemporaneo e avversario politico della sua fazione, si sarebbe accertato che borghese aveva intascato cinquanta ducati d'oro al mese e i suoi complici quaranta. Contumace al processo penale istruito a suo carico, l'anno seguente il B. fu dichiarato ribelle (il suo socio Alessandro Galgani fu invece assolto) e condannato al bando come traditore della Repubblica.

Soggiornò a Roma, a Napoli e, nel 1517, in Sicilia. A Roma - sempre secondo il Tizio - per le sue brighe sarebbe nato uno scontro fra Borghese Petrucci e il fratello di lui Alfonso, conclusosi col ferimento del primo. Indebolitasi la posizione dei Petrucci in seguito alle macchinazioni contro Leone X, il B. si portò con altri fuorusciti a Urbino per chiedere l'appoggio del duca per cacciare da Siena il cardinale Raffaele Petrucci, signore della città. Fu perciò rinnovato il bando contro di lui, ma nel 1523 poté rientrare a Siena col figlio minore di Pandolfo Petrucci, Fabio, dopo che venne accolta benevolmente dalla Balìa una sua lettera. Ottenuta la revoca del bando, fu reintegrato nel possesso dei beni sequestrati e nell'ufficio di "operaio" dell'armeria comunale; il 7 genn. 1525 si assicurò il privilegio della fabbrica del salnitro per tutto il territorio senese, con l'obbligo di consegnarne una parte al comune a un prezzo convenuto.

Qualche tempo dopo Fabio gli affidò la missione di accompagnare a Siena Caterina di Galeotto de' Medici, sua sposa, ma mentre egli si trovava a Firenze una rivolta popolare cacciò il Petrucci, il quale fu seguito in esilio dagli aderenti alla fazione dei Noveschi. Invano il B. aveva tentato di opporsi, trattando coi Medici e col cardinale Silvio Passerini e cercando di raccogliere milizie. Esortato a rientrare a Siena dal nuovo signore della città, Alessandro Bichi, non accolse l'invito, così che fu di nuovo dichiarato ribelle e subì la confisca dei beni, il 20 maggio 1526, mentre era a Roma (una sua lettera autografa, diretta a un Bortolo di Girolamo, mastro falegname, per lavori di riparazione ad una sua casetta a Siena, porta la data del 25 maggio); l'11 agosto gli fu rinnovato il bando, per aver partecipato con gli altri fuorusciti senesi allo sfortunato assalto di Porta Camollia (21-25 luglio), durante il quale egli aveva diretto il fuoco delle artiglierie contro il torrazzo della castellaccia di Camollia. Tornò allora a Roma, donde si mosse per trattare con quei Noveschi che, ritiratisi nel castello di Montebenichi, tentavano di rientrare a Siena.

Non sappiamo con esattezza che cosa abbia fatto negli anni seguenti, che il Romagnoli e il Mieli, senza spiegare su quale base, suppongono egli abbia trascorso in Germania in viaggio d'istruzione. Nel 1529 lo troviamo al servizio di Firenze, assediata dagli Imperiali, impegnato nella fabbricazione di artiglierie, in particolare dell'"archibuso di Malatesta", una gigantesca doppia colubrina del peso di diciottomila libbre, "di braccia undici e mezza d'un gitto solo", con la culatta a testa d'elefante (egli scriverà di non aver mai fuso artiglierie senza ornarle di figure d'uomini o d'animali o simili). Nominato il 7 maggio dai fiorentini Dieci di Balìa procuratore delle artiglierie, gettò cannoni, mezze colubrine e falconetti, calibrandoli mediante la trapanatura.

Nel medesimo anno, composte le inimicizie fra i partiti, tornò in patria. Nel primo bimestre del 1531 fece parte del Magistrato della città per l'ordine dei Riformatori e nel 1535 successe a Baldassarre Peruzzi come architetto e capomastro dell'opera del duomo; nel 1536 fu chiamato a pronunciare un lodo d'indole artistica in una vertenza fra gli Arduini e il Sodoma.

Il 18 dic. 1534, con suo motu proprio, il papa gli aveva affidato le cariche di capitano dell'artiglieria e di fonditore, che prima erano ricoperte da Antonio Rossi da Città di Castello e dal genovese Vincenzo Joardi. Una lettera del 1536 di monsignor Claudio Tolomei lo sollecitava a trasferirsi a Roma per curare i suoi interessi in quella città. Qui morì improvvisamente nell'agosto 1537: il 7 "stava in caso di morte" e in un mandato di pagamento del 19 risulta già defunto.

Non ci è rimasto nulla dei suoi bronzi e delle altre opere di fonditura, che dovettero probabilmente essere disfatti per reimpiegarne il metallo (si pensi alla statua di Giulio II di Michelangelo, che nel 1511 venne fusa per farne cannoni): il "Liofante" impiegato a Firenze nel 1529 fu demolito nella torre di Livorno poco prima del 1544.

Ebbe due figli, Alessandro, che legò il suo nome agli ultimi avvenimenti politici della Repubblica, e Camillo, il quale lo seguì a Roma e più tardi - nel 1556 - figura tra i membri del supremo Magistrato senese. Suo padre, Paolo, che nel 1498 si era sposato una seconda volta con Lisabetta di Filippo Boninsegni, che gli portò in dote 1000 fiorini, morì a Siena nel 1512. Dei due fratelli del B., Bartolomeo, nato nel 1483, e Francesco, si hanno poche notizie.

Tre anni dopo la morte del B., nel 1540, venne pubblicato a Venezia, un suo trattato,De la Pirotechnia, sulla tecnica delle lavorazioni a fuoco.

L'opera si compone di dieci libri, suddivisi in capitoli. Il primo - che tratta "De tutte le minere in generale" - si apre con un proemio che contiene regole generali sulla ricerca dei minerali, sul modo di far le cave e sugli strumenti necessari. L'oro, col quale s'inizia il discorso sui singoli metalli, perché "fra tutte le cose che sono in questo mondo... è il primo stimato", è definito un composto di sostanze elementari congiunte quasi inseparabilmente in proporzioni determinate, e se ne descrivono i giacimenti, il modo di estrarlo dalle arene fluviali e il processo di amalgamazione (nel nono libro verrà poi presentato quello dell'argento), accettando ironicamente l'incredibile racconto di Alberto Magno, che "in quella sua opera de mineralibus" lo vide generarsi nella testa d'un uomo morto.

In questo capitolo c'è anche il famoso discorso contro gli alchimisti, i "filosofi operanti" che vorrebbero far credere di saperne fabbricare in abbondanza; di loro si parlerà ancora nel capitolo primo del nono libro, che è riservato all'arte alchimica. I capitoli successivi sono dedicati all'argento, al rame, al piombo, allo stagno, al ferro, al modo di far l'acciaio e l'ottone. Il secondo libro ha per argomento i cosiddetti "mezzi minerali" (cioè le sostanze naturali non metalliche, dai "fisici speculatori" chiamate in questo modo per non essere "né tutti pietre né tutti metalli"), i quali vengono distinti in quelli "liquabili al fuocho" (zolfo, antimonio, marcassite, calamina - un carbonato o silicato di zinco, metallo allora sconosciuto - zàffera - vale a dire blu di cobalto, e la menzione che ne fa il B. è la prima che si conosca - manganese) e quelli che "si resolveno ne l'acqua" (sale comune, vetriolo, allume di rocca, salnitro, ecc. ed inoltre - "come cosa acquea" - il mercurio); gli ultimi capitoli parlano del cristallo, delle gemme e della fabbricazione del vetro. Queste classificazioni sono scientificamente discutibili, ma molto aderenti alla pratica, così come le descrizioni, le quali tengono conto soprattutto dei caratteri organolettici.

Il terzo e quarto libro trattano del saggio e della fusione dei metalli e del modo di separarli, con riguardo particolare all'affinaggio dell'oro e dell'argento e con capitoli riservati ai carboni e alla produzione dell'acido separatore (il nitrico: l'"acqua acuta commune"). Esaurita la parte che insegna a "condurre ne' loro proprij e puri corpi tutti li metalli", il B. prende a ragionare del loro impiego, cominciando dalle leghe dell'oro, dell'argento, del rame, del piombo e dello stagno, le quali occupano il quinto libro, e continuando nel sesto e nel settimo col bronzo e con le grandi fusioni, in ispecie delle artiglierie e delle campane. L'ottavo libro descrive l'"arte piccola del getto", e cioè la fusione di piccoli oggetti artistici e d'uso comune; il nono - "Della pratica di più esercitij di fuoco" - contiene capitoli sull'arte distillatoria, sui lavori dell'orefice, del ramaio, del fabbro, dello stagnino, del battiloro, sulla coniazione delle monete, la fabbricazione degli specchi, la fusione dei caratteri di stampa, l'arte figulina, la preparazione della calcina e dei laterizi e altre pratiche industriali e chimiche minori. L'ultimo libro riguarda il salnitro, le polveri, mine e contromine, i proiettili, concludendosi con l'apprestamento dei fuochi artificiali e di altri ordigni per uso pacifico.

Manca ancora, sul trattato, uno studio che lo inquadri compiutamente nell'evoluzione storica della tecnologia, ma gli specialisti hanno dato risalto, con varia prospettiva, a molti dei suoi aspetti più notevoli. Il problema, naturalmente, non si pone nello stabilire delle priorità, ma piuttosto nel fissare alcuni momenti di quel processo, e merita appena di sottolineare che il significato dell'opera del B. prescinde dalla constatazione che abbia raggiunto gradi di perfezione non superati neppure dalle cognizioni odierne.

Mentre appare di limitata consistenza il suo apporto nel settore della geologia e della mineralogia, anche perché il B. non seppe far posto all'esame stratigrafico (F. D. Adams, ad esempio, certamente a torto, lo ignora affatto nel suo The birth and development of the geological sciences, Baltimore 1938), assai pregevole, invece, ed originale si presenta nel campo metallurgico, dove il B. domina, come autorità, insieme con Agricola e con Ercker, per oltre due secoli, fino a Réaumur e a Swedenborg. La Pirotechnia fu il primo libro dedicato alla metallurgia: un'opera, dunque, che si impone per il suo carattere del tutto nuovo, al quale - come osserva il Farrington - dà maggior risalto il fatto che nel primo secolo di vita della stampa furono pubblicati trentamila testi.

In essa troviamo una descrizione esauriente - la prima - dei forni a riverbero (con uno di essi si insegna a riparare le campane fondendone soltanto la parte guasta) e diffusi ragguagli su altri di diverso tipo e sul loro corredo di tramogge e di mantici, azionati a mano e - ciò che costituiva il progresso più decisivo in un secolo che si sforzò di trarre i maggiori vantaggi dalla meccanizzazione - dall'energia idraulica. La trattazione delle tecniche fusorie, la quale è preceduta da un importante accenno alla pratica dell'arrostimento come fase autonoma del trattamento dei solfuri, è completa e perspicua, particolarmente per i metodi di formatura e di colata a cera persa. Del processo di raffinazione del rame è descritto anche il poling, sebbene con qualche manchevolezza; e a proposito della calcinazione del piombo in forni a riverbero il B. fa delle osservazioni importantissime sull'aumento del peso del metallo, che riesce a determinare quantitativamente con molta precisione, proponendo anche una spiegazione del fenomeno

. Poco sviluppata la parte che riguarda lo stagno (ma leggiamo qui la prima menzione dell'impiego dell'antimonio per il suo indurimento, benché questo uso sia destinato a divenire corrente solo due secoli appresso); si parla invece molto diffusamente della fabbricazione dell'ottone, mediante la mescolanza in crogioli incandescenti di calamina calcinata e di rame triturato, secondo un vecchio procedimento, già descritto da Teofilo, che il B. aveva potuto ammirare in una officina milanese dove si lavorava giorno e notte per la produzione di piccoli oggetti, adoperando forme di argilla essiccata. Pure la metallurgia del bronzo ha nel B. - che qui, secondo il Lippmann, avrebbe attinto a fonti tedesche - un preciso ed acuto illustratore (egli osservò, fra l'altro, che aumentando il tenore di stagno la lega mutava colore e diveniva più dura e più fragile), e così la siderurgia. Per quanto tale processo debba ritenersi noto già in precedenza, è nella sua opera che si fa per la prima volta parola della cementazione, che veniva eseguita immergendo masselli di ferro dolce nella ghisa liquida fino a raggiungere un certo grado di carburazione, per poi fucinarli e temprarli; ed è ancora alla Pirotechnia che dobbiamo la prima accurata descrizione del seguirsi dei colori nella tempra dell'acciaio con relazione alla durezza (su questo fenomeno dovrà poi tornare Boyle).

Le pagine dedicate all'estrazione dell'argento dai suoi minerali e alla separazione dei due metalli nobili sono del massimo interesse: a proposito del procedimento che prevede l'impiego dell'acido nitrico, il Percy osserva che è esposto in modo che potrebbe seguirlo proficuamente anche un metallurgista dei giorni nostri. La stessa cosa può dirsi del metodo "secco" di cementazione con cloruro di sodio, dell'inquartazione, della solforizzazione con solfuro d'antimonio. I coniugi Hoover, nel loro commento al De re metallica di Agricola, ritengono di poter attribuire al mineralologo sassone la prima descrizione completa del trattamento del materiale argentifero per liquazione con piombo, ma è certo che il B. ne parla già ampiamente molti anni prima di lui, per quanto con minore ricchezza di particolari (con tutta probabilità il sistema era in uso già da tempo: il forno biringucciano comparirà poi, con qualche leggera variante, nella figurazione di Ercker). Anche il più vecchio ragguaglio sull'impiego del mercurio nella metallurgia dell'argento si trova nel B., il quale fornisce un'appropriata spiegazione dell'amalgamazione molti anni prima che questa tecnica si sviluppasse nel Messico e nel Perù col nome di processo del patio. È noto che la scoperta venne da alcuni ascritta a Bartolomeo de Medina, ma lo stesso minatore messicano ammette di aver appreso tale metodo in Spagna: a lui, tuttavia, va almeno il merito di averlo introdotto in forma industriale (Pedro Fernandez de Velasco ne sarà più tardi l'iniziatore in Perù), mentre la Pirotechnia si limita a dar conto di operazioni su piccola scala. Il B. scrive che donò un anello e promise un ottavo degli utili a chi gli confidò tale segreto, e perciò non si doveva trattare di una pratica tanto diffusa: è lecito supporre che egli l'abbia appresa durante il suo soggiorno in Carnia, dove il mercurio che si estraeva dalle vicine miniere di Idria offriva agevole occasione d'esperimento.

Numerose sono nel manuale le note sull'assaggio, le quali appaiono estese anche ai minerali di metalli comuni, generalmente trascurati dagli antichi saggiatori. Il B. avverte che per questo scopo si deve ricorrere alla fusione, con lo stesso trattamento che viene applicato ai grossi quantitativi.

Sulla fabbricazione del vetro il B. offre una messe di particolari tecnici forse inferiore a quella del Glaskonst di Peder Månsson, ma la descrizione sua e quella del monaco svedese s'assomigliano tanto che O. Johannsen sospetta che entrambi abbiano attinto ad una medesima fonte; gli Hoover sottolineano che qui troviamo probabilmente la prima specifica menzione del manganese sotto questo nome moderno. In quanto agli specchi egli parla sia di quelli di vetro (dove l'applicazione dello stagno viene fatta con l'aiuto dell'antimonio) sia di quelli metallici, per i quali alla "vecchia" lega egli ne preferisce una molto più ricca di stagno, che C. S. Smith ritiene poco conveniente. Notevole l'esposizione delle tecniche della fusione dei caratteri di stampa, che, mediante l'uso di forme di ottone ad elementi regolabili, assicuravano una produzione molto rapida.

Con il B. cominciò la pratica di gettare pieni i pezzi d'artiglieria e quindi di trapanarli, per ovviare alle difficoltà che offriva il vecchio sistema del nocciolo interno di far sortire l'anima esattamente concentrica con la superficie esterna. A questo scopo egli presentava un'alesatrice orizzontale munita di coltelli, mossa a mano o da forza idraulica, ma non ci è precisato se l'anima venisse ricavata con la sola trapanatura oppure, come è più probabile, venisse gettata di diametro inferiore al calibro desiderato per essere poi allargata fino alla misura giusta. Questa apparecchiatura, nota il Montù, contiene in embrione i dispositivi anche oggi impiegati. Per il getto delle artiglierie il B. si vale degli stessi metodi adoperati per gli altri lavori in bronzo, ma raccomanda di procedere con maggiore lentezza nel riempire le forme: egli dà molta importanza all'uso di una materozza col compito di raccogliere le scorie e i difetti di fusione, ed inoltre all'aggiunta finale di stagno per premunirsi da quella che i tecnici moderni chiamano segregazione inversa.

Il manuale detta anche regole per puntare le artiglierie e per correggerne l'elevazione: un alzo a forellini che vi è descritto assomiglia molto a quello che l'esercito piemontese adottò nel 1848. Il capitolo che parla dei proiettili esplosivi rese celebre il B. presso gli allievi ufficiali dell'artigheria italiana durante la prima guerra mondiale, come ideatore degli shrapnel. Il B. illustra anche i sistemi di estrazione e di raffinamento del salnitro e le tecniche per la fabbricazione della polvere da sparo, indicando vari dosaggi conformi al tipo di arma. Secondo l'opinione dell'Hoefer, la parte che riguarda i "fuochi lavorati" è, salvo qualche aggiunta, un sunto del Liber ignium che va sotto il nome di Marco Greco, fonte del resto citata dal B. (il quale lo chiama - come anche Cardano - Marco Gracco).

Il De la Pirotechnia fu composto con intenti strettamente pratici, col proposito, che risponde a un'esigenza assai diffusa nella letteratura tecnica dell'epoca, di trasmettere agli altri i risultati delle proprie ricerche. L'esposizione è piana, discorsiva, con un'impronta didascalica, ma senza pedanterie. E dove teme che non gli bastino le parole, il B. ricorre all'immagine, sempre viva e nitida, in modo da lasciarsi intendere con precisione.

Benedetto Varchi, tessendo l'elogio dell'autore, dopo aver lodato l'"uomo molto leale e veritiero" lo rappresenta, infatti, "liberalissimo de' suoi tesori", con evidente allusione a quelli dell'ingegno e non ad una prodigalità nello spendere, che peraltro mai si sarebbe potuta accordare con la modestia delle sue sostanze. E il B. stesso - al quale non sfugge l'importanza della collaborazione per il progresso del sapere tecnico - sa essere esplicito sull'ufficio delle "notizie nuove", che sono per lui "le chiavi di far resuscitar gl'ingegni", in quanto destinate a far sorgere negli intelletti "inventioni nuove et nuove notitie".

Ispirati alla convinzione che "la luce del iudicio venire non può senza la pratica", il discorso e la mentalità di lui appaiono costantemente pervasi di positività: egli si pone i problemi in modo diretto, senza ricercare soluzioni teoriche, perché non ama teorizzare, né la sua riflessione giunge mai ad organizzarsi in sistematicità di pensiero. Ma pur devoto all'esperienza e persino animato da uno scetticismo metodico nei riguardi del sapere del suo tempo - un tipo di sapere del quale si mostra insoddisfatto e che è disposto ad accettare soltanto a condizione che gli permetta di arrivare a soluzioni pratiche nel campo che lo interessa - egli s'arresta ancora perplesso davanti al fascino, alle incerte, ardue realtà dell'alchimia; e per il suo discorrerne in forma contraddittoria, alcune volte biasimandola ed altre invece lodandola, il Varchi non gli risparmia l'accusa di essere mal documentato, confuso e irresoluto.

In effetti questo suo atteggiamento può essere criticabile solo parzialmente. Agli occhi del B. l'alchimia è una parte del sapere che ha preceduto l'assai più recente ed ancor malsicura fase tecnologica e sotto certi aspetti ne è stata la radice, ma è ancora un settore ombroso e non privo di allettamenti, se non altro sul piano sperimentale. Per quanto egli dichiari di non conoscerla bene, ne ha certamente avuto un'esperienza propria e ha potuto approfondirne lo studio attraverso il contatto con gli amici che la praticavano, ma i suoi miraggi non lo seducono più. Tuttavia egli non è prevenuto, a patto che gli si offra la possibilità di controllare i risultati. Distingue perciò due vie dell'alchimia, la buona, che segue i procedimenti naturali e pertanto potrebbe anche non rifiutarsi, e la cattiva, la quale è fatta d'apparenza e di frode. L'alchimia, ammette, merita rispetto per quanto ha operato in campo medicinale e per la fabbricazione dei coloranti e dei profumi; le si deve inoltre anche l'invenzione del vetro, ed è innegabile che le sue manipolazioni possano essere dilettevoli e che il suo sforzo di ricerca abbia qualcosa di positivo, ma non è sapere concreto perché non riesce mai a raggiungere i fini che si propone, ed è un lavoro vano, dai principi oscuri, dagli scopi maligni, dagli effetti illusori; è un incessante correre per una strada circolare che riporta eternamente al punto di partenza, "un navigar al cammino del cielo per via dell'oceano". Ed è inutile appoggiarsi all'autorità di certa pretesa tradizione in suo favore, ove fallisca la verifica sperimentale.

Dell'alchimia il B. condanna anche l'incongruità dei procedimenti, le pretese miracolistiche e la disinvoltura con la quale vorrebbe rendersi padrona della natura. Egli ha il culto della natura, che definisce "madre et ministra di tutte le cose create, figliuola di Dio et anima del mondo", ed è convinto che nessuna arte umana le si possa sostituire: la tecnica, "debolissima rispetto ad essa", si sforza d'imitarla e di trarne profitto - anche perché si mostra benigna - ma sarà sempre impotente a trasformarla.

Questa concezione, come nota giustamente P. Rossi, ha precise origini medievali, né ci si può aspettare una moderna impostazione dei rapporti fra natura ed arte prima di Bacone e di Cartesio. Per quanto sia in una direzione nuova, il B. non può infatti rinunciare completamente al bagaglio intellettuale della sua epoca e ne conserva numerosi schemi (del resto non saprebbe come sostituirli), anche perché si occupa soltanto di problemi concreti e pertanto non ha nessuna difficoltà ad accettarli come premesse. Così eredita dall'aristotelismo scolastico la teoria dei quattro elementi e la credenza che ogni processo naturale sia ordinato ad un fine, e si lascia talvolta andare ad affermazioni - come quelle delle virtù straordinarie delle pietre preziose e del sangue di montone - che appartengono all'ordine dei luoghi comuni e mostrano i limiti del suo rigore scientifico. Spesso, però, pur protestando il massimo rispetto per certe autorevoli o diffuse opinioni, sa riderne e non si perita di metterle a cimento con quelle dei pratici.

Il libro del B. riflette una tradizione della scienza applicata che si era venuta formando negli ultimi secoli del Medioevo, ma si presenta ricco di originalità, perché fondato soprattutto sull'esperienza diretta. Di ogni fenomeno si controllano i risultati e si ricercano spiegazioni razionali, rifuggendo, per quanto è possibile, dal ricorso al principio d'autorità. Una cura particolare, poi, è volta alla semplificazione dei procedimenti, i quali vengono esposti con molta chiarezza, sulla linea di una rigorosa concatenazione di cause ed effetti.

Per questa sua intelligenza limpida e concreta, per la sua acutezza di osservatore e di sperimentatore, per il suo saper essere alieno da speculazioni magiche o mistiche, nel B. si è voluto vedere uno degli iniziatori del metodo sperimentale. Il giudizio - che è del Mieli - va certamente attenuato, perché manca all'opera del tecnico senese, come in quelle di altri suoi contemporanei non meno illustri, una teoria d'insieme, un legame fra le membra sparse che si esprima in una sintesi razionale; ma rimane in definitiva giusto purché, appunto, s'intenda il suo sperimentare come intermedio fra quello non scientifico del Medioevo e quello sempre più razionalmente calcolato dell'età successiva. In ogni caso non si può condividere - come infatti mostra di non condividerla il Farrington - l'opinione del Thorndike che la Pirotechnia non sia altro che la presentazione in lingua italiana di tutto ciò che si può già trovare in opere latine dei tre secoli precedenti. Noi crediamo che non se ne esageri la portata riconoscendole un posto fra quegli scritti rinascimentali che, se anche non anticiparono certi grandi momenti della storia del pensiero e della scienza moderne, ne costituirono tuttavia un efficace preludio.

È certo, però, che per il suo carattere descrittivo, pur portando un insostituibile contributo alla scienza come conoscenza positiva, non suscitò idee nuove, e la sua circolazione, ancorché intensissima, rimase limitata alla cerchia dei tecnici e dei pratici, ai margini del movimento scientifico. In questo settore il posto venne ben presto occupato dal trattato di Agricola, uscito dai torchi più tardi (1556) e in parecchi punti chiaramente derivato da quello del B. (l'Agricola l'aveva ricevuto in dono da Francesco Badoer, ambasciatore veneto presso Ferdinando re dei Romani, e ne aveva tratto stimolo), ma scritto da un uomo di formazione, culturale ben più solida e di interessi più vasti, e per di più in una lingua - la latina - capace di assicurargli una diffusione universale (tanto per citare un esempio, l'Arte de los metales di A. Barba Toscano, vangelo dei minatori dell'America Latina, ignora del tutto il B. mentre attinge largamente al De re metallica).

Francesco Bacone conobbe sicuramente l'opera di Giorgio Agricola, ma forse non ebbe occasione di sfogliare il De la Pirotechnia, che pure era stato introdotto in Inghilterra da sir Thomas Smyth e vi circolava in una traduzione parziale.

La supposizione di un interesse del mondo degli scienziati e dei filosofi per l'opera del tecnico senese, manifestato attraverso due edizioni latine, e cioè con una significativa inversione del consueto processo di passaggio dall'una all'altra lingua, sembra purtroppo destinata a restare senza fondamento, perché non è stato mai possibile reperire le due edizioni, né affidarsi ad una testimonianza certa, così che è lecito dubitare che la notizia sia sorta da un equivoco.

La data di composizione dell'opera si può collocare fra il 1534 e il 1535, sulla base dell'accenno alle "ferine man de le nation barbare che da circa a 40 anni in qua dentro ci sonno entrate" (I, 1) e del riferimento al Peruzzi ancora vivente (II, 13). È probabile che si sia sviluppata, come suppone il Mieli, su un canovaccio di annotazioni e di appunti suggeriti dall'esperienza artigianale di tutti i giorni e continuamente riveduti e arricchiti di nuove osservazioni, ma è certo che presenta una coerenza sistematica nella disposizione della materia, una completezza di stesura, un'intrinseca unità, le quali fanno pensare che il B. sia riuscito a darle una redazione definitiva. Apparì postuma, ma a questo dato non si deve annettere un valore particolare, perché molto spesso l'editoria dell'epoca ritardava la pubblicazione dei manoscritti in rapporto ad esigenze aziendali o di mercato.

La prima edizione venne in luce a Venezia stampatore Venturino Roffinello, nel 1540, sotto il titolo De la Pirotechnia libri X dove ampiamente si tratta non solo di ogni sorte & diversità di miniere,ma anchora quanto si ricerca intorno a la prattica di quelle cose di quel che si appartiene a l'arte de la fusione over gitto de metalli come d'ogni altra cosa simile a questa. È ornata da ottantadue belle incisioni in legno, che sono verosimilmente di mano dell'autore. Seguono: Venezia, Giovan Padoano, 1550; Venezia, Comin da Trino, 1559 (sul frontespizio la data del 1558); Venezia, Gironimo Giglio, 1559; Bologna, Gioseffo Longhi, s.d. (ma con una dedica del 1678); Bari 1914 (fino al capitolo quinto del secondo libro).

Le prime tre appartengono a Curtio Navo, che dedicò fittiziamente quella del 1540 a Bernardino di Moncelesi da Salò, a nome del quale sarebbe stata composta. La seconda e la terza edizione presentano nel testo numerose varianti rispetto alla prima, che per la lingua e la maggiore chiarezza di dettato deve ritenersi la più vicina al Biringucci. Dalla dedica alla terza edizione si apprende che l'opera fu "sempre ornata et emendata" dall'arcidiacono raguseo Mario (o Marino) Caboga: a costui, laureato a Padova in diritto, ma privo - almeno a quanto si può desumere dalle sue biografie - delle particolari cognizioni scientifiche che gli attribuisce l'editore, andrebbero dunque addossati i rimaneggiamenti e le alterazioni del testo, in special modo quelli che tradiscono una scarsa dimestichezza con la materia.

La quarta edizione è più dimessa delle precedenti, specie nella parte iconografica (il formato ridotto, la tavola delle cose notabili e l'indicazione della materia in ogni pagina fanno pensare che fosse destinata alla pratica quotidiana); l'edizione bolognese appare condotta sulla quarta e ne ripete anche la modestia formale. Quella critica di Bari, a cura di Aldo Mieli, lascia alquanto a desiderare; interrotta a causa della prima guerra mondiale e non più ripresa, ha per base la prima, ma tiene conto anche delle altre, in particolare della terza e della quinta. Avrebbe dovuto comprendere tre volumi, con un'appendice documentaria.

L'opera ebbe molte traduzioni: in francese, di Jaques Vincent, non troppo fedele, pubblicata tre volte (Paris 1556, e poi 1572, Rouen 1627); di Rieffel (estratto dei libri VI-VII), Paris 1856; in inglese: parziale, Of the generation of metalles and their mynes... by Vannuccius Biringuczius, in The decades of the newe wordle... written in the Latine tongue by Petrus Martyr of Angleria, London 1555; di Cyril S. Smith e Martha T. Gnudi, New York 1942, e nuova edizione, accresciuta nella bibliografia, ibid. 1959; in tedesco: molti passi furono tradotti e incorporati da L. V. Beck nella sua Geschichte des Eisens; di Otto Johannsen, Braunschweig 1925. Si ha anche notizia di due traduzioni latine (Parigi 1572 e Colonia 1658) che non si sono mai rinvenute. La prima è stata forse confusa con la seconda edizione parigina della traduzione francese, che porta la medesima data.






Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Siena,Balìa, reg. 59, c. 102; reg. 64, cc. 53v-54; reg. 73, c. 9; reg. 76, c. 12;

Siena, Biblioteca Civica, E. Romagnoli,Storia dei Bellartisti Senesi, l. II, 1-13; Ibid., S. Tizio,Storie Senesi, B. III, 6-15; B.

Varchi,Sulla verità o falsità dell'Archimia. Questione, Firenze 1827, pp. 19, 63 s.;

Carteggio inedito d'artisti, a cura di G. Gaye, II, Firenze 1840, pp. 157 s.;

Documenti per la storia dell'arte senese, a cura di G. Milanesi, III, Siena 1856, pp. 85, 123-125, 128; B. Varchi,Opere, Trieste 1858, I, p. 219;

Dieci lettere di Senesi illustri dei secc. XV e XVI (nozze Banchi-Brini), Siena 1878; G. Vasari,Le vite..., a cura di G. Milanesi, VI, Firenze 1881, p. 93;

Nuovi documenti per la storia dell'arte senese, a cura di S. Borghesi-L. Banchi, Siena 1898, pp. 472 s.;

G. Agricola,De re metallica, trad. di H.-C. Hoover-L. H. Hoover, London 1912, pp. XXVII, 112, 219-20, 267, 297-98, 402, 410-11, 420, 443, 451, 461-62, 466, 494, 536, 586, 614-15;

I. Ugurgieri Azzolini,Le pompe sanesi, I, Pistoia 1649, p. 664;

T. Garzoni,La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia 1665, pp. 339, 346, 418 ss., 471, 663;

G. Mazzuchelli,Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 1262 s.;

G. Barzelotti,Sugli studi chimico-metallurgici di V. B., in Nuovo giornale dei letterati di Pisa, 1808, n. 25;



L. De Angelis,Biografia degli scrittori sanesi, I, Siena 1824, p. 140;

M. Meyer,Handbuch der Geschichte der FeuerwaffenTechnik, Berlin 1835, p. 30;

F. Hoefer,Histoire de la Chimie, Paris 1843, II, p. 54; G. Libri,Histoire des Sciences Mathématiques en Italie, III, Paris 1841, p. 188;

J. Percy,Metallurgy. Iron and Steel, London 1864, p. 807; Id.,Metallurgy. Silver and Gold, I, London 1880, pp. 23, 303, 317, 347, 368-69, 386-89, 439, 559-62; M. Jaehns,Geschichte der Kriegswissenschaften vornehmlich in Deutschland, München-Leipzig 1889, II, pp. 91-96; L. Beck,Geschichte des Eisens, I, Braunschweig 1891, pp. 836, 910, 943-48; II, ibid. 1893-1895, pp. 33 e passim; III, ibid. 1895, pp. 164, 224, 293, 413, 601-03, 658, 751; R. Caverni,Storia del metodo sperimentale in Italia, Firenze 1893, III, pp. 591 s.; G. Marinelli,Guida della Carnia, Firenze 1898, pp. 453-457; I. Guareschi,V. B. e la chimica termica, in Suppl. annuale alla Encicl. di chimica scient. e industriale, Torino 1904, pp. 417-448; A. Mieli,Sul risveglio del metodo e della pratica sperimentale e sull'opera di V. B., in Gazz. chimica ital., XLIII (1913), 2, pp. 555-562; Id.,La salsedine del mare e V. B., in Rend. dell'Acc. Lincei, XXII (1913), 2, p. 68; Id.,V. B. e il metodo sperimentale, in Isis, I (1914), pp. 90-99; Id., V. B., in La miniera italiana, I (1917), pp. 72-85; E. O. Lippmann,Entstehung und Ausbreitung der Alchemie, Berlin 1919, I, pp. 477, 505, 569, 639; Id.,Beiträge zur Geschichte der Naturwissenschaften und der Technik, I, Berlin 1923, pp. 89, 127, 136, 201; II, ibid. 1953, pp. 202 s., e passim; A. Mieli, V. B., in Scienziati Italiani dall'inizio del Medioevo ai nostri giorni, Roma 1921, I, 1, pp. 20-24; O. Johannsen V. B., in G. Bugge,Das Buch der grossen Chemiker, Berlin 1929, I, pp. 70-84; Id.,Pader Månsson's Glaskunst. Ein Beitrag zur Geschichte der Glastechnik, in Sprechsaal, LXV (1932), pp. 387 s.; C. Montù,Storia della Artiglieria Italiana, Roma 1934, 1, pp. 190, 342, 447, 471, 593, 596 s., 635, 661-67, 910; P. Aloisi,Un precursore ital. dell'arte mineraria: B. V., in Nuova Antologia, 1º dic. 1938, pp. 357-60; G. Provenzal,Profili bio-bibliografici di chimici italiani, Roma 1938, pp. 5-18; E. Malatesta,Armi e armaioli, in Encicl. biografica e bibliografica ital., Milano 1939, pp. 60-61; G. Somigli,L'opera di V. B. senese sulla tecnica della fonderia nel '800, Roma 1939; Id.,L'oeuvre de V. de Sienne sur la technique de la fonderie au XVIe siècle, in Bull. Ass. techn. Fond., 1940, p. 57; Id.,La Pirotechnia,primo trattato di metallurgia e di fonderia in lingua italiana, in Industria meccanica, XXIII (1941), p. 6; M. T. Gnudi-C. S. Smith,Of Typecasting in the Sixteen Century (con la traduzione del cap. settimo del IX libro), Yale 1941; L. Thorndike,A History of magic and experimental Science, V, New York 1941, pp. 7, 543 s.; A. Mieli,Panorama general de Historia de la Ciencia, III,La eclesión del Renacimiento, Buenos Ayres 1951, pp. 190-210; V,La Ciencia del Renacimiento: Matemat. y Cienc. Natur., Buenos Ayres 1952, p. 219; B. Farrington,Francesco Bacone,filosofo dell'età industriale, Torino 1952, pp. 19-21, 32-33, 79; W. C. Dampier,Storia della Scienza, Torino 1953, pp. 198-99; O. Johannsen,Geschichte der Eisens, Düsseldorf 1953, pp. 84 s., 179, 197-200, 206, 220, 355; A. R. Hall,The Scientific Revolution 1500-1800, London 1954, pp. 70, 221 s.; M. Bargalló,La minera y la metalurgia en la América española durante la época colonial, Mexico-Buenos Aires 1955, pp. 109-113; J. Ferguson,Biographical Notes on Histories of Inventions and Books of secrets, London 1959, I, pp. 12, 20 s., 21 e Suppl.; A. C. Crombie,Histoire des Sciences de s. Augustin à Galilée, Paris 1959, pp. 119, 156, 193, 197, 313, 458; P. Rossi, I filosofi e le macchine (1400-1700), Milano 1962, pp. 25, 49-53, 129, 137; C. Singer-E. I. Holmyard-A. Rupert Hall-T. I. Williams,Storia della tecnologia, Torino 1963, III, pp. 29, 32, 37, 39-47, 51-54, 56-59, 63, 66, 70, 218-19, 371-76, 399-400.

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Agricola ‹-ì-› (latinizzaz. di Bauer), Georg. - Filologo, medico e metallurgista tedesco (Glauchau 1494 - Chemnitz 1555). Studiò a Bologna e Padova, addottorandosi in filosofia e in medicina. Medico nella città mineraria di Joachimsthal e quindi (dal 1533) a Chemnitz, si dedicò allo studio dei minerali ...
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www.grappa.com/ita/biblioteca_det..../categoria=1810

https://it.wikipedia.org/wiki/Torbern_Olof_Bergman

www.arcangea.it/linee-dedicate/i-s...a-di-paracelso/


https://it.wikipedia.org/wiki/Azoth

https://it.wikipedia.org/wiki/Paracelso

https://ilblogdellasci.wordpress.com/tag/francesco-selmi/










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https://en.wikipedia.org/wiki/Ulrich_R%C3%BClein_von_Calw

https://mineralogicalrecord.com/new_biobib...on-calw-ulrich/


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https://en.wikipedia.org/wiki/Lazarus_Ercker



Chimico, metallurgista (Annaberg, Sassonia, 1530 circa - Praga 1594). Per le sue conoscenze di metallurgia ebbe importanti incarichi, in partic. nel settore minerario e in quello del conio delle monete. La sua opera principale, Beschreibung allerfürnemisten mineralischen Ertzt, pubblicata a Praga nel 1574, ebbe una fortuna non inferiore al De re metallica di G. Agricola (venne riedita quattro volte nel giro di mezzo secolo e, nel 1683, fu tradotta in inglese); si tratta di una sistematica rassegna dei metodi per analizzare minerali, ricavare e raffinare i metalli, ottenere acidi, sali e altri composti, che può essere considerata un primo manuale scientifico di metallurgia e delle sue applicazioni.




In termini generali sostanza dotata di sapore acre (come quello dell’aceto, del succo di limone ecc.), capace di attaccare i metalli (e alcuni loro ossidi) e in grado di reagire con altre sostanze, dette basi, dando luogo a sali. In particolare gli a. inorganici minerali sono formati da idrogeno legato a un non metallo ( idracidi; per es. acido cloridrico), o dall’idrogeno legato a un gruppo atomico, in grado di dar luogo a un anione, che nei casi più comuni ( ossoacidi o ossiacidi; per es. acido solforico) comprende uno o più atomi di ossigeno (per gli acidi organici ➔ carbossilici, acidi).


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Marchus Graecus - Liber ignium -





Testo latino e traduzione in lingua italiana


Il manoscritto che contiene il “Liber ignium ad comburendos hostes” e recante come autore un certo “Marchus Graecus” (o Marcus Graecus o Marco Greco) , era noto agli alchimisti medievali e si ritrova riportato in molti codici a partire dal 1400. La prima pubblicazione da parte di uno studioso avvenne nel 1804 a cura di La Porte de Theil che lo aveva trovato nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Essendo brevissimo non ha mai avuto vita autonoma, ma è sempre stato inserito in raccolte di altri scritti.


Non vi sono elementi per affermare che Marcus Graecus (senza la h nella trascrizione ufficiale) sia veramente esistito.


Il testo tramandatoci è in latino, ma non vi è dubbio, in base alle caratteristiche linguistiche, che si tratti di una traduzione da un testo greco il quale a sua volta si era ispirato a fonti arabe. Sono state rinvenute almeno tre versioni del testo latino con varianti in alcune parole, o per errore del copista o perché il termine usato nell’originale era incomprensibile per il copista. Vi è una traduzione in lingua tedesca della metà del 1400, attribuibile a Hans Hartlieb.
Si rinvengono corrispondenze di frasi con il testo De mirabilibus di Alberto Magno e con i testi di Bacone in cui si parla della polvere da sparo (Epistola e Opus Maius). Si suppone che il Liber ignum sia solo un estratto da un’opera più ampia e che Alberto e Bacone abbiano utilizzato quest’ultima.
Ferdinand Hoefer nella sua Historie de la Chimie del 1842 aveva affermato che Marco Greco era citato nel testo di erboristeria De Semplicibus di Mesuë, medico del califfo Mamun (818-840, pubblicato a Venezia in latino nel 1581; concludeva pertanto che lo scritto fosse anteriore a tale periodo. Da un esame del testo del Mesuë si scopre però che egli cita solo delle ricette di “un greco”, ben identificabile come Dioscoride.


Quindi l’unica affermazione sicura che si può fare è che il testo è di qualche decennio anteriore al 1267, anno in cui lo conoscevano Alberto e Bacone.
Le ricette contenute nel manoscritto sono l’espressione tipica della cultura medievale in cui non era importante sperimentare e provare, ma che qualcuno avesse scritto qualche cosa da citare.


Per noi moderni il problema del fuoco come arma è divenuto irrilevante perché siamo circondati da sostanze altamente infiammabili e con un basso punto di accensione. Nell’antichità queste erano pressoché sconosciute. Lo zolfo e la colofonia si accendono con difficoltà e richiedono 190°, il salnitro mescolato con sostanze combustibile richiede 300° e in pratica l’unico prodotto utilizzabile era la trementina che si accende a 50° . Erano conosciuti altri oli eterei di incerte proprietà. Ricordiamoci che la distillazione era nota già agli arabi, ma che raggiunse una certe perfezione solo verso il 1200 e che gli oli eterei evaporano facilmente e quindi non si prestato per miscele incendiarie destinate a durare nel tempo.
Ciò significa che tutte le ricette di composti autoinfiammabili sono mere fantasie. In quasi tutti si cerca di trar profitto dal riscaldamento della calce viva a contatto con l’acqua, ma purtroppo la calce non sviluppa più di 150° e quindi non potrebbe incendiare neppure un foglio di carta; a parte il fatto che l’acqua bagna anche la sostanza che dovrebbe prendere fuoco! Unica possibilità, forse utilizzata dai bizantini, era quella di impiegare petrolio, alquanto raro in occidente.

La pochezza delle ricette si vede anche da quelle in cui una modesta e ipotetica fosforescenza di sostanze organiche viene presentata come una magica fonte di luce.

Stranamente le ricette più realistiche sono proprio quelle dove si parla della polvere da sparo e quindi il testo è sicuramente utile per la sua storia. È il primo documento occidentale in cui si parla con chiarezza di una polvere da sparo sufficiente per usi pirotecnici.
Ritengo perciò utile riportalo qui integralmente, accompagnato da una mia traduzione. Non mi consta che ne esistano altre, salvo quella parziale di Hoefer.
La mia traduzione è puramente orientativa perché il testo è di difficile comprensione e infarcito di termini oscuri che non compaiono né dei dizionari del latino classico né nel Glossarium mediae et infimae latinitatis del Du Cange. Chiedo quindi venia per gli inevitabili errori.
Il testo utilizzato è quello parigino.


Incipit liber ignium a Marco Graeco descriptus, cuius virtus et efficacia ad comburendos hostes tam in mari quam in terra plurimum efficax reperitur; quorum primus hic est.

Recipe sandaracae purae libram I, armoniaci liquidi ana. Haec simul pista et in vase fictili vitreato et luto sapientiae diligenter obturato deinde donec liquescat, ignis supponatur. Liquoris vero istius haec sunt signa, ut ligno intromisso per foramen ad modum butyri videatur. Postea vero IV libras de alkitran graeco infundas. Haec autem sub tecto fieri prohibeantur, quum periculum immineret. Cum autem in mari ex ipso operari volueris, de pelle caprina accipies utrem, et in ipsum de hoc oleo libras II intromittas. Si hostes prope fuerint, intromittes minus, si vero remoti fuerint, plus mittes. Postea vero utrem ad veru ferreum ligabis, lignum adversus veru grossitudinem faciens. Ipsum veru inferius sepo perungues, lignum praedictum in ripa succendes, et sub utre locabis. Tunc vero oleum sub veru et super lignum destillans accensum super aquas discurret, et quidquid obviam fuerit, concremabit.



Inizia il libro di Marco Greco in cui si trovano molte efficaci indicazioni su come bruciare i nemici per mare e per terra; questa è la prima.
Prendere una libbra di sandracca pura e altrettanto liquido ammoniacale (1) Fatene una pasta che scalderete in un vaso di terra cotta vetrificato e chiuso ermeticamente con luto di saggezza (2) tenendolo sul fuoco fino a che si scioglie. La consistenza giusta si ha quando introducendo una bacchetta di legno attraverso un buco, il liquido appare come il burro. Dopo di ciò aggiungere 4 libbre di pece liquida. Si eviti di fare ciò entro una casa perché è cosa pericolosa. Se si vuole fare ciò in mare, si prenda un otre di pelle di capra e si riempia con due libbre di questo olio. Se il nemico è vicino, mettine meno, se è lontano di più. Poi si lega l’otre ad uno spiedo di ferro infilato in una robusta tavola di legno. Il legno va unto in fondo con grasso che poi viene acceso e che viene posto sotto l’otre. Allora l’olio che gocciola sul ferro e sul legno infiammati si accende e brucia tutto ciò che incontra.

Et sequitur alia species ignis quae comburit domos inimicorum in montibus sitas, aut in aliis locis, si libet. Recipe balsami sive petrolei libram I, medulae cannae ferulae libras sex, sulphuris libram I, pinguedinis arietinae liquefactae libram I, et oleum terebenthinae sive de lateribus vel anethorum. Omnibus his collectis sagittam quadrifidam faciens de confectione praedicta replebis. Igne autem intus reposito, in aerem cum arcu emittes; ibi enim sepo liquefacto et confectione succensa, quocumque loco cecidit, comburet illum; et si aqua superiecta fuerit, augmentabitur flamma ignis.



Segue poi un’alto tipo di fuoco per bruciare le case dei nemici sui monti o altrove.
Prendi una libbra di balsamo o di petrolio, sei libbre di midollo di canna, una libbra di zolfo, una libbra di grasso di montone fuso e olio di terebinto o di (lateribus ?) o di aneti.
Si mescolano assieme e vi si intinge una freccia a quattro teste e dopo averla accesa la lanci con l’arco; qualunque luogo in cui cade la miscela accesa, viene bruciato; e se vi si getta acqua sopra, si aumentano le fiamme.

Alius modus ignis ad comburendos hostes ubique sitos. Recipe balsamum, oleum Aethiopiae, alkitran et oleum sulphuris. Haec quidem omnia in vase fictili reposita in fimo diebus XV subfodias. Quo inde extracto, corvos eodem perunguens ad hostilia loca sive tentoria destinabis. Oriente enim sole, ubicumque illud liquefactum fuerit, accendetur. Unde semper ante solis ortum aut post occasum ipsius praecipimus esse mittendos.



Altro modo per bruciare i nemici in ogni luogo. Prendi del balsamo, olio di Etiopia(3), pece e olio sulfureo. Metterli assieme in un vaso di terracotta e lasciarlo riposare per 15 giorni sotto del concime. Poi si toglie fuori e ne ungerai dei corvi da mandare verso i luoghi dei nemici o loro accampamenti.
La sostanza, comunque riscaldata dal sole, si accenderà. Perciò dovranno essere lasciati solo prima del sorgere del sole o dopo il suo tramonto.

Oleum vero sulphuris sic fit. Recipe sulphuris uncias quattuor, quibus in marmoreo lapide contritis et in pulverem redactis, oleum iuniperi quattuor uncias admisces et in caldario pone, ut, lento igne supposito, destillare incipiat.
Modus autem ad idem. Recipe sulphuris splendidi quattuor uncias, vitella ovorum quinquaginta unum contrita, et in patella ferrea lento igne coquantur; et quum ardere inceperit, in altera parte patellae declinans, quod liquidius enfanabit, ipsum est quod quaeris, oleum scilicet sulphuricum.



L’olio di zolfo si fa in questo modo. Prendi quattro once di zolfo che polverizzi in un mortaio di marmo; aggiungi e mescolalo con 4 once di olio di ginepro, mettilo in una caldaia su fuoco lento e fallo distillare.
Altro modo per la stessa cosa. Prendi 4 once di zolfo purissimo tritato con 51 rossi d’uovo e fai cuocere lentamente in una pentola larga di ferro; quando comuncia a bruciare fai colare fuori dalla pentola il liquido che si è formato; ciò è quello che cerchi e che si chiama olio sulfureo.

Sequitur alia species ignis, cum qua, si opus, subeas hostiles domus vicinas. Recipe alkitran, boni olei ovorum, sulphuris quod leviter frangitur ana unciam unam. Quae quidem omnia commisceantur. Pista et ad prunas appone. Quum autem commixta fuerint, ad collectionem totius confectionis quartam partem cerae novae adicies, ut in modum cataplasmatis convertatur. Quum autem operari volueris, vesicam bovis vento repletam accipias, et foramen in ea faciens cera supposita ipsam obturabis. Vesica tali praescripta saepissime oleo peruncta cum ligno marrubii, quod ad haec invenietur aptius, accenso ac simul imposito, foramen aperies; ea enim semel accensa et a filtro quo involuta fuerit extracta, in ventosa nocte sub lecto vel tecto inimici tui supponatur. Quocumque enim ventus eam sufflaverit, quidquid propinquum fuerit, comburetur; et si aqua proiecta fuerit, letales procreabit flammas.



Altro metodo per bruciare le case vicine dei nemici. Prendi pece liqida, del buon olio di uova, zolfo tritato; un’oncia di ciascuno. Mescola tutto assieme e metti sulla brage.
Quando saranno ben mescolate aggiungi la quarte parte di cera fresca in modo da ottenere una specie di cataplasma. Per utilizzarlo prendi una vescica di bue piena di aria, falle un buco e chiudilo con un po’ di cera. Quella vescica, unta ripetutamente con l’olio ottenuto, viene poi accesa con legno di marrubio che è il più adatto, aprendo il foro quando serve. Essa, una volta accesa, e che viene tolta dal suo involucro, va infilata in una notte ventosa sotto il letto od il tetto del tuo nemico. Quando il vento la investe, brucia ogni cosa vicina; e se si getta acqua si creano fiamme mortali.

Sub pacis namque specie missis nunciis, ad loca hostilia bacleos gerentes excavos hac materia repletos et confectione, qui iam prope hostes fuerint, quo fungebuntur ignem iam per domos et vias fundentes. Dum calor solis supervenerit, omnia incendio comburentur. Recipe sandaracae Horatactinae (?) libram I; in vase vero fictili, ore concluso, liquescat. Quum autem liquefacta fuerint, medietatem librae olei lini et sulphuris superadjicies. Quae quidem omnia in eodem vase tribus mensibus in fimo ovino reponantur, verumtamen fimum ter in mense renovando.



Con la scusa di inviare nei luoghi del nemico messi per trattare la pace, portino essi del bastoni cavi rimpiti con la miscela che segue e che, giunti dal nemico, lo versino per le case e le strade. Quando giunge il calore del sole
un incendio le brucerà tutte.
Prendi uan libbra di sandracca horatacnina (?) e fallo sciogliere in un vaso chiuso. Poi aggiungi mezza libra di olio di lino e zolfo. Si metta il vaso nel letame di pecora per tre mesi, rinnovando il letame tre volte al mese.

Ignis quem invenit Aristoteles quum cum Alexandro ad obscura loca iter ageret, volens in eo per mensem fieri id quod sol in anno praeparat. Ut in spera de aurichalco, recipe aeris rubicundi libram I, stanni et plumbi, limaturae ferri, singulorum medietatem librae. Quibus pariter liquefactis, ad modum astrolabii lamina formetur lata et rotunda. Ipsam eodem igne perunctam X diebus siccabis, duodecies iterando; per annum namque integrum ignis idem succensus nullatenus deficiet. Quae enim inunctio ultra annum durabit. Si vero locum quempiam inunguere libeat, eo desiccato, scintilla quaelibet diffusa ardebit continue, nec aqua extingui poterit. Et haec est praedicti ignis compositio: Recipe alkitran colophonii, sulphuris crocei, olei ovorum sulphurici; sulphur in marmore teratur. Quo facto universum oleum superponas. Deinde tectoris limaginem ad omne pondus acceptam insimul pista et inungue.



Fuoco inventato da Aristotele in viaggio con Alessandro per luoghi sconosciuti al fine di fare in un mese ciò che il sole fa in un anno. Come per fare una sfera di auricalco prendi una libbra di rame rosso e mezza libbra ciascuno di stagno, piombo e limatura di ferro. Si facciano fondere e si formi una lamina a forma di astrolabio, piatta e rotonda, Farai seccare la stessa unta con il fuoco per dieci giorni e poi per altri dodici; e per un intero anno non verrà meno il fuoco acceso in essa. In basae al periodo di unzione durerà anche oltre un anno. Se poi un qualunque luogo viene unto con la sostanza che poi secca, essa si incendia con una scintilla senza fermarsi e neppure l’acqua lo può spegnere. E questa è la composizione di tale fuoco: prendi una libra di pece liquida, una di zolfo giallo, di olio di uovo sulfureo; si polverizzi lo zolfo nel mortaio e vi si versi sopra tutto l’olio. Prendi poi polvere di intonaco(4) per lo stesso speso, pestala e ungila.

Sequitur alia species ignis, quo Aristoteles domos in montibus sitas destruere incendio ait, ut et mons ipse subsideret. Recipe balsami libram I, alkitran libras V, oleum ovorum et calcis non extinctae libras X. Calcem teras cum oleo donec una fiat massa, deinde inunguas lapides ex ipso et herbas ac renascentias quaslibet in diebus canicularibus, et sub fimo eiusdem regionis subfossa dimittes; postea namque autumnalis pluviae dilapsu succenditur. Terram et indigenas comburit igne Aristoteles, namque hunc ignem annis IX durare asserit.



Segue un altro tipo di fuoco che secondo Aristotele distrugge le case sui monti e farebbe franare lo stesso monte. Prendi una libbra di balsamo, 5 libbre di pece liquida, 10 libbre di calce viva e di olio di uova. Impasta la calce con l’olio e con il composto sfrega nel tempo della canicola le pietre e le erbe che poi nasconderai sotto il concime della zona interessata; la pioggia dell’autunno le incendierà. Col fuoco di Aristotele si bruciano la terra e i suoi abitanti e secondo Aristotele il fuoco dura 9 anni (5).

Compositio inextinguibilis facilis et experta. Accipe sulphur vivum, colophonium, asphaltum classam, tartarum, piculam navalem, fimum ovinum aut columbinum. Haec pulverisa subtiliter petroleo; postea in ampulla reponendo vitrea, orificio bene clauso per dies XV in fimo calido equino subhumetur, extracta vero ampulla destillabis oleum in cucurbita lento igne ac cinere me-diante calidissima ac subtili. In quo si bombax intincta fuerit ac incensa, omnia super quae arcu vel ballista proiecta fuerit incendio concremabit.



Composizione che non si spegne e pratica. Prendi zolfo vivo (11), colofonia, asfalto classam (?) tartaro, pece per barche, sterco di pecora o di piccione. Polverizza tutto e mettilo nel petrolio. Chiudilo in una ampolla di vetro ben sigillata e mettilo per giorni 15 nel concime caldo di cavallo. Distilla poi l’olio a fuoco molto lento e nella cenere. Se si imbeve il cotone con questo liquido tutto ciò su cui viene lanciato con l’arco o con la balista, si incendia.

Nota quod omnis ignis inextinguibilis IV rebus extingui vel suffocari poterit, videlicet cum aceto acuto aut cum urina antiqua vel arena, sive filtro ter in aceto imbibito et toties desiccato ignem iam dictum suffocas.



Nota che ogni fuoco inestinguibile può essere spento o soffocato con quattro cose: con aceto forte o con orina vecchia o con sabbia oppure con un feltro imbevuto nell’aceto più volte dopo averlo fatto essiccare ogni volta.

Nota quod ignis volatilis in aere duplex est compositio; quorum primus est: Recipe partem unam colophonii et tantum sulphuris vivi, II partes vero salis petrosi et in oleo linoso vel lamii, quod est melius, dissolvantur bene pulverisata et oleo liquefacta. Postea in canna vel ligno excavo reponatur et accendatur. Evolat enim subito ad quemcumque locum volueris, et omnia incendio concremabit.



Nota che la composizione del fuoco volante può essere fatta in due maniere. Per la prima prendi una parte di colofonia e altrettanto di zolfo vivo, due parti di salnitro; sciogli il tutto in olio di lino o, ancor meglio, in olio di lamio. Poi si metta in una canna o in tubo di legno e si accenda. Essa vola in qualunque posto tu vorrai e brucia tutto.

Secundus modus ignis volatilis hoc modo conficitur: Accipias libram I sulphuris vivi, libras duas carbonum vitis vel salicis, VI libras salis petrosi. Quae tria subtilissima terantur in lapide marmoreo. Postea pulvis ad libitum in tunica reponatur volatili vel tonitrum faciente. Nota, quod tunica ad volandum debet esse gracilis et longa et cum praedicto pulvere optime conculcato repleta. Tunica vero tonitrum faciens debet esse brevis et grossa et praedicto pulvere semiplena et ab utraque parte fortissime filo ferreo bene ligata. Nota, quod in tali tunica parvum foramen faciendum est, ut tenta im-posita accendatur; quae tenta in extremitatibus sit graciiis, in medio vero lata et praedicto pulvere repleta. Nota quod, quae ad volandum tunica, plicaturas ad libitum habere potest; tonitrum vero faciens, quam plurimas plicaturas. Nota, quod duplex poteris facere tonitrum atque duplex volatile instrumentum, videlicet tunicam includendo.



Il secondo modo per fare il fuoco volante è il seguente. Prendio una libbra di zolfo naturale, due libbre di carbone di legno di vite o di salice, quattro libre di salnitro. Pestare le tre sostanze in un mortaio in modo da ridurle in polvere finissima. Dopo si mette la quantità desiderata di polvere in un involucro per fare un fuoco volante o tonante. Notare che l’involucro per il fuoco volante deve essere sottile e lungo e riempito con la polvere ben compressa. Invece l’involucro per il fuoco tonante deve essere corto e spesso, ripieno per metà con la polvere e ben legato alle due estremità con robusto filo di ferro. Notare che in entrambi gli involucri deve essere fatto un piccolo foro per poter accendervi la miccia; la quale sia sottile alle estremità e nel corpo più grossa e ripiena della stessa polvere.
Nota ancora che l’involucro del fuoco volante può avere molte pieghe; quello tonante ancora di più. Nota che si possono fare fuochi tonanti o volanti a due colpi inserendo due involucri l’uno dentro l’altro.

Nota quod sal petrosum est minera terrae et reperitur in scopulis et lapidibus. Haec terra dissolvatur in aqua bulliente, postea depurata et destillata per filtrum permittatur per diem et noctem integram decoqui; et invenies in fundo laminas salis congelatas cristallinas.



Nota che il salnitro si cava dalla terra e si trova nelle rocce e nei sassi. Questo minerale si scioglie in acqua bollente; poi si fa passare la soluzione per un filtro e si fa raffreddare per un giorno e una notte; così troverai sul fondo il sale congelato in forma di lamelle cristialline (6).

Candela quae, si semel accensa fuerit, non amplius extinguitur. Si vero aqua irrigata fuerit, maius parabit incendium. Formetur sphaera de aere Italico, deinde accipies calcis vivae partem unam, galbani mediam et cum felle testudinis ad pondus galbani sumpto conficies; postea cantharides quot volueris accipies, capitibus et alis abscisis, cum aequali parte olei zambac, teras et in vase fictili reposita, XI diebus sub fimo equino reponantur, de quinto in quintum diem fimum renovando. Sic olei foetidi et crocei spiritum assument, de quo sphaeram illinias; qua siccata, sepo inunguatur, post igne accendatur.



Candela che una volta accesa non si può più spegnere. Ed anzi se viene bagnata con acqua provoca un fuoco maggiore. Si prepari una sfera di rame italico e poi una parte di calce viva, mezza parte di estratto di ferula (galbani) e di fiele di tartaruga; aggiungi poi a volontà cantaridi prive di teste ed ali con egual parte di olio di giglio, ben tritate e riposte in un vaso di terracotta; poi si metta per 11 giorni sotto concime di cavallo, cambiando questo ogni 5 giorni. Si ottiene così un olio fetido e giallo con cui ungerai la sfera; quando è secco si unge di nuovo con il grasso e poi si accende.

Alia candela que continuum praestat incendium. Vermes noctilucas cum oleo zambac puro teres et in rotunda ponas vitrea, orificio lutato cera graeca et sale combusto bene recluso et in fimo, ut iam dictum est, equino reponenda. Quo soluto, sphaeram de ferro Indico vel aurichalco undique cum penna illinias; quae bis inuncta et dessiccata igne succendatur et nunquam deficiet. Si vero attingit pluvia, maius praestat incendii incrementum.



Altra candela che provoca un incendio continuato. Mescola vermi luminosi con olio di giglio e mettilo in vaso rotondo di vetro con l’imboccatura sigillata con cera greca, sale usto e mettila poi, come già detto nel concime di cavallo. Apertolo ungerai con essa una sfera di ferro indiano o di auricalco. Una volta che sarà ben secca, se viene accesa non si spegne più. Se viene bagnata dalla pioggia, il fuoco aumenta.

Alia quae semel incensa dat lumen diuturnum. Recipe noctilucas quum incipiunt volare, et cum aequali parte olei zambac commixta, XIV diebus sub fimo fodias equino. Quo inde. extracto, ad quartam partem istius assumas felles testudinis ad sex felles mustelae, ad medietatem fellis furonis in fimo repone, ut iam dictum est. Deinde exhibe in quolibet vase lichnum cuiuscumque generis, pone de ligno aut latone vel ferro vel aere; ea tandem hoc oleo peruncta et accensa diuturnum praestat incendium. Haec autem opera prodigiosa et admiranda Hermes et Ptolemaeus asserunt.



Un’altra che una volta accesa dà luce per giorni. Prendi delle lucciole che inizino a volare, mescola con una egual parte di olio di giglio e lascialo per 14 giorni sotto il concime di cavallo. Dopo averlo tolto aggiungi alla quarta parte di essi fieli di tartarughe ad un sesto fieli di donnola, alla metà fiele di furetto e poi rimettila nel concime come già detto. Mettila poi un qualunque stoppino in un vaso di legno o di pietra (?) o di ferro o di rame. Questa, unta con tale olio fa luce per giorni. Questo effetto miracoloso viene asserito da Hermes e da Tolomeo

Hoc autem genus candelae neque in domo clausa nec aperta neque in aqua extingui poterit. Quod est: Recipe fel testudinis, fel marini leporis sive lupi aquatici de cuius felle tyriaca. Quibus insimul collectis quadrupliciter noctilucarum capitibus ac alis praecisis adicies; totumque in vase plumbeo vel vitreo repositum in fimo subfodias equino, ut dictum est; quod extractum oleum recipias. Verum tum cum aequali parte praedictorum fellium et aequali noctilucarum admiscens, sub fimo XI diebus subfodias per singulares hebdomades fimum renovando. Quo iam extracto de radice herbae que cyrogaleonis (?) et noctilucis pabulum factum, ex hoc liquore medium superfundas; quod si volueris, omnia repone in vase vitreo et eodem ordine fit. Quolibet enim loco repositum fuerit, continuum praestat incendium.



Questo altro tipo di candela non può essere spenta né al chiuso né all’apertto né nell’acqua. Prendi fiele di tartaruga, fiele di lepre marina o di lupo acquatico dal cui fiele si fa la theriaca.
Mettili assieme e unisci quattro volte tante di lucciole a cui avrai tolto la testa e le ali; mettili in un vaso di piombo o di vetro e poi nel concime di vavallo come detto. Raccoglio l’olio ricavato. Oppure anche detti fieli in parti eguali con le lucciole, nel concime per 11 giorni, cambiando il concime ogni settimana. Prenderai poi dell’estratto di radice dell’erba su cui pascolano cyro galeoni e lucciole e aggiungene metà parte al liquido ottenuto; che poi se vorrai potrai mettere in un vaso e tenere pronto. In qualunque luogo viene riposto, provoca un fuoco continuo.

Candela quae in domo relucet ut argentum: Recipe lacertam nigram vel viridem, cujus caudam amputa et dessicca; nam in cauda ejus argenti vivi silicem reperies. Deinde quodcumque lichnum in illo illinitum ac involutum in lampade locabis vitrea aut ferrea, quae accensa mox domus argenteum induet colorem, et quicumque in domo illa erit, ad modum argenti relucebit.


Candela che in casa riluce come l’argento. Prendi una lucertola nera e una verde; taglia loro la coda e falla seccare; infatti nella loro coda trovi pietra di argento vivo. Qualunque stoppino unto o spalmato con tale sostanza metterai in una lucerna di vetro o di ferro, una volta acceso darà colore di argento alla casa e chi è entro la casa rilucerà come l’argento.

Ut domus quaelibet viridem induat colorem et aviculae coloris eiusdem volent: Recipe cerebrum aviculae in panno involvens tentam et baculum, inde faciens vel pabulum in lampade viridi novo oleo olivarum accendatur.



Come fare apparire verde ogni casa e gli uccelli che volano di qualunque colore. Prendi cervello di uccello e avvolgilo in un panno ….. ……
e poi facendo … si accenda con olio nuovo di oliva.

Ut ignem manibus gestare possis sine ulla laesione: Cum aqua fabarum calida calx dissolvatur, modicum terrae Messinae, postea parum malvae visci adicies. Quibus simul commixtis palmam illinias et desiccari permittas.



Come si può maneggiare il fuoco con le mani senza ferirsi. Si sciolga della calce con acqua di fave calda e poi aggiungi un po’ di terra di Messina e poi un po’ di resina di malva. Con le quali cose mescolate, impiastri il palmo della mano e lasci seccare.

Ut aliquis sine laesione comburi videatur: Alceam cum albumine ovorum conjice, et corpus perungue, et dessiccari permitte. Deinde coque cum vitellis ovorum iteram, commisceas terendo super pannum lineum. Postea sulphur pulverizatum superaspergens accende.



Come si può dar fuoco a qualche cosa senza danno. Sbattere alcéa (malva) con bianco d’uova e ungi con ciò il corpo lasciando seccare. Poi cuoci ancora con rosso d’uovo e mescola imbevendo un panno di lino. Poi spargi sopra dello zolfo polverizzato e accendilo (e il panno non brucerà)

Candela quae, quum aliquis in manibus apertis tenuerit, cito extinguitur; si vero clausis, ignis subito renitebitur. Et haec millies, si vis, poteris facere. Recipe nucem Indicam vel castaneam, eam aqua camphorae conficias, et manus cum eo inungue, et fiet confestim.


Candela che quando viene tenuta da qualcuno nelle mani aperte si spegne; se si chiudono subito ritorna il fuoco. E questo lo puoi fare anche mille volte. Prendi una noce indica o di castagno e macinala con acqua di canfora e ungi con ciò le mani; avverrà quanto detto.

Confectio visci est cum si aqua proiecta fuerit, accendetur ex toto. Recipe calcem vivam, eamque cum modico gummi arabici et oleo in vase candido cum sulphure confice; ex quo factum viscum et aqua aspersa accendetur. Hac vero confectione domus quaelibet adveniente pluvia accendetur.



Massa vischiosa che bagnata si accende tutta. Prendi calce viva con un po di gomma arabica e mescolali in un vaso con zolfo bianco; ciò, bagnato con acqua, si accende. Con questo prodotto si può incendiare qualsiasi casa quando arriva la pioggia.

Lapis qui dicitur petra solis, in domo locandus et appositus lapidi qui dicitur albacarimum. Lapis quidem niger est et rotundus, candidas vero habens notas, ex quo vero lux solaris serenissimus procedit radius. Quem si in domo dimiseris, non minor quam ex candelis cereis splendor procedit. Hic in loco sublimi positus et aqua compositus relucet valde.


Una pietra che viene detta pietra del sole collocata in casa e poggiata alla pietra che viene detta albacarimum (7). Il quale è una pietra nera con delle macchie bianche e da cui scaturisce un chiarissimo raggio di luce solare. Se la metti entro casa ne esce uno splendore non minore di quello di una candela di cera. Messo in alto e bagnato con acqua riluce ancora di più.

Ignem Graecum tali modo facies: Recipe sulphur vivum, tartarum, sarcocollam et picem, sal coctum, oleum petroleum et oleum gemmae. Facias bullire invicem omnia ista bene. Postea impone stuppam et accende, quod si volueris exhibere per embotum ut supra diximus. Stuppa illinita non extinguetur, nisi urina vel aceto vel arena.




Farai il fuoco greco in tal modo: prendi zolfo naturale, tartaro, sarcocolla (8), pece, sale cotto dall’acqua, petrolio e olio di gomma. Fai bollire tutto assieme. Poi immergivi la stoppa e accendila; se vuoi puoi gettarla con uno stantuffo, come detto sopra. La stoppa accesa si spegne solo con orina, aceto o sabbia. (9)

Aquam ardentem sic facies: Recipe vinum nigrum spissum et vetus et in una quarta ipsius distemperabuntur uuciae II sulphuris vivi subtilissime pulverisati, lib. II tartari extracti a bono vino albo, unciae II salis communis; et subdita ponas in cucurbita bene plumbata et alambico supposito destillabis aquam ardentem quam servare debes in vase clauso vitreo.


Come si fa l’acqua ardente. Prendi vino rosso denso e vecchio e in un quarto di esso stempera 2 once di zolfo naturale finemente poverizzato, 2 libbre di tartaro estratto da buon vino, due once di sale; metti tutto ciò in una caldaia ben sigillata e messovi sopra l’alambicco distillerai l’acqua ardente che devi conservare in un vaso di vetro chiuso

Experimentum mirabile quod facit homines ire in igne sine laesione vel etiam portare ignem vel ferrum calidum in manu. Recipe succum bimalvae et albumen ovi et semen psillii et calcem et pulverisa; et confice cum albumine, succis raphani et commisce, et ex hac commixtione illinias corpus tuum et manum et dessiccare permitte, et post iterum illinias et tunc poteris audacter sustinere sine nocumento. Si autem velis ut videatur comburi, tunc accenditur sulphur, nec nocebit ei.


Esperimento mirabile di come un uomo può camminare nel fuoco o portare fuoco o un ferro rovente in mano senza ferirsi. Prendi del succo di bimalva, albume di uovo, seme di psilio, calce e polverizza; e aggiungi albume, succo di rafano e mescola e con questa composizione imbratta il tuo corpo o la mano e lasciala seccare; ripeti l’operazione e poi potrai affrontare il fuoco senza danno. Se poi vuoi dare l’impressione che egli bruci, allora dai fuoco allo zolfo ed egli non ne avrà danno.

Candela accensa quae tantam reddit flammam quae crines vel vestes tenentes eam comburit. Recipe terebenthinam et destilla per alambicum aquam ardentem, quam impones in vino cui applicatur candela et ardebit ipsa. Recipe colophonium et picem subtilissime tritam et ibi cum tunica proicies in ignem vel in flammam candelae.


Una candela accesa che produce una fiammata che brucia i capelli e le vesti. Prendi terebentina e distilla con l’alambicco acqua ardente che poi metti sul vino a cui viene applicata una candela che arderà. Prendi colofonio e pece sottilmente tritate e con un involucro proiettali sul fuoco o sulla fiamma della candela (10)..

Ignis volantis in aere triplex est compositio. Quorum primus fit de sale petroso et sulphure et oleo lini; quibus tritis, distemperatis et in canna positis et accensis, poterit in aerem sufflari.


Tre sono le composizioni per il fuoco volante. La prima è formata da salnitro e zolfo e olio di lino molto ben tritati, mescolati e posti in una canna; dopo averli accesi potrai soffiarli nell’aria.

Alius ignis volans in aere fit ex sale petroso et sulphure vivo et ex carbonibus vitis vel salicis; quibus mixtis et in tenta de papiro facta positis et accensis, mox in aerem volat. Et nota, quod respectu sulphuris debes ponere tres partes de carbonibus, et respectu carbonum, tres partes salpetrae.


Un altro fuoco volante nell’aria si fa con salnitro, zolfo naturale, carbone di vite o di salice; i quali mescolati e messi in un pezzo di papiro steso e poi acceso, subito vola in aria. Nota che rispetto allo zolfo ci vogliono tre parti di carbone e che rispetto al carbone ci vogliono tre parti di salnitro.

Carbunculum gemmae lumen praestantem sic facies: Recipe noctilucas quam plurimas, ipsas conteras in ampulla vitrea et in fimo equino calido sepelias et permorari permittas per XV dies. Postea ipsas remotas destillabis per alembicum et ipsam aquam in cristallo reponas concavo.



Per imitare la luce di una pietra preziosa fai in questo modo : prendi molte lucciole, sminuzzale in una ampolla di vetro e mettile sepolte sotto concime di cavallo caldo. Poi distillerai con l’alambicco e metterai il liquido in un cristallo concavo.

Candela durabilis maxime ingeniosa fit. Fiat archa plumbea vel aenea omnino plena intus et in fundo locetur canale gracile tendens ad candelabrum, et praestabit lumen continuum oleo durante.



Si può fare una ingegnosa candela che brucia a lungo. Si prenda un recipente di piombo o di rame ben pieno (di olio) e sul fondo si metta un sottile canale che va fino al candelabro, così che farà luce fino a che dura l’olio.

Explicit liber ignium.


Fine del libro dei fuochi

1) Non intende l’ammoniaca, spiritus urinae, che all’epoca non era ancora stata scoperta; intende probalbilmente il sale ammoniacale (cloruro di ammonio) sciolto in acqua).
2) Era fatto di sabbia, calce e bianco d’uovo
3) Estratto da salvia argentea, salvia aethiopis
4) Nella traduzione tedesca antica si legge “borra di tessitore” avendo letto textor invece di tector.
5) Nella traduzione tedesca si dice che Alessandro distrusse con esso la città degli Agarreni e che il fuoco può durare non 9 anni ma venti (scambio di lettura fra IX e XX).
6) L’autore non conosce ancora il metodo arabo di estrazione del salnitro mediante liscivia di cenere; la lisciva delle ceneri era usata per purificare le soluzioni grezze si salnitro, ottenute dal lavaggio delle pietre, calcinacci e terreno che contenevano anche i nitrati di magnesio e di calcio (quest’ultimo tremendamente igroscopico) oltre naturalmente a quello di potassio. Alla miscelazione delle due soluzioni si verificava una reazione di doppio scambio, il potassio del carbonato della lisciva si scambiava con il calcio ed il magnesio dei relativi nitrati aumentando così la resa in nitrato di potassio. Si formavano anche i carbonati alcalino terrosi che essendo praticamente insolubili erano facilmente separabili dalle soluzioni e la loro precipitazione favoriva il completamento della reazione. Quando questa pratica abbia avuto inizio è piuttosto difficile da stabilire.
7) Si tratta di una pietra fosforescente
8) Plinio chiama così una resina usata dai pittori
9) È più o meno la ricetta di Anna Komnenas.
10) Si tratta di un metodo per produrre lampi in teatro; oggi si usa la polvere di licopodio.
11) Sulphur vivum è secondo Plinio lo zolfo naturale, mai trattato a caldo.

Qui il testo in pdf con traduzione in italiano e in francese


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Edited by barionu - 15/8/2023, 14:33
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